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Il colore parla al cervello

Il colore parla al cervello

Il neuromarketing ci spiega come usarlo (bene) per comunicare meglio

Nel percepire e identificare a livello visivo il mondo che ci circonda, il nostro cervello segue una gerarchia ben precisa: sono i colori, prima delle forme, delle parole, dei numeri, a comunicare al di sotto della soglia della razionalità una serie di messaggi e significati che per noi è istintivo riconoscere.

È così che Luca Florentino, ceo di Ottosunove, agenzia di comunicazione che si avvale di neuromarketing e behavioural science per fornire insight strategici per business e comunicazione, in occasione della tappa di Sassuolo (MO) del Festival della Crescita, lo scorso 8 novembre ha introdotto e dimostrato come i colori rappresentino lo stimolo più potente per evocare e catturare la nostra attenzione, creando un immediato e profondo coinvolgimento emotivo.

Come fare a capire quali colori comunicano in maniera corretta il nostro messaggio e il nostro prodotto? La risposta la dà il neuromarketing, in grado di implementare le più diffuse indagini di mercato con una validazione scientifica che certifica l’efficacia degli sforzi di comunicazione e marketing. Grazie a strumenti all’avanguardia, in grado di misurare la risposta non conscia delle persone, il neuromarketing può infatti provare quali sono gli stimoli che hanno attivato a livello cerebrale i consumatori, quelli che sul punto vendita possono motivarli verso una scelta d’acquisto piuttosto che un’altra. Tra questi, gli input visivi sono tra i più forti e determinanti.

Si potrebbe dire che la vista sia il senso più stimolato nella comunicazione: come l’udito, non richiede infatti un contatto fisico per suscitare interesse. Basti pensare che le persone esprimono giudizi non consci su un ambiente, un prodotto o una persona entro novanta secondi dalla prima interazione e che dal 62 al 90% dei casi questo giudizio dipende dal colore (US Institute of Color). Il colore, inoltre, può motivare fino all’85% la scelta di un prodotto piuttosto che un altro. Un insight decisivo per implementare, rendere più efficaci e migliorare le strategie di business, che il neuromarketing può fornire ai brand per stabilire se un elemento visuale sia effettivamente performante come nelle intenzioni.

Per esperienza personale e background culturale, ha ulteriormente specificato Florentino, i colori assumono significati precisi e differenti: il cervello integra le informazioni provenienti dal mondo esterno con quelle già apprese e immagazzinate. Su questa base, ogni colore rimanda istintivamente la nostra mente a una serie di immagini e associazioni che conserviamo nella memoria, dando forma a precise aspettative. È così che il rosso diventa il colore dell’attrazione e della passione, il nero quello del lusso, il viola rimanda all’ambito spirituale o il giallo all’energia. È bene tenerne conto, anche in base a ciò che un brand vuole comunicare.

Com’è ovvio, però, i colori non sono mai percepiti da soli. Che si tratti di un prodotto su uno scaffale, di un ambiente espositivo o del logo di un brand, la nostra percezione è sempre multisensoriale. Ciò significa che il colore, sebbene potenzialmente già di per sé fortemente evocativo e comunicativo, si rafforza in relazione ad altri elementi che compongono ciò che abbiamo di fronte, nonché al contesto in cui ci viene presentato.

Proprio per questo i brand, ad esempio in occasione del lancio di un nuovo prodotto, devono tenere in conto che il colore del packaging dovrà non solo essere coerente con l’identità e la brand image dell’azienda, ma anche spiccare e distinguersi su uno scaffale di uno Store, tra i prodotti della concorrenza. Questo si aggiunge a un altro obiettivo:  evocare e accrescere la familiarità e le associazioni non consce che il proprio nome, logo e prodotti sono in grado di richiamare nel pubblico.




