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New York, al via la rivoluzione green per i grattacieli

New York, al via la rivoluzione green per i grattacieli
New York, al via la rivoluzione green: il comune taglia le emissioni dei grattacieli

La Grande Mela si fa verde e fa da battistrada al Green New Deal. Non si chiama così, ma il Climate Mobilization Act è di fatto questo per New York. È stato approvato nei giorni scorsi dal consiglio comunale d’una metropoli affollata da 8,4 milioni di residenti con tutti i loro servizi e attività una significativa «carbon footprint», un’impronta dell’impatto ambientale, anche se stando all’Ufficio del censimento la città ha perso 40mila abitanti nell’ultimo anno tirando il fiato da una crescita che durava dal 2010.

Di più, il passaggio dell’Atto – una combinazione di dieci proposte di legge in aperta sintonia con la riduzione delle emissioni da effetto serra voluta dall’Accordo di Parigi dell’Onu – è avvenuto quasi all’unanimità, 45 voti contro due, tra gli applausi. Forse prevedibili in una metropoli tradizionalmente progressista, ma segno della determinazione a trasformare il «pacchetto» in realtà, sfidando un’amministrazione Trump che e livello federale ha invece dato platealmente l’addio a Parigi.

L’iniziativa era oltretutto men che scontata. È stata considerata «molto aggressiva» persino dal sindaco democratico della città Bill de Blasio, che pur flirta con una candidatura alle presidenziali del 2020 in un partito dove avanzano le correnti più di sinistra sotto le bandiere, neanche a dirlo, di programmi sociali e economici battezzati Green New Deal. De Blasio l’ha però sposata – firmandola in occasione dell’Earth Day – rivendicandone i benefici sia per l’ambiente (la città ha sofferto la sua quota di danni da clima estremo) che per lo sviluppo di un intero nuovo modello economico sostenibile. Una firma apposta nonostante la strenua e influente opposizione di alcune lobby di business – su tutte quella immobiliare dato che il cuore della riforma riguarda proprio giri di vite sull’edilizia e i suoi consumi energetici.
A chi si domandasse il rilievo del settore per New York, basti citare un dato: i palazzi, in una città densamente popolata e «verticale» come New York, sono oggi responsabili di oltre due terzi delle emissioni totali di anidride carbonica. E a chi chiedesse conto di celebrità e delicatezza degli immobili messi in discussione basti ricordare che c’è la Trump Tower, sì, quella al centro anche di altre «emissioni» potenzialmente tossiche, quelle politiche del Russiagate per la Casa Bianca.

«Il cambiamento climatico pone una minaccia esistenziale a New York City – ha fatto sapere l’amministrazione di de Blasio – E rendere i palazzi più sostenibili e efficienti è un elemento chiave della soluzione del problema». Gli obiettivi sono ambiziosi. I calcoli del comune prevedono che l’abbattimento delle emissioni sarà equivalente a eliminare un milione di auto dalle strade entro il 2030, con vantaggi per la salute a cominciare dalla lotta all’asma e in grado di prevenire oltre 40 decessi e cento ricoveri in pronto soccorso ogni anno.
Il progetto ha a cuore esplicitamente anche l’impatto economico, che vede nell’insieme a sua volta nettamente positivo. Entro quella stessa data del 2030, le proiezioni parlano della creazione di 27.600 nuovi impieghi «ecologici» grazie alla riforma. Studi di alcune non profit quali Align appaiono ancora più ottimisti: 23.627 posti di lavoro diretti nelle costruzioni per adattare i palazzi e grattacieli ai nuovi criteri e 16.995 indiretti ogni anno per manutenzione e gestione, manifattura e servizi.

L’iniziativa prende di mira anzitutto l’edilizia, vecchia e nuova, perché è su questa che la città ha completa giurisdizione – al contrario di altri campi di impatto ambientale dove ha voce in capitolo lo Stato di New York, più moderato seppur esso stesso governato dai democratici. Campi che vanno dal trattamento delle acque al trasporto pubblico, dal traffico (dove lo Stato ha tuttavia previsto un congestion pricing) ai sacchetti di plastica (ora quelli mono-uso, con qualche eccezione, sono stati messi al bando).

In buona sostanza, la neo-legislazione cittadina impone a molti palazzi di ridurre le loro emissioni a partire al 2024, fino ad arrivare a tagli del 40% in data 2030. Il costo delle modifiche prescritte? Stando alle autorità all’incirca 4 miliardi di dollari a carico dei proprietari di immobili. «Sarà la piu grande rivoluzione nella storia del real estate di New York City – ha dichiarato John Mndyck, Ceo dell’Urban Green Council, un’associazione che raggruppa ambientalisti e costruttori – Sarà difficile e richiederà miliardi, ma nasceranno tecnologie e modelli di business per portarla a termine».

La mossa più consequenziale ha un soprannome che la dice lunga, Dirty Buildings Bill, la legge per i grandi palazzi sporchi. Ben 50.000 di questi – parte importante dei palazzi di dimensioni superiori ai 25.000 piedi quadrati che rappresentano il 2% dell’edilizia cittadina ma metà delle sue emissioni dannose – sono nel mirino per un taglio delle emissioni del già citato 40% entro dieci anni e fino all’80% entro il 2050. Un taglio che avverrà attraverso molteplici modifiche, quali nuove finestre e nuovi sistemi di isolamento termico. Violare i nuovi requisiti costerà caro: le multe previste sono di milioni di dollari l’anno, calibrate sulla base della gravità delle irregolarità. Accanto alla Trump Tower, noti immobili che dovranno adeguarsi o pagare comprendono dagli storici Empire State Building e Chrysler fino allo One World Trade Center. Nonché grandi ospedali, che però con istituzioni religiose e case popolari hanno ottenuto alcune esenzioni suscitando le ire degli altri giganti del real estate.
Non finscono qui i cambiamenti. La rete di leggi varata ordina alla città di condurre uno studio di fattibilità entro il 2021 – e di aggiornarlo ogni quattro anni – per prevedere la chiusura di 24 centrali elettriche a gas e petrolio e sostituirle con fonti rinnovabili e meccanismi per l’accumulo e la conservazione di energia in eccesso. Su nuovi palazzi e costruzioni di piccole dimensioni verranno poi installati «tetti verdi», con una combinazione variabile di vegetazione, pannelli solari, mini-turbine a vento.

La complessa matematica, come la chiama il New York Times, della legge si basa su dati sui consumi energetici dei palazzi raccolti ormai da anni e che la citta’ ha usato per creare veri e propri benchmark e per estrapolare le emissioni per piede quadrato. Limiti diversi riguarderanno in futuro differenti tipologie di immobili, quali uffici o complessi residenziali. A titolo di esempio l’Empire State Building adesso produce 6,27 chilogrammi di anidride carbonica l’anno per piede quadrato; nel 2030 stando ai nuovi standard dovrà aver ridotto le emissioni a 4,53 kg. Una nuova agenzia cittadina, l’Office of Building Energy and Emissions Performance, potrà tuttavia alterare la matematica e esaminare ricorsi per concedere flessibilità a palazzi che abbiano inquilini di business dalle comprovate necessità di elevati consumi energetici, quali media, tecnologia e aziende di life sciences.

Una specifica misura ambientale condanna infine il fracking, la fratturazione idraulica: vieta la concessione di permessi necessari all’importazione di gas naturale attraverso la Williams Pipeline, un gasdotto che arriva dalla Pennsylvania (una delle controverse patrie del fracking americano assieme al Texas). Il fracking e’ dal 2014 vietato nello stato di New York, ma l’import di gas cosi estratto era stato stato proposto citando la necessità di ovviare ad una produzione di energia più «sporca». La riforma comolessiva avrà ancora delle appendici: in arrivo è un ulteriore provvedimento, che resta da votare ma dato per certo: la conversione di tutti gli scuolabus in veicoli elettrici nel giro di vent’anni, capitolo dello sforzo cittadino di trasformare l’intero trasporto pubblico newyorchese su gomma entro il 2040.




“Per ogni Greta c’è un membro della Generazione Z che non indosserà mai lo stesso capo due volte”

"Per ogni Greta c'è un membro della Generazione Z che non indosserà mai lo stesso capo due volte"

La generazione dei nati tra il 1995 e il 2010 già vale un terzo del mercato del lusso. Il direttore del Polimoda: “Questi giovani hanno il potere di condizionare la moda del futuro”

Hanno il potere di mettere in crisi la moda per i prossimi decenni: sono i ragazzi della Generazione Z, quelli nati tra il 1995 e il 2010. Sono i primi veri nativi digitali, non ricordano il mondo senza Internet e computer e sono un vero grattacapo per gli stilisti. Hanno gusti e preferenze ben definiti: per scoprirli il New York Times ha chiesto a tre giovanissimi di mostrargli i loro acquisti. La conclusione? L’apparenza batte la qualità: la Generazione Z, secondo il giornale americano, predilige “outfit carini e poco costosi, purché sembrino belli su Instagram”. “Questi ragazzi non condizioneranno la moda in futuro, lo fanno già”, spiega ad HuffPost il direttore di Polimoda Danilo Venturi.

