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Perché la comunicazione sul Covid 19 è sempre più caotica

Perché la comunicazione sul Covid 19 è sempre più caotica

Stiamo attraversando, in questi giorni, il momento più incerto e confuso della quarantena. Non siamo ancora entrati nella cosiddetta Fase 2, ma tutti i media ne parlano da giorni in modo martellante. E mentre parlano, parlano, tutto ci appare sempre più caotico. Cosa sta succedendo? Proprio ora che i decessi, i contagi, le terapie intensive sono in lenta ma costante diminuzione, proprio ora che le cose dovrebbero andare meglio, entriamo in confusione?

Intendiamoci, il caos sul Coronavirus c’è sempre stato, non solo nella comunicazione ma nei fatti, e non solo in Italia ma in molti altri paesi, perché nessuno al mondo era preparato a una pandemia di tale gravità. E tuttavia, i media italiani hanno alcuni vizi che aggravano il disordine in cui già versa la politica nostrana, a tutti i livelli, dal centro alle periferie del paese. Cerco allora di offrire tre chiavi di lettura per orientarsi nell’attuale caos politico-mediatico, perché questo ci accompagnerà, temo, per un bel po’.

I conflitti fanno notizia

Oggi, come sempre, i mezzi di comunicazione vanno a caccia di ciò che fa notizia. E anche oggi, come sempre, le tragedie e i conflitti sono i candidati più forti per la notiziabilità. Ora, il nemico numero uno di questo momento storico, quello contro cui tutto il mondo concentra le sue forze, è ovviamente il Covid 19. Detto in altri termini, il virus sta al centro dell’attenzione per ragioni non solo oggettive (dobbiamo sconfiggerlo al più presto per evitare troppi decessi e tornare alla vita di prima), ma anche mediatiche. Tuttavia il virus occupa la scena da troppo tempo, ormai, e come tale rischia di perdere capacità di attrazione giorno dopo giorno: gli essere umani ­– triste, ma vero – si abituano a (quasi) tutto, anche a convivere con un pericoloso nemico sconosciuto, invisibile e onnipresente. Perciò, per mantenere desta l’attenzione, i media devono continuamente trovare altri conflitti, per condire quello centrale e rinnovarne l’appetibilità.

È così che vanno intesi i continui contrasti fra virologi, immunologi, epidemiologi. Ed è così che dobbiamo leggere – almeno in parte – anche la litigiosità della nostra classe politica. La politica italiana, infatti, pur essendo molto conflittuale anche in tempi ordinari, dovrebbe pur capire che litigare proprio ora non produce consenso. Eppure, non resiste alla tentazione di rubare la scena sferrando attacchi a destra e a manca, non solo per la normale dialettica fra maggioranza e opposizione, ma persino dentro la maggioranza (Pd contro Cinque Stelle, Italia Viva contro tutti) e dentro l’opposizione (Forza Italia contro Lega e Fratelli d’Italia).

Non sto dicendo – attenzione – che i politici non litighino davvero, né che gli scienziati non diano in realtà interpretazioni contrastanti dei comportamenti del virus e della pandemia. Dico che i media tendono a ingigantire e amplificare, per assicurarsi audience, lettori e clic, anche la più insignificante disputa fra politici, anche la più lieve difformità di vedute fra scienziati. Ogni scintilla, sotto una lente d’ingrandimento, divampa. E se le scintille sono minuscole ma numerose, ecco che scoppia l’incendio. Fuor di metafora, è così che si spiegano le incessanti e fastidiose polemiche a cui l’intero sistema mediatico, dalla televisione al web, ci costringe tutti i giorni: un po’ sono reali, ma spesso sono esasperate dai media.

Sembra purtroppo che i media non capiscano che, al contrario, ciò che in questo momento più vorremmo sentire, la notizia a cui daremmo la massima attenzione, sarebbe la capacità del governo di collaborare, di ridurre le differenze e spegnere i conflitti, per sconfiggere il virus e affrontare la gravissima crisi economica.

Le probabilità diventano certezze

Per le donne e gli uomini di scienza è cosa ovvia: la medicina non produce mai certezze, ma sempre e solo probabilità. Gli organismi umani sono troppo complessi, le variabili genetiche e ambientali troppo numerose, l’incidenza di fattori psicologici troppo sottile per permettere alla medicina di fare previsioni certe sulla durata, l’intensità e l’esito di malattie anche non gravi, anche ben conosciute, persino banali. Figuriamoci se la medicina può riuscire a dare certezze su un virus nuovo e sconosciuto.

