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L’attività di lobbying nel dopo-emergenza Coronavirus

L'attività di lobbying nel dopo-emergenza Coronavirus

Come cambia il lavoro dei lobbisti nella fase 2 e in vista della fase 3.  Lo smart working e il rapporto “a distanza“ con la politica e i Palazzi. La maggiore trasparenza e la carta della tempestività. Gli obiettivi sempre più misurabili.

Siamo tutti in attesa di capire come andrà la fase 2 e come andranno le tappe successive. Certo è che nulla sarà come prima: l’emergenza sanitaria ha cambiato abitudini e schemi. La crisi economica ci impone nuove regole e approcci. Siamo chiamati a convivere con il rischio ancora per un tempo indefinito. Anche l’attività di lobbying, dunque, esce da questa fase di lockdown ritarata e modificata.
Che cosa è cambiato e che cosa dovrà cambiare per adeguarsi al nuovo scenario?
 

Modalità operative interne. Come per tutti i settori questi due mesi hanno imposto nuove modalità operative interne. Lo smart working ha consentito di acquisire maggiore competenza e consapevolezza nella gestione da remoto di parte del nostro lavoro, quello di analisi, di monitoraggio legislativo, di drafting. La distanza fisica ha determinato uno sforzo di collaborazione e di condivisione tra team e persone e un utilizzo di strumenti digitali per favorire lo scambio tempestivo di informazioni e allineamento in progress. Chi fa lobbying non potrà prescindere nel prossimo futuro da questa evoluzione operativa. Sarà necessario, anzi, investire in piattaforme e mezzi che facilitino accesso e consultazione tra personale e clienti.
 
Interazione con i decisori e partecipazione ai processi decisionali. Gli incontri in galleria dei Presidenti o negli uffici istituzionali per rappresentare le istanze sono un ricordo ormai lontano. Abbiamo sperimentato il ricorso esclusivo a strumenti digitali, in un processo di partecipazione alle decisioni condotto a distanza. Non è stato scontato e automatico. Sono emersi i limiti di un sistema caratterizzato da una reciprocità ancora ridotta. Sarà necessario che istituzioni e politici si aprano ancora di più, di quanto fatto in questa prima fase (audizioni in videoconferenza), a nuove modalità di confronto continuative con i portatori di interesse. Lobbisti e decisori dovranno convergere su nuovi strumenti per sostituire gli incontri e favorire modalità alternative di dialogo e scambio tra istituzioni e imprese. La distanza fisica non deve trasformarsi in marginalizzazione.
 
Accesso alle informazioni e reciprocità. L’attività di intelligence e di confronto nella fase di definizione dei provvedimenti senza possibilità di incontri e con interazione a distanza impone uno sforzo nell’implementazione di procedure standardizzate e trasparenti. La fase di emergenza economica che durerà a lungo porterà necessariamente a consolidare un patto tra politica/istituzioni e interessi privati/corpi intermedi. La dialettica tra questi mondi costruttiva e propositiva sarà la prerogativa e la condizione per provvedimenti efficaci e decisioni consapevoli. Questo richiede uno sforzo, ora più che mai, di apertura e di condivisione. L’accesso alle informazioni ha sempre rappresentato un limite del nostro sistema istituzionale. Il post coronavirus sarà, in tal senso, un’opportunità per fare un passo avanti (senza burocratizzare i processi anzi semplificandoli) sul terreno della reciprocità e della collaborazione a parità di accesso informativo tra lobbisti e decisori.
 
Competenza e tempestività. L’emergenza ha consolidato e rafforzato quella che ormai è stata definita democrazia istantanea. La situazione attuale impone tempi rapidi e decisioni veloci. La capacità di risposta della politica non deve però trasformarsi in avventatezza. Alla tempestività va affiancata la competenza. I lobbisti dovranno approfondire dossier, studiare e saperne di più dei propri clienti e interlocutori. Vinceranno la competenza e l’immediatezza. Non ci sarà spazio per proposte velleitarie o per network da tartina. Dovranno essere capaci nell’individuazione del messaggio da veicolare ed efficaci nella condivisione dell’istanza. I decisori dovranno essere aperti ad accogliere suggerimenti e informazioni. Dovranno, anzi, maturare sempre di più la consapevolezza dell’importanza di un confronto continuativo e tempestivo tra le parti. I lobbisti non possono sostituirsi alla politica ma, in una fase di emergenza, potranno sicuramente rappresentare un supporto utile per una democrazia istantanea ma con processi decisionali consapevoli e veloci. Non sbrigativi e inefficaci.
 
Obiettivi misurabili. La crisi economica impone una ridefinizione di budget e una cautela negli investimenti. Ai lobbisti, che saranno necessari “misuratori della meteorologia legislativa”, si chiederà sempre di più un servizio “misurabile”, collegato al conseguimento di obiettivi di policy e di business. L’attività di monitoraggio e proattività è già da tempo inserita in un contesto più ampio che coinvolge anche i tempi e i processi di attuazione delle norme. Le società di lobbying saranno sempre più chiamate ad assumere un ruolo di decodificatori e risolutori di problematiche concrete. Le aziende investiranno su obiettivi chiari e professionalità.
 
