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Nuova stretta contro il fast fashion, arriva la legge che obbliga alla sostenibilità e al rispetto dei diritti umani: “Incompatibile con il loro modello di business”

Alla fine l’Europa ce l’ha fatta. Dopo bocciature, ripensamenti e rinvii vari, l’Unione Europea ha finalmente adottato una legge storica che rivoluzionerà la sostenibilità delle filiere produttive. Il Parlamento europeo ha approvato la Corporate sustainability due diligence directive (Csddd), ovvero un pacchetto di regole che obbliga le aziende a controllare, gestire e minimizzare il loro impatto negativo sull’ambiente e sui diritti umani. La direttiva è stata accolta dal Consiglio dell’Unione Europea il 24 maggio, a un passo dalla fine del suo mandato, e sebbene il testo finale sia a dir poco “annacquato”, queste norme sono un passo decisivo verso un futuro più sostenibile. Prima di questa legge, infatti, solo le aziende più responsabili monitoravano i rischi e gli impatti della loro catena di approvvigionamento. Ora, tutti gli operatori del mercato, a cominciare dai più grandi, dovranno controllare, gestire e minimizzare il loro impatto negativo sull’ambiente e sui diritti umani. Neanche a dirlo, tra i settori più interessati dalla direttiva c’è quello della moda: ne abbiamo parlato con Francesca Rulli, ceo di Process Factory e ideatrice di 4sustainability, il metodo che attesta le performance di sostenibilità della filiera di un’azienda di moda.

Perla moda, cosa cambia ora?
Questa legge introduce chiaramente la responsabilità per le imprese di monitorare i rischi e gli impatti sociali e ambientali delle loro filiere di produzione. Il fashion & luxury è tra i settori interessati e sono coinvolte tutte le aziende che si avvalgono in maniera più o meno rilevante di filiere di produzione. La direttiva chiede di mapparle, valutare i loro rischi ambientali e sociali, costruire un sistema di monitoraggio efficace integrandolo nelle policy e procedure dell’organizzazione e costruire un sistema di reportistica per la trasparenza e la definizione delle azioni di miglioramento. Prima solo le aziende più orientate alla sostenibilità e con progetti volontari ambiziosi misuravano i rischi e gli impatti dei loro fornitori: ora, invece, dovranno provvedere al monitoraggio tutti gli operatori del mercato, a cominciare da quelli più grandi.

Cosa significa, nella pratica, “vigilare sul rispetto dell’ambiente e dei diritti umani nella filiera”?
La norma impegna le imprese interessate a identificare e, se necessario, a prevenire e porre fine o mitigare gli impatti negativi delle proprie attività su diritti umani e ambiente. Questo coinvolge anche i partner lungo tutta la catena del valore e quindi fornitori, vendita, distribuzione, trasporto, stoccaggio e gestione dei rifiuti… Le imprese devono rendere disponibili le informazioni relative alla loro politica di Due Diligence sull’European Single Access Point (ESAP), in modo che possano accedervi con facilità anche gli investitori. Parliamo di una vigilanza con doppio scopo: trasparenza verso gli investitori – volta come il Reporting di Sostenibilità a proteggere il patrimonio aziendale, sempre più collegato a logiche ESG – e trasparenza verso gli altri stakeholder, mirata alla riduzione degli impatti ambientali e sociali generati dalle filiere produttive.

Può fare un esempio di controlli che potranno essere fatti o di possibili infrazioni?
Poniamo il caso di un brand che raccoglie dati dai suoi fornitori relativi alle procedure di sicurezza, all’utilizzo della chimica e dell’acqua, ecc. Ce ne sono alcuni che lo fanno da anni, anche anticipando le indicazioni normative. È un processo che si svolge in più fasi e va dalla mappatura dei fornitori alla verifica dei dati raccolti. A livello di controlli e sanzioni, è prevista una supervisione amministrativa e un meccanismo di responsabilità civile. Ogni Stato membro dell’Unione Europea dovrà istituire un’autorità di vigilanza incaricata di verificare la conformità delle imprese agli obblighi previsti dalla Direttiva: queste saranno autorizzate ad avviare ispezioni e indagini e ad applicare sanzioni alle imprese inadempienti fino al 5% del loro fatturato netto mondiale. Le persone che subiscono un danno a causa di una violazione dei diritti umani o degli standard ambientali avranno la possibilità di intentare azioni legali entro cinque anni dalla violazione e, se necessario, di ottenere un risarcimento. Stessa cosa per i sindacati e le organizzazioni della società civile.

La legge si applica anche alle aziende che hanno sede al di fuori dell’Unione europea, tra cui le “famigerate” Shein e Temu?
Sì, si applica anche alle aziende che hanno sede al di fuori dell’Unione Europea, se registrano nell’UE un fatturato netto superiore a 450 milioni di euro nell’esercizio finanziario, indipendentemente dal numero di dipendenti. Rientrano nell’ambito di applicazione anche le aziende o le società madri di gruppi che hanno stipulato accordi di franchising o di licenza all’interno dell’Ue e, quindi, anche i giganti del commercio elettronico. Le aziende extra Ue che operano nel mercato europeo saranno soggette al monitoraggio da parte delle autorità competenti degli Stati membri in cui generano fatturato: questo significa che le autorità nazionali avranno il compito di garantire che le normative siano rispettate anche da queste entità. A livello di tempistiche per l’applicazione degli obblighi, le prime a doversi attrezzare (a partire dal 2027) saranno le imprese europee con più di 5.000 dipendenti e un fatturato superiore a 1.500 milioni di euro. Seguiranno le imprese con oltre 3.000 dipendenti e un fatturato superiore a 900 milioni di euro (a partire dal 2028) e a chiudere tutte le altre, a partire dal 2029. Insomma, i primi ad essere chiamati in causa saranno proprio i colossi dell’ultra fast fashion, che incarnano i modelli di produzione e consumo in assoluto più impattanti perché basati sul massimo profitto e zero responsabilità verso l’uomo e l’ambiente.