La medicina può sempre e solo accompagnare le sue affermazioni con un “forse”, un “probabilmente”, un “se non intervengono altri fattori… possibilmente”. Non ci sono certezze, insomma, nemmeno sull’andamento di un banale raffreddore, che nella grande maggioranza dei casi dura pochi giorni, ma a volte può finire in bronchite e addirittura in polmonite. A maggior ragione questo è vero per la vastissima gamma di esiti legati all’infezione del Covid 19: dalla totale assenza di sintomi, a qualcosa che sembra un’influenza, fino al decesso. Un virus che è riuscito a stupire, e ancora stupisce, tutti i virologi e le virologhe del mondo.

Il problema è che probabilità, percentuali e statistiche non funzionano nella comunicazione di massa. Non si comincia un titolo con un “forse”, né tanto meno con un “probabilmente”. I media hanno bisogno di formule drastiche, di contrapposizioni forti e affermazioni certe. Soprattutto in un paese come il nostro, in cui l’alfabetizzazione scientifica e matematica è fra le più basse d’Europa, per cui numeri e percentuali mettono in difficoltà la maggior parte delle persone. E soprattutto per il giornalismo nostrano, che non si è mai distinto – a parte pochissime eccezioni – per doti di divulgazione scientifica.

Perciò, quando un epidemiologo dice “Probabilmente fra una settimana capiremo meglio l’andamento dei contagi”, la notizia diventa “Fra sette giorni, chiarezza sui contagi”. Quando una virologa dice “Stiamo per testare un vaccino sui primi volontari”, la notizia diventa “Pronto il vaccino, sperimentazione su cavie umane”. Perciò, quando passa la settimana e ne occorre un’altra, e forse un’altra ancora, perché gli scienziati possano capirci qualcosa, per l’epidemiologo era chiaro dall’inizio, e infatti l’aveva detto, ma per la massa è un dietrofront. E se il vaccino non è pronto come i media strillano – anche se la virologa non l’ha mai detto – al pubblico appare un controsenso.

I retroscena diventano gossip

Escher, Vincolo d’unione – 1956

Nella comunicazione politica il retroscena è tutto ciò che accade nei corridoi del potere, quello che i media carpiscono ai portaborse, alle collaboratrici e ai collaboratori della politica, che ufficiosamente anticipano, interpretano e integrano le dichiarazioni ufficiali. Prima, durante e dopo ogni comunicazione ufficiale, è tutto un fermento di vociallusioniinsinuazioni.

Il giornalismo di retroscena c’è da sempre. Ed esiste in tutto il mondo, non solo in Italia. Uno degli obiettivi dei media, come ho detto, è raccontare i conflitti. Obiettivo del giornalismo politico, dunque, è raccontare la lotta per il potere, un racconto che diventa molto più avvincente se viene condito con ciò che non si vede e non si sente, con quello che non è detto ufficialmente né mai lo sarà.

Ora, il giornalismo di retroscena più serio nasce da una ricostruzione minuziosa di informazioni che vengono da fonti confidenziali, con le quali i media stringono un patto di riservatezza: anonimato in cambio di affidabilità. Ai media sta poi l’onere (e l’onore) di essere credibili: la politica smentirà sempre ciò che non ha mai dichiarato apertamente, perciò il pubblico dovrà scegliere a chi credere, se al retroscena o alle smentite ufficiali. Se la ricostruzione mediatica è ben fatta, coerente e plausibile, ottiene la fiducia del pubblico.

Nei casi migliori, questo tipo di giornalismo è di altissima qualità: smaschera intrighi, provoca scandali, anticipa inchieste giudiziarie. Nei casi di collusione, è pilotato dalla stessa politica, che ad esempio lo usa per dare più rilievo a contenuti che, se dichiarati apertamente, non otterrebbero la stessa attenzione, o lo usa per scambiare messaggi in codice con altri gruppi di potere. Nei casi peggiori, il retroscena diventa vezzo, maniera o, peggio ancora, gusto per il pettegolezzo, che sembra un po’ meno plebeo se si chiama gossip.

Ebbene, il Coronavirus sta facendo emergere dai media italiani il peggiore giornalismo di retroscena cui abbiamo mai assistito. Prima di ogni uscita pubblica del Presidente Conte, ad esempio, viviamo giorni di continue congetture e supposizioni, provenienti da non si sa quale fonte, che solo in parte sono poi confermate dalla dichiarazione ufficiale e dal decreto relativo. Ore e ore di polemiche, prima ancora che il Presidente parli, su ciò che da tal giorno si potrà o non potrà fare, in casa, per strada, in regione, fuori regione, nel commercio, nell’industria, nella vita privata.