Strategie di advocacy e digitale. Il lockdown ci ha imposto nuove modalità di costruzione del consenso. Il digitale è entrato nella quotidianità di tutti. Sono diverse le dinamiche cognitive e di influenza sociale. Nella definizione di strategie integrate di advocacy e comunicazione non si potrà non tener conto di questo cambiamento. Sarà necessario ridefinire la “messa in scena” complessiva, sia nei format sia nella costruzione di un corretto apparato simbolico. Il digitale rappresenterà un’opportunità e una necessità per processi di lobbying efficaci. 

Giusy Gallotto, CEO di RETI




New York, al via la rivoluzione green per i grattacieli

New York, al via la rivoluzione green per i grattacieli
New York, al via la rivoluzione green: il comune taglia le emissioni dei grattacieli

La Grande Mela si fa verde e fa da battistrada al Green New Deal. Non si chiama così, ma il Climate Mobilization Act è di fatto questo per New York. È stato approvato nei giorni scorsi dal consiglio comunale d’una metropoli affollata da 8,4 milioni di residenti con tutti i loro servizi e attività una significativa «carbon footprint», un’impronta dell’impatto ambientale, anche se stando all’Ufficio del censimento la città ha perso 40mila abitanti nell’ultimo anno tirando il fiato da una crescita che durava dal 2010.

Di più, il passaggio dell’Atto – una combinazione di dieci proposte di legge in aperta sintonia con la riduzione delle emissioni da effetto serra voluta dall’Accordo di Parigi dell’Onu – è avvenuto quasi all’unanimità, 45 voti contro due, tra gli applausi. Forse prevedibili in una metropoli tradizionalmente progressista, ma segno della determinazione a trasformare il «pacchetto» in realtà, sfidando un’amministrazione Trump che e livello federale ha invece dato platealmente l’addio a Parigi.

L’iniziativa era oltretutto men che scontata. È stata considerata «molto aggressiva» persino dal sindaco democratico della città Bill de Blasio, che pur flirta con una candidatura alle presidenziali del 2020 in un partito dove avanzano le correnti più di sinistra sotto le bandiere, neanche a dirlo, di programmi sociali e economici battezzati Green New Deal. De Blasio l’ha però sposata – firmandola in occasione dell’Earth Day – rivendicandone i benefici sia per l’ambiente (la città ha sofferto la sua quota di danni da clima estremo) che per lo sviluppo di un intero nuovo modello economico sostenibile. Una firma apposta nonostante la strenua e influente opposizione di alcune lobby di business – su tutte quella immobiliare dato che il cuore della riforma riguarda proprio giri di vite sull’edilizia e i suoi consumi energetici.
A chi si domandasse il rilievo del settore per New York, basti citare un dato: i palazzi, in una città densamente popolata e «verticale» come New York, sono oggi responsabili di oltre due terzi delle emissioni totali di anidride carbonica. E a chi chiedesse conto di celebrità e delicatezza degli immobili messi in discussione basti ricordare che c’è la Trump Tower, sì, quella al centro anche di altre «emissioni» potenzialmente tossiche, quelle politiche del Russiagate per la Casa Bianca.

«Il cambiamento climatico pone una minaccia esistenziale a New York City – ha fatto sapere l’amministrazione di de Blasio – E rendere i palazzi più sostenibili e efficienti è un elemento chiave della soluzione del problema». Gli obiettivi sono ambiziosi. I calcoli del comune prevedono che l’abbattimento delle emissioni sarà equivalente a eliminare un milione di auto dalle strade entro il 2030, con vantaggi per la salute a cominciare dalla lotta all’asma e in grado di prevenire oltre 40 decessi e cento ricoveri in pronto soccorso ogni anno.
Il progetto ha a cuore esplicitamente anche l’impatto economico, che vede nell’insieme a sua volta nettamente positivo. Entro quella stessa data del 2030, le proiezioni parlano della creazione di 27.600 nuovi impieghi «ecologici» grazie alla riforma. Studi di alcune non profit quali Align appaiono ancora più ottimisti: 23.627 posti di lavoro diretti nelle costruzioni per adattare i palazzi e grattacieli ai nuovi criteri e 16.995 indiretti ogni anno per manutenzione e gestione, manifattura e servizi.

L’iniziativa prende di mira anzitutto l’edilizia, vecchia e nuova, perché è su questa che la città ha completa giurisdizione – al contrario di altri campi di impatto ambientale dove ha voce in capitolo lo Stato di New York, più moderato seppur esso stesso governato dai democratici. Campi che vanno dal trattamento delle acque al trasporto pubblico, dal traffico (dove lo Stato ha tuttavia previsto un congestion pricing) ai sacchetti di plastica (ora quelli mono-uso, con qualche eccezione, sono stati messi al bando).