Giappone. Neanche un euro per una notte in un ryokan. Ma entri in un reality

Giappone. Neanche un euro per una notte in un ryokan. Ma entri in un reality

La singolare iniziativa del giovane proprietario di un albergo tradizionale di Fukuoka. In una delle stanze della struttura telecamere trasmettono 24 ore al giorno su Youtube. Niente audio e bagno ovviamente escluso. Il titolare: “Vogliamo far parlare di noi”

L’idea è bizzarra. Eppure sta avendo un gran successo. Chi visita il Giappone e viaggia con un budget ridotto, ora ha la possibilità di dormire in un hotel praticamente gratis. Costa solo un dollaro a notte (circa 80 centesimi di euro), infatti, soggiornare all’Asahi Ryokan di Fukuoka, un albergo tradizionale, una di quelle antiche locande giapponesi con le porte scorrevoli, i tatami, l’ambente essenziale e i futon a terra. Il Ryokan è stato da poco soprannominato One Dollar Hotel, cosiddetto per bassissima tariffa che sta proponendo ai suoi ospiti.

Ma c’è un ma, ovviamente. Per godere di questo straordinario prezzo bisogna sottostare a una regola: farsi riprendere ventiquattro ore su ventiquattro. La tariffa riguarda la camera numero 8, dove si paga solo un dollaro, ma si diventa protagonisti dello streaming live dell’albergo, trasmesso su YouTube.

Giappone, la camera in hotel costa solo un dollaro: ma a una condizione

L’idea è del giovane proprietario Tetsuya Inoue, che cercava un modo per guadagnare di più con la sua struttura, che diversi mesi l’anno resta sfitta. L’hotel, infatti, si trova nella tranquilla zona di Fukuoka, nell’isola meridionale di Kyushu. “Ho cercato di lanciare un nuovo modello di business”, ha spiegato il quasi trentenne Inoue. La trovata gli è venuta quando l’hotel ha ospitato un ragazzo inglese, che ha filmato e trasmesso in diretta web su YouTube la sua permanenza nell’albergo, facendogli una gran pubblicità.

Chi decide di provare questa esperienza, e risparmiare parecchio, deve sottostare ad alcune regole: anzitutto è vietato oscurare le telecamere, ma è consentito spegnere la luce (le riprese a infrarossi continueranno a registrare). In camera si viene filmati sempre e comunque, ma non in bagno, dove non esistono telecamere. Vietato vestirsi, spogliarsi e cambiarsi nella stanza, meglio usare la toilette. Bisogna prestare estrema attenzione a non mostrare mai documenti, biglietti da visita o qualsiasi altro oggetto che sveli l’identità dell’ospite. Lo streaming non ha audio, quindi le conversazioni restano private. A proposito di privacy: bisogna mantenere un atteggiamento sobrio, “vietati gli atti osceni”, ammonisce un cartello sulla porta.

Giappone. Neanche un euro per una notte in un ryokan. Ma entri in un reality

“Il mio è un ryokan molto tradizionale”, chiarisce Tetsuya Inoue, “uno degli indirizzi più economici di tutta Fukuoka, volevamo attirare l’attenzione e offrire qualcosa in più rispetto agli altri hotel della zona, cosicché tutti ne parlassero”.

Dietro le quinte non c’è niente di losco quindi. Si tratta di una trovata pubblicitaria, per far conoscere al mondo l’Asahi Ryokan. E, a giudicare dal tam tam dei media e dei social, l’idea sta funzionando. Il canale di YouTube con lo streaming della Room 8 sta registrando decine di migliaia di visualizzazioni. E le prenotazioni della One Dollar room sono già alle stelle. Un gran successo.




Di “Purpose” e “Talent” ne abbiam piene le slide.

Di “Purpose” e “Talent” ne abbiam piene le slide.

I vocaboli che arricchiscono le presentazioni ma nascondono una cultura manageriale non più sostenibile

Prima Scena: effetto giorno, la location (posizione) è una porzione di hotel destinata ai convegni. Panoramica del luogo: ampia sala popolata da stand di vario genere in cui su rollup multicolore e sfondi prestampati spiccano termini moderni a supporto di pratiche obsolete: “gamification”, “videocv”, “app”, “welfare”, training”…

La telecamera stringe il campo ed entra in una delle due sale destinate al primo intervento della giornata, proprio mentre l’organizzatore ha finito di leggere il fitto programma di interventi e la biografia del primo speaker.