Gossip e chiacchiericcio della peggiore risma, a cui poi si aggiungono effettivi cambiamenti di rotta, parziali o totali, a volte dovuti a mutamenti oggettivi della situazione, a volte decisi per rispondere alle parti sociali o evitare ulteriori polemiche, a volte determinati dal semplice fatto che le anticipazioni erano sbagliate. Ma non basta: anche le voci fra le varie componenti del governo sono a volte dissonanti, per ragioni analoghe: difficoltà oggettive, fraintendimenti fra loro e con i media, retroscena sbagliati.

Tirando le somme, in questo momento il vero, il parzialmente vero e il falso convivono sfacciatamente, si fondono e confondono ancor più che in tempi normali, e per giunta vengono sempre confezionati nel linguaggio esagerato e banalizzante di cui dicevo, massimamente inadeguato a riportare le parole della scienza. Chiaro che il caos raggiunga il massimo, un caos di cui in parte sono responsabili la classe politica e i suoi numerosissimi consulenti, in parte sono responsabili i media, in dosaggi variabili e non sempre chiari, in parte siamo responsabili noi stessi, quando riportiamo sui social media, e altrove, notizie che non abbiamo mai capito né verificato.

Questo caos è già pesante in condizioni di normalità, ma purtroppo ci siamo abituati. Ora però non è più tollerabile, perché non si parla più di scaramucce fra parti, partiti e partitini, ma sono in gioco le nostre vite, il nostro lavoro, la nostra salute fisica e psicologica, quella delle persone anziane, che rischiano più di tutti, il futuro nostro, dei nostri bambini e delle nostre bambine. Se tutta la classe politica e tutte le testate giornalistiche non capiranno, se tutti noi, quando contribuiamo al chiacchiericcio con superficialità, non capiremo che cambiare registro e modalità è un’urgenza etica, non solo comunicativa, il caos continuerà e peggiorerà.




L’invenzione #WhenWetravel Again; i viaggi dei sogni si raccontano in un tweet

L'invenzione #WhenWetravel Again; i viaggi dei sogni si raccontano in un tweet

Irlanda. Il successo dell’iniziativa dell’editor della sezione travel del quotidiano Irish Independent: c’è chi posta quello che pensa di fare a quarantena ultimata, chi racconta ciò che il viaggio rappresenta per lui

Forse più dei viaggi in realtà virtuale o aumentata, più delle applicazioni o delle esperienze a distanza, pur sempre incredibilmente coinvolgenti, può la suggestione. Meglio: la nostalgia, gli obiettivi, la memoria. Anzi: i sogni. Per questo Pól Ó Conghaile, un editor di viaggi che lavora per il quotidiano Irish Independent, ha lanciato un’operazione su Twitter. Racchiusa in un hashtag di successo che, da solo, dice tutto: #WhenWeTravelAgain. Quando torneremo a viaggiare, o quando viaggeremo ancora. E che sta spopolando sul social dell’uccellino. Mentre metà dell’umanità è chiusa in casa per le misure più o meno stringenti legate al contenimento del coronavirus – a quasi quattro miliardi di persone è chiesto (e in certi casi ordinato) di rimanere nelle proprie abitazioni e limitare al massimo gli spostamenti, autorizzati solo per questioni essenziali – il reporter ha immaginato una specie di riflessione collettiva in digitale. Sulle mete che vorremmo visitare per prime, una volta recuperata la libertà. Sul significato intimo di “viaggiare”. Ma anche un modo per respirare, almeno per un attimo, dalla cascata di angoscianti notizie su Covid-19.

“Trovo molto difficile osservare la natura da uno schermo e sono sovraccarico, come tutti, dalla mole di notizie sul coronavirus” ha spiegato a Lonely Planet. “Così un giorno ho fatto una passeggiata per schiarirmi le idee e ho iniziato a pensare a dove vorrei andare quando tutto sarà finito. Mi ha fatto sentire bene, e così ho deciso di condividere l’idea”. Uno spunto semplice ma di successo. Basta scorrere i contenuti pubblicati su Twitter sotto quell’hashtag per godere di un incredibile giro del mondo non solo fra le destinazioni dei sogni delle persone, spesso meno esotiche di quanto si pensi, ma anche nelle loro menti e nei loro pensieri. C’è chi vorrebbe farsi una birra di fronte al selciato del gigante, un affioramento roccioso molto particolare in Irlanda del Nord, a pochi chilometri da Bushmills, composto da 40mila colonne basaltiche di origine vulcanica e intorno al quale ruotano storie e leggende. Oppure chi condivide vecchie foto di viaggio, dai bambini indiani agli avvolgenti tramonti dai rooftop di Hong Kong.

