L’evoluzione della ristorazione e il food delivery
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In Italia il settore dei consumi alimentari fuori casa ha
continuato a crescere e oggi, secondo Fipe, rappresenta il 36% della spesa
alimentare totale con un valore aggiunto di 43,2 miliardi di euro, mentre i
consumi alimentari in casa presentano, da diversi anni, un costante trend
negativo. Il mercato della ristorazione italiana è il secondo più grande in
Europa (dopo quello spagnolo) e nell’ambito dei consumi domestici di cibi e
bevande cresce il food delivery: nell’ultimo anno il 30,2% degli italiani ha ordinato
almeno una volta online un pranzo o una cena, ricevendoli direttamente a casa.
Il comparto è ancora agli inizi in Italia (genera al momento un fatturato di
circa 1 miliardo di euro) ma è in continua crescita.
Secondo i dati pubblicati dalla Fipe a gennaio 2020, oggi in
Italia ci sono in totale 333.640 ristoranti in attività. La ristorazione
impiega 1,25 milioni lavoratori, di cui 864mila lavoratori dipendenti e 388
mila lavoratori autonomi. Il comparto della ristorazione traina la filiera
agroalimentare ed è parte integrante della filiera turistico-alberghiera. Pertanto
quello della ristorazione è un settore cruciale dell’economia italiana, con un
fatturato annuo (dato Fipe relativo all’anno 2018) di 85,3 miliardi di euro.
Tuttavia, il tasso di mortalità imprenditoriale nel mercato della ristorazione
è molto alto: dopo un anno di attività chiude il 25% dei ristoranti; dopo 3
anni quasi un locale su due, mentre dopo 5 anni le chiusure interessano il 57%
di bar e ristoranti.
I comportamenti di consumo nel mercato della ristorazione
sono fortemente influenzati dalla trasformazione digitale. In base a una
ricerca FIPE emerge che per scegliere un ristorante il 65,5% dei consumatori ha
dichiarato di leggere le recensioni online. Tra coloro che leggono le recensioni
online il 66,6% le ritiene «molto o abbastanza importanti». La ricerca si è
concentrata anche sugli elementi più apprezzati dai consumatori quando scelgono
il ristorante che sono innanzitutto la qualità dei piatti, i prezzi e il menù. L’atmosfera
del locale e il servizio, invece, per il consumatore risultano avere minor
importanza.
Seguendo le preferenze del consumatore, è facile comprendere
come mai il food delivery stia aggredendo quote di mercato dei ristoranti
tradizionali (soprattutto di fascia medio-bassa). Ordinare a casa il cibo
infatti ha bassi costi di consegna, comporta un importante risparmio in termini
di tempo e, poiché i consumatori sono più attenti alla qualità e al prezzo che
al servizio, questo nuovo modello di business si adatta perfettamente ai loro bisogni.
Se da una parte sono gli stessi ristoratori che si affidano a piattaforme
esterne per la logistica delle consegne stanno prendendo sempre più piede i
modelli di delivery nella forma full-integrated. Il full-integrated è un modello
adottato da imprese che associano la capacità di preparare i piatti e di
consegnarli a domicilio. Si tratta di ristoranti online che puntano a
contendersi un numero di coperti potenziali non più limitato dallo spazio
fisico del ristorante tradizionale. Gestendo una porzione molto ampia del
sistema del valore, controllando tutte le fasi della meal experience, le
imprese che hanno optato per questo modello di delivery possono conseguire
margini superiori sia ai ristoratori tradizionali che alle piattaforme di sola
logistica e offrire prodotti di alta qualità a prezzi ragionevoli, rendendo il
business della ristorazione tradizionale meno competitivo sul mercato.
Coronavirus, governo bocciato in comunicazione. Social, numeri verdi, crisis plan…
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TUTTI GLI ERRORI DELL’ESECUTIVO SULLA GESTIONE DEL CORONAVIRUS
*Luca Poma è professore incaricato di Reputation Management e Crisis Communication all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino ed è co-autore del libro La Guida del Sole 24 Ore al Crisis Management: come comunicare le Crisi
Dopo settimane di scaramantica prudenza, l’emergenza Coronavirus impazza anche in Italia, in sole 48 ore salita sul podio come nazione Europea più colpita dalla pandemia, e come sempre le opinioni si sprecano: come sta gestendo la situazione il Governo Conte, e soprattutto cosa si sarebbe potuto fare prima, e meglio.