“Per ogni Greta Thunberg o studente che salta la scuola per unirsi alle proteste per il clima, c’è un altro membro della Generazione Z che compra vestiti poco costosi con il suo smartphone – si legge sul NYT -. Le scelte di acquisto, alimentate dalla cultura degli influencer e soddisfatte da una nuova ondata di brand ultra fast fashion, come Fashion Nova, Pretty Little Thing e Missguided (quest’ultimo responsabile di un bikini venduto a una sola sterlina, che ha registrato il tutto esaurito in Gran Bretagna), si basano più su come un determinato outfit possa apparire sui social piuttosto che nel mondo reale”.L’HUFFPOSTRicevi le storie e i migliori blog sul tuo indirizzo email, ogni giorno. La newsletter offre contenuti e pubblicità personalizzati.Sottoscritto!Grazie per aver effettuato l’iscrizione! A breve riceverai una mail di conferma.

Lo dimostra l’inglese Mia Grantham, 16 anni: la giovane ha confessato al NYT di non avere alcuna intenzione di indossare lo stesso vestito due volte: da qualche tempo ha iniziato ad avere un piccolo seguito su Instagram e non vuole in alcun modo deludere i suoi followers. Le piace indossare abiti rossi: ne ha almeno 14 diversi. Si addormenta facendo lo scrolling delle pagine dedicate allo shopping, che consulta per almeno 10 o 15 minuti alla fine della giornata. Ha sottoscritto un abbonamento annuale tramite l’applicazione del suo brand preferito, Pretty Little Things, che le permette di ricevere i vestiti il giorno dopo l’ordine. “Quanti capi credi di aver acquistato nel 2019?”, alla domanda del NYT risponde: “Un centinaio”.

Ma quando un vestito può dirsi “vecchio”? La giovane Grantham non ha dubbi: se è un paio di jeans che indossiamo a casa possiamo tenerlo anche per sempre, se è un vestito col quale intendiamo uscire e farci vedere dagli altri dopo due volte è già da buttare. E se il ricambio è così frequente, quanto è disposta a spendere la sedicenne per i suoi capi? “Ovviamente – dice al NYT – cerco di spendere il meno possibile”.

La storia di Mia Grantham non è isolata, ma è lo specchio di come alcuni giovani della Gen Z concepiscano lo stile. Il loro occhio è sempre puntato verso i social network, il vero palcoscenico sul quale i vestiti indossati fanno il loro debutto: “Scatto dei selfie ogni volta che esco, nella mia camera da letto e poi con i miei amici o il mio ragazzo”, dice la giovane. Ammette di non pensare mai alla fine che faranno quegli abiti una volta buttati via, ma afferma di conoscere il fenomeno della moda sostenibile: “So che diversi brand stanno creando dei capi sostenibili. Molti sono simili a quelli della collezione classica, ma costano di più. Se devo essere onesta, penso: ‘Perché dovrei pagare di più, quando posso avere la stessa cosa a meno?’”.

Se la Generazione Z detta la moda, i brand obbediscono

Secondo uno studio di Bain&Co, le nuove generazioni, la Y (quelli nati tra il 1980 e il 1995) e la Z, già valgono un terzo del mercato del lusso e guideranno la crescita del mercato fino ad arrivare a coprire nel 2035 l’80% dei consumi. Impossibile, dunque, non prenderli in considerazione. Così la pensa il direttore del Polimoda, Danilo Venturi che ad HuffPost spiega: “La Generazione Z non condizionerà la moda, lo fa già. Questi ragazzi vivono in un mondo privo di limiti spazio/temporali che produce in loro valori e comportamenti in favore dell’uguaglianza di razza, cultura e orientamento sessuale, dall’altra parte però genera anche un senso di inquietudine e a tratti di vera e propria depressione. Alcuni brand si sono accorti di questo mutamento radicale ed hanno adeguato le loro best practice, altri usano temi come la sostenibilità semplicemente per fare marketing, altri ancora non si sono accorti di nulla. In Polimoda queste tendenze prendono forma quotidianamente grazie alla presenza di 2300 studenti provenienti da 70 diverse nazioni, un laboratorio di idee a completa disposizione di aziende, istituzioni e di chiunque voglia produrre progresso, a patto che ciò a avvenga a favore e insieme agli studenti stessi”.

La Generazione Z rivoluzionerà il modo di fare shopping

A mano a mano che cresceranno, i membri della Gen Z cambieranno il loro modo di fare shopping: secondo Federica Levato, analista di Bain, questi giovani non saranno affatto frivoli nei consumi. Se è vero che da una parte è forte la tentazione rappresentata dal fast fashion, dall’altra è plausibile che, avendo assistito all’instabilità economica vissuta dai millennials che lavorano, i membri della Gen Z facciano acquisti più ragionati, intelligenti e che possano durare nel tempo. Inoltre, essendo nativi digitali, hanno un utilizzo più equilibrato dello smartphone e hanno rivalutato il ruolo del prodotto e del negozio fisico. Daranno importanza all’economia circolare, all’ambiente, alla sostenibilità e chiederanno ai brand un impegno culturale e calato nello spirito del tempo. In conclusione, secondo la Levato, quello che vogliono è un prodotto “eccellente ma anche buono, secondo logiche etiche e responsabili”.




Mi sono perso la Giornata Mondiale della Risata. E non ci trovo nulla da ridere.

Mi sono perso la Giornata Mondiale della Risata. E non ci trovo nulla da ridere.

Mi accontenterei di risate,
anche registrate.

Laugh track ovunque, come se
non ci fosse un domani, come sottofondo animato per i nostri talk show
casalinghi ma anche per le nostre digressioni apocalittiche al supermercato e durante
le file alla posta, dove diventiamo detrattori, giudici, presidenti del
Consiglio, allenatori della Nazionale, papi & cardinali, talent scout e
chef.

L’ingegnere del suono
americano Charles Douglass quando inventa le risate registrate ignora che
diventeranno una consuetudine nella programmazione mainstream degli Stati Uniti.
Accompagneranno generazioni nella costruzione dell’assenso, persino del
divertimento a comando e nell’autoconsolazione patriottica.

La risata ha poteri curativi
importanti e non ha effetti collaterali. Anzi, parrebbe migliorare la
circolazione e l’ossigenazione del sangue e la produzione di endorfine. Il
cortisolo si riduce sensibilmente a supporto, persino, delle difese
immunitarie.

Patch Adams, fondatore del
Gesundheit Institute e ideatore della clownterapia, sosteneva che la buona
salute è questione di risate.

Mark Twain sosteneva che “contro
l’assalto delle risate, nulla può resistere”.

In effetti, con dodici muscoli
si altera a piacimento l’intero pattern espressivo umano, diventiamo indocili,
mettiamo in crisi certezze altrui e pungoliamo l’establishment.

E per fare il broncio? Ne
occorrono settantadue, decisamente antieconomico.

Ho scoperto per caso la Giornata
Mondiale della risata
che, in questo sfortunato 2020, è caduta il 3 maggio,
nel lockdown generale, dove c’era ben poco di cui ridere – direte voi, diranno
gli altri.

Eppure, entrando a passi
felpati nella Fase 2, con tutte le cautele del caso, si sente l’esigenza (quasi
fisica) di abbandonare i toni apocalittici e lo psicodramma collettivo della
nostra società dello spettacolo.

Non tanto per la volontà
(quasi persino voluttà) di ‘buttarla di caciara’, quanto per ridimensionare
il mood declinista, catastrofista, immanentista dei mesi precedenti l’arrivo
del virus.
Dove la sintassi si destreggiava con armi di distruzioni di
massa.

Alle nostre latitudini, dov’è
che si apprendono stile & prestanza nel confronto pubblico? Nei talk
show
– ovviamente – dove l’infotainment e il politainment sono governati da
media logic e dallo share; dove gli ‘elettori fluttuanti’ sono pane demoscopico
irrinunciabile, sorpresi nelle loro tentazioni di voyeurismo e tanaturismo.

Care ‘very important person’ del
momento (mi riferisco ai fluttuanti citati), la balistica del priming si
collega al processo di agenda building: fatevene una ragione, è il destino di
tutti noi!

Adeguati o inadatti, preparati
o ignoranti, attenti o distratti, siamo entrati nei mondi di Carta Bianca,
Agorà, Ottoemezzo, L’aria che tira, La Gabbia, Piazza Pulita, Virus, Matrix,
Annozero, Ballarò, Porta-a-Porta, Milano Italia, Profondo Nord, Omnibus
Servizio Pubblico, DiMartedì, Che tempo che fa (quanti ne dimentico tra
presenti e passati?) e da lì non ne siamo più usciti.

Ricordate ‘Faccia a faccia’, il
rotocalco televisivo condotto da Enzo Biagi o ‘Tribuna elettorale’ o ancora ‘Bontà
loro’, condotto da Maurizio Costanzo?

Vanaglorismo? Macché.

Bourdieu parlava di censura
invisibile e di violenza simbolica, i più intemperanti di dumbing down, i più
incarogniti di effetti Manchurian, io (sommessamente) di distrazioni incaute
di massa.

Gli elettori fluttuanti hanno
potuto contare su piazze televisive dove farsene una ragione, per poi trovare
conferma nei bias della cultura digitale.

Figurarsi il 47% dei
cosiddetti analfabetici funzionali: pane per i loro denti affilati.

Ma torniamo ai cosiddetti political
debate shows che imperversano più tonici che mai.

Ma è così dappertutto? Per
esempio, nella tv britannica? Uno solo e si chiama “Question Time”.

“Sì, ma loro sono algidi,
mentre noi italiani siamo focosi, urlatori, passionali”.

Sia. Ma se con i canali tv
nazionali presenti sulle principali piattaforme (nel 2017 erano 361), che fanno
capo a 59 editori, si riuscisse a trovare un accordo di massima su una pausa
da ricostruzione
che riveda il linguaggio, le tassonomie, il mood generale,
non potremmo riuscire a sotterrare l’ascia di guerra per ritrovare gli
anticorpi di una comunicazione razionale e meno emotiva?