L'invenzione #WhenWetravel Again; i viaggi dei sogni si raccontano in un tweet

Ciascuno posta la sua foto, spesso con una frase, un verso, un pensiero o una citazione che rafforzano e spiegano le ragioni di quella scelta, cercando di lenire la nostalgia per una dimensione evidentemente centrale per la nostra vita. Chi non smette di sognare le camminate nel Connemara, l’aspra e meravigliosa regione nella contea di Galway, in Irlanda, chi invita i viaggiatori (per ora solo social) in Puglia, a Martina Franca, e chi dice che vorrebbe tornare presto a Roma, Venezia, Bologna e Ravenna. Spazio ovviamente anche per contenuti più leggeri, come chi sogna – più prosaicamente – una paella in Andalucia o chi rimarrebbe soddisfatto semplicemente di farsi una bella nuotata vicino casa o nel suo posto segreto del cuore. Ancora, molti utenti pubblicano foto di animali selvatici dal Sudafrica, skyline di metropoli in giro per il mondo, tramonti dal deserto nei pressi di Dubai, suggestive immagini scattate nel corso di un volo aereo, i ponti di New York e mille altre sfumature del viaggio.

Tutto è iniziato quando Ó Conghaile ha postato il 30 marzo scorso, primo di questa lunga catena digitale, l’immagine di un surfer su una spiaggia deserta di Dunfanaghy, un piccolo centro della costa settentrionale del Donegal, meta turistica sull’Atlantico settentrionale. Dice di aver scelto questa immagine per il suo forte significato di libertà. Quella libertà che oggi ci manca ma che torneremo ad avere in futuro. La risposta al suo tweet e all’operazione è stata enorme e così, ogni giorno alle 8 di sera, il reporter sceglie la sua preferita del giorno e la rilancia. Continuando ad alimentare questa traversata collettiva fra ricordi e desideri, frustrazioni e ambizioni per i prossimi mesi.

“Sono state pubblicate centinaia di foto, dall’Opena House di Sydney ai caffè parigini o i fari della Wild Atlantic Way fino alle spiagge sabbiose dell’Algarve”, in Portogallo, spiega il giornalista. “Senz’altro è triste non poterli visitare oggi, ma ricordarli e osservarli è anche estremamente ispirante”. Cosa sta uscendo da questa seduta di condivisione sulla piattaforma statunitense? Secondo l’inventore dell’hashtag il tema forte è ovviamente la mancanza generalizzata del viaggio: “Il mondo si è ristretto in modo velocissimo – spiega ancora – anche se ci sono pure altri spunti. Il mare e gli oceani sono estremamente presenti, e credo dipenda dal fatto che la loro placidità sia un sollievo in questa fase. Non mancano grandi momenti come i safari ma anche quelli più piccoli, come le camminate nei pressi di casa. Non c’è un solo modo di viaggiare”.

Ancora poche settimane fa, per una manciata di euro, si poteva decollare per quasi qualsiasi posto in Europa. “Adesso è impossibile – chiude Ó Conghaile – e dobbiamo ritrovare il nostro equilibrio”. Per quanto lo riguarda, vorrebbe visitare i paesi sull’oceano indiano anche se intende prima completare la sua meta preferita: l’Irlanda. “Adesso siamo costretti a terra ma trovo ogni giorno nuove ispirazioni per viaggi futuri grazie alle fantastiche immagini condivise con #WhenWeTravelAgain”.




Di quale leader avremo bisogno nella “nuova normalità”?

Di quale leader avremo bisogno nella “nuova normalità”?

Nelle ultime settimane, lo smart working è stato al centro delle conversazioni sul business, e l’adattamento al lavoro da casa sta anche mettendo in luce i difetti delle aziende. Le tensioni culturali e le rotture tra le funzioni dei team sono intensificate dal lavoro da remoto. Il carattere e la resilienza delle persone sono messi alla prova, così come la nozione di leadership in sé. 

