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Anche il ‘pensiero positivo’ ha un lato oscuro

Il settimanale americano Newsweek si scaglia contro la dittatura del ‘positive thinking’: pensare che “per essere felici basta volerlo” crea ansia e può renderci miopi davanti alle difficoltà. E la scienza conferma: la psiche è troppo complessa per nutrirsi di slogan. Meglio parlare di ‘resilienza’, la capacità di vivere i momenti difficili con consapevolezza

Pensare positivo può far male alla salute? L’ottimismo forzato ci renderà più fragili e insicuri? L’allarme viene da Newsweek, che ha dedicato un articolo alla tirannia del pensiero positivo. 

Partendo da studi recenti da cui sembra emergere il lato oscuro dell’ottimismo: pensare che “per essere felici basta volerlo” – il messaggio rimandato da decine di manuali di auto aiuto – può mettere in crisi i più fragili, colpevolizzando chi non riesce a risollevarsi. Sembrano confermarlo due studi recenti apparsi sulla rivista Motivation and Emotion: nel primo Karin Coifman della Kent State University mostra come le emozioni negative possano aiutarci a gestire meglio le situazioni difficili. Mentre per il secondo, uno studio sperimentale firmato da Elisabeth Kneeland dell’Università di Yale, chi ritiene che gli stati emotivi non siano immodificabili, e possano quindi essere condizionati, tende a sentirsi in colpa per le proprie emozioni negative.

A essere sotto accusa, secondo la rivista americana, è la psicologia positiva, un filone di ricerca che si basa sulla psicologia umanista di Abraham Maslow e Carl Rogers. Sono stati loro i primi a notare, negli anni ’50 del secolo scorso, come la ricerca psicologica si fosse focalizzata sugli aspetti più oscuri della personalità umana, trascurandone la potenzialità e le risorse nell’ottica di un funzionamento ottimale. Anche se il merito di averne ripreso le idee di fondo, aprendo lo studio del “positivo” a una seria indagine scientifica, va soprattutto a Martin Seligman – già presidente dell’American Psychological Association e oggi responsabile del Centro di psicologia positiva dell’Università della Pennsylvania – insieme con altri, tra cui vale la pena di citare il nome di Mihaly Csikszentmihalyi.

Negli ultimi anni, però, la psicologia positiva ha avuto un crescente successo soprattutto nella versione popolarizzata e divulgativa, utilizzata spesso anche nella formazione aziendale e nell’esercito. Una semplificazione che ha attirato molte critiche da parte di chi pensa che l’ottimismo a priori – quello che la psicologa Barbara Held definisce la “tirannia dell’atteggiamento positivo”- possa fare più male che bene, colpevolizzando chi non riesce a vedere l’aspetto positivo dei guai con cui deve fare i conti.

Diversi studi sembrano alimentare lo scetticismo: una ricerca australiana realizzata nel 2012 mostra che le persone tendono a sentirsi più tristi quando pensano che gli altri si aspettino da loro un atteggiamento ottimista. Mentre altri studi mostrano che, in determinate situazioni, visualizzare l’esito positivo di un compito che ci spaventa come un esame o un colloquio di lavoro – una tecnica frequentemente proposta da corsi e manuali di auto aiuto – può rendere il successo meno probabile.

Anche perché –e forse questa è l’obiezione più interessante e solida avanzata dal reporter americano – un irragionevole ottimismo può tradursi in un atteggiamento superficiale, o nell’ostinazione a negare una verità non gradita, come il fatto di non essersi preparati a dovere.

Tanto che secondo la giornalista Barbara Ehrenreich – autrice di Bright-Sided: How Positive Thinking Is Undermining America – la crisi economica del 2008 sarebbe stata causata anche dall’irrazionale ottimismo di quanti rifiutavano di credere al possibile fallimento di operazioni finanziarie azzardate.

Una preoccupazione legittima, resta da capire se queste evidenze rappresentino critiche effettive alla psicologia positiva. “In questo modo si rischia di banalizzarla: il giornalista fa lo stesso errore che attribuisce agli psicologi. Semplificando un pensiero complesso, che non lavora solo sulle emozioni, ma sul funzionamento normale – e, potenzialmente, ottimale – dell’essere umano, sia dal punto di vista emotivo che da quello cognitivo”, spiega Marta Bassi, ricercatrice universitaria e past president della Società Italiana di Psicologia Positiva.