Non consolatoria e nemmeno intimista.

Pervicacemente contro la
ciarla e l’avventurismo, in vista di un futuro che riscatti i dolori individuali
e collettivi, prendendoci tutti insieme la responsabilità della ripartenza.

Con il ricorso alle energie
migliori del bel Paese, della nostra provincia, alle esperienze delle nuove
professioni o dei nuovi lavori, con l’ottimismo tipico di chi deve scrollarsi
di dosso calcinacci, polvere e morchie varie. Con l’utilizzo della retorica –
stavolta necessaria – del ‘tutti-per-uno’.

In mancanza di ciò: autopunizione,
rinuncia alla mediazione e alla interpretazione di ciò che accade attorno a
noi. Silenzio.

E dunque il necessario ricorso
alle risate. Per iniettare dosi omeopatiche di endorfine nelle relazioni
ordinarie, in quelle istituzionali, nella politica locale, nella stampa locale.

Risate pericolose,
irriverenti, destabilizzanti, cauterizzanti,
come
quelle descritte da Arthur Schopenhauer ne ‘Il mondo come volontà e
rappresentazione’ o quelle di Friedrich Nietzsche ne ‘La gaia scienza’.

Altrimenti?

Avrà avuto ragione Michel
Houellebecq
, a proposito di questo virus banale, senza qualità: “Non ci
risveglieremo, dopo il lockdown, in un nuovo mondo; sarà lo stesso, ma un po’
peggio”.




Talent Show. Il riciclaggio curricolare tra HR e Irresponsabilità sociale d’impresa

Talent Show. Il riciclaggio curricolare tra HR e Irresponsabilità sociale d’impresa

“Neolaureato”: condizione a tratti
angosciante, per i più, satura di insicurezze dovute all’inevitabile passaggio
dal certo all’incerto, dal caldo conforto dello status di “studente” a quello
di “disoccupato”. Momento di bilanci e di paure, e dalla forzata convivenza con
la spiacevole sensazione di dubbio: “Sarò
abbastanza fortunato? Troverò lavoro? Le aziende mi chiameranno?”

La situazione dei giovani all’ingresso
del contesto lavorativo non pare affatto incoraggiante. Secondo i dati Istat
2019, il tasso degli under 25 senza un impiego è pari al 27,1%. Nel confronto internazionale
rimaniamo purtroppo ben distanti da paesi come la Germania, stabile al 5% di disoccupazione
giovanile, e siamo in fondo alla classifica Eurostat, nella quale a far peggio
di noi ci son solo Spagna e Grecia.

Il problema della disoccupazione giovanile,
o meglio degli inoccupati, sembra affondare le radici nell’insufficiente investimento
in formazione e orientamento nelle scuole in Italia, nonché nell’esiguità dei
fondi dedicati all’istruzione, motivo per il quale il nostro Paese quest’anno
si è posizionato ultimo in Europa in questa classifica. Ma cosa accade invece a
quei giovani laureati che invece un lavoro lo trovano?

Per la maggior parte di essi, la strada
è solo una: lo stage. Più propriamente definito dalla legge come “tirocinio
formativo”, questa formula assai precaria di avvio al mercato del lavoro consiste
in un periodo di’inserimento all’interno di un contesto lavorativo con la
finalità di consentire al tirocinante/stagista di acquisire un’esperienza
pratica in un determinato settore produttivo. Il Ministero del lavoro, per
incoraggiare l’assunzione dei giovani italiani, finanzia il programma Bonus Garanzia Giovani, che prevede una serie d’incentivi e agevolazioni
per le aziende che assumono giovani tra i 16 ed i 29 anni. Lo stage – che così
delineato appare come un’opportunità per i giovani di accedere al mondo del
lavoro e di mettere in pratica quanto studiato durante gli anni di formazione –
ha purtroppo un lato oscuro, che spinse il giornalista Beppe Severgnini a
definire l’Italia, con una frase poi divenuta celebre, come “una Repubblica fondata sullo Stage”. Cosa
accade?

Concentriamoci sulla nozione di “Human Resource”: il
capitale umano, ovvero la consapevolezza che le vere risorse di un’azienda non
siano (solo) le macchine, i fondi o gli stanziamenti di denaro, ma piuttosto le
persone. Ne consegue che se l’organizzazione, azienda o impresa si prende cura
del proprio capitale umano, lo rispetta e investe in esso, nel suo sviluppo e
benessere, la crescita strategica e di profitto dell’organizzazione è
assicurata. A conferma di questa teoria, vi sono numerosi studi e ricerche,
oltre che storie d’eccellenza ante litteram come quella di Adriano Olivetti,
che con la sua idea d’impresa rappresenta ancora oggi un caso d’eccellenza continua
a fare scuola a tutto il mondo. Sulla base di questo ragionamento, può non
apparire così spaventoso per il giovane neolaureato immergersi lungo il
complesso iter di ricerca del lavoro.

Sfortunatamente per i giovani, l’entusiasmo
iniziale viene sostituito presto da una disillusione profonda. I career day,
eventi nei quali le aziende “si mettono in mostra”, ognuno nel proprio apposito
stand, spesso e volentieri si rivela essere solo una vetrina utilealle imprese per farsi conoscere: una
pura strategia di posizionamento, che non è volta affatto alla ricerca dei
cosiddetti migliori talenti, e stesse
aziende che si autoproclamano come attente, sostenibili e orientate al futuro,
non riescono nemmeno a ipotizzare un onesto e concreto piano di crescita per la
forza lavoro in entrata. E i colloqui?

Non tutte le ciambelle riescono col buco, dice
l’adagio popolare, così come non tutti i colloqui possono avere esito positivo.
Certo, i rifiuti fanno parte della crescita e possono essere utili come
feedback per il futuro, per comprendere cosa si può migliorare nel modo di
presentarsi, e per affinare le tecniche migliori per mostrare il proprio potenziale
al recruiter. Ma per far sì che ciò avvenga, sarebbe opportuno essere
notificati del rifiuto in modo circostanziato, attraverso un feedback dall’azienda.
Scontato direte voi: purtroppo non pare esserlo per le aziende. E non parliamo solo
di piccole realtà, magari impreparate a gestire le procedure di assunzione del
personale, ma anche dei veri e propri colossi del business.

Ad esempio, aziende come BNL gruppo Paribas –
peraltro, almeno formalmente, blasonatissima nel campo della responsabilità
sociale d’impresa – dopo un colloquio con esito negativo ben si guarda dal garantire
alcun tipo di feedback, nemmeno il semplice invio di una mail “precompilata”
alla potenziale risorsa per informarla di quanto deciso. Nella maggior parte
dei casi, le imprese discutono di talento, di significato, di employer branding, e poi nemmeno si prendono
la briga di congedare un candidato ringraziandolo per l’interesse ed il tempo
speso nei confronti dell’azienda stessa.

Episodi del genere non si contano. Nel mese di
dicembre scorso, la Enginereeng – azienda quotata in borsa nell’ambito settore
del software e servizi IT, specializzata nella digital transformation in particolare per i settori finanza,
pubblica amministrazione, utilities e industria – era alla ricerca di una
risorsa per una posizione di stage in HR. L’impresa ha iniziato il suo processo
di selezione del personale, contattando potenziali talenti selezionati
attraverso uno screening nel frequentatissimo portale di ricerca Almalaurea. Sfortunatamente per il
ragazzo contattato, l’entusiasmo iniziale di aver ricevuto la telefonata da
parte della nota azienda è spento rapidamente a seguito di una brevissima
chiacchierata in cui il recruiter, che
dopo aver spiegato che stavano contattando i neolaureati con i profili migliori
da varie università per procedere con un processo di selezione (piuttosto
lungo), dichiarava senza troppe cerimonie che sarebbe comunque stato impossibile
per la risorsa essere inserita in azienda dopo i canonici 6 mesi di contratto, “per questioni di budget”. Eccovi un
esempio lampante e concreto del sopracitato lato
oscuro dello stage
, che prende il nome di “Stage Rolling”: l’utilizzo di stagisti neo-laureati ne più ne meno
come manodopera a basso costo.

È un tipo di stage che non è mai volto alla
definitiva assunzione, ma che si rinnova invariabilmente ogni sei mesi. Consiste
in un vero e proprio riciclaggio di stagisti, persone fresche di studi, dai
brillanti CV e con un alto livello di competenze in entrata, che finito il
contratto di stage vengono mandati via per passare “ai prossimi”, permettendo
così alle aziende di risparmiare notevolmente sui costi della forza lavoro (uno
stagista dopo 5 anni di università viene pagato in media tra i 500 e gli 800
euro mensili, contro i circa 1.300 di contratto a tempo determinato standard),
ma perdendo contemporaneamente moltissimo sul versante di crescita del capitale
umano, sulla motivazione della forza lavoro e – tra l’altro – spendendo
notevolmente in termini di energia e tempo per formare di volta in volta le
nuove leve, in una specie di poco produttiva e illogica coazione a ripetere. Per lo stagista, i possibili “vantaggi” sono
esclusivamente quelli di guadagnare un’esperienza da inserire sul CV, consapevole
di dover cercare un’altra sistemazione al più presto.