La maggior parte dei leader è stata formata per guidare un’azienda in tempi di normale lavoro, non di incertezza e ambiguità. Questa crisi ci ricorda che il mondo non è prevedibile e lineare, e che il nostro modello di leadership attuale non funziona più. Il coronavirus, infatti, sta mostrando l’incapacità dei leader di prepararsi a un disastro e di adattarsi prontamente alla situazione di emergenza. Molti Capi di Stato hanno fallito nell’adattarsi e nell’agire rapidamente, e un approccio del tipo “command & control” ha solo peggiorato le cose. Come sostiene Manley Hopkinson, un officiale della Marina durante la prima Guerra del Golfo, “è di vitale importanza che i leader resistano alla tentazione di centralizzare il controllo. La tentazione dei leader, in un momento di crisi, è quella di porsi al centro di tutte le attività, ma ciò di cui abbiamo bisogno è esattamente l’opposto”. Per collaborare in tempi di crisi serve avere un’intesa comune, fiducia e feedback. La pandemia da COVID-19 mette in risalto che la malsana idea di leadership che si è diffusa – un leader romanzato e descritto da film, libri di management, citazioni e discorsi motivazionali – non funziona più. Ci siamo fatti un’idea sbagliata dei leader, e tendiamo a scegliere come leader delle persone che si dimostrano forti, determinate e al controllo delle cose. Le ricerche mostrano che in realtà avremmo bisogno di tutt’altro: essere sicuri di sé non rende le persone competenti. L’arte di essere un leader ha poco a che fare con la singola persona e si concentra di più sul fatto di portare a termine delle azioni. Essere un leader significa possedere un set di comportamenti, non essere un supereroe. Potenzialmente, tutti potrebbero – e dovrebbero – essere un leader del cambiamento. La leadership collettiva è ciò di cui abbiamo bisogno in questi tempi incerti. Abbiamo bisogno di una rivoluzione, e di creare un nuovo modello di leadership. Il primo passo è quello di sbarazzarci delle etichette, e di concentrarsi sulle meta-abilità, perfezionando quelle abilità che ne incrementano o attivano altre. Ecco le più importanti:

  1. Aumentare la consapevolezza di sé: per aumentare le performance dei team, è necessario migliorare la propria consapevolezza, in modo da contribuire allo sviluppo di una leadership efficace e migliorare le performance. 
  2. Essere empatico: l’empatia è il saper comprendere profondamente ciò che stanno attraversando le altre persone. È parte della natura umana, ed aiuta a incrementare il livello di intimità e di fiducia. 
  3. Promuovere la sicurezza psicologica: tutte le voci delle persone in gioco devono essere ascoltate, e le persone devono sentirsi a loro agio nell’esprimere i propri pensieri, soprattutto quelli meno popolari, per poter poi agire su di essi.
  4. Adottare l’umiltà intellettuale: un leader umile desidera scoprire la verità, non vincere una discussione. L’umiltà come meta-abilità ispira collaborazione, apprendimento e favorisce migliori performance. 
  5. Sviluppare una leadership collettiva: guidare un’azienda non è un’attività individuale. La leadership collettiva favorisce la concezione di vivere in una società globale, in cui il benessere di tutti conta in egual modo. 
  6. Bilanciare l’onestà con l’ottimismo: l’idea che i leader devono proteggere gli altri è pericolosa. Non abbiamo bisogno di eroi, ma di persone umane che non considerano gli altri come anelli deboli. Edulcorare la verità può essere controproducente per la fiducia che i collaboratori ripongono nel leader. 

Serve una rivoluzione nella leadership, per liberarsi delle etichette e iniziare a creare un nuovo modello di approccio a questa nuova situazione e sviluppare queste meta-abilità è fondamentale per essere efficaci.

Leggi l’articolo completo di Gustavo Razzetti su www.liberationist.org




Sciacca e l’economia della bellezza

Sciacca e l’economia della bellezza

Dalla Sicilia il racconto di un’intera comunità che, per la rinascita economica, scommette sulla narrazione della propria identità

La crisi che sta travolgendo ogni settore economico e produttivo, in Italia e nel mondo, non risparmia turismo e cultura. In uno scenario pandemico di costante incertezza, ci si muove come tra le macerie di uno tsunami ancora in corso, come se vedessimo intorno a noi le cose distruggersi, ma senza la possibilità di evitarlo.

Da Sciacca, nel Sud Occidentale della Sicilia, in provincia di Agrigento, arriva un racconto diverso, quello di una comunità intera che, da oltre un anno, ha iniziato un percorso inedito per trasformarsi in una destinazione turistica di primo livello attraverso lo strumento del Museo Diffuso, dove il patrimonio identitario è il valore da offrire al mondo. Un museo a cielo aperto i cui proprietari, responsabili, sono le persone che vivono sul territorio, agiscono da comunità e si organizzano come una DMO-destination marketing organization (come da definizione dell’Organizzazione Mondiale del Turismo), attraverso una governance dei processi chiara e condivisa, dove etica e profitto non sono più in contrasto, ma diventano un obiettivo sostenibile.

Un esperimento sociale e organizzativo inedito anche per le dimensioni, visto che Sciacca è una cittadina di 45mila abitanti e non un paesino di qualche centinaio di anime. Una comunità che decide di organizzarsi e di dotarsi degli strumenti per essere competitiva tutta insieme, non più per singoli settori, facendo dell’identità di un territorio e delle persone che lo vivono il fulcro attorno a cui tutto ruota.