E l’analisi è utile non tanto e solo per “dare un voto al Governo”, quanto per comprendere – e ove possibile – correggere in corsa eventuali errori e criticità che rischiano di impattare negativamente non solo sulla vita dei cittadini ma, pesantemente, sul PIL dell’intera nazione.
Volendo uscire dal perimetro dei pareri soggettivi, è certamente utile riferirsi a quel significativo affidabile corpus di conoscenze – ben noto agli addetti ai lavori – che rientra sotto la dicitura di “crisis management & crisis communication”, ovvero la corretta gestione (e contemporanea comunicazione al pubblico) in caso di crisi: una materia sulla quale sono stati pubblicati centinaia di volumi, e che stupisce ancor oggi sia in parte fuori dall’orizzonte dei portavoce dei politici e di parte delle istituzioni pubbliche.
Andiamo con ordine, precisando che l’analisi di riferisce al pomeriggio nel quale questo articolo è stato redatto.
Qualità delle informazioni. Prendendo a riferimento le aree del sito ufficiale del Ministero della Salute dedicato specificatamente al Coronavirus http://www.salute.gov.it/nuovocoronavirus e quelle analoghe dell’Istituto Superiore di Sanità https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/, la qualità delle informazioni è elevata, merito anche delle indubbie professionalità che il nostro Paese può vantare in campo sanitario. La Protezione Civile invece non ha ritenuto di attivare una landing-page specifica per il Coronavirus, dove raccogliere tutte le informazioni a riguardo, ma ha “sparso” le notizie in varie sezioni del proprio sito (comunque con richiami in homepage); stesso dicasi per Lombardia e Veneto, le due Regioni più colpite. I siti sono ottimizzati per Mobile e facilmente navigabili, cosa banale ma purtroppo ancora non scontata nella Pubblica Amministrazione italiana nel 2020. Manca invece nei siti istituzionali (o perlomeno non se ne trova traccia) una sezione informativa specifica sulle “bufale” relative al Coronavirus (ne circolano di ogni tipo), utile per garantire una comunicazione il più possibile priva di contenuti confondenti per la popolazione.
VOTO AL GOVERNO: 7/8
Comunicazione delle informazioni. Un hub informativo è tanto più utile tanto più è ben pubblicizzato, ovvero se sa raggiungere i cittadini facilmente, nei “luoghi digitali” che sono per loro più abituali. L’indicizzazione sui principali motori di ricerca di entrambi i siti ufficiali nazionali risulta affidata al caso (è organica, ovvero sulla base delle ricerche degli utenti, e non “governata” dalle istituzioni), tanto che digitando su Google “Coronavirus + informazioni” (la più banale e frequente delle ricerche) al primo posto compare l’area FAQ (domande e risposte frequenti) del sito del Ministero della Salute ma non la homepage dell’hub Coronavirus del Ministero stesso, che compare (fortunatamente, pur dopo 3 box in lingua inglese dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) digitando solo Coronavirus. Sarebbe stato sufficiente accordarsi (possibilmente ben prima dello scoppio dell’epidemia) con Google Italia, prevedendo l’attivazione di un box apposito in testa alla prima pagina di qualunque ricerca online, per far trovare in evidenza il rimando all’hub informativo principale. Inoltre, le informazioni online non sono sempre aggiornate in tempo reale (ad esempio, nelle FAQ del Ministero Salute non è riportato l’elenco delle regioni interessate da decreti di restrizione dei servizi, ma parla solo delle delibere di Lombardia e Veneto). Infine, a parte i video informativi con protagonista il giornalista RAI Michele Mirabella, ben fatti e con alcuni consigli utili di comportamento e prevenzione, lanciati il 7 febbraio (ma che neppure riportano il numero verde del Ministero), non risultano programmati in questi giorni di picco di attenzione degli specifici spot informativi in TV, che peraltro potevano esser realizzati già tempo fa, in un’ottica di corretta previsione della crisi, con spesa anche assai contenuta.