Le aziende che praticano (abusandone) questa
modalità di stage sono molte nel contesto italiano, basta una velocissima
ricerca sul portale Google per scoprirlo, 
evidenza che di certo, tra l’altro, non contribuisce al rafforzamento
della reputazione d’impresa. A conferma di quanto appena esposto, i dati della
ricerca Excelsior
che conferma che solo uno stagista su 10 viene poi assunto in azienda:
in media, su 1.000 giovani che cominciano uno stage, solo 106 vengono assunti
(con qualsiasi tipo di contratto), e 894 verranno invece lasciati a casa senza
ricevere una proposta di lavoro ne, spesso, una qualunque giustificazione, se
non, nella migliore delle ipotesi, meramente formale.

Per combattere questo trend tutt’altro che
virtuoso da parte delle imprese, sono nate intriganti realtà come “La Repubblica degli stagisti”, una vera e propria testata giornalistica online,
nata nel 2009, che si occupa di approfondire la tematica dello stage in Italia,
dando una voce alla categoria dei giovani stagisti, oltre che – per onesta
intellettuale – segnalare le aziende che si distinguono positivamente,
redigendo ogni anno una classifica delle più oneste dal punto di vista dei
pagamenti, della trasparenza e del tasso di assunzione a fine stage.

Le questioni della disoccupazione e del precariato
giovanile in Italia sono assai dibattutte, e vengono
raccontate prevalentemente attraverso i numeri dei tagli al personale e delle
ore di straordinari non pagate, o della flessione degli stipendi. Ma quali sono
le conseguenze di questa infausta realtà sui giovani italiani?  Un mix di stress, insicurezza e solitudine, rappresentanti
ormai il fulcro di un mercato del lavoro sempre più incerto e competitivo. Ad
approfondire questo tema è anche l’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna, che ha denunciato l’asprezza dell’attuale
sistema di recruitment, alienante per i giovani, in cui l’ansia per il futuro
può facilmente tradursi in “inadeguatezza,
depressione, stati d’ansia o panico accompagnati da una sintomatologia
psicosomatica
”. Le parole di Anna Ancona, Presidente dell’Ordine, definiscono
in modo chiaro l’attuale situazione: «Una
condizione di precariato lavorativo non rende instabile solo la situazione
economica, ma mina anche lo stato psicologico delle persone. Perché non possono
emanciparsi dalla famiglia di origine e costruire una propria realtà, ma si
ritrovano a vivere forzatamente in una sorta di “adolescenza sospesa”. I
giovani si trovano a volte in condizioni comparabili all’indigenza, con
conseguente frustrazione e perdita dell’identità sociale; quasi sempre, quando
hanno un lavoro, sono comunque sottopagati
». L’impatto negativo
dell’attuale panorama non tocca solo la società e il benessere materiale dei
cittadini, ma anche la salute mentale dei giovani italiani.

Consapevoli di ciò, le aziende – che abilmente
riempiono la descrizione delle loro vision
e mission aziendali con parole come purpose, talent o sostenibilità – non paiono
assumersi la loro fetta di responsabilità per questo spiacevole stato di cose.

Il termine responsabilità
racchiude in sé l’impegno dell’impresa a rispondere pubblicamente di tutti i
propri comportamenti e risultati sul piano etico e sociale. Oggi, operare in modo
genuino su temi come quello della sostenibilità vuol dire essere virtuosi non
solo su temi come la salvaguardia ambientale, argomento tanto vitale quando facile nella sua capacità di attrarre
consenso sul brand, ma anche di inserire preoccupazioni di carattere etico su
temi di estrema attualità come quello del precariato giovanile. Il libro verde della Commissione
Europea definisce la Corporate Social
Responsibility
come “l’integrazione
su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali
e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti
interessate”.
Allo stato attuale, poche imprese sembrano comprendere
pienamente il significato di questo termine, distinguendosi invece per quella
che pare piuttosto essere un’ “irresponsabilità sociale d’impresa”.

Storie come quella di Olivetti ci hanno
insegnato che un ascolto sincero nei confronti del proprio “capitale umano” – a
tutti i livelli, dal neoassunto stagista al dirigente – oltre che generare benessere
e conseguentemente aumento di produttività per l’azienda ed engagement da parte
di tutti gli stakeholder, gioverà all’intera comunità, innescando una reazione
a catena virtuosa e profittevole.

Al contrario, la mancata attenzione nei
confronti dei giovani evidenzierà una distonia tra l’immagine e l’identità
d’impresa, con il conseguente – e inevitabile – danno alla reputazione e
pregiudizio alla credibilità, non solo agli occhi dei futuri talenti, ma
dell’intero pubblico dell’organizzazione.

Oggi le aziende hanno una possibilità
che non dovrebbero lasciarsi sfuggire: grazie all’ascolto e al dialogo
costruttivo con le giovani generazioni hanno lo straordinaria opportunità, in
prospettiva, di poter di costruire e migliorare, insieme, il futuro della
società nella quale tutti viviamo.




MAGHI, FATTUCCHIERE E UTILI IDIOTI

MAGHI, FATTUCCHIERE E UTILI IDIOTI

Abstract

Con eccessiva facilità e superficialità, antiche
credenze popolari vengono classificate come “pseudo-scienze”, e generano negli
uomini di scienza più ortodossi ilarità e scetticismo. In realtà, è la scienza
stessa a venire incontro alla tradizione, confermando con studi scientifici varie
convinzioni popolari. Più in generale, l’atteggiamento arrogante e supponente tipico
di alcuni divulgatori scientifici è anti-scientifico in se, in quanto riferito
a un approccio alla comunicazione scientifica absoleto, datato, inefficace e
superato da nuove evidenze, prima tra tutte il modello
PEST – Public
Engagement with Science and Technology.

Ancient popular beliefs are classified as
“pseudo-sciences” and generate hilarity and skepticism in the most
orthodox scientists With excessive ease and superficiality. In truth, it is
science itself that meets tradition, confirming various popular convictions
with scientific studies. More generally, the arrogant and opinionative attitude
of some scientific popularizers is anti-scientific in itself, as it refers to
an obsolete, outdated, ineffective approach to scientific communication, first
of all the PEST – Public Commitment to science and technology.

Keyword

Scienza, pseudo-scienza, tradizioni popolari, cure naturali, EBM, divulgazione scientifica, metodo Burioni, PUS, PEST.
Science, pseudoscience, popular traditions, natural therapies, EBM, scientific dissemination, “Burioni method”, PUS, PEST

Testo

Negli ultimi secoli, la scienza ha prodotto innumerevoli scoperte che
hanno di gran lunga migliorato la qualità della vita dell’uomo, pur generando
un certo autocompiacimento tra gli addetti ai lavori.

Tuttavia, le correlazioni significative tra velocità e
modalità della comunicazione contemporanea sono ormai cosa acclarata: bolle informative[1], annegate
nell’oceano digitale della post-verità; analfabetismo funzionale e di ritorno;
eccesso di velocità; iper-semplificazione ai limiti dell’idiozia; incapacità di
comprendere il contesto.

Tutti questi elementi, compongono il pantano nel quale con difficoltà ci
muoviamo ogni giorno, di device in device, di connessione in connessione: un
mondo farcito di fake-news, tanto più pericolose tanto più toccano il più
delicato dei temi, quello della salute, e – più estesamente – quello appunto della
scienza, una delle poche certezze sulle quali ancora possiamo contare a questo
mondo.

Non sappiamo più da che parte girarci, tra “pseudo-scienza”, maghi,
naturopati, fattucchiere, pillole magiche, integratori portentosi, erbe
miracolose, medicine complementari e “non convenzionali”, e chi più ne ha più
ne metta, anche perché – ammettiamolo – la frenesia nella quale siamo immersi
non da molto tempo per distinguere. Meglio una cesura netta, quindi, per
sicurezza: indicizzato o non indicizzato? Peer-review? Pubblicazione
internazionale oppure no? Diversamente, ve ne prego, non fatemi perdere tempo.

E meno male che ci sono Wired, Focus, Next Quotidiano, e altre riviste “guardiane”
dell’ortodossia, diversamente quel poco di “resistenza” alle male pratiche
sanitarie sarebbe ancora più difficile da opporre. Basta fare un’innocente
navigazione per trovare veramente di tutto.

Ecco a titolo di esempio una breve carrellata di recenti assurdità pseudo-scientifiche
reperite in rete in questi giorni, sedetevi comodi e divertitevi:

  • per combattere i virus – in base a un’antica
    credenza giapponese – basterebbe una lunga passeggiata nel bosco;
  • La lavanda, comunemente utilizzata come deodorante
    per la biancheria, è un aroma naturale che può essere un ottimo alleato per la
    gestione dell’ansia;
  • dolore al ginocchio? Vuol dire che il tempo sta
    cambiando, secondo una leggenda tramandata di nonna in nonna che pensavamo
    francamente di esserci lasciati alle spalle da mezzo secolo, ma che ancora
    sopravvive su vari siti di naturopatia e di rimedi olistici, qualunque cosa
    questa parola voglia dire;
  • soffrite di qualche forma di depressione? Macché psicoterapista
    o psichiatra, date i soldi agli albergatori, e prendetevi una vacanza appena
    arriva la primavera e quasi sicuramenti si risolverà;
  • la luna può influenzare le piante (oltre a quelle, nient’altro?);
  • sono diverse le credenze popolari che svelerebbero
    prima del tempo il sesso del nascituro: mamma stressata durante la gravidanza?
    È più probabile che il fiocco sarà rosa;
  • grande classico, evergreen, “una mela al giorno
    toglie il medico di torno” (le banane invece non aiutano?);
  • basta essere innamorati per aiutare a prevenire
    l’influenza, altro che vaccini!
  • il consumo di pesce – una volta alla settimana –
    può rendere il sonno dei nostri bambini più piacevole… e addirittura renderli
    più intelligenti!
  • raffreddore? Ci pensa il rimedio della nonna per
    eccellenza, il brodo di pollo!
  • vuoi curare efficacemente un tumore? Non
    dimenticarti per nessuna ragione il Tasso (la pianta, non l’animale, ma in
    ognuno dei due casi si pattina sul bordo della denuncia penale per abuso di professione
    medica);
  • hai un malessere generalizzato, sei a disagio? C’è
    speranza per te: ascolta musica!
  • soffri di un disturbo mentale o fisico? Una visita
    a un museo può certamente esserti d’aiuto.
  • hai un’infiammazione? Niente di meglio che un po’
    d’incenso (qui sforiamo nel mistico…);
  • la notte porta consiglio (magari bastasse dormire…!).