L’idea della psicologia positiva, insomma, non è quella di “prescrivere” la felicità proponendo scorciatoie o facili ricette, ma di aiutare le persone a trovare un senso e una ragione di speranza anche nelle circostanze più difficili. Non a caso, molte delle ricerche realizzate in questo settore riguardano persone che si trovano in situazioni difficili, disabili o malati e loro familiari: “Non puoi chiedere a chi assiste un familiare malato terminale se è felice nella situazione in cui si trova, se per felicità intendi solo un’emozione positiva – osserva Bassi – ma se ti riferisci alla consapevolezza di quello che c’è di buono anche in un’esperienza così dolorosa – la vicinanza delle persone care, la possibilità di sentirsi utili e di essere vicini in un momento difficile- allora può arrivare una risposta che stupirebbe chi in una tragedia umana non sa vedere altro che l’inevitabile sofferenza”.

E’ questa la differenza tra l’Edonia – un concetto di benessere molto semplificato, che tende a ridurre la felicità al vissuto di emozioni positive, sviluppato soprattutto in ambito statunitense – e l’ Eudaimonia, un benessere che nasce dalla capacità di dare un senso alla propria esistenza e di funzionare quanto meglio possibile, date le circostanze. “Anche vivendo la sofferenza, quando è necessario, senza dimenticare che il dolore può essere un’occasione di crescita personale – osserva Bassi – tanto che la psicologia positiva parla di crescita post traumatica (Postraumatic growth o PGT)”.

Anche Seligman in realtà non parla mai di ottimismo a tutti i costi ma di resilienza, ossia della capacità di recuperare rispetto a un’esperienza problematica: il termine, mediato dalla fisica, indica originariamente la capacità di un materiale di resistere a un urto senza rompersi. “E la resilienza passa anche attraverso il dolore, l’accettazione del fatto che esiste un problema che deve essere gestito e se possibile risolto “, prosegue Bassi. Tenendo conto che non tutti sono uguali, e per qualcuno affrontare le avversità è più difficile, “ma il merito della psicologia positiva è proprio quello di cercare di capire come aiutare le persone ad attivare al meglio le proprie risorse”. Tenendo conto della personalità di ogni individuo, del suo equilibrio – “è comprensibile che chi soffre di ansia si senta schiacciato da un perentorio invito a essere felice” – e soprattutto del contesto sociale e culturale.

Che è, in fondo, quello contro cui si mobilita Newsweek: “Può succedere che chi vive emozioni negative si senta in colpa, ma il problema sono le pressioni sociali, non la psicologia positiva, che piuttosto di tali pressioni cerca di comprendere gli effetti – osserva Bassi – Siamo parlando di un messaggio che arriva da una società che ci vuole performanti a ogni costo, e impone modelli sociali cui stare dietro è difficile”.

E quindi, può avere senso ricordare che i corsi che spuntano un po’ dappertutto, all’insegna di “se lo vuoi davvero, ci riuscirai”, possono ferire i più deboli e aumentare l’ansia di chi sente di non farcela. E che – lo ricordano alcune delle ricerche citate da Newsweek – un momento di cattivo umore può renderci più persuasivi e perfino migliorare la nostra memoria. “Ma soprattutto – conclude Bassi – è importante ricordare che la personalità umana è troppo complessa per racchiuderla in uno slogan“.




Se Richard Branson la mette sul transpersonale

La psicologia transpersonale permette di capire meglio l’evoluzione della coscienza umana e dove si sta dirigendo il nostro rapporto col mondo. Vediamo come.

Ogni fenomeno sociale e onda di cambiamento sono prodotti della cultura in cui nascono; di conseguenza, rispondono ai bisogni più evidenti della società in cui si diffondono. La psicologia, nella declinazione delle sue correnti, ha seguito di pari passo lo stesso principio.

La psicoanalisi e lo studio della dimensione istintuale arrivano per esempio in un momento storico di grande repressione sessuale; la psicologia umanistica nasce nell’era dello sviluppo tecnologico, in cui l’uomo sta diventando macchina: essa quindi apre e supporta il tema della soddisfazione dei bisogni individuali, del senso della vita e del benessere. Dunque in che tempo siamo ora, avendo appagato tutti i bisogni primari di sopravvivenza e di comunicazione?