In buona sostanza, la neo-legislazione cittadina impone a molti palazzi di ridurre le loro emissioni a partire al 2024, fino ad arrivare a tagli del 40% in data 2030. Il costo delle modifiche prescritte? Stando alle autorità all’incirca 4 miliardi di dollari a carico dei proprietari di immobili. «Sarà la piu grande rivoluzione nella storia del real estate di New York City – ha dichiarato John Mndyck, Ceo dell’Urban Green Council, un’associazione che raggruppa ambientalisti e costruttori – Sarà difficile e richiederà miliardi, ma nasceranno tecnologie e modelli di business per portarla a termine».

La mossa più consequenziale ha un soprannome che la dice lunga, Dirty Buildings Bill, la legge per i grandi palazzi sporchi. Ben 50.000 di questi – parte importante dei palazzi di dimensioni superiori ai 25.000 piedi quadrati che rappresentano il 2% dell’edilizia cittadina ma metà delle sue emissioni dannose – sono nel mirino per un taglio delle emissioni del già citato 40% entro dieci anni e fino all’80% entro il 2050. Un taglio che avverrà attraverso molteplici modifiche, quali nuove finestre e nuovi sistemi di isolamento termico. Violare i nuovi requisiti costerà caro: le multe previste sono di milioni di dollari l’anno, calibrate sulla base della gravità delle irregolarità. Accanto alla Trump Tower, noti immobili che dovranno adeguarsi o pagare comprendono dagli storici Empire State Building e Chrysler fino allo One World Trade Center. Nonché grandi ospedali, che però con istituzioni religiose e case popolari hanno ottenuto alcune esenzioni suscitando le ire degli altri giganti del real estate.
Non finscono qui i cambiamenti. La rete di leggi varata ordina alla città di condurre uno studio di fattibilità entro il 2021 – e di aggiornarlo ogni quattro anni – per prevedere la chiusura di 24 centrali elettriche a gas e petrolio e sostituirle con fonti rinnovabili e meccanismi per l’accumulo e la conservazione di energia in eccesso. Su nuovi palazzi e costruzioni di piccole dimensioni verranno poi installati «tetti verdi», con una combinazione variabile di vegetazione, pannelli solari, mini-turbine a vento.

La complessa matematica, come la chiama il New York Times, della legge si basa su dati sui consumi energetici dei palazzi raccolti ormai da anni e che la citta’ ha usato per creare veri e propri benchmark e per estrapolare le emissioni per piede quadrato. Limiti diversi riguarderanno in futuro differenti tipologie di immobili, quali uffici o complessi residenziali. A titolo di esempio l’Empire State Building adesso produce 6,27 chilogrammi di anidride carbonica l’anno per piede quadrato; nel 2030 stando ai nuovi standard dovrà aver ridotto le emissioni a 4,53 kg. Una nuova agenzia cittadina, l’Office of Building Energy and Emissions Performance, potrà tuttavia alterare la matematica e esaminare ricorsi per concedere flessibilità a palazzi che abbiano inquilini di business dalle comprovate necessità di elevati consumi energetici, quali media, tecnologia e aziende di life sciences.

Una specifica misura ambientale condanna infine il fracking, la fratturazione idraulica: vieta la concessione di permessi necessari all’importazione di gas naturale attraverso la Williams Pipeline, un gasdotto che arriva dalla Pennsylvania (una delle controverse patrie del fracking americano assieme al Texas). Il fracking e’ dal 2014 vietato nello stato di New York, ma l’import di gas cosi estratto era stato stato proposto citando la necessità di ovviare ad una produzione di energia più «sporca». La riforma comolessiva avrà ancora delle appendici: in arrivo è un ulteriore provvedimento, che resta da votare ma dato per certo: la conversione di tutti gli scuolabus in veicoli elettrici nel giro di vent’anni, capitolo dello sforzo cittadino di trasformare l’intero trasporto pubblico newyorchese su gomma entro il 2040.




“Per ogni Greta c’è un membro della Generazione Z che non indosserà mai lo stesso capo due volte”

"Per ogni Greta c'è un membro della Generazione Z che non indosserà mai lo stesso capo due volte"

La generazione dei nati tra il 1995 e il 2010 già vale un terzo del mercato del lusso. Il direttore del Polimoda: “Questi giovani hanno il potere di condizionare la moda del futuro”

Hanno il potere di mettere in crisi la moda per i prossimi decenni: sono i ragazzi della Generazione Z, quelli nati tra il 1995 e il 2010. Sono i primi veri nativi digitali, non ricordano il mondo senza Internet e computer e sono un vero grattacapo per gli stilisti. Hanno gusti e preferenze ben definiti: per scoprirli il New York Times ha chiesto a tre giovanissimi di mostrargli i loro acquisti. La conclusione? L’apparenza batte la qualità: la Generazione Z, secondo il giornale americano, predilige “outfit carini e poco costosi, purché sembrino belli su Instagram”. “Questi ragazzi non condizioneranno la moda in futuro, lo fanno già”, spiega ad HuffPost il direttore di Polimoda Danilo Venturi.