Potremmo continuare a lungo, e spesso la gentilezza di un commento del
tipo “Nessuna
prova scientifica conferma l’utilità di questo rimedio per un problema di tal
genere”
serve a poco. Ben venga
allora il “metodo Burioni”: la scienza non è democratica, sei un ottuso
cretino, e l’unica soluzione è dirtelo, condannarti alla pubblica derisione, e immediatamente
dopo bannarti dalla pagina.

Dal canto mio, però, avevo già sollecitato il dibattito[2] su
quanto rischi di rivelarsi fallace l’applicazione acritica del metodo
“Evidence-base Medicine”, difeso ad oltranza – a volte rabbiosamente – da certi
“sacerdoti della morale scientifica”: ovvio, è l’uomo che sbaglia e truffa, non
certamente la scienza di per sé, ma un approccio meno arrogante e dogmatico –
specie da parte degli uomini di scienza – è probabilmente consigliato.

E se oltre che arroganti, fossimo davvero
paladini del metodo scientifico,
scopriremmo anche dell’altro.

Lo Shinrin-Yoku, il “bagno di foresta”, è praticato da secoli dai
giapponesi, i quali empiricamente gli hanno sempre attribuito benefici sulla
salute. La Nippon Medical School dell’Università di Tokio[3] ha
compiuto analisi su un campione di soggetti, scoprendo che l’interazione con la
natura è indispensabile agli esseri umani per mantenere un buon equilibro
psicologico ed emotivo, e – come l’epigenetica e gli studi hanno dimostrato –
questo riduce la produzione di ormoni dello stress – cortisolo e noradrenalina
– e aumenta anche la produzione di linfociti NK, quelli attivi contro i virus,
migliorando quindi le performance del sistema immunitario, il quale è
influenzato positivamente dai monoterpeni, i composti organici dall’odore di
resina emessi dagli alberi. “I linfociti
NK si moltiplicano infatti ogni qual volta vengono esposti a queste sostanze”,

ha confermato il Prof. Quing Li, che ha anche spiegato come per ottenere
effetti benefici non basti certo una “passeggiatina”: “Per arrivare a una dose minima attiva di monoterpeni, servono da 10 a
12 ore di passeggiata nell’arco di 3 giorni, con l’accortezza di scegliere
boschi che garantiscono un alto livello di questi elementi attivi, come foreste
di lecci, faggi e castagni, che specie in primavera-estate ne emettono anche
fino a 10 volte le normali conifere
”. Ma pensa tu questi giapponesi
bislacchi, che lo dicevano da un migliaio di anni. Cialtroni fino a ieri, ma
oggi che lo dice la scienza…

Il legame con la natura sembra fondamentale per il benessere
psicologico ed emotivo dell’uomo. Non a caso ci piace inalare il profumo dei
fiori, con cui, se possibile adorniamo la casa. Comunissimo l’utilizzo della
lavanda, deliziosa pianta ornamentale, che grazie al suo odore intenso viene
tradizionalmente utilizzata come deodorante per la biancheria ma anche come
repellente per insetti, bagni tonificanti ed infusi rilassanti. E se vi dicessimo
che l’olio essenziale di lavanda è un prezioso alleato nella gestione
dell’ansia? A dimostrarlo una ricerca condotta da un team di ricerca italiano[4] tra cui
figura Fabio Firenzuoli medico esperto in fitoterapia e fitovigilanza,
responsabile del CERFIT, Centro di Ricerca e Innovazione in Fitoterapia e
Medicina integrata. La ricerca, pubblicata sulla rivista Fitoterapia 33, era
volta a verificare l’efficacia della pianta nella riduzione dell’ansia procedendo
con una revisione sistematica della letteratura disponibile al fine di sintetizzarne
i risultati per verificare se l’uso tradizionale poggiasse su una base di evidenze
scientifiche. I risultati delle meta-analisi hanno mostrato che l’olio
essenziale di lavanda risulta efficace nel ridurre l’ansia se assunto per via
orale sotto forma di medicinale. Inoltre dalla ricerca è emerso che anche la
sola inalazione dell’aroma di olio essenziale di lavanda si dimostra efficace
nel ridurre l’ansia conseguendo che il tradizionale uso che se ne fa risulta
appropriato, utile ed un forte alleato per combattere lo stress.

Dolore al ginocchio e meteo? Il nesso tra dolori fisici e cambiamenti climatici è sempre stata una credenza popolare, ma – come hanno confermato vari studi pubblicati su riviste scientifiche e ben riassunti in chiave divulgativa in un lungo reportage dell’autorevole Wall Street Journal[5] – l’emicrania può aumentare quando piove, l’umidità può influire sui dolori muscolari e il freddo può incidere sulla circolazione sanguigna, aumentando il rischio di problemi cardiovascolari. Ma come ci vedevano lungo le nostre nonne!

Fatevi poi un nodo al fazzoletto per ricordarvi quando cadrà il prossimo
equinozio di primavera, giorno che segnerà l’inizio della stagione mite: il
freddo si allontanerà e le giornate si allungheranno. È da sempre credenza
comune che tutti questi fattori contribuiscano ad allontanare la tristezza: Giancarlo
Cerveri, psichiatra del Fatebenefratelli di Milano, ha confermato –
citando vari studi – come la primavera porti beneficio soprattutto per chi
soffre di “forme di depressione con un tipico andamento ciclico”[6],
grazie a una maggiore
esposizione alla luce solare, la quale provoca nel nostro organismo
maggiore produzione di serotonina, che come è noto è un potente modulatore
dell’umore, riducendo nel contempo la presenza di ormoni responsabili dello
stress, nonché aumentando la produzione di vitamina D, che ha effetti benefici
sul nostro corpo rinforzando le difese immunitarie, mediante un aumento della
produzione di globuli bianchi e un miglioramento generale del metabolismo.

E la luna? Oltre che riuscire ad alzare di metri il livello del mare,
pare avere qualche influsso anche sulle piante, che pur non avendo ovviamente
un complesso sistema nervoso centrale come gli animali, rispondono visibilmente
ai cambiamenti dell’ambiente che le circonda. Ad esempio “cercano” la luce, in
quanto massimizzare lo sfruttamento di essa per una pianta vuol dire vivere
meglio e crescere più in fretta, e i riflessi luminosi lunari durante la fase
di luna piena raggiungono un’intensità di 0.25 Lux, pari a una lampadina da 40
Watt posta a dieci metri di distanza; ma le piante sono sensibili anche alla
gravità – quella terreste sicuramente, ma ricordate? Metri di mare su e giù
ogni 6 ore… – come dimostrano i più recenti studi scientifici sul tropismo
vegetale[7].

La forma della pancia, la voglia di cibi particolari, malesseri
gravidici più o meno forti: le credenze popolari che svelerebbero prima del
tempo il sesso del nascituro sono tante e diverse, tramandate da una tradizione
orale mai supportata da fondamenti scientifici. Tuttavia, nel caso di una
recente ricerca, è proprio la scienza che identifica lo stress della futura
mamma come indice dell’arrivo di un maschietto o di una femminuccia. Ad
affermarlo uno studio pubblicato sulla rivista PNAS[8], the
Proceedings of the National Academy of Sciences, e condotto presso la Columbia
University Vagelos College of Physicians and Surgeons. La ricerca prevedeva un
campione di 187 gestanti, tra i 18 ed i 45 anni, alle quali è stato misurato in
modo “oggettivo” il livello di stress -sia fisico che mentale- utilizzando 24
indicatori diversi.Secondo i
ricercatori il fenomeno si spiegherebbe a livello embrionale: gli embrioni
maschi risultano più sensibili allo stress ambientale, mentre quelli femminili
sarebbero più resistenti. Dunque, vi è più probabilità che nasca una bambina
qualora la gestante fosse particolarmente stressata. Il 17% di loro soffriva di
stress psicologico -ansia e depressione in particolare- e il 16% di stress
fisico, con ipertensione o apporto calorico giornaliero molto elevato. La
maggioranza, il 67%, si sentiva rilassato. Tutte le donne visitate durante i 9
mesi hanno poi riempito un questionario con 27 indicatori e sono state
intervistate nuovamente dopo il parto. È emerso che in presenza di stress
fisico (caratterizzato da indicatori quali un eccessivo introito calorico
giornaliero o la pressione del sangue alterata) il rapporto tra i nati maschi e
femmine è 4/9, in favore delle femmine; se lo stress è psicologico
(caratterizzato, ad esempio, da disturbi depressivi e ansia) il rapporto è di 2
nati maschi ogni 3 femmine. La coordinatrice della ricerca Catherine Monk ha
affermato che “L’utero materno è il primo ambiente ‘condizionante’. Ha la
stessa importanza di quello in cui il figlio sarà allevato in futuro”, ricordando
come questo fenomeno sia stato osservato anche dagli esperti di demografia,
aggiungendo un dato significativo: “E’ stato evidenziato che nelle
catastrofi storiche, come gli attentati terroristici dell’11 settembre, il
numero di nati maschi è diminuito”.