L’evoluzione della coscienza nella dimensione transpersonale e i suoi effetti sul mondo del lavoro

La corrente di psicologia transpersonale interpreta bene il momento storico, rimettendo il focus sui bisogni “secondari”: appartenenza, fiducia, coraggio, decisione. Ma anche trascendenza, intesa come superamento della separazione dall’infinito, dal divino. La sofferenza, più o meno manifesta, è legata alla ridotta espressione della parte creativa, alla mancata attualizzazione delle potenzialità umane più alte.

Parlando di coscienza ci addentriamo in un territorio che non ha una cartografia scientifica, ma per cui disponiamo diverse mappe con cui orientarci. Se chiedessimo alle neuroscienze di spiegarci la coscienza, l’approccio sarebbe quello di provare a identificarla all’interno della mente umana, nella mappatura dell’attività neuronale. Ne dedurremmo quindi che assenza di movimento è uguale ad assenza di coscienza. In tale senso, non abbiamo risposte definitive.

Sul versante della psicologia, l’esperienza più bella di che cosa possa essere la coscienza l’ho potuta sperimentare personalmente con un docente durante una pratica scolastica. A occhi chiusi, in piedi in uno spazio fisico (libero da tavoli e sedie!), due colleghi mi fecero girare su me stessa in diverse direzioni per un tempo indefinito, al termine del quale mi lasciarono semplicemente andare. Ho potuto così sperimentare la perdita dei confini, uno spazio ampio, che definirei semplicemente qualcosa che va oltre. Ecco, forse la coscienza potremmo immaginarla così.

L’evoluzione dell’umanità è fatta di salti di coscienza, di ampiamento di quello spazio che va oltre, alla ricerca della soddisfazione di quei bisogni secondari di cui abbiamo parlato; di quel principio armonizzatore che è spinta verso la connessione a qualcosa di più “alto”, universale. Se paragonassimo un computer a un cervello umano, potremmo dire che il primo è composto da tanti circuiti separati e molto veloci, mentre il secondo è in grado di fare delle cose attivando i circuiti connessi tra loro, come un tutt’uno.

I movimenti globali di mobilitazione per il clima, il nuovo interesse per le iniziative di CSR, la nascita delle B-Corp: possiamo osservare tutto questo con quella che viene chiamata la seconda attenzioneEspandendo quello spazio privo di confini e osservando da quel punto possiamo accorgerci che tali fenomeni non sono solo una moda del momento, una strategia di employer branding priva di contenuti profondi.

Quelli che definiamo young talent, i giovani talenti per cui le aziende si danno battaglia, sono un chiaro manifesto dell’evoluzione della coscienza delle nuove generazioni. Ancora prima di arrivare a un colloquio si informano sulla presenza di eventuali attività di responsabilità sociale, siano esse green o di volontariato. Ogni giorno posso osservarli lavorare in azienda, e spesso mi capita di riconoscere loro una maggiore capacità di lavorare in team, uno sguardo ricco di curiosità, alla ricerca di ruoli che consentano loro una visione end-to-end nelle loro responsabilità (mi rendo conto che il lessico aziendale ci sta invadendo, e ne sorrido).

Se ogni cosa ci riguarda

Richard Branson, fondatore del Virgin Group e amico personale di Barack Obama (questo già mi basterebbe per provare una bonaria invidia) non è solo capace di twittare la sua immagine mentre galleggia in piscina indossando una coda di sirena: è anche un grande sostenitore della CSR. Lo definirei un fan del genere umano e della connessione col tutto.

Nel 2016, per la compagnia Virgin Atlantic Airways, ha implementato un programma di CSR chiamato Change is in the air (Virgin: Corporate Social Responsibility Case Study, Pearson, 2017), che si focalizza sull’ambiente e la community. Oltre all’impegno a produrre meno emissioni di CO2, ha introdotto un approccio sostenibile in tutta l’esperienza di volo, dai suggerimenti per la preparazione di un bagaglio più leggero al riciclo del rivestimento delle cuffie, così come delle coperte in dotazione ai passeggeri. La plastica delle bottiglie viene trasformata e riutilizzata per comporre parti della divisa dell’equipaggio, che a loro volta verranno riciclate nuovamente, una volta raggiunte le loro onorabili miglia percorse. Il viaggiatore è coinvolto e si sente parte di ogni aspetto dell’iniziativa, può fare una donazione, oppure semplicemente riciclare il giornale che ha letto a bordo. Con alle spalle i tre anni precedenti in perdita, la campagna Change is in the air ha giocato un ruolo fondamentale per invertire la rotta. Tre gli obiettivi che si era prefissata: tornare a un business profittevole, preservare la magia dei suoi impiegati, migliorare la customer experience.