“Per ogni Greta Thunberg o studente che salta la scuola per unirsi alle proteste per il clima, c’è un altro membro della Generazione Z che compra vestiti poco costosi con il suo smartphone – si legge sul NYT -. Le scelte di acquisto, alimentate dalla cultura degli influencer e soddisfatte da una nuova ondata di brand ultra fast fashion, come Fashion Nova, Pretty Little Thing e Missguided (quest’ultimo responsabile di un bikini venduto a una sola sterlina, che ha registrato il tutto esaurito in Gran Bretagna), si basano più su come un determinato outfit possa apparire sui social piuttosto che nel mondo reale”.L’HUFFPOSTRicevi le storie e i migliori blog sul tuo indirizzo email, ogni giorno. La newsletter offre contenuti e pubblicità personalizzati.Sottoscritto!Grazie per aver effettuato l’iscrizione! A breve riceverai una mail di conferma.

Lo dimostra l’inglese Mia Grantham, 16 anni: la giovane ha confessato al NYT di non avere alcuna intenzione di indossare lo stesso vestito due volte: da qualche tempo ha iniziato ad avere un piccolo seguito su Instagram e non vuole in alcun modo deludere i suoi followers. Le piace indossare abiti rossi: ne ha almeno 14 diversi. Si addormenta facendo lo scrolling delle pagine dedicate allo shopping, che consulta per almeno 10 o 15 minuti alla fine della giornata. Ha sottoscritto un abbonamento annuale tramite l’applicazione del suo brand preferito, Pretty Little Things, che le permette di ricevere i vestiti il giorno dopo l’ordine. “Quanti capi credi di aver acquistato nel 2019?”, alla domanda del NYT risponde: “Un centinaio”.

Ma quando un vestito può dirsi “vecchio”? La giovane Grantham non ha dubbi: se è un paio di jeans che indossiamo a casa possiamo tenerlo anche per sempre, se è un vestito col quale intendiamo uscire e farci vedere dagli altri dopo due volte è già da buttare. E se il ricambio è così frequente, quanto è disposta a spendere la sedicenne per i suoi capi? “Ovviamente – dice al NYT – cerco di spendere il meno possibile”.

La storia di Mia Grantham non è isolata, ma è lo specchio di come alcuni giovani della Gen Z concepiscano lo stile. Il loro occhio è sempre puntato verso i social network, il vero palcoscenico sul quale i vestiti indossati fanno il loro debutto: “Scatto dei selfie ogni volta che esco, nella mia camera da letto e poi con i miei amici o il mio ragazzo”, dice la giovane. Ammette di non pensare mai alla fine che faranno quegli abiti una volta buttati via, ma afferma di conoscere il fenomeno della moda sostenibile: “So che diversi brand stanno creando dei capi sostenibili. Molti sono simili a quelli della collezione classica, ma costano di più. Se devo essere onesta, penso: ‘Perché dovrei pagare di più, quando posso avere la stessa cosa a meno?’”.

Se la Generazione Z detta la moda, i brand obbediscono

Secondo uno studio di Bain&Co, le nuove generazioni, la Y (quelli nati tra il 1980 e il 1995) e la Z, già valgono un terzo del mercato del lusso e guideranno la crescita del mercato fino ad arrivare a coprire nel 2035 l’80% dei consumi. Impossibile, dunque, non prenderli in considerazione. Così la pensa il direttore del Polimoda, Danilo Venturi che ad HuffPost spiega: “La Generazione Z non condizionerà la moda, lo fa già. Questi ragazzi vivono in un mondo privo di limiti spazio/temporali che produce in loro valori e comportamenti in favore dell’uguaglianza di razza, cultura e orientamento sessuale, dall’altra parte però genera anche un senso di inquietudine e a tratti di vera e propria depressione. Alcuni brand si sono accorti di questo mutamento radicale ed hanno adeguato le loro best practice, altri usano temi come la sostenibilità semplicemente per fare marketing, altri ancora non si sono accorti di nulla. In Polimoda queste tendenze prendono forma quotidianamente grazie alla presenza di 2300 studenti provenienti da 70 diverse nazioni, un laboratorio di idee a completa disposizione di aziende, istituzioni e di chiunque voglia produrre progresso, a patto che ciò a avvenga a favore e insieme agli studenti stessi”.