Certamente non basterà una mela, per far riprendere queste mamme dallo
stress del parto…ma certamente le manterrà più in salute. L’equipe di dietisti
dell’Humanitas Gavazzeni di Milano[9] sottolineano
come la mela sia un frutto dalle capacità depurative, diuretiche – grazie
all’elevata quantità di potassio che contiene – e regolatore dell’attività
intestinale, poiché contiene fibre solubili e insolubili che regolano
l’intestino contrastando problemi come la stitichezza o, a al contrario, la
diarrea grazie alla presenza di tannino e alle pectine, che hanno proprietà
astringenti e protettive. Inoltre, la presenza di vitamina PP nel frutto aiuta
a regolare la permeabilità dei capillari e dei vasi linfatici, prevenendo
malattie come l’aterosclerosi e l’infarto. É ricca di flavonoidi – composti con
elevate capacità antiossidanti – che combattono la produzione di radicali
liberi e, quindi, l’invecchiamento precoce. Nella polpa, poi, si trova anche il
fitosterolo che contribuisce a bloccare l’assorbimento del colesterolo
alimentare, abbassando nel sangue la quota di colesterolo cattivo. Una delle ultime
ricerche coordinata dal Prof. Marco Romano[10], della
Divisione di Gastroenterologia del Centro Interuniversitario per la Ricerca su Alimenti,
Nutrizione e Apparato Digerente della II Università degli Studi di Napoli,
infine, non esclude che mangiare 2 mele al giorno possa svolgere un’azione
preventiva nell’insorgenza del tumore gastrico: i ricercatori hanno infatti
dimostrato che somministrando per via orale estratti di mela Annurca, si
avrebbe un significativo effetto protettivo a livello gastrico contro il danno
indotto dai radicali liberi o dai farmaci anti-infiammatori, grazie al
contenuto nella mela Annurca di composti anti-ossidanti quali catechina e acido
clorogenico.

E dopo aver contribuito a dare alla luce un pupo, i genitori non si
“dimentichino” dell’importanza dell’amore l’uno per l’altro: gli studi
scientifici[11]
dimostrano come un sentimento così piacevole come il sentirsi innamorati sia un
potente immunostimolante, in grado di rafforzare il nostro sistema immunitario
e incoraggiarlo a lavorare correttamente. L’innamoramento la fisiologia
endocrina e nervosa, aumentando la produzione di ossitocina/vasopressina, che
ci aiutano ad essere meno ansiosi, di feniletilamina, una vera e propria
scarica positiva per l’organismo che così aumenta la quantità di ormoni
sessuali, melatonina che aiuta il riposo e argina l’invecchiamento precoce,
norepinefrina, che stimola l’attenzione, e dopamina, un neurotrasmettitore che
ci rende più attivi ed euforici. Niente male, per quello che pareva essere solo
uno stato dell’umore!

E non discostandoci dalla cura degli infanti, i consigli alimentari delle
nostre mamme e nonne non differiscono da ciò che divulgano gli studi delle
scienze alimentari. Ad esempio il saggio ammonimento “mangia il pesce che ti fa
bene” garantiva ai bambini di dormire meglio ed essere più intelligenti. A
rivelarlo una ricerca svolta presso la University of Pennsylvania[12] e
pubblicata sulla rivista edita da Nature “Scientific Reports”.
La ricerca infatti afferma che il consumo di pesce
una volta a settimana nel piatto dei più piccoli migliora il sonno e potrebbe
aumentare il quoziente intellettivo. In passato diversi studi hanno collegato
la carenza di sonno a minori capacità cognitive nei bambini, nonché a disturbi
anti-sociali. Altri studi hanno collegato il consumo di grassi omega-3, di cui
è ricco il pesce, a migliore qualità del sonno e miglioramento dei disturbi
anti-sociali. I ricercatori Usa in questo studio hanno voluto vedere se in
qualche modo il pesce – proprio perché ricco di omega-3 – potesse rappresentare
un fattore nutrizionale chiave per migliorare sonno e capacità mentali del
bambino. La ricerca ha coinvolto 541 bambini di 9-11 anni in Cina, il 54% dei
quali maschi. I bambini hanno compilato questionari alimentari per valutare la
frequenza di consumo del pesce. I piccoli dovevano dire quante volte
mangiassero il pesce, da circa una volta a settimana a mai o quasi mai. I
rispettivi genitori nel frattempo hanno compilato un altro questionario, sulla
qualità del sonno dei loro bambini, rispondendo a domande su durata del sonno,
frequenza dei risvegli notturni, sonnolenza diurna. Infine i bambini sono stati
sottoposti a un test classico per misurare il quoziente intellettivo. Ebbene, è
emerso che i bimbi che dichiaravano di mangiare pesce almeno una volta a
settimana (a parità di altri fattori influenti quali condizioni socioeconomiche
della famiglia e livello di istruzione dei genitori) dormivano meglio e avevano
in media 4,9 punti in più di quoziente intellettivo rispetto ai coetanei che
non consumavano quasi mai il pesce. Secondo i ricercatori il nesso tra consumo
di pesce e intelligenza passa proprio per gli effetti positivi esercitati dal
consumo di questo alimento sul sonno che contribuirebbe, quindi, (attraverso il
suo contenuto in omega-3) a un migliore sviluppo cognitivo.

E ancora, come non dare ascolto alle nonne? il brodo di pollo, una
“coccola” nelle fredde giornate invernali, può essere anche una vera e propria
“medicina” in caso di raffreddore. Ha infatti un effetto antinfiammatorio, che
può alleviare le infezioni delle alte vite respiratorie. A evidenziarlo è uno
studio del Nebraska Medical Center di Omaha[13], negli
Usa, pubblicato sulla rivista Chest. Gli studiosi hanno preso in esame
specificamente il movimento dei neutrofili – un tipo di globuli bianchi nel
sangue, scoprendo che tale movimento risultava ridotto in presenza del brodo di
pollo, cosa che suggerisce un possibile meccanismo anti-infiammatorio che
potrebbe almeno teoricamente alleviare i sintomi del raffreddore. Infatti, la
riduzione del movimento dei neutrofili potrebbe ridurre l’attività nel tratto
respiratorio superiore che causa sintomi simili a questo così diffuso malanno
di stagione. Lo studio è stato condotto in laboratorio e non sull’uomo, perciò gli
studiosi avvertono che resta da vedere se si possano assorbire le sostanze che
sembrano avere effetti benefici in laboratorio. Tuttavia, può valere la pena di
provare: la versione dell’autore dello studio Stephen Rennard include gallina
stufata, una confezione di ali di pollo, 3 cipolle, 1 patata dolce grande, 3
pastinaca, 2 rape, 11 o 12 carote, 6 gambi di sedano, un mazzetto di
prezzemolo, sale e pepe a piacere. Anche un altro studio, condotto diversi anni
fa, aveva riscontrato dei benefici del brodo di pollo (anche grazie all’aroma e
alle spezie) nel riuscire a “pulire” le cavità nasali.

Tranquillizziamo anche i fan di Wired, i quali probabilmente già
invocavano l’arresto per abuso di professione medica: che la pianta del tasso
abbia proprietà antitumorali non lo dice chi scrive, bensì il Dott. Maurizio
Grandi, oncologo italiano di fama internazionale, che cita ricerche pubblicate
su Journal of American Chemical Society[14]:
il tassolo è un metabolita con un’efficacia statisticamente significativa, che
si esplica nella fase mitotica attraverso l’inibizione della depolimerizzazione
dei microtubuli, strutture intracellulari costituite da una classe di proteine chiamate “tubuline”.
Al di là dei tecnicismi propri del linguaggio dei ricercatori, è scientificamente
dimostrato che questo principio attivo – sia quello “naturale” che l’omologo
sintetizzato il laboratorio – è utile per integrare terapie anti-tumorali per
varie neoplasie, come canciroma ovarico, tumore mammario e melanoma.

Che dire poi di quei malesseri generalizzati
forse dovuti allo stress? C’è chi corre dal medico, e chi si attacca alle
cuffie, avendone ben d’onde. Da Beethoven ai Led
Zeppelin, ascoltare la musica preferita fa innescare il meccanismo di rilascio della
dopamina, e induce il cervello a rilasciare maggiori quantità di quell’ormone,
che genera a sua volta sensazioni di benessere, come ha confermato uno studio
scientifico della McGill University di
Montreal pubblicato su Nature
Neuroscience[15],
che
ha utilizzato scanner cerebrali su persone all’ascolto della loro musica
preferita paragonando i dati con quando i medesimi soggetti ascoltavano la
musica preferita da qualcun altro. Inoltre, la musica può essere un’efficace terapia analgesica,
aiutando a ridurre
il dolore cronico postoperatorio, come conferma un articolo su Journal Advanced Nursing[16], ed è efficace come i farmaci
ansiolitici: uno studio pubblicato sulla Revista
Espanola de Anestesiologia y Reanimacion[17],
ha
evidenziato come a metà dei pazienti sottoposti ad operazioni chirurgiche sia
stato assegnato l’ascolto della loro musica preferita e a metà l’assunzione di
farmaci ansiolitici, mentre gli scienziati registravano i dati relativi
all’ansietà e ai livelli dell’ormone umano dello stress, il cortisolo, con il
risultato che i pazienti che ascoltavano musica avevano la stessa diminuzione
dell’ansia e livelli di cortisolo rispetto a quelli trattati con i farmaci, con
buona pace dei produttori di ansiolitici, ai quali suggeriamo dosi massicce di…
musica.