In sostanza, esiste una tensione, un ordine armonico che ci spinge a riconoscere la nostra connessione con il tutto: ogni cosa ci riguarda. Sostenere il bisogno collettivo verso questa spinta promuove individui con una maggiore condizione di salute psicologica (un dato che occorre tenere fortemente in considerazione anche in ambito aziendale), che non può essere intesa come la mera assenza di sintomi, ma come “l’espressione piena delle potenzialità umane nascoste nelle vette della psiche” (Wilber, Ken, Oltre i confini – la dimensione transpersonale in psicologia, Cittadella Editrice, Assisi, 2017).




L’inganno delle imprese sostenibili senza valore condiviso

Non è vero che la sostenibilità nelle aziende genera automaticamente più profitti: bisogna che si sovrapponga al loro core business. E c’è di più.ù

C’è un fondamentale equivoco che mina alla base gli sforzi di rendere la sostenibilità la norma nella gestione delle imprese: la si tratta ancora come una questione alternativamente etica o ambientale; alla meglio, entrambe. In ogni caso come un accessorio, un orpello appiccicato al business primario a causa di un’opinione pubblica ipersensibile agli occhioni degli oranghi o alle fisime di qualche meteorologo estremista. Questo fatto è alla base di un diffuso scetticismo (giustificato) tra la massa del management e degli imprenditori, nonché alla radice dello scoglio principale che essa incontra per sfondare nelle imprese: la difficoltà di dimostrare il “business case”.

Per trarre profitto dalla sostenibilità, rendetela il vostro core business

Come sostiene autorevolmente Michael Porter, uno dei più lucidi ricercatori e teorici sull’argomento, non vi sono a oggi ricerche conclusive che dimostrino la capacità di superare “screening” di responsabilità sociale, o la presenza in indici ESG come il DJSI, di generare causalmente un rendimento superiore sull’investimento rispetto ai concorrenti. Perché accade questo fenomeno?

Nello spazio disponibile possiamo limitarci a dire che ciò accade in quanto, per la maggior parte dei soggetti che sono soliti trattarne, la sostenibilità, la responsabilità sociale d’impresa e l’economia circolare sono elementi sostanzialmente reputazionali; strumenti usati per (tentare di) attrarre consumatori e investitori sensibili ai cosiddetti temi ESG. In alternativa, vengono visti come strumenti per ridurre il rischio di incorrere in sanzioni legali oppure, di nuovo, di incidenti che potrebbero danneggiare la reputazione del marchio o dell’azienda. Come dimostrano casi paradigmatici quali il Deep Water Horizon di BP, che aveva investito centinaia di milioni di dollari per crearsi un “vestito green” (ricordate lo slogan “Beyond Petroleum?”), oppure quello del Dieselgate, questi approcci non hanno avuto molto successo.

Viene completamente sottovalutato, sostanzialmente per mancanza di discernimento specifico, il collegamento causale tra la risposta a bisogni sociali o ambientali attraverso il core business dell’impresa con la capacità di generare valore, anzi Valore. Infatti, le imprese che perseguono la sostenibilità integrata nel proprio “core business” non appiccicano il programma di sostenibilità come uno sticker sulla propria vetrina mentre nelle officine praticano un quotidiano in pieno contrasto – o al meglio indifferente. Esse mirano a generare un valore globale positivo proprio attraverso la loro attività principale, legando l’impatto sociale al vantaggio competitivo. Su questo gemellaggio virtuoso si basa la teoria dello shared value di Porter, e con buone ragioni.