VOTO AL GOVERNO: 5
Gestione dei Social e dei Numeri verdi. I canali social Facebook, Twitter, Instagram e Youtube del Ministero della Salute risultano ingaggiati nella gestione dell’emergenza, perlomeno sotto il profilo della pubblicazione di informazioni e aggiornamenti, periodici “bollettini” con grafiche dedicate all’andamento del numero di contagi e decessi, video di consigli – di buona qualità, peraltro – per contenere e prevenire il contagio, buone prassi di igiene quotidiana etc. Tuttavia, soprattutto su Facebook, i cittadini pongono molte domande, alcune pertinenti ed interessanti sugli aspetti pratici e quotidiani della gestione dell’emergenza, ma – incredibile a dirsi – non ottengono alcuna risposta. Di fatto, i Social istituzionali vengono gestiti come un “clone” dei siti web: un flusso informativo a un’unica direzione, dalla istituzione al cittadino, mentre innumerevoli buone prassi (aziendali, ma anche di amministrazioni pubbliche di altre nazioni) dimostrano che l’uso corretto è tutt’altro, ovvero dare risposte puntuali agli utenti al fine di fugare dubbi e paure, evitando il panico dimostrando di avere pieno controllo della situazione. Niente da fare, in Italia i nostri politici (e chi si occupa di comunicazione per loro) proprio non riescono ad adeguarsi alle buone prassi in tema di comunicazione digitale, neppure in situazioni di emergenza. Per quanto riguarda i numeri verdi di informazione semplicemente sono in tilt mentre pubblichiamo questo articolo, sempre occupati, non rispondono, cade la linea. Questo è uno dei più eclatanti pessimi indicatori di scostamento dalle buone prassi internazionali in materia: non è fatta un’adeguata simulazione di scenario, e quindi i canali di comunicazione più immediati (le linee telefoniche, oltre ai Social) non sono presidiati con forze sufficienti per resistere alla (prevedibile da tempo) onda d’urto delle chiamate della popolazione
VOTO AL GOVERNO: 4
Un portavoce, un’unica voce. Il Covid 19 è letale; no, è poco più di una banale influenza; no, è peggio delle influenze stagionali… In questi giorni di comprensibile panico, di massima attenzione mediatica, e di vera e propria “bulimia da esperti” da parte dei mass-media, si sente di tutto e di più. Manca una “voce scientifica unica” che parli a nome delle istituzioni pubbliche, facilmente riconoscibile, e che sia ritenuta autorevole dalla cittadinanza: si passa dai “catastrofisti”, per i quali siamo dinnanzi alla pandemia del decennio, ai “minimizzatori” che paiono sottovalutare l’epidemia. A chi dovrebbe credere un cittadino? La mancanza di coordinamento nel merito dei messaggi evidenzia nuovamente una gestione della crisi per certi versi improvvisata, fortemente mancante di quella “programmazione preventiva in tempo di pace” che contraddistingue tutte le buone prassi di crisis management e crisis communication. E passando dal livello dei contenuti di tipo scientifico al livello della “voce” vera e propria delle Istituzioni, non pare andare meglio: Presidente del Consiglio, Ministro della Salute, Commissario all’emergenza Borrelli, Presidenti delle Regioni coinvolte, Protezione Civile… tutti parlano, con il risultato di ridurre l’efficacia del messaggio e aumentare i fattori confondenti. Certo, una vera e propria “unica voce” è utopia pura, ma così si esagera in senso opposto.
VOTO AL GOVERNO: 4
Coerenza dei provvedimenti. Spettacoli annullati e discoteche chiuse, ma cinema aperti; sospesi gli spettacoli al Teatro alla Scala, ma le prove dei ballerini oggi si sono svolte regolarmente (centinaia di persone in un unico ambiente); le scuole sono chiuse, ma le scuole guida no, perché sono registrate come attività di “pratiche auto” e non di “formazione”; alcuni comuni del Sud Italia impongono quarantena ai cittadini – italiani e non – provenienti dalle regioni settentrionali, eccetera. Anche queste incoerenze ottengono un effetto critico, disorientante, e possono portare alcuni cittadini – paradossalmente – a sottostimare il problema (“stanno esagerando, non si capisce più niente, è una bufala, etc.), senza parlare dei disagi economici. La tutela della salute chiaramente viene al primo posto: ma occorre anche qui non improvvisare, ed avere un “crisis plan” (un piano di gestione della crisi) preparato con cura in precedenza, così da prevedere accuratamente ogni scenario e gli adeguati strumenti di risposta e di gestione.