Questi si alza in piedi, invitato sul palco dal moderatore, fra gli applausi dell’audience formata in parte da qualche (suo) collega ma  per la stragrande maggioranza da spacciatori di servizi che notoriamente popolano qualsiasi convegno contenga nel titolo la parola “HR” fintamente interessati all’intervento in corso, ma abili predatori pronti ad appioppare il loro biglietto da visita ed una promessa di incontro nei prossimi giorni, non appena il relatore scenderà dal palco, congratulandosi con lui per l’ intervento ricco di spunti.

Per il momento la futura preda è salita sul palco, impugna l’apposito attrezzo preposto al giramento di slide e ha già speso i primi 15 minuti ad impressionare la platea con numeri e fatturati che nei successivi 15 tutti avranno dimenticato, si è un pò incastrato col computer, “la tecnologia non ci aiuta” ha detto lui che viene da un’azienda ad alto tasso di “industria 4.0”, ma alla fine è riuscito anche a far partire il consueto filmino corporate da 7 minuti obbligatoriamente in inglese per farvi capire meglio di cosa parliamo (neanche avesse finito di spiegare qualche concetto di fisica quantistica). E finalmente entriamo nel cuore della case history, motivo per il quale il Nostro è stato invitato ad esporre a questo Convegno su la gestione dei talenti.

Un “progetto” durato un anno per la selezione di tre “internship” (stagisti) selezionati all’interno delle maggiori università europee attraverso un “contest” (concorso) che ha coinvolto oltre 600 neolaureati e tutto il board aziendale (la dirigenza) in una serie di assessment (interviste) che hanno portato all’individuazione dei tre giovani talenti che per sei mesi avranno l’opportunità di fare la loro prima esperienza aziendale. Alla domanda: “ma poi li assumerete?” la risposta arriva precisa come un colpo di lama spuntata dato a casaccio. “Al momento non abbiamo budget per assumere in quella business unit (dipartimento), ma in futuro chissà

La seconda scena è ambientata in un ufficio. Anzi, in più uffici.

Marco, in 16 anni è cresciuto molto, non tanto per livello e stipendio, quanto nelle competenze acquisite con i clienti al punto tale che si è guadagnato sul campo e grazie ai risultati ottenuti, il ruolo di Key Account di una delle più importanti aziende di servizi del nostro Paese. Ogni giorno si confronta con i clienti strategici, disegna offerte molto complesse in cui i tecnicismi del prodotto incidono in modo considerevole. La configurazione di un’offerta per il suo mercato può garantire all’azienda margini elevati oppure rischiare di lavorare in perdita a causa dell’incidenza del costo delle manutenzioni.

Da circa 3 anni il direttore del suo reparto è in odore di pensione e siccome Marco è già da un pò che scalpita per ottenere un ruolo di responsabilità ufficiale, l’azienda riconoscendone tanto i risultati quanto le capacità lo mette “in posizione“, promettendo e rassicurandolo periodicamente sul passaggio di ruolo, che dicono essere niente più che una pura formalità. Dopo neanche un mese dall’ultimo colloquio, Marco è stato convocato dal suo capo diretto, il quale ha azzeccagarbugliato qualcosa relativo ad un nuovo modello di organizzazione “agile” per cui il ruolo del direttore non è più contemplato.

Le strategie cambiano velocemente a quanto pare e le visioni sono sempre più a breve termine.

Nel preciso momento in cui sto leggendo su Linkedin il post del giorno, abilmente pubblicato dal social media manager dell’azienda di Marco, che riguarda l’importanza di valorizzare i collaboratori. Seguito da quello in cui si pubblicizza un’intervista dell’ AD su un giornale nazionale a proposito di  “Innovazione organizzativa, miglioramento continuo, purpose dell’impresa, formazione e welfare aziendale”.

Un minestrone ricco di additivi e poca sostanza.

Anche ad Emanuela hanno fatto lo stesso discorso.