LE ORIGINI E LA VISIONE

Il tutto “è iniziato come un Think Tank per la valorizzazione del centro storico” − spiega Viviana Rizzuto, presidente dell’associazione di promozione sociale “Ecomuseo dei 5 Sensi”, organizzazione che si è da subito resa operativa e aperta a quanti volessero contribuire al progetto. “Questo percorso ha prodotto 56 protocolli d’intesa con associazioni, enti, scuole e istituzioni. Parliamo di migliaia di persone rappresentate. E soprattutto di tante categorie professionali e singoli operatori che hanno iniziato a confrontarsi in una visione comune”.

Una visione chiaramente descritta nella home del nuovo sito web del progetto, online dallo scorso 22 aprile: “Benvenuto in un Museo a Cielo Aperto fondato sull’IDENTITÀ e sulla BELLEZZA. Qui tutto è NARRAZIONE. Le porte del centro storico sono gli ingressi del museo, le strade sono i corridoi, le piazze sono le sale di esposizione, le botteghe degli artigiani, le finestre dei residenti, le vetrine dei commercianti sono le teche attraverso le quali scoprire il più grande tesoro della nostra terra: le PERSONE.” Un sito web che vuole essere il manifesto di un progetto collettivo, declinato su varie pagine che raccontano le sfumature di un percorso condiviso, economico e sociale.

“Le persone diventano il centro del progetto e la narrazione diventa lo strumento principale per valorizzare e offrire al mondo un’identità variegata come un mosaico. Fondamentale anche per far crescere tra gli abitanti la consapevolezza del valore di ciò che ci circonda, che troppo spesso diamo per scontato. Prima di tutto scoprire il nostro valore, poi valorizzarlo e infine condividerlo con gli altri”.

A parlare è Emilio Casalini, giornalista e conduttore RAI, autore del libro “Rifondata sulla Bellezza. Viaggi, racconti e visioni alla ricerca dell’identità celata” (Spino editore, 2016), che da anni si occupa di strumenti di narrazione dell’identità, come testimoniato dal suo programma “Generazione Bellezza”, andato in onda su Rai3 e di cui avevamo raccontato qui.

“Quando ho parlato la prima volta con Viviana Rizzuto, nel giugno 2019, ho avuto un brivido perché per la prima volta questa visione era portata avanti non da un singolo, come spesso mi è capitato di vedere in giro per l’Italia, ma da una comunità intera. Una grande comunità. Si tratta di un cambio di scala importante perché, per poter funzionare, ha bisogno di una visione e di un metodo, chiaro e replicabile ovunque. Tutti diventano testimoni della molecola di bellezza che caratterizza la loro esistenza e identità. Tutti ne diventano responsabili. È uno straordinario cambio di livello di coscienza collettiva”.

IL PROGETTO DIVENTA REALTÀ

In pochi mesi il piccolo Think Tank si è trasformato in una grande associazione, poi in un ecomuseo tra i primi undici riconosciuti ufficialmente dalla Regione Sicilia e, mentre l’Italia intera era bloccata dalla pandemia, in una Cooperativa di Comunità iscritta alla Camera di Commercio dal 3 aprile scorso, con un nome che è tutto un programma: “Identità e Bellezza”. La comunità quale soggetto giuridico ed economico per gestire la destinazione e l’offerta turistica. Anche se parlare di puro turismo, in un contesto come questo, è alquanto riduttivo. E lo spiega ancora una volta la presidente Viviana Rizzuto, una sicura carriera da manager internazionale fino a un paio di anni fa, quando ha deciso di fare rientro nella sua terra d’origine con le competenze apprese e scommettere tutto: “È una piccola rivoluzione, almeno per noi che la stiamo vivendo perché non parliamo di “turismo”, ma di condividere la nostra storia e la nostra quotidianità con chi la trasforma in ben-essere. E soprattutto perché non ci siamo mai limitati a dire COSA si deve fare, ma siamo passati subito al COME, impegnandoci in prima persona nel farlo. Non deleghiamo più, ci prendiamo tutta la responsabilità sulle nostre spalle. E lo facciamo come comunità. Con metodo. Connettiamo tutto e tutti. Oneri e onori. Ci prendiamo il rischio e il privilegio di scrivere il nostro futuro”.

Basta scorrere le varie pagine del sito web per comprendere i capisaldi del progetto. Sostenibilità ambientale spinta, come descritto nei disciplinari che tutte le strutture ricettive aderenti hanno accettato: le saponette usa e getta, ad esempio, sono messe al bando, sostituite da sapone naturale a chilometro zero. Cibo come narrazione dove le colazioni, i menù dei ristoranti e gli aperitivi dei bar sono a base di prodotti locali connettendo gli agricoltori, le loro storie e i loro volti con i fruitori finali. Esperienze preparate con cura e offerte ai viaggiatori coinvolgendo tutte le tradizioni, da quelle artigianali della ceramica, del corallo e del carnevale a quelle enogastronomiche, partendo dalle case degli abitanti e terminando tra i pastori con cui mungere il latte, trasformarlo in ricotta e infine in un cannolo o in una cassata. Iniziare la giornata con un marinaio o facendo il pane in un forno comunitario e concluderla davanti al teatro greco di Eraclea Minoa. Tutto connesso come in un grande racconto collettivo.