Volendo considerare le performance di casi esemplari di sostenibilità integrata come quello di Interface, ormai un caso veramente paradigmatico di quest’approccio, diviene del tutto evidente che è quando la sostenibilità investe l’intero core business dell’azienda che i risultati diventano straordinari. Del resto, come non mi stancherò mai di sostenere, nelle imprese c’è un potenziale enorme di intelligenza, capacità, inventiva, competenza tecnica, scientifica e di risoluzione di problemi, che se volto alla risposta ai bisogni della società e alla tutela dell’ecosistema per le generazioni future può veramente tanto.

Da quando Interface ha abbracciato la celebre missione “2020 Zero Impact”, nel 1994, solo i suoi primi cinque anni hanno portato a questo scenario:

Se anche l’azienda non facesse alcun report di sostenibilità, è evidente il vantaggio competitivo portato da una sostenibilità integrata in ogni processo, a partire da quelli di decisione e strategici fino al pavimento della fabbrica (consiglio di leggere il libro di Ray Anderson, fonte della tabella, per lasciarsi portare sulle ali di un’ispirazione entusiasmante).

L’esempio della sudafricana Discovery: quando le aziende producono valore condiviso

Un altro bell’esempio d’integrazione tra gli obiettivi di business e la generazione di valore sociale (tradotto: “sostenibilità”, oppure “contributo allo sviluppo sostenibile” come direbbe la ISO 26000:2010) è quello della compagnia di assicurazioni sudafricana Discovery. Il suo scopo dichiarato è quello di rendere le persone più sane. Lo traduce nella propria attività abbinando i propri prodotti assicurativi (Life & Health) a incentivi economici e sostegno ai clienti perché intraprendano stili di vita più salutari. Un incredibile sistema di premi e riconoscimenti ricompensa le persone per il raggiungimento di obiettivi settimanali di attività fisica, l’acquisto di cibi genuini e sani e così via. Il tutto monitorato via app o dispositivi indossabili. Studi indipendenti hanno confermato l’effetto positivo della politica aziendale sullo stato di salute e sull’aspettativa di vita dei clienti. Intanto, l’azienda può offrire polizze a minor costo ai clienti (che sono meno “rischiosi”) e ha un vantaggio competitivo enorme, difficilmente aggredibile dai concorrenti.

Tutto grasso che cola sono i benefici generici di uno scopo “etico” dell’impresa, come un profondo coinvolgimento dei collaboratori che favorisce una grande produttività e un’incredibile creatività, generatrice d’innovazione continua. Sono due esempi, ma la tendenza è univoca e inequivoca sul modo in cui la sostenibilità può davvero “pagare”.

Dunque, quando la generazione di valore sociale o condiviso” (lo shared value) diviene essenza stessa dell’impresa, allora sì che possiamo parlare di sostenibilità, e soprattutto dimostrare chiaramente il “business case” al management. Quando invece si tratta di un’etichetta etica appiccicata per fare bella figura, o qualcosa a margine del core business come il welfare aziendale, quasi sicuramente ci troveremo ad affrontare un costo supplementare che sarà molto difficile da recuperare e giustificare ai padroni della “borsa”.

I benefici di una competizione sana

Per avviarmi a conclusione di queste considerazioni, mi domando: la sostenibilità per competere meglio, è un’eresia oppure no?

Da Porter passo a Confucio, del quale si racconta che un giorno, a un messaggero corso a chiedere aiuto perché il caos stava diffondendosi nel Regno, rispose: “Per prima cosa restituiamo alle parole il loro significato”. Se andiamo alla radice della parola “competere”, ci accorgiamo che viene dal latino “cum-petēre”, dal significato “andare da qualche parte con, dirigersi a con, chiedere con”.

C’è un “andare insieme verso un obiettivo” che trovo irresistibile nel cuore di questa parola.

È da un paio di secoli che il capitalismo e l’impresa sono stati da un lato motori di sviluppo economico e progresso tecnologico, ma anche di differenziazione e dolore sociale, per non parlare degli effetti devastanti sull’ecosistema. In quest’epoca il capitalismo e l’impresa sono, spesso a buona ragione, guardati con sospetto, diffidenza o addirittura odio nella società.

Se l’impresa intraprende la generazione di valore condiviso come parte integrante della sua missione, consapevole che da questo viene anche il suo maggior beneficio, è possibile riallineare capitale, impresa, società e ambiente nello sforzo comune di generare un progresso diffusogiusto e benefico per le generazioni presenti e future.