In una delle più importanti aziende alimentari del Centro Italia, il capo di Emanuela lascerà l’azienda a marzo ed è stato proprio lui a indicarla per la sua successione e a costruire con lei un piano di crescita negli ultimi 5 anni affinchè desse continuità all’area. Evidentemente non è bastato aver lanciato progetti straordinari  in cui sono state coinvolte le “unit” di tutto il mondo, aver vinto ogni anno il bonus per il raggiungimento dei risultati. Ad Emanuela è stata preferita una collega più giovane con una vision più internazionale che nessuno ha spiegato precisamente in cosa consista.

Stefano è uno dei massimi esperti di lean management.

Impegnato in una di quelle aziende di tecnologia i cui prodotti sono nelle tasche o sulle scrivanie di ognuno di noi. Recentemente ha anche scritto un libro sulle organizzazioni e viene invitato ad intervenire in convegni di grande prestigio e nelle università. Gli è stato proposto di confezionare uno di quei TEDx che possano ispirare i manager di tutto il mondo e il suo libro in 3 mesi è alla seconda ristampa. Ma la sua azienda o forse solo il suo capo, gli ha vietato di partecipare a qualsiasi tipo di evento pubblico anche solo a titolo personale.

Potrei andare avanti per ore a parlare di progetti senza senso spacciati per case history o storie di dipendenti illusi e spesati con argomentazioni senza significato (per l’appunto, “il purpose”). Per non parlare di quei career day in cui le aziende appoggiano un tavolino presidiato da risorse junior a raccogliere centinaia di cv di candidati al solo scopo di promuovere un brand, ma che alla domanda “fatturato e dipendenti?” o peggio “quali figure state cercando?” iniziano a balbettare come bambini pescati con le mani nella marmellata. Senza “purpose”, per l’appunto.

Ma vorrei fermarmi qui, per lanciare un appello ad ogni lettore ogni qualvolta sentirà parlare a sproposito di talenti da un signore che di talentuoso non ha assolutamente nulla e anzi, propone progetti costosissimi e processi che non hanno senso. Ogni volta che troverete una ricerca per “Talent Acquisition Manager” dove non viene spiegato da nessuna parte che piano di crescita viene proposto ad un candidato individuato come “talento”.

Ma soprattutto: come si riconosce un talento fra coloro che fino a ieri erano dietro un banco di scuola e quali sono le caratteristiche che deve avere un talento oltre ad essere sotto i 25 anni e costare meno di 25000 euro lordi annui?

 Qual è il senso di  continuare a perdere collaboratori che hanno dato il cuore per l’ azienda accompagnandoli all’uscita quando una volta li chiamavamo “talenti”?

Perché c’è un dato di fatto, misurabile e insindacabile: ci sono grandi aziende, quelle che amano raccontarsi nei convegni con le slide approvate dall’ufficio comunicazione su un formato stabilito dall’IT, che sono le prime che rendono inspiegabili i loro comportamenti. Sono quelle con le vision e le mission incorniciate nelle reception a fianco ai feticci dei Best Place to Work, i Top Employer Branding e i premi assegnati da fornitori e società di consulenza a cui hanno pagato le consulenze e si spera continuino a pagarne anche per il prossimo anno. Ma intanto diamogli un premio.

Sono quelle che amplificano i casi di successo ma nascondono i collaboratori di successo.

Sara negli ultimi 5 anni è stata la bandiera dell’innovazione della sua azienda.

Ha inventato un “job title” moderno e ci ha scritto pure un libro, vendutissimo. Non si contano i convegni, gli incontri con i ragazzi, le ospitate nelle aziende e nelle università in cui a fianco al suo nome è comparso quello della sua azienda, che nel frattempo di innovazione ne ha fatta ben poca. Per la sua azienda ha accettato anche di lavorare più lontano, innamorata com’era.

Ha reso simpatica la multinazionale di lavoro interinale per cui lavorava e le ha dato una visibilità importante a costo zero, spesso spiegando meglio dei manager strapagati, di investimenti pubblicitari e sponsorizzazioni (sempre le stesse, sempre negli stessi posti) quale fosse il vero senso del suo mercato.