La Generazione Z rivoluzionerà il modo di fare shopping

A mano a mano che cresceranno, i membri della Gen Z cambieranno il loro modo di fare shopping: secondo Federica Levato, analista di Bain, questi giovani non saranno affatto frivoli nei consumi. Se è vero che da una parte è forte la tentazione rappresentata dal fast fashion, dall’altra è plausibile che, avendo assistito all’instabilità economica vissuta dai millennials che lavorano, i membri della Gen Z facciano acquisti più ragionati, intelligenti e che possano durare nel tempo. Inoltre, essendo nativi digitali, hanno un utilizzo più equilibrato dello smartphone e hanno rivalutato il ruolo del prodotto e del negozio fisico. Daranno importanza all’economia circolare, all’ambiente, alla sostenibilità e chiederanno ai brand un impegno culturale e calato nello spirito del tempo. In conclusione, secondo la Levato, quello che vogliono è un prodotto “eccellente ma anche buono, secondo logiche etiche e responsabili”.




Mi sono perso la Giornata Mondiale della Risata. E non ci trovo nulla da ridere.

Mi sono perso la Giornata Mondiale della Risata. E non ci trovo nulla da ridere.

Mi accontenterei di risate,
anche registrate.

Laugh track ovunque, come se
non ci fosse un domani, come sottofondo animato per i nostri talk show
casalinghi ma anche per le nostre digressioni apocalittiche al supermercato e durante
le file alla posta, dove diventiamo detrattori, giudici, presidenti del
Consiglio, allenatori della Nazionale, papi & cardinali, talent scout e
chef.

L’ingegnere del suono
americano Charles Douglass quando inventa le risate registrate ignora che
diventeranno una consuetudine nella programmazione mainstream degli Stati Uniti.
Accompagneranno generazioni nella costruzione dell’assenso, persino del
divertimento a comando e nell’autoconsolazione patriottica.

La risata ha poteri curativi
importanti e non ha effetti collaterali. Anzi, parrebbe migliorare la
circolazione e l’ossigenazione del sangue e la produzione di endorfine. Il
cortisolo si riduce sensibilmente a supporto, persino, delle difese
immunitarie.

Patch Adams, fondatore del
Gesundheit Institute e ideatore della clownterapia, sosteneva che la buona
salute è questione di risate.

Mark Twain sosteneva che “contro
l’assalto delle risate, nulla può resistere”.

In effetti, con dodici muscoli
si altera a piacimento l’intero pattern espressivo umano, diventiamo indocili,
mettiamo in crisi certezze altrui e pungoliamo l’establishment.

E per fare il broncio? Ne
occorrono settantadue, decisamente antieconomico.

Ho scoperto per caso la Giornata
Mondiale della risata
che, in questo sfortunato 2020, è caduta il 3 maggio,
nel lockdown generale, dove c’era ben poco di cui ridere – direte voi, diranno
gli altri.

Eppure, entrando a passi
felpati nella Fase 2, con tutte le cautele del caso, si sente l’esigenza (quasi
fisica) di abbandonare i toni apocalittici e lo psicodramma collettivo della
nostra società dello spettacolo.

Non tanto per la volontà
(quasi persino voluttà) di ‘buttarla di caciara’, quanto per ridimensionare
il mood declinista, catastrofista, immanentista dei mesi precedenti l’arrivo
del virus.
Dove la sintassi si destreggiava con armi di distruzioni di
massa.

Alle nostre latitudini, dov’è
che si apprendono stile & prestanza nel confronto pubblico? Nei talk
show
– ovviamente – dove l’infotainment e il politainment sono governati da
media logic e dallo share; dove gli ‘elettori fluttuanti’ sono pane demoscopico
irrinunciabile, sorpresi nelle loro tentazioni di voyeurismo e tanaturismo.

Care ‘very important person’ del
momento (mi riferisco ai fluttuanti citati), la balistica del priming si
collega al processo di agenda building: fatevene una ragione, è il destino di
tutti noi!

Adeguati o inadatti, preparati
o ignoranti, attenti o distratti, siamo entrati nei mondi di Carta Bianca,
Agorà, Ottoemezzo, L’aria che tira, La Gabbia, Piazza Pulita, Virus, Matrix,
Annozero, Ballarò, Porta-a-Porta, Milano Italia, Profondo Nord, Omnibus
Servizio Pubblico, DiMartedì, Che tempo che fa (quanti ne dimentico tra
presenti e passati?) e da lì non ne siamo più usciti.

Ricordate ‘Faccia a faccia’, il
rotocalco televisivo condotto da Enzo Biagi o ‘Tribuna elettorale’ o ancora ‘Bontà
loro’, condotto da Maurizio Costanzo?

Vanaglorismo? Macché.

Bourdieu parlava di censura
invisibile e di violenza simbolica, i più intemperanti di dumbing down, i più
incarogniti di effetti Manchurian, io (sommessamente) di distrazioni incaute
di massa.

Gli elettori fluttuanti hanno
potuto contare su piazze televisive dove farsene una ragione, per poi trovare
conferma nei bias della cultura digitale.

Figurarsi il 47% dei
cosiddetti analfabetici funzionali: pane per i loro denti affilati.

Ma torniamo ai cosiddetti political
debate shows che imperversano più tonici che mai.

Ma è così dappertutto? Per
esempio, nella tv britannica? Uno solo e si chiama “Question Time”.