LE SFIDE

Un’altra piccola rivoluzione, come spiega Emilio Casalini, che in questo progetto crede senza riserve al punto da esserne diventato il direttore creativo. “Uno dei tanti mali del turismo italiano è la compartimentazione dei settori che spesso si snobbano e non sfruttano l’immenso potenziale di narrazione reciproca che possiedono. Cultura e turismo ne sono l’esempio massimo, ma vale anche per agricoltura, architettura, artigianato, tutti ancora troppo sconnessi. Solo enogastronomia e turismo hanno costruito ottime filiere. Gli altri non hanno ancora capito l’immenso margine di crescita che si potrebbe ottenere creando una vera, operativa e continua sinergia tra musei, ristoratori, scuole, agricoltori, accoglienza alberghiera ed extralberghiera, artigiani, commercianti. Ed è quello che stiamo preparando nel grande laboratorio di Sciacca. Unire i saperi dei marinai con quelli degli archeologi, dei cuochi con gli artigiani, gli studenti con gli anziani. Qui ti accoglierà la leggenda di Dedalo, il grande architetto Ateniese che dopo essere scappato da Creta giunse qui con le sue ali di cera, simbolo di libertà, di coraggio e di visione. Qui tutto è narrazione”.

La sfida è quindi collettiva. Imparare a conoscersi per raccontarsi bene. “È la sfida per imparare a collaborare piuttosto che a pestarsi i piedi. È la sfida per unire tutti i puntini, anche quelli che sembrano meno importanti”. E nella sezione dedicata all’accoglienza, infatti, sono presenti i commercianti, il titolare del negozio di abbigliamento o il tabaccaio, che diventano un infopoint diffuso, un tassello del territorio che connette tutti gli altri. Così come gli altri connettono lui.

E che si tratti di una sfida ne sono consapevoli tutti, a partire dalla presidente Viviana Rizzuto: “Nessuno di noi ha la garanzia del successo di questo percorso. Ma tutti abbiamo la certezza del fallimento se non si proveranno strade nuove, dove la paura lascia il posto al coraggio. Il coraggio di stare insieme. Sembra paradossale, invece è una delle cose più difficili. Perché devi rinunciare al tuo ego e accettare una visione collettiva. Ma è anche la sfida che tutto il nostro Paese dovrebbe accettare. Certezze oggi ne abbiamo davvero pochissime. Siamo fragili e la stagione turistica di quest’anno sarà un periodo di sopravvivenza in cui limitare i danni: resistere nel rifugio quando il temporale è più forte di te”. E nel rifugio lavorare per essere pronti quando questo sarà passato.

Una comunità forte, coesa e unita da un obiettivo comune, quella di Sciacca, dotata del necessario pragmatismo per affrontare il presente e mantenendo una visione di lungo termine. Una comunità che, ispirandosi alla giustizia sociale, nei prossimi mesi saprà proteggere anche i più deboli, condividendo le poche risorse che arriveranno.

In un momento in cui ci si domanda quale sia il futuro che possiamo e dobbiamo scrivere per l’Italia, dalla provincia più povera della nazione arriva la sfida che guarda al futuro cambiando strategia, meccanismi e protagonisti. Rimettendo al centro, anche dell’economia e dello sviluppo, l’uomo.




L’attività di lobbying nel dopo-emergenza Coronavirus

L'attività di lobbying nel dopo-emergenza Coronavirus

Come cambia il lavoro dei lobbisti nella fase 2 e in vista della fase 3.  Lo smart working e il rapporto “a distanza“ con la politica e i Palazzi. La maggiore trasparenza e la carta della tempestività. Gli obiettivi sempre più misurabili.

Siamo tutti in attesa di capire come andrà la fase 2 e come andranno le tappe successive. Certo è che nulla sarà come prima: l’emergenza sanitaria ha cambiato abitudini e schemi. La crisi economica ci impone nuove regole e approcci. Siamo chiamati a convivere con il rischio ancora per un tempo indefinito. Anche l’attività di lobbying, dunque, esce da questa fase di lockdown ritarata e modificata.
Che cosa è cambiato e che cosa dovrà cambiare per adeguarsi al nuovo scenario?
 