Ma quando a causa di scelte strategiche si è dovuto tagliare qualche collaboratore, l’azienda innovativa ha preferito lasciarla a casa e dare spazio a chi dava meno significato, e certamente anche meno costi. In tre mesi Sara ha trovato di nuovo un lavoro, senza cercarlo.

Di talenti e significati mi sembra siano piene le slide dei convegni, ma in azienda si fa ancora fatica a trovare pareti dove proiettarle.




La Good Land di Cavazzoni: «La mia agricoltura etica che fa bene ai lavoratori»

La Good Land di Cavazzoni: «La mia agricoltura etica che fa bene ai lavoratori»

La nuova avventura professionale dell’imprenditore che portò ai vertici Alce Nero

Si chiama Good land la nuova avventura professionale di Lucio Cavazzoni. Dopo aver portato ai vertici Alce Nero («insieme a tanti altri», ci tiene a specificare), si fermò per una profonda riflessione. Ha fatto l’esatto contrario del più semplicistico «squadra che vince non si cambia» e si è rimesso in gioco. In un cammino all’interno del quale nel tempo «ho provare a progredire». Le sue riflessioni che guardano al contempo indietro e verso il futuro lo hanno dunque portato a fondare Good land. Il progetto è stato presentato ufficialmente martedì. Si tratta di una start up innovativa agricola, che ha già lavorato e realizzato il primo prodotto in collaborazione con l’associazione No Cap, no caporalato, e che ha una profonda attenzione «all’ambiente e alle persone» e al tema dei diritti ai lavoratori .

Cavazzoni, partiamo dal nome ben augurante che vi siete dati. «Il nome l’ho preso dalla tribù degli indiani nativi americani Lakota (parola che significa “amici”) che quando vennero deportati dalle Black Hills in un territorio chiamato Badlands (terre cattive), perché impraticabili, un territorio fatto di terreni argillosi al 100%, non si sono arresi perché sostenevano che non esistono terre cattive: la terra è sempre madre e sorella. Un messaggio forte, positivo. Bello».

Lo scopo di «Good land» invece? «È uno solo: realizzare progetti che abbiano un forte impatto ambientale e sociale. La gestione delle risorse umane e naturali di questo pianeta si preoccupa soltanto di prendersi tutte le risorse, consumarle fino all’osso, distruggendole e non pensa alla loro rigenerazione. Vogliamo essere avamposto di un nuovo modello di impresa che unisce nella sua missione il proprio core business insieme alla protezione e alla riparazione, alla rigenerazione a partire dal proprio territorio».

Non semplice… «Certo, ma si può fare. Società e ambiente non possono essere legati ad un banale bilancio sociale, ad una azione di marketing».

I vostri primi obiettivi? «La nostra è una start up aperta. Per ora ci occupiamo di terre, come quasi tutto il nostro Appennino, terre fra le più abbandonate, più fragili e marginali. Significa costruire su questi territori, insieme alle persone che vi vivono, dei progetti, lavorare dei prodotti che siano in grado di portare economia, valore, salute ambientale ai territori stessi. In Appennino stiamo lavorando sul latte di pascolo e da fieno e sui grani antichi autoctoni».

Nel frattempo avete però presentato il vostro primo prodotto, il pomodoro No Cap. Ci racconti la storia. «Lo abbiamo realizzato insieme all’associazione che si batte contro il caporalato, ed è lo specchio della nostra missione e del progetto di Good land. In un territorio difficile come l’entroterra foggiano una importante cooperativa agricola bio ha accettato di realizzare la raccolta a mano di più di venti ettari di pomodoro per la durata di un mese e mezzo, con decine di lavoratori provenienti dai ghetti del territorio circostante, che pochi sanno essere una ventina nella capitanata. A questi braccianti è stato garantito con il lavoro organizzativo di No Cap, con l’aiuto di amministrazioni, un tetto sotto cui riparare, servizi, trasporti, visita medica preventiva come prevede la legge, con l’aggiunta di bagni chimici in aperta campagna. Questo prodotto è la dimostrazione che è possibile con costi accessibili realizzare produzioni pulite e giuste nella retribuzione e nel valore del lavoro».