L’arte e la cultura fanno bene
alla salute. Questo in Canada sembra un concetto largamente accolto dalla
comunità scientifica. Il primo novembre dello scorso anno, infatti, è stato
dato il via alla prima iniziativa al mondo che permette ai medici di
prescrivere una visita al museo come terapia per malattie del corpo e della
mente[18].
“Ci sono sempre più
prove scientifiche del fatto che la terapia dell’arte fa bene alla salute
fisica”, ha dichiarato la dott.ssa Hélène Boyer, vicepresidente dei Medici
francofoni del Canada e capo del gruppo di medicina di famiglia presso il CLSC
St-Louis-du-Parc. “Aumenta il nostro livello di cortisolo e il nostro
livello di serotonina. Quando visitiamo un museo
secerniamo ormoni e questi ormoni sono responsabili del nostro benessere. Le
persone tendono a pensare che questo sia positivo solo per problemi di salute
mentale. Che questo sia utile solo per le persone che sono depresse o che hanno
problemi di tipo psicologico. Ma non è così. È buono per i pazienti con
diabete, per i pazienti in cure palliative, per le persone con malattie
croniche. Dagli anni ’80 prescriviamo esercizi per i nostri pazienti perché
sappiamo che l’esercizio aumenta esattamente gli stessi ormoni. Ma quando ho pazienti
con più di 80 anni, ovviamente non posso prescrivere un esercizio per loro
“.Il Montreal Museum of Fine Arts ha dato via ad un progetto
pilota che dal novembre 2018 permette ai medici che sono membri di Médecins
francophones du Canada di inviare pazienti in visita al MMFA, consentendo agli
ammalati, accompagnati da operatori sanitari o familiari, di godere della
salute e dei benefici di un viaggio nell’arte. A ciascuno dei medici sono consentite fino a 50
prescrizioni museali nel corso del progetto pilota. Ogni prescrizione
consentirà l’ingresso per un massimo di due adulti e due bambini di età pari o
inferiore a 17 anni e sarà utilizzato per affrontare un’ampia varietà di
problemi fisici e di salute mentale. “L’idea è quella di migliorare il
‘benessere emotivo’ dei pazienti facendo appello alla loro sensibilità
artistica”, spiega Nathalie Bondil, direttore generale del Museo delle
Belle Arti di Montreal, “La nuova frontiera della cultura nel ventunesimo
secolo è fare quello che le attività fisiche hanno fatto per la salute
dell’uomo nei secoli passati”.

In ultimo, anche
se potrà generare stress ai più ortodossi, sottolineiamo come almeno un
vantaggio la “fede” lo dia: l’incenso in effetti cura le infiammazioni[19],
a prescindere dall’opinione dei saccenti utenti del web che non più tardi di
pochi giorni fa si sono scatenati in un thread di discussione su una nota
pagina Facebook “anti-complotto”, dando del ciarlatano a un utente che ne aveva
raccomandato l’uso. Gli acidi boswellici contenuti
nell’incenso, infatti, interagiscono con diverse differenti proteine che fanno
parte delle reazioni infiammatorie, ma soprattutto con un enzima che è
responsabile della sintesi della prostaglandina E2.

Se questo articolo vi ha disorientato, ricordatevi che la
notte porta consiglio: potete dormirci sopra e rileggerlo domani. Risolvere di mattina un problema lasciato in sospeso la sera precedente,
infatti, è un’esperienza comune, come sottolinea il noto precitato proverbio. “Questo detto popolare corrisponde
decisamente al vero”,
ha spiegato Angelo Gemignani, dell’Istituto di
Fisiologia Clinica del CNR. “Un
esperimento pubblicato su ‘Nature’[20]
ha dimostrato che il sonno facilita in modo significativo le capacità di
intuito: una notte di sonno, rispetto a un periodo di uguale durata di veglia,
agevola nel 60% dei soggetti sottoposti a test la risoluzione precoce di un
semplice problema”,
e uno studio pubblicato su ‘Biological
Psychiatry’[21]

ha rilevato un meccanismo analogo nel caso di ricordi emozionali. “Gli autori hanno ipotizzato che il REM,
la fase del sonno in cui si sogna, possa favorire a livello cerebrale un
ambiente fisiologico ideale per il miglioramento delle connessioni neurali alla
base della memoria emozionale”
, conclude il ricercatore.

Per concludere la nostra analisi – anche alla luce delle riflessioni che
quanto abbiamo illustrato sopra dovrebbero aver stimolato – occorre a questo
punto riflettere sul ruolo della comunicazione in scienza, e sul corretto
atteggiamento da tenere per chi ha l’ambizione di rivestire il ruolo del
“divulgatore”. Per farlo, torniamo per un attimo all’Inghilterra della
Thatcher, anni caratterizzati da crisi economica, malcontento popolare e
rifiuto delle “elites”, incluse quelle scientifiche.

Come ci ricorda un bell’articolo del medico e pubblicista Roberta Villa pubblicato sull’edizione italiana di Wired, in quel contesto, gli scienziati capirono “quanto poteva essere importante uscire dai loro laboratori ed entrare in contatto con la società, e lo fecero nel modo al loro più consono: mettendosi in cattedra”. Nel 1985, la Royal Society, che riunisce la crème del mondo scientifico di Oltremanica, produsse un documento intitolato The Public Understanding of Science[22]. In 46 pagine di analisi e proposte concrete, il testo rifletteva le basi dell’approccio che negli anni successivi avrebbe dominato la comunicazione della scienza: il cosiddetto deficit model. Secondo questa teoria piuttosto datata, che oggi, dopo oltre trent’anni, qualcuno in Italia vorrebbe rispolverare, l’ostilità di parte del pubblico nei confronti di alcuni avanzamenti della scienza dipenderebbe dalla mancanza delle informazioni necessarie per comprenderla e apprezzarla: “se i ricercatori, la scuola, i media, gliele fornissero – scrive la Villa – la gente imparerebbe ad apprezzare il valore culturale della scienza, non meno che dell’arte o della letteratura, tutti acquisirebbero una conoscenza sufficiente per condividere e sostenere le richieste dei ricercatori, anche a livello politico, i finanziamenti alla ricerca finalmente aumenterebbero. Nei campi in cui queste nozioni hanno poi un impatto sulla vita concreta delle persone, dalla salute all’agricoltura, dalla chimica all’ambiente, colmare il gap tra esperti e gente comune dovrebbe bastare a far cambiare anche i comportamenti, sulla base delle nuove nozioni acquisite“. Nel tempo però, è apparso evidente che le cose sono un po’ più complicate di così.

Le informazioni che riceviamo sono infatti accolte ed elaborate in maniera diffrente anche in relazione al nostro background culturale e socialeal nostro sistema di valori e credenze, alle esperienze che ciascuno di noi ha avuto direttamente, di cui è stato testimone, o che gli sono state raccontate. Ogni comunicatore – in particolare se si occupa di scienza – sa bene che di tutte queste cose deve tenere conto, adeguando il messaggio e il suo tono al target che desidera raggiungere e al canale che sta utilizzando. “Mettersi in cattedra”, quindi, può andar bene in un’aula universitaria, dinnanzi a studenti che per il semplice fatto di essere lì riconoscono al professore un’autorità e un potere, ovvero questo approccio dall’alto al basso può essere rassicurante per persone confuse e con pochi strumenti culturali, che trovano un punto di riferimento forte a cui affidarsi; ma per contro può diventare invece controproducente se si ha a che fare con un pubblico più colto e mediamente preparato, come molti dei genitori che, proprio per aver cercato di informarsi il più possibile per valutare le scelte sanitarie più opportune per i propri figli, “sono incappati in fonti inattendibili che hanno instillato in loro dubbi o paure”, come ci ricorda sempre Villa nel suo articolo.

Andrea Grignolio, storico della medicina, nel suo libro “Chi ha paura dei vaccini?”[23] porta a riflettere su quante circostanze sociali e individuali, oltre ai bias neurocognitivi, hanno favorito la diffusione di atteggiamenti esitanti nei confronti delle vaccinazioni. Se un genitore ha timori profondi legati a una sua alterata percezione del rischio, ad esempio in seguito a scandali che hanno realmente coinvolto aziende farmaceutiche oppure rappresentanti di istituzioni sanitarie che si sono rivelate corrotte, ha perso fiducia in queste autorità; oppure se è rimasto segnato dal racconto o dall’esperienza personale di una  disabilità erroneamente attribuita a una vaccinazione, non sarà certo facendogli una lezione di immunologia, deridendolo o insultandolo che gli si potrà fare cambiare idea. “Le evidenze – aveva dichiarato a Wired proprio Grignolio in un’intervista – ci dicono che sfidare le persone esitanti o contrarie ai vaccini non serve, come accennato sopra: il rischio è quello di radicalizzare le posizioni contrarie. Limitarsi a dire “Non è così, io ho ragione e tu torto”, è sbagliato, rischia di diventare uno scontro di identità in cui le nuove informazioni non fanno che aumentare le posizioni contrarie”.La sfida, molto più difficile, consiste quindi nel fornire a chiunque, in relazione alle sue possibilità, gli strumenti per fare scelte consapevoli e, possibilmente, scientificamente fondate: questo è l’empowerment del cittadino e del paziente, un nuovo modello, che prevede il coinvolgimento del pubblico non più visto come un “contraltare passivo” da riempire di informazioni, ma come un interlocutore attivo, con il quale interagire a vantaggio di entrambe le parti. Queste considerazioni sanciscono il passaggio dal vecchio modello PUS al nuovo modello PEST: Public Engagement with Science and Technology.