È solo questione di etica, dunque? Beh, non solo. Si tratta di etica ed efficacia. Se l’efficacia non è supportata dall’etica, diviene sfruttamento e speculazione. Se l’etica non è abbinata all’efficacia, resta un manifesto d’intenti, oppure un report bello e vuoto di cosiddetta sostenibilità. Quando impresa (efficacia organizzata), ambiente (ecosistema che supporta la vita) e società (bisogni della nostra specie sociale organizzati) competono (si dirigono insieme a un obiettivo), abbiamo la sostenibilità, e una sana collaborazione, che premierà chi meglio soddisfa i bisogni degli stakeholder in ogni momento e aspetto della propria attività.




Arriva WhatsApp Pay, sistema di pagamento tramite chat

Arriva WhatsApp Pay, sistema di pagamento tramite chat

Mark Zuckerberg, durante la presentazione dei risultati finanziari di Facebook, ha annunciato il lancio nei prossimi sei mesi «in diversi Paesi». Potrebbe riguardare anche l’Italia

Nei prossimi sei mesi «WhatsApp Pay sarà rilasciato in diversi Paesi». Sono le parole di Mark Zuckerberg, che durante la presentazione dei risultati finanziari, ha annunciato l’imminente arrivo del sistema di pagamento.

Sistema che Facebook sta testando in India, su un migliaio di utenti, già dal 2018. Nel 2019, una serie di problematiche normative ne hanno impedito il lancio in tutto il Paese. Adesso, però, è arrivato il momento di una mossa più globale. E WhatsApp Pay sembra veramente vicino ad un consistente roll out che potrebbe riguardare anche l’Italia.

Il test in India

«Nel 2018 – ha detto Zuckerberg – abbiamo ottenuto l’approvazione per testare WhatsApp Pay con un milione di persone in India. E così tante persone hanno continuato a usarlo settimana dopo settimana. Sono davvero entusiasta di questo, e mi aspetto che inizi a diffondersi in un certo numero di Paesi nei prossimi sei mesi».

Come funziona WhatsApp Pay

Il sistema di pagamento aggregato a WhatsApp è molto simile ad altri sistemi già in uso da tempo. Si basa su tecnologia UPI (Unified Payment Interface) Peer to Peer, piattaforma di pagamento che lavora in tempo reale, sviluppata da National Payments Corporation of India per facilitare le transazioni interbancarie.

In sostanza consente di effettuare pagamenti fra persone, ma anche di pagare nei siti di e-commerce che lo supportano. I pagamenti passano attraverso il proprio account WhatsApp che è legato a un conto corrente o a una carta di credito.

I dubbi su Libra

La notizia del lancio globale di WhatsApp Pay arriva a pochi giorni dall’ennesimo addio a Libra. La criptovaluta di Facebbok, che nei mesi scorsi aveva dovuto fare i conti col congedo dei maggiori sostenitori del progetto (da Paypal a Stripe, fino a eBay, Visa e Mastercard), ha incassato un altro colpo basso.

Stavolta è stata Vodafone a sfilarsi, facendo sapere che le risorse precedentemente destinate a Libra saranno destinate al suo consolidato servizio di pagamento digitale M-Pesa, che l’azienda intende espandere oltre le sei nazioni africane attualmente servite.

L’esempio WeChat

WhatsApp Pay, però, corre spedita. L’idea di Zuckerberg è quella di rendere l’app di messaggistica anche un sistema di pagamento. E un esempio molto concreto di quello che potrebbe essere già esiste.

WhatsApp Pay potrebbe somigliare molto alla sua omologa cinese WeChat. L’applicazione di proprietà della holding cinese Tencent è una spanna avanti a tutte le altre. WeChat in Cina è sinonimo di un successo digitale clamoroso. Nata come app per la messaggistica (proprio come WhatsApp), è stata trasformata in piattaforma per il business a 360 gradi.

Attraverso la app sono possibili non solo lo scambio di denaro fra privati (in modalità peer to peer), ma anche le transazioni finanziarie fra utente e aziende. I cinesi, tramite WeChat pagano le bollette, i biglietti del treno, le multe, gli acquisti che fanno online e anche il ristorante. Un esempio che Zuckerberg pare voglia seguire fino in fondo. E nei prossimi 6 mesi, lo scopriremo.