VOTO AL GOVERNO: 5
Concludendo, le regole internazionalmente riconosciute valide nella gestione degli scenari di crisi, specie sotto il profilo della comunicazione, sono – ribadisco – note. In sintesi: autorevolezza, rapidità, trasparenza, coerenza, affidabilità, frequenza di aggiornamento, robustezza delle infrastrutture dedicate ad erogare le informazioni; c’è poco o nulla da “inventare”. Pur con molta buona volontà da parte delle istituzioni, e ferma restando la dedizione e abnegazione assoluta dei nostri operatori sanitari, che sta realmente facendo la differenza, l’impressione è che il Governo – nonostante i molti “segnali deboli di crisi” – sia arrivato ampiamente impreparato al grave appuntamento con questa epidemia, sottostimando la più importante delle regole auree della crisis communication, che è un po’ il minimo comun denominatore di tutti i punti elencati nella nostra “pagella”: è umanamente impossibile reagire con efficacia a crisi di ampia portata se il sistema di comunicazione e di relazione con il grande pubblico non è costruito (e testato con appositi stress-test) ben prima dell’evento critico.
Un caso virtuoso nella gestione della crisi è rappresentato – ad esempio – dalla Nuova Zelanda, che a seguito della consapevolezza del rischio sismico del suo territorio ha messo in moto un lungo e complesso lavoro di organizzazione preventiva nel quale alla base vi è la cooperazione attiva dei cittadini ed il coinvolgimento sinergico delle diverse componenti delle comunità locali; ha istituito il sito web “Get Ready” https://getready.govt.nz/ su cui vengono date istruzioni dettagliate in casi di emergenza e dove sono presenti indicazioni specifiche per essere preparati in casa, sul luogo del lavoro o a scuola, offrendo anche la possibilità di organizzare iniziative off-line come il reclutamento di volontari in caso di allarme, e disporre vere e proprie esercitazioni per le emergenze, come “ShakeOut”, l’esercitazione antisismica collettiva che si tiene ogni anno, così da valorizzare un lavoro preventivo letteralmente vitale in caso di emergenza, che include l’impegnativo, ambizioso ma indispensabile processo di informazione ed educazione dei cittadini. Certamente, la Nuova Zelanda può non presentare tutte le complessità proprie del sistema Italia; ma il sistema Italia, di spazi di miglioramento, pare averne ancora parecchi.
Aggiornamento(edit 25/05/2020 h 23:21): nella conferenza stampa di oggi pomeriggio, martedì, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha dichiarato, tra le altre cose: “Daremo indicazioni a tutte le regioni assicurando la massima uniformità di comportamenti su tutto il territorio nazionale. In sostanza avremo tre livelli: uno già adottato per quelle aree molto circoscritte individuate come epicentri del coronavirus, ossia i dieci Comuni del lodigiano ed il Comune di Vò; poi abbiamo un secondo livello riguardante le aree circostanti che presentano alcuni episodi di contagio; infine c’è tutta la restante parte del territorio nazionale dove non c’è motivo di adottare misure severe, ma restano valide solo misure di cautela. Non hanno motivo di sussistere in zone non colpite le sospensioni di attività produttive e scolastiche, ma, al massimo, verranno sospese le gite d’istruzione (…) E sui tamponi negli ultimi giorni abbiamo esagerato”. Proseguiamo quindi con la gestione emergenziale “day-by-day”: Circolari scritte per l’occasione (ieri è stata redatta quella per i Comuni non colpiti dall’epidemia), prima massimo allarme adesso prudenza, scuole chiuse che ora riapriranno, fino a ieri tamponi a tutti i sospetti infetti, adesso ‘non esageriamo’; in definitiva, nessuna simulazione di scenario in fase di pre-crisis, e strategie di modulazione della risposta al rischio e relativi strumenti di gestione messi a punto per l’occasione, ora dopo ora. Dilettanti allo sbaraglio, che stanno vivendo questo momento difficile per il Paese come fossero ingaggiati in una specie di gioco di ruolo…?
Il Guardian rinuncia alle pubblicità di aziende petrolifere: “Il clima è la sfida più importante della nostra epoca”
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Il quotidiano britannico The Guardian ha annunciato che rinuncerà a tutte le pubblicità di compagnie petrolifere e del gas come atto concreto contro la crisi climatica. Si tratta della prima grande testata internazionale a prendere una decisione del genere. Immediato il plauso di Greta Thunberg: “Un buon inizio, chi andrà oltre?”, ha scritto l’attivista svedese su Twitter.