“Si tratta di un cambiamento totale di prospettiva”, sostiene giustamente Villa, che vede comuni cittadini collaborare con i ricercatori (potremmo definirli – in modo forse originale ma ben centrato – “citizen science”?) e i pazienti poter dire la loro negli indirizzi di ricerca degli scienziati, nient’altro, in fondo, che “un’estensione di quella multidisciplinarietà che ha portato fisici, ingegneri ma perfino filosofi nei laboratori di biologia molecolare, con la consapevolezza che chiunque può essere portatore di un piccolo pezzo del puzzle della conoscenza umana, di cui sarebbe un peccato privarsi”. A sancire questo cambio di rotta è arrivato nel 2017 il documento della National Academies of Sciences, Engineering [24] and Medicine statunitense, un’agenda, concordata da scienziati e comunicatori della scienza, che parte da un punto fermo: la comunicazione della scienza è un compito complesso, non riducibile alla dinamica «Se la pensi diversamente da me che sono un esperto sei solo un ignorante».

Tutto ciò dimostra la fallacia del metodo Burioni secondo cui “La scienza non è democratica”. In
questo caso si confonde la democrazia come processo elettorale, con la
democrazia come partecipazione comunitaria. Come scrive il giornalista
scientifico Pietro Greco, “La società
della conoscenza è caratterizzata dall’espansione della scienza e
dall’espansione della democrazia, in un processo in cui le due dimensioni non
sono più separate”.
E aggiunge: “La
scienza, anche in termini epistemologici, ha valori intrinsecamente
democratici. Fin dalla rivoluzione del Seicento, i membri della comunità
scientifica raggiungono un consenso razionale di opinione intorno ai fatti
osservati nel mondo”.

Per dirla con le parole di Jane Gregory[25], della
London University: “Il pubblico ci ha
insegnato una lezione utile rifiutando di cooperare con scienziati che li
trattavano come idioti. È un peccato che così tanti dei nostri scienziati di
spicco abbiano causato così tanta irritazione tra persone precedentemente
amichevoli verso la scienza. Molti di noi che lavorano in questo campo in Gran
Bretagna sperano che il recente rapporto della Camera dei Lord renderà gli
scienziati consapevoli del fatto che devono guadagnare il loro posto come una
delle tante autorità della società. È tempo di riconoscere che la nostra prima
enfasi sull’apprendimento pubblico da parte degli scienziati era fuori luogo e
che ciò di cui abbiamo bisogno è che gli scienziati imparino dalle persone”

Quindi, se volete evitare di fare la figura degli utili idioti al servizio di un certo paludato mainstream, invece di adeguarvi all’atteggiamento di chi non ama essere contraddetto e fa salire i toni fino all’insulto, o di deridere con supponenza degli altri cittadini sui Social o nello spazio commenti di qualche tronfio giornale divulgativo con ambizioni da pubblicazione scientifica, fate una lunga passeggiata nel bosco, mangiando mele ed ascoltando musica, e forse, d’improvviso, vi coglierà una soprannaturale illuminazione: non tutto ciò che oggi ignorate va gettato nella spazzatura.

AGGIORNAMENTO del 18/08/22, h 11:15: leggo da un articolo pubblicato su Repubblica Salute che l’arte di manipolare e trasformare i metalli – nata nell’Egitto greco-romano del I secolo d.C., è stata “promossa” da pseudoscienza a protoscienza: le pratiche dell’alchimia, dice uno studio [26] dell’università di Bologna pubblicato su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences, una delle riviste scientifiche più note a livello internazionale) pare affondino infatti le radici nella chimica, e per essere più precisi nella meccano-chimica (reazioni chimiche provocate, invece che dall’incontro tra diversi elementi, da forze meccaniche). Coordinati dal Prof. Matteo Martelli del Dipartimento di Filosofia e Comunicazione, chimici e storici della scienza hanno ripreso antichi testi alchemici riproducendo in laboratorio varie ricette e procedure, per esempio quella dell’alchimista Zosimo di Panopoli (III-IV sec. d.C.): pestare polvere di cinabro e rame con acido acetico per ottenere gocce di mercurio. Esperimento riuscito! Prima di Zosimo, altri avevano usato mortai e pestelli in rame, applicando questi principi meccanici per modificare le chimica degli elementi: i ricercatori dell’ateneo emiliano sono anche riusciti, ad esempio, a ricavare mercurio a caldo come prescritto da Dioscoride (I sec. d.C.), riscaldando polvere di cinabro messa su una piastra di ferro in un recipiente chiuso di alluminio. Grazie allo studio approfondito e senza pregiudizio degli antichi testi, è stato infatti riscoperto l’uso del Natron, minerale del sodio, che in Egitto era adoperato per purificare i corpi dei defunti, e che gli alchimisti usavano a loro volta per purificare il mercurio dal cinabro. Un’ulteriore lectio della scienza per mettere a tacere gli ottusi scientisti, quelli che deridono sistematicamente di chi si pone domande, e liquidano qualunque sforzo di progresso della conoscenza in materie borderline e unconventional con un “se non è stato (già) provato, non è vero, e non sarà mai vero”: la scienza procede per dubbi, e non per certezze acquisite, non dimentichiamolo mai…

Bibliografia e sitografia

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NOTE

[1] https://creatoridifuturo.it/curiosita-e-miscellanea/le-bolle-informative-nelloceano-digitale/

[2] https://creatoridifuturo.it/comunicazione/comunicazione-non-convenzionale/lin-fallibile-scienza/

[3] Li, Q.  et al. Forest
bathing enhances human natural killer activity and expression of anti-cancer
proteins. Int J Immunopathol Pharmacol
. 2007; 20:3–8.

[4] Donelli D. et al., Effects of lavender on anxiety: a systematic
review and meta-analysis
, Phytomedicine, 2019

[5] Beck M., How Your Knees Can Predict the Weather Granny was right: Scientists
find link between achy joints and the forecast
, Wall Street Journal, 2013

[6] Si vedano gli studi: Spindelegger
C. et al., Light-dependent alteration of
serotonin-1A receptor binding in cortical and subcortical limbic regions in the
human brain
, Department of Psychiatry and Psychotherapy, Medical University
of Vienna, Vienna, Austria, 2011; Terman N. e Terman J.S, Light Therapy for Seasonal and Nonseasonal Depression: Efficacy,
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, Indiana
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[7] Si vedano gli studi: Björkman
T., Perception of Gravity by Plants,
Advances in Botanical Research
, Volume 15, pp. 1-419, 1989; Shad W., Lunar Influence on Plants, University
WitteniHerdecke, Germany, 2001

[8] Walsh K. et al., Maternal prenatal stress phenotypes
associate with fetal neurodevelopment and birth outcomes
, National Academy
of Sciences, PNAS, 2019

[9] Redazione Humanitas Salute, lo
dicevano i nonni sarà vero?, in https://www.humanitasalute.it/in-salute/dieta-e-alimentazione/63251-a-tavola-lo-dicevano-i-nonni-ma-sara-vero/

[10] Fini L. et al., Annurca Apple Polyphenols Have Potent
Demethylating Activity and Can Reactivate Silenced Tumor Suppressor Genes in
Colorectal Cancer Cells
, The Journal of Nutrition, Volume 137, Issue 12,
2007, Pp. 2622–2628

[11] Si vedano gli studi: Porges
S.W., Love: an emergent property of the
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, Psychoneuroendocrinology, Volume 23,
Issue 8, 1998 Pp 837-861; Esch T. e Stefano G. B.,The Neurobiology of Love, Neuroendocrinology Letters No.3 June
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[12] Liu J. et al. (2017), The
mediating role of sleep in the fish consumption – cognitive functioning
relationship: a cohort study, Scientific Reports volume 7, Article number:
17961, 2017

[13] Rennard S.I., Free Range Chicken Soup, Chest Journal
Volume 119, Issue 6, 1976

[14] Mansukhlal C. Wani et al., Plant antitumor agents. VI. Isolation and
structure of taxol, a novel antileukemic and antitumor agent from Taxus
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[15] Salimpoor V.N. et al., Anatomically distinct dopamine release
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[16] Chanda M.L. e Levitin D. J., The neurochemistry of music, Review
Feature Review, 2013

[17] Moix J. et al., Estudio comparativo de la eficacia de la
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, Revista española de anestesiología y
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[18] Kelly, B., Doctors can soon prescribe visits to
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[19] Siddiqui M. Z., Boswellia Serrata, A Potential
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[20] Wagner U et al., Sleep inspires insight, Nature volume
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[21] Wagner U. et al., Brief Sleep After Learning Keeps Emotional
Memories Alive for Years
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Pp 788-790

[22] Durant, J.R., et al. The
Public Understanding of Science. Nature, Vol. 340, pp.11-14.

[23] Grignolio A., Chi ha paura dei vaccini?, Tempi
Moderni, Codice, 2006

[24] Evans G.A. and J. Durant
J.(1995), The Relationship Between
Knowledge and Attitudes in the Public Understanding of Science in Britain
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[25] Gregory J. and Miller S., Science in Public: Communication, Culture and Credibility, New York: Plenum, 1998

[26] W. R. Newman, L. M. Principe, Alchemy vs. chemistry: The etymological origins of a historiographic mistakeEarly Sci. Med. 3, 32–65 (1998).