“Sì, ma loro sono algidi,
mentre noi italiani siamo focosi, urlatori, passionali”.

Sia. Ma se con i canali tv
nazionali presenti sulle principali piattaforme (nel 2017 erano 361), che fanno
capo a 59 editori, si riuscisse a trovare un accordo di massima su una pausa
da ricostruzione
che riveda il linguaggio, le tassonomie, il mood generale,
non potremmo riuscire a sotterrare l’ascia di guerra per ritrovare gli
anticorpi di una comunicazione razionale e meno emotiva?

Non consolatoria e nemmeno intimista.

Pervicacemente contro la
ciarla e l’avventurismo, in vista di un futuro che riscatti i dolori individuali
e collettivi, prendendoci tutti insieme la responsabilità della ripartenza.

Con il ricorso alle energie
migliori del bel Paese, della nostra provincia, alle esperienze delle nuove
professioni o dei nuovi lavori, con l’ottimismo tipico di chi deve scrollarsi
di dosso calcinacci, polvere e morchie varie. Con l’utilizzo della retorica –
stavolta necessaria – del ‘tutti-per-uno’.

In mancanza di ciò: autopunizione,
rinuncia alla mediazione e alla interpretazione di ciò che accade attorno a
noi. Silenzio.

E dunque il necessario ricorso
alle risate. Per iniettare dosi omeopatiche di endorfine nelle relazioni
ordinarie, in quelle istituzionali, nella politica locale, nella stampa locale.

Risate pericolose,
irriverenti, destabilizzanti, cauterizzanti,
come
quelle descritte da Arthur Schopenhauer ne ‘Il mondo come volontà e
rappresentazione’ o quelle di Friedrich Nietzsche ne ‘La gaia scienza’.

Altrimenti?

Avrà avuto ragione Michel
Houellebecq
, a proposito di questo virus banale, senza qualità: “Non ci
risveglieremo, dopo il lockdown, in un nuovo mondo; sarà lo stesso, ma un po’
peggio”.




Talent Show. Il riciclaggio curricolare tra HR e Irresponsabilità sociale d’impresa

Talent Show. Il riciclaggio curricolare tra HR e Irresponsabilità sociale d’impresa

“Neolaureato”: condizione a tratti
angosciante, per i più, satura di insicurezze dovute all’inevitabile passaggio
dal certo all’incerto, dal caldo conforto dello status di “studente” a quello
di “disoccupato”. Momento di bilanci e di paure, e dalla forzata convivenza con
la spiacevole sensazione di dubbio: “Sarò
abbastanza fortunato? Troverò lavoro? Le aziende mi chiameranno?”

La situazione dei giovani all’ingresso
del contesto lavorativo non pare affatto incoraggiante. Secondo i dati Istat
2019, il tasso degli under 25 senza un impiego è pari al 27,1%. Nel confronto internazionale
rimaniamo purtroppo ben distanti da paesi come la Germania, stabile al 5% di disoccupazione
giovanile, e siamo in fondo alla classifica Eurostat, nella quale a far peggio
di noi ci son solo Spagna e Grecia.

Il problema della disoccupazione giovanile,
o meglio degli inoccupati, sembra affondare le radici nell’insufficiente investimento
in formazione e orientamento nelle scuole in Italia, nonché nell’esiguità dei
fondi dedicati all’istruzione, motivo per il quale il nostro Paese quest’anno
si è posizionato ultimo in Europa in questa classifica. Ma cosa accade invece a
quei giovani laureati che invece un lavoro lo trovano?

Per la maggior parte di essi, la strada
è solo una: lo stage. Più propriamente definito dalla legge come “tirocinio
formativo”, questa formula assai precaria di avvio al mercato del lavoro consiste
in un periodo di’inserimento all’interno di un contesto lavorativo con la
finalità di consentire al tirocinante/stagista di acquisire un’esperienza
pratica in un determinato settore produttivo. Il Ministero del lavoro, per
incoraggiare l’assunzione dei giovani italiani, finanzia il programma Bonus Garanzia Giovani, che prevede una serie d’incentivi e agevolazioni
per le aziende che assumono giovani tra i 16 ed i 29 anni. Lo stage – che così
delineato appare come un’opportunità per i giovani di accedere al mondo del
lavoro e di mettere in pratica quanto studiato durante gli anni di formazione –
ha purtroppo un lato oscuro, che spinse il giornalista Beppe Severgnini a
definire l’Italia, con una frase poi divenuta celebre, come “una Repubblica fondata sullo Stage”. Cosa
accade?