“The Guardian will no longer accept advertising from oil and gas companies, becoming the first major global news organisation to institute an outright ban on taking money from companies that extract fossil fuels.” A good start, who will take this further?https://t.co/csRuXWZXdG
La decisione, ha detto il giornale, ha effetto immediato. Riguarda tutte le aziende coinvolte nell’estrazione di fonti di energia fossile, tra cui anche alcuni dei maggiori investitori pubblicitari al mondo. Nel motivare la svolta, il quotidiano londinese ha dichiarato di voler contrastare “gli sforzi fatti per decenni da molti attori in questo settore per impedire ai governi di tutto il mondo di intraprendere azioni significative sul clima”. In una nota, il direttore generale ad interim, Anna Bateson, e il suo Revenue Manager, Hamisch Nicklin sottolineano che la risposta al riscaldamento globale rappresenta “la sfida più importante del nostro tempo”.
“Il modello di finanziamento del Guardian rimarrà precario per i prossimi anni”, affermano i due funzionari del giornale, che ricava quasi il 40% delle sue entrate dalla pubblicità. Il Guardian ora spera che alcuni inserzionisti approvino la mossa e si rivolgano di più al giornale in futuro. “Questo è un momento fondamentale, il Guardian deve essere applaudito per questa coraggiosa mossa volta a porre fine alla legittimità dei combustibili fossili”, ha affermato Mel Evans, attivista per Greenpeace nel Regno Unito, invitando altri media a fare lo stesso. “Per troppo tempo, giganti di combustibili fossili come BP e Shell, che causano la nostra emergenza climatica, sono stati in grado di cavarsela facendo il greenwashing investendo il 97% del loro fatturato in petrolio e gas “, ha aggiunto.
In autunno, il Guardian aveva rivisto le sue pratiche editoriali per riflettere meglio l’entità della sfida, anche usando i termini “emergenza climatica” anziché “cambiamento climatico”. Il quotidiano punta al raggiungimento dell’obiettivo “impatto zero del carbonio”, o “carbon neutrality”, entro il 2030. Prima di lui, il piccolo giornale svedese Dagens ETC, lanciato nel 2014, a settembre ha rinunciato a tutta la pubblicità che promuoveva beni e servizi da combustibili fossili.
Iabichino: «Quella di Achille Lauro e Gucci è una diabolica operazione di marketing culturale»
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È stato il Festival della performance dell’artista romano che ha portato all’Ariston, non solo una serie di outfit ad effetto, ma un vero e proprio storytelling costruito insieme alla maison. Ma si può parlare di arte o è stato solo uno spot commerciale subliminale? Ne abbiamo parlato con Paolo Iabichino, ex Cco di Ogilvy Italia, miglior comunicatore dell’anno 2018 e maestro del college di Story Design alla Scuola Holden di Baricco
Come hanno certificato tutte le testate, di settore e non, sull’onda del riscontro in particolare social quello che si è appena concluso è stato il Sanremo di Achille Lauro. C’è chi ha azzardato l’iperbole che sia stato un Achille Lauro Show con il Festival intorno. I toni sono trionfalistici. Addirittura Internazionale, riferendosi al musicista, scrive «in una scena musicale mainstream, dopata da vent’anni di talent show e ancora stordita dalla crisi discografica globale, quello della pop star è diventato un mestiere antico e dimenticato, come quello dell’impagliatore di sedie o della ricamatrice di asole. Lauro ha fatto quello che le pop star fanno fin dagli anni cinquanta: usare il mezzo televisivo anziché esserne usati». Quello però che è stato per tutto il Festival di Sanremo taciuto dai media e dallo stesso Achille Lauro e che ha cominciato ad emergere solo verso la fine della kermesse per svelarsi definitivamente nei giorni successivi è che quella performance, quello spettacolo, non erano solo una narrazione artistica ma una vera e propria operazione di marketing costruita insieme a Gucci. Paolo Iabichino – ex CCO di Ogilvy Italia, miglior comunicatore dell’anno 2018 e maestro del college di Story Design alla Scuola Holden di Baricco – ha commentato la vicenda spiegando a Giulia Vittoria Francomacaro di Agi Factory che «il brand ha portato avanti una missione strepitosa: Gucci ha hackerato il Festival di Sanremo. Nel senso che è riuscito a essere il terzo sponsor senza passare dai listini Rai e ha costruito intorno ad Achille Lauro una strategia editoriale molto precisa a cui lui si è prestato. Il testo di Lauro era sotto di un’ottava rispetto a quelli a cui siamo abituati. È come se avessero caricato in chiave marketing un personaggio per riempirlo di un contenuto che quest’anno aveva in misura minore. Gucci ha fatto scuola sotto questo punto di vista e ha dato una lezione intelligente di comunicazione e pubblicità. Non parliamo di una classica operazione di product placement, che potrebbe essere ad esempio quella di Elodie che ringrazia Versace per i vestiti, questa è una vera e propria case history. Qui si parla di novità, di uno show costruito ogni sera e incentrato su tematiche come arte, cultura, moda e musica che si intrecciano in quattro minuti di esibizione». Un’operazione però che lascia qualche dubbio.