La prima serata di Sanremo seguita da un nerd: “Grazie Twitter, mi hai salvato dalla sagra della nostalgia”

La prima serata di Sanremo seguita da un nerd: "Grazie Twitter, mi hai salvato dalla sagra della nostalgia"

Non l’avevo mai fatto. Non ero mai rimasto sintonizzato su Rai Uno tutta la durata di una puntata di Sanremo, integralmente intendo, fino alla fine. Tutta. Il festival si guarda a spizzichi e bocconi, magari malavoglia, si leggono i commenti sui social, si ascolta in radio, certo, ma nella sua integrità non mi era mai capitato di guardarlo. Mai.

Acceso il tablet e lanciata l’app di RaiPlay, mentre entra Fiorello, la domanda che mi frulla in testa è se la batteria dell’iPad pro durerà tutta la durata della diretta, sarebbe una discreta prova. Il Sanremo Battery test.

No, non sono un fan del Festival e, ammettiamolo subito, rappresento la fetta di millennials che ricorda Fiorello a Sanremo più per la storia con Anna Falchi che per… e controllo su Wikipedia, “Finalmente tu” in gara nel 1995.

Sanremo è il Novecento, è la televisione a tubo catodico, è quella in bianco e nero, è la Prima e la Seconda Repubblica, la storia del Paese, bla bla bla… Quintali di inchiostro per elogiare il Festival della canzone italiana ma la domanda rimane.

Ma tutta una puntata intera devo sorbirmi? Sul serio?

Ognuno guarda il festival seguendo le proprie fissazioni: chi la musica, chi lo stile, chi la qualità dello sfuocato nell’inquadratura. Possibile che ancora le telecamere abbiano sei lamelle e i punti luce siano degli esagoni come i peggiori obiettivi zoom entry-level o i “cinquantini” anni Settanta e Ottanta. Sì lo so, è un commento assurdo, ma l’ho già detto non sono un tipo da festival e non ho commenti divertenti sul look o le canzoni, ma per questo, per fortuna, esistono i social network.

Continuo a seguire le evoluzioni canore dal tablet, la tentazione di smettere di guardarlo è forte, Sembra un secolo fa che Albano e Romina duettavano il loro singolo sul palco presentati dalla figlia. Perché sembra tutto una sagra di paese? Arriverà l’Hully Gully a breve?

Così fra un monologo tirato un po’ troppo per le lunghe e l’altro, il Festival prosegue verso la conclusione. L’orologio segna un quarto all’una e mancano ancora tre cantanti. Nemmeno su Internet si trovano più commenti sarcastici e divertenti con facilità. È tardi. Nel frattempo la batteria dell’iPad è arrivata al 50 per cento, una discreto test, sarebbe da proporre ad Apple.

Ho visto la prima puntata del festival, tutta insieme, senza interruzioni. Sarò più competente domani nelle discussioni a lavoro? Riuscirò a far battute ironiche migliori e strappar più risate in pausa caffè? I tweet, a Sanremo appena concluso, sono stati oltre 400mila. Basta una rapida scorsa per leggere battute divertenti e trovare meme da riciclare. Dai boomers che bofonchiano sulla tutina di Achille Lauro ai cattivisti che si lamentano dei monologhi sulla violenza delle donne… impossibile non trovare una battuta che non ci faccia sorridere o indispettire. La scelta c’è, senza ombra di dubbio.

Forse è proprio Twitter l’unico strumento che è rimasto a ricordarci che, da 20 anni ormai, il Novecento si è concluso. Nonostante Sanremo sia la più grossa fabbrica di nostalgia che esista in questo Paese, siamo in un nuovo millennio e per di più nell’epoca d’oro dei social network. Un mezzo utile, indispensabile come nessun altro per questo Sanremo. Sarebbe bastato leggere qualche cinguettio sopra le righe per aver la battuta pronta senza doversi sorbire quasi cinque ore di diretta.

Gli anni Ottanta e Novanta, facciamoci la pace, son finiti. E per quanto riguarda Sanremo non è detto che sia un male, anzi. Grazie ai social network anche se non guardiamo il festival possiamo sentirci comunque al centro della discussione. Un discreto risparmio di tempo. E per tutta la settimana basterà leggere gli hashtag più in voga per sembrare davvero esperti musicali.