Concentriamoci sulla nozione di “Human Resource”: il
capitale umano, ovvero la consapevolezza che le vere risorse di un’azienda non
siano (solo) le macchine, i fondi o gli stanziamenti di denaro, ma piuttosto le
persone. Ne consegue che se l’organizzazione, azienda o impresa si prende cura
del proprio capitale umano, lo rispetta e investe in esso, nel suo sviluppo e
benessere, la crescita strategica e di profitto dell’organizzazione è
assicurata. A conferma di questa teoria, vi sono numerosi studi e ricerche,
oltre che storie d’eccellenza ante litteram come quella di Adriano Olivetti,
che con la sua idea d’impresa rappresenta ancora oggi un caso d’eccellenza continua
a fare scuola a tutto il mondo. Sulla base di questo ragionamento, può non
apparire così spaventoso per il giovane neolaureato immergersi lungo il
complesso iter di ricerca del lavoro.

Sfortunatamente per i giovani, l’entusiasmo
iniziale viene sostituito presto da una disillusione profonda. I career day,
eventi nei quali le aziende “si mettono in mostra”, ognuno nel proprio apposito
stand, spesso e volentieri si rivela essere solo una vetrina utilealle imprese per farsi conoscere: una
pura strategia di posizionamento, che non è volta affatto alla ricerca dei
cosiddetti migliori talenti, e stesse
aziende che si autoproclamano come attente, sostenibili e orientate al futuro,
non riescono nemmeno a ipotizzare un onesto e concreto piano di crescita per la
forza lavoro in entrata. E i colloqui?

Non tutte le ciambelle riescono col buco, dice
l’adagio popolare, così come non tutti i colloqui possono avere esito positivo.
Certo, i rifiuti fanno parte della crescita e possono essere utili come
feedback per il futuro, per comprendere cosa si può migliorare nel modo di
presentarsi, e per affinare le tecniche migliori per mostrare il proprio potenziale
al recruiter. Ma per far sì che ciò avvenga, sarebbe opportuno essere
notificati del rifiuto in modo circostanziato, attraverso un feedback dall’azienda.
Scontato direte voi: purtroppo non pare esserlo per le aziende. E non parliamo solo
di piccole realtà, magari impreparate a gestire le procedure di assunzione del
personale, ma anche dei veri e propri colossi del business.

Ad esempio, aziende come BNL gruppo Paribas –
peraltro, almeno formalmente, blasonatissima nel campo della responsabilità
sociale d’impresa – dopo un colloquio con esito negativo ben si guarda dal garantire
alcun tipo di feedback, nemmeno il semplice invio di una mail “precompilata”
alla potenziale risorsa per informarla di quanto deciso. Nella maggior parte
dei casi, le imprese discutono di talento, di significato, di employer branding, e poi nemmeno si prendono
la briga di congedare un candidato ringraziandolo per l’interesse ed il tempo
speso nei confronti dell’azienda stessa.

Episodi del genere non si contano. Nel mese di
dicembre scorso, la Enginereeng – azienda quotata in borsa nell’ambito settore
del software e servizi IT, specializzata nella digital transformation in particolare per i settori finanza,
pubblica amministrazione, utilities e industria – era alla ricerca di una
risorsa per una posizione di stage in HR. L’impresa ha iniziato il suo processo
di selezione del personale, contattando potenziali talenti selezionati
attraverso uno screening nel frequentatissimo portale di ricerca Almalaurea. Sfortunatamente per il
ragazzo contattato, l’entusiasmo iniziale di aver ricevuto la telefonata da
parte della nota azienda è spento rapidamente a seguito di una brevissima
chiacchierata in cui il recruiter, che
dopo aver spiegato che stavano contattando i neolaureati con i profili migliori
da varie università per procedere con un processo di selezione (piuttosto
lungo), dichiarava senza troppe cerimonie che sarebbe comunque stato impossibile
per la risorsa essere inserita in azienda dopo i canonici 6 mesi di contratto, “per questioni di budget”. Eccovi un
esempio lampante e concreto del sopracitato lato
oscuro dello stage
, che prende il nome di “Stage Rolling”: l’utilizzo di stagisti neo-laureati ne più ne meno
come manodopera a basso costo.

È un tipo di stage che non è mai volto alla
definitiva assunzione, ma che si rinnova invariabilmente ogni sei mesi. Consiste
in un vero e proprio riciclaggio di stagisti, persone fresche di studi, dai
brillanti CV e con un alto livello di competenze in entrata, che finito il
contratto di stage vengono mandati via per passare “ai prossimi”, permettendo
così alle aziende di risparmiare notevolmente sui costi della forza lavoro (uno
stagista dopo 5 anni di università viene pagato in media tra i 500 e gli 800
euro mensili, contro i circa 1.300 di contratto a tempo determinato standard),
ma perdendo contemporaneamente moltissimo sul versante di crescita del capitale
umano, sulla motivazione della forza lavoro e – tra l’altro – spendendo
notevolmente in termini di energia e tempo per formare di volta in volta le
nuove leve, in una specie di poco produttiva e illogica coazione a ripetere. Per lo stagista, i possibili “vantaggi” sono
esclusivamente quelli di guadagnare un’esperienza da inserire sul CV, consapevole
di dover cercare un’altra sistemazione al più presto.