Ne abbiamo parlato proprio con Iabichino.
Innanzitutto è importante spiegare perché l’operazione Gucci- Lauro è molto differente da una normale operazione di product placement… Perché è un’operazione editoriale. Qui non si tratta di aver portato in scena degli outfit. Dietro queste quattro serate c’è uno storytelling molto preciso, studiato a tavolino, portato avanti da Gucci, e dal direttore creativo Alessandro Michele, che ha scelto Achille Lauro non come modello ma come vero e proprio testimonial di una serie di messaggi. Ci sono link con l’arte e con la cultura. Il post di ieri di Achille Lauro su Instagram poi, con sotto tutti i credit della rete di professionisti che hanno lavorato allo show disegnato da Gucci, lo certificano apertamente.
Non è noto e quindi non si può dire con certezza. Ma si può immaginare di fare una cosa del genere senza che ci siano accordi commerciali o contratti? Se Achille Lauro non ha stipulato degli accordi con Gucci è un ingenuo
E se c’è qualcosa che non si può dire di Lauro è che sia ingenuo… Sono d’accordo. C’è una cosa in particolare che mi fa pensare che ci sia questo accordo: non è ancora uscito il videoclip ufficiale della canzone che dal punto di vista discografico e di marketing è un errore abbastanza marchiano. Se tanto mi dà tanto quel video sarà un importante look book di Gucci che dovrebbe consacrare quella che secondo me resta un’operazione intelligentissima dal punto di vista pubblicitario. Hanno preso d’assalto il Festival e Gucci è riuscito ad essere il terzo sponsor di Sanremo dribblando i listini.
E da questo punto di vista non esiste un problema nei confronti del main sponsor Tim, o della Nutella che aveva brandizzato la parte esterna o della stessa Rai? Io credo di no. Intanto ci muoviamo su categorie merceologiche completamente diverse e non in concorrenza. Se Tim non ha avuto nulla da dire, da main sponsor, ad avere il principale testimonial di un concorrente diretto tutte le sere sul palco (Fiorello è da anni il volto di Wind ndr), non credo che su Gucci possano esserci problemi. La Rai poi deve solo ringraziare Lauro e Gucci per la grande attenzione che si è creata su questa edizione della kermesse. È una cosa che su quel palco non si era mai vista. Non si può paragonare con gli outfit di Renato Zero o Donatella Rettore: c’era molto altro anche dal punto di vista narrativo. Basta pensare ai messaggi che Lauro ha portato sul palco in termini di diversity, gender neutrality e fluidità di genere. Questo è quello che bisogna sottolineare come un risultato del tutto positivo.
Il cuore della questione però è un altro. E cioè la sovrapposizione tra espressione artistica e culturale e una campagna pubblicitaria. Il fatto di non renderla nota non è un problema, soprattutto nei confronti del telespettatore? Per dove siamo oggi la moda è un prodotto culturale. Non possiamo più ridurre la moda o un certo tipo di moda a un fattore puramente di marketing e pubblicitario. Oggi se si pensa a cosa fa Prada con la su Fondazione o quello che sta facendo Fendi a Roma è evidente che la moda sta sempre più entrando e contaminando il linguaggio della cultura. Non è che se una maison fa un museo di arte contemporanea ci va bene se invece presidia un palco di un festival non va più bene perché la musica va preservata. Secondo me c’è un momento di grande contaminazione di linguaggi. Moda come pop music sono proprio principalmente contaminazione di linguaggio. Queste secondo me sono le lenti con cui guardare a quello che è successo.