Modalità operative interne. Come per tutti i settori questi due mesi hanno imposto nuove modalità operative interne. Lo smart working ha consentito di acquisire maggiore competenza e consapevolezza nella gestione da remoto di parte del nostro lavoro, quello di analisi, di monitoraggio legislativo, di drafting. La distanza fisica ha determinato uno sforzo di collaborazione e di condivisione tra team e persone e un utilizzo di strumenti digitali per favorire lo scambio tempestivo di informazioni e allineamento in progress. Chi fa lobbying non potrà prescindere nel prossimo futuro da questa evoluzione operativa. Sarà necessario, anzi, investire in piattaforme e mezzi che facilitino accesso e consultazione tra personale e clienti.
 
Interazione con i decisori e partecipazione ai processi decisionali. Gli incontri in galleria dei Presidenti o negli uffici istituzionali per rappresentare le istanze sono un ricordo ormai lontano. Abbiamo sperimentato il ricorso esclusivo a strumenti digitali, in un processo di partecipazione alle decisioni condotto a distanza. Non è stato scontato e automatico. Sono emersi i limiti di un sistema caratterizzato da una reciprocità ancora ridotta. Sarà necessario che istituzioni e politici si aprano ancora di più, di quanto fatto in questa prima fase (audizioni in videoconferenza), a nuove modalità di confronto continuative con i portatori di interesse. Lobbisti e decisori dovranno convergere su nuovi strumenti per sostituire gli incontri e favorire modalità alternative di dialogo e scambio tra istituzioni e imprese. La distanza fisica non deve trasformarsi in marginalizzazione.
 
Accesso alle informazioni e reciprocità. L’attività di intelligence e di confronto nella fase di definizione dei provvedimenti senza possibilità di incontri e con interazione a distanza impone uno sforzo nell’implementazione di procedure standardizzate e trasparenti. La fase di emergenza economica che durerà a lungo porterà necessariamente a consolidare un patto tra politica/istituzioni e interessi privati/corpi intermedi. La dialettica tra questi mondi costruttiva e propositiva sarà la prerogativa e la condizione per provvedimenti efficaci e decisioni consapevoli. Questo richiede uno sforzo, ora più che mai, di apertura e di condivisione. L’accesso alle informazioni ha sempre rappresentato un limite del nostro sistema istituzionale. Il post coronavirus sarà, in tal senso, un’opportunità per fare un passo avanti (senza burocratizzare i processi anzi semplificandoli) sul terreno della reciprocità e della collaborazione a parità di accesso informativo tra lobbisti e decisori.
 
Competenza e tempestività. L’emergenza ha consolidato e rafforzato quella che ormai è stata definita democrazia istantanea. La situazione attuale impone tempi rapidi e decisioni veloci. La capacità di risposta della politica non deve però trasformarsi in avventatezza. Alla tempestività va affiancata la competenza. I lobbisti dovranno approfondire dossier, studiare e saperne di più dei propri clienti e interlocutori. Vinceranno la competenza e l’immediatezza. Non ci sarà spazio per proposte velleitarie o per network da tartina. Dovranno essere capaci nell’individuazione del messaggio da veicolare ed efficaci nella condivisione dell’istanza. I decisori dovranno essere aperti ad accogliere suggerimenti e informazioni. Dovranno, anzi, maturare sempre di più la consapevolezza dell’importanza di un confronto continuativo e tempestivo tra le parti. I lobbisti non possono sostituirsi alla politica ma, in una fase di emergenza, potranno sicuramente rappresentare un supporto utile per una democrazia istantanea ma con processi decisionali consapevoli e veloci. Non sbrigativi e inefficaci.
 
Obiettivi misurabili. La crisi economica impone una ridefinizione di budget e una cautela negli investimenti. Ai lobbisti, che saranno necessari “misuratori della meteorologia legislativa”, si chiederà sempre di più un servizio “misurabile”, collegato al conseguimento di obiettivi di policy e di business. L’attività di monitoraggio e proattività è già da tempo inserita in un contesto più ampio che coinvolge anche i tempi e i processi di attuazione delle norme. Le società di lobbying saranno sempre più chiamate ad assumere un ruolo di decodificatori e risolutori di problematiche concrete. Le aziende investiranno su obiettivi chiari e professionalità.
 
Strategie di advocacy e digitale. Il lockdown ci ha imposto nuove modalità di costruzione del consenso. Il digitale è entrato nella quotidianità di tutti. Sono diverse le dinamiche cognitive e di influenza sociale. Nella definizione di strategie integrate di advocacy e comunicazione non si potrà non tener conto di questo cambiamento. Sarà necessario ridefinire la “messa in scena” complessiva, sia nei format sia nella costruzione di un corretto apparato simbolico. Il digitale rappresenterà un’opportunità e una necessità per processi di lobbying efficaci. 

Giusy Gallotto, CEO di RETI