Ci aiuta a capire meglio la differenza di costo della mano d’opera, fra legalità e illegalità in questo caso specifico? «Un’ora di lavoro pagata secondo le tariffe sindacali costa all’azienda 11,70 euro di cui 6,50 netti arrivano al bracciante per sei ore e mezza al giorno lavorativo. La gestione dei caporali sullo stesso territorio prevede dieci ore di lavoro per 3 euro l’ora. La cosa interessante è che le migliorate condizioni di lavoro previste dalla legge, stimolano la qualità del lavoro e l’attenzione che vi dedicano i braccianti stessi. Le imprese con cui abbiamo lavorato sono tutte soddisfatte. E tenendo presente che il costo della materia prima incide del 15% sul prodotto finale è assolutamente praticabile l’assunzione di contratti giusti e delle regole previste dal nostro codice. Tutta l’agricoltura per quanto schiacciata nei prezzi delle materie prime, è portata a praticare una illegalità oggettiva nel ridurre il costo del lavoro. Vi sono studi su cui sta lavorando la Flai Cgil secondo i quali si stimano fino quasi a un milione i lavoratori del sud Europa in agricoltura al nero e senza regole.




Italiani scettici sul “Purpose” dichiarato dalle aziende, lo studio di Omnicom PR Group

Italiani scettici sul “Purpose” dichiarato dalle aziende, lo studio di Omnicom PR Group

Il “Purpose” aziendale, vale a dire il valore autentico e il ruolo sociale di una marca che le permette simultaneamente di accrescere il proprio business e avere un impatto positivo sul mondo, viene dichiarato da un numero sempre crescente di brand. Ma come viene percepito dagli italiani? Per rispondere a questa domanda Omnicom PR Group – società di consulenza strategica in comunicazione con oltre 6,500 addetti nel mondo – presenta “Purpose Italia”, lo studio che, per la prima volta, ha analizzato 12 settori chiave dell’economia italiana e 25 dei top brand ad essi associati. Tra gli elementi più importanti emergono: Meno del 40% degli italiani dice di conoscere aziende che operano con un “ruolo sociale”. Il 39.9% degli intervistati fa riferimento ad aziende italiane, il 37.1% anche a quelle internazionali; Le aziende che si impegnano per un obiettivo di interesse comune sono preferite dai consumatori (74.3%) ma è difficile capire quali hanno davvero a cuore la società in cui operano (70.2%) anche perché spesso le aziende associano la loro immagine a quelle di obiettivi di interesse comune solo per rafforzare il proprio business (63.0%) e, in generale, sono poco interessate al mondo che le circonda (66.6%); Poco più della metà del campione (51.5%) preferisce che i prezzi siano i più bassi possibili, che non ci sia alcuna forma di contribuzione al “ruolo sociale” dell’azienda da parte del consumatore; Al crescere dell’età del rispondente cresce la positività verso le aziende con un purpose (82% del campione tra i 55 e 65 anni preferirebbe prodotti di queste aziende rispetto ad altri mentre questo valore scende al 59% nella fascia 18-24 anni) ma anche la diffidenza in merito alle effettive intenzioni delle aziende (74% degli intervistati tra i 55 e 65 anni e il 55% nella fascia 18-24). Ricerca condotta da AstraRicerche per conto di Omnicom PR Group su un campione di 1.024 italiani tra i 18 e i 65 anni. “Il Purpose aziendale è un concetto relativamente recente ma sempre più rilevante per indirizzare le scelte consapevoli dei consumatori e dei manager. In Italia il quadro è con luci ed ombre, meno del 40% degli intervistati dichiara di conoscere aziende con un Purpose dichiarato e il 63% lo vede solo come un’altra opportunità di business. Tuttavia, il 63,6% degli intervistati consiglia i marchi virtuosi mentre il 55% degli italiani vorrebbe lavorare in aziende con un purpose riconosciuto dal mercato” dichiara Massimo Moriconi Amministratore Delegato di Omnicom PR Group Italia.