D’accordo. Però se Andy Warhol, che è stato il massimo esponente della contaminazione di linguaggi, avesse percepito una retribuzione da parte della zuppa Campbell’s per la sua opera, quel quadro assumerebbe totalmente un altro significato… Non c’è dubbio. Ma quella di Warhol era un’operazione controculturale. Lauro e Gucci sono invece pienamente mainstream. Non è un’operazione rock, non c’è nulla di trasgressivo se non la violazione di un tempio. Ma dal punto di vista della costruzione del messaggio non c’è trasgressione. E poi attenzione: ai tempi di Warhol non c’era Instagram. Questo è stato un Festival dominato dai social. E Gucci e Lauro hanno vinto sul terreno più competitivo in questo momento che è quello dell’attenzione.
C’è anche una questione contenutistica. Il brano di Lauro è, si può dire apertamente, molto trascurabile. Il senso se c’è è davvero flebile. Soprattutto rispetto ai testi precedenti. L’unica parte dirimente è il titolo, “Me ne frego”, che è una sorta di claim pubblicitario… Io non credo sia stata costruita a tavolino per questo. Penso che in effetti sia un brano più debole del solito che però è stato magnificamente sostenuto e supportato da un intervento narrativo che ha caricato di significanti che il testo non aveva, nobilitandolo. Ma c’è un altro passaggio del testo che potrebbe essere un meta-messaggio, quel “dimmi una bugia e me la bevo”. Chissà…
La cosa che lascia un po’ interdetti più che altro è l’idea di associare a personaggi come San Francesco e David Bowie il concetto di menefreghismo, seppur ammorbidito dal aggettivo “positivo” coniato da Lauro. Quello che viene in mente è che “me ne frego” è di certo più accattivante di un “mi interesso”. E qui torna il dubbio di prima: arte o marketing? Su questo in realtà l’unico che può rispondere è Achille Lauro. Si tratta di capire se, al netto di tutti gli introiti pubblicitari e della performance spettacolare, l’artista aderisce a posteriori a quel messaggio oppure no. Più semplicemente se è autenticamente parte di questo percorso artistico o è stato solo un uomo sandwich di una maison che ha portato a termine un’operazione di marketing culturale.
Clima: Jeff Bezos lancia fondo per la Terra da 10 mld dollari
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La decisione arriva 20 giorni dopo la richiesta da parte di 300 dipendenti di Amazon di maggiori sforzi sul clima da parte dell’azienda
Jeff Bezos, fondatore e ceo di Amazon, ha annunciato sul suo account Instagram il lancio del ‘Bezos Earth Fund’ per contrastare i disastrosi effetti dei cambiamenti climatici. Bezos ha spiegato di aver dotato personalmente il fondo di 10 miliardi di dollari “per iniziare” e che le prime sovvenzioni a ricercatori, attivisti e Ong verranno assegnate in estate.
La decisione arriva 20 giorni dopo la richiesta da parte di 300 dipendenti di Amazon di maggiori sforzi sul clima da parte dell’azienda, criticando la sua politica ambientale. I dipendenti che aderiscono all’Amazon Employees for Climate Justice (Aecj), stanno spingendo il colosso dell’e-commerce a rivedere le proprie politiche ambientali.
Le critiche riguardano il piano ambientale presentato il 19 settembre scorso da Bezos, che ha annunciato il raggiungimento delle emissioni zero di Amazon nel 2040. Secondo l’Aecj, la compagnia dovrebbe puntare alla neutralità carbonica nel 2030.
Amazon, che ha costruito il suo successo su un’enorme rete logistica di trasporti stradali per garantire consegne sempre più veloci, è un grande produttore di gas serra, i principali responsabili dell’emissione in atmosfera di anidride carbonica. Secondo la piattaforma online ‘Climate Watch’, i 44,4 milioni di tonnellate di CO2 equivalente prodotta ogni anno da Amazon rappresentano poco più del 10% delle emissioni annue totali della Francia.
“Possiamo salvare la Terra”, ha scritto su Instagram Bezos postando una foto del pianeta. “Richiede un’azione collettiva, di grandi e piccole aziende, Stati, organizzazioni globali e individui”. E conclude: “La Terra è la cosa che tutti noi abbiamo in comune. Proteggiamola insieme”.