Le aziende che praticano (abusandone) questa
modalità di stage sono molte nel contesto italiano, basta una velocissima
ricerca sul portale Google per scoprirlo, 
evidenza che di certo, tra l’altro, non contribuisce al rafforzamento
della reputazione d’impresa. A conferma di quanto appena esposto, i dati della
ricerca Excelsior
che conferma che solo uno stagista su 10 viene poi assunto in azienda:
in media, su 1.000 giovani che cominciano uno stage, solo 106 vengono assunti
(con qualsiasi tipo di contratto), e 894 verranno invece lasciati a casa senza
ricevere una proposta di lavoro ne, spesso, una qualunque giustificazione, se
non, nella migliore delle ipotesi, meramente formale.

Per combattere questo trend tutt’altro che
virtuoso da parte delle imprese, sono nate intriganti realtà come “La Repubblica degli stagisti”, una vera e propria testata giornalistica online,
nata nel 2009, che si occupa di approfondire la tematica dello stage in Italia,
dando una voce alla categoria dei giovani stagisti, oltre che – per onesta
intellettuale – segnalare le aziende che si distinguono positivamente,
redigendo ogni anno una classifica delle più oneste dal punto di vista dei
pagamenti, della trasparenza e del tasso di assunzione a fine stage.

Le questioni della disoccupazione e del precariato
giovanile in Italia sono assai dibattutte, e vengono
raccontate prevalentemente attraverso i numeri dei tagli al personale e delle
ore di straordinari non pagate, o della flessione degli stipendi. Ma quali sono
le conseguenze di questa infausta realtà sui giovani italiani?  Un mix di stress, insicurezza e solitudine, rappresentanti
ormai il fulcro di un mercato del lavoro sempre più incerto e competitivo. Ad
approfondire questo tema è anche l’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna, che ha denunciato l’asprezza dell’attuale
sistema di recruitment, alienante per i giovani, in cui l’ansia per il futuro
può facilmente tradursi in “inadeguatezza,
depressione, stati d’ansia o panico accompagnati da una sintomatologia
psicosomatica
”. Le parole di Anna Ancona, Presidente dell’Ordine, definiscono
in modo chiaro l’attuale situazione: «Una
condizione di precariato lavorativo non rende instabile solo la situazione
economica, ma mina anche lo stato psicologico delle persone. Perché non possono
emanciparsi dalla famiglia di origine e costruire una propria realtà, ma si
ritrovano a vivere forzatamente in una sorta di “adolescenza sospesa”. I
giovani si trovano a volte in condizioni comparabili all’indigenza, con
conseguente frustrazione e perdita dell’identità sociale; quasi sempre, quando
hanno un lavoro, sono comunque sottopagati
». L’impatto negativo
dell’attuale panorama non tocca solo la società e il benessere materiale dei
cittadini, ma anche la salute mentale dei giovani italiani.

Consapevoli di ciò, le aziende – che abilmente
riempiono la descrizione delle loro vision
e mission aziendali con parole come purpose, talent o sostenibilità – non paiono
assumersi la loro fetta di responsabilità per questo spiacevole stato di cose.

Il termine responsabilità
racchiude in sé l’impegno dell’impresa a rispondere pubblicamente di tutti i
propri comportamenti e risultati sul piano etico e sociale. Oggi, operare in modo
genuino su temi come quello della sostenibilità vuol dire essere virtuosi non
solo su temi come la salvaguardia ambientale, argomento tanto vitale quando facile nella sua capacità di attrarre
consenso sul brand, ma anche di inserire preoccupazioni di carattere etico su
temi di estrema attualità come quello del precariato giovanile. Il libro verde della Commissione
Europea definisce la Corporate Social
Responsibility
come “l’integrazione
su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali
e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti
interessate”.
Allo stato attuale, poche imprese sembrano comprendere
pienamente il significato di questo termine, distinguendosi invece per quella
che pare piuttosto essere un’ “irresponsabilità sociale d’impresa”.

Storie come quella di Olivetti ci hanno
insegnato che un ascolto sincero nei confronti del proprio “capitale umano” – a
tutti i livelli, dal neoassunto stagista al dirigente – oltre che generare benessere
e conseguentemente aumento di produttività per l’azienda ed engagement da parte
di tutti gli stakeholder, gioverà all’intera comunità, innescando una reazione
a catena virtuosa e profittevole.

Al contrario, la mancata attenzione nei
confronti dei giovani evidenzierà una distonia tra l’immagine e l’identità
d’impresa, con il conseguente – e inevitabile – danno alla reputazione e
pregiudizio alla credibilità, non solo agli occhi dei futuri talenti, ma
dell’intero pubblico dell’organizzazione.

Oggi le aziende hanno una possibilità
che non dovrebbero lasciarsi sfuggire: grazie all’ascolto e al dialogo
costruttivo con le giovani generazioni hanno lo straordinaria opportunità, in
prospettiva, di poter di costruire e migliorare, insieme, il futuro della
società nella quale tutti viviamo.