Le aziende del fast fashion sono pronte a questa nuova normativa?
Distinguerei tra fast fashion e ultra fast fashion. Alcuni brand del fast fashion si stanno muovendo per implementare politiche di sostenibilità coerenti con la rivoluzione normativa in atto e in qualche caso hanno già iniziato ad effettuare due diligence sui diritti umani e sull’ambiente, a sviluppare piani di transizione climatica e a migliorare la trasparenza nelle loro catene di approvvigionamento. Il livello di preparazione e di incisività, evidentemente, è molto variabile. Discorso diverso per le aziende dell’ultra fast fashion come Shein e Temu: il loro modello di business è talmente lontano dai principi posti da risultare incompatibile.

Cosa rischiano se non rispettano questi requisiti?
I rischi di non conformità, per dirne una, sono altissimi e comportano conseguenze importanti. Le autorità competenti degli Stati membri dell’Ue, infatti, possono imporre multe significative, con sanzioni finanziarie proporzionali al fatturato dell’azienda e dunque particolarmente onerose per le grandi aziende. La direttiva prevede inoltre restrizioni operative, inclusi divieti o limitazioni nell’accesso al mercato europeo dove i colossi dell’ultra fast fashion realizzano una grossa parte del loro fatturato. Danni reputazionali a parte, infine, c’è da considerare il rischio di azioni legali da parte di gruppi di interesse, Ong e altri attori, che potrebbero esporre ulteriormente le aziende non conformi.

La Francia sta pensando di tassare il fast fashion: può essere utile o replicabile?
Il disegno di legge presentato dalla parlamentare Anne-Cécile Violando si compone di soli tre articoli, ma con un peso specifico notevole. Il secondo, in particolare, introduce la tassa basata sul principio di EPR, che estende la responsabilità del produttore all’intero ciclo di vita del prodotto, prendendo in considerazione anche gli impatti generati dalla sua produzione e dal suo smaltimento. Il sovrapprezzo su ogni capo, in buona sostanza, dipenderà dall’impatto ambientale del capo stesso, calcolato a partire da una stima delle emissioni di CO2: maggiore l’impatto, maggiore la tassa. L’obiettivo è palese, anche perché si inserisce in un contesto coerente di iniziative tese da una parte a proteggere l’ambiente dagli effetti tristemente noti dell’over production, dall’altra a tutelare il settore tessile e della moda francese dalla pressione dei grandi gruppi stranieri. Rispetto alle iniziative di fonte europea, il disegno di legge francese ha il pregio di tassare chi produce senza tutele e vende poi i suoi prodotti a costi bassissimi in paesi dove c’è invece chi investe in percorsi seri di sostenibilità. Il solo aspetto a preoccuparmi è la decisione della Francia di muoversi da sola, invece che attendere la disciplina europea… Voglio credere però che si tratti solo di un modo per fare pressione velocizzando i processi decisionali e che tutti i paesi europei, alla fine, avranno norme fra loro armonizzate: per le imprese, altrimenti, che complessità enorme sarebbe doversi adeguare a norme diverse da Paese a Paese!

Un’altra novità in arrivo è il passaporto digitale di prodotto, che raccoglierà e comunicherà tutte queste informazioni: come funziona?
Sarà una vera e propria “carta d’identità” dei prodotti di moda e aiuterà i consumatori a conoscere dove e come è stato realizzato un prodotto. L’obiettivo è di abbattere i rischi di essere manipolati e dare meno opportunità ai brand di scadere – consapevolmente o meno – nel green e social washing. I campi-dati non sono stati ancora definiti con esattezza, ma la normativa contiene già alcune indicazioni importanti sul tipo di informazioni che i passaporti dovranno riportare. Da giugno 2027, i prodotti tessili e di abbigliamento commercializzati nel mercato Ue dovranno dimostrare infatti di essere durevoli, riparabili e riciclabili, privi di sostanze nocive e realizzati nel rispetto dei diritti sociali e dell’ambiente da filiere di produzione monitorate in termini di rischi ambientali e sociali. Ogni scheda si potrà scansionare con un QRCode o un chip RFID e conterrà un grande numero di informazioni sul capo o accessorio a cui è associato, informazioni che sarà responsabilità estesa del produttore assicurare.




La fabbrica (AI) di San Pietro

La fabbrica (AI) di San Pietro

Non c’è bisogno di scomodare l’AI. Da anni tutto è software. “Se oggi si rompono i gestionali delle casse di un supermercato, quel supermercato diventa un magazzino”. Il punto, però, è che man mano che il software diventa più intelligente, definisce sempre di più la realtà. Sintesi firmata Paolo Benanti, ordinario di Etica delle tecnologie della Pontificia Università Gregoriana e figura chiave per l’AI in Vaticano, ma anche in Italia. Benanti fa parte di entrambe le Commissioni di Palazzo Chigi sul cui lavoro è stato basato il ddl italiano sull’intelligenza artificiale.

Il disegno di legge sull’AI annunciato a inizio marzo da Palazzo Chigi e previsto per prima di Pasqua è stato approvato dal Cdm a fine aprile, dopo settimane in cui – tra dicasteri diversi – è stato messo a punto un documento che affronta diversi dei punti più importanti relativi alla regolazione dell’AI in Italia, che potrebbe diventare il primo Paese a legiferare sul settore dopo la votazione dell’AI Act europeo dello scorso 13 marzo. È stata voluta dal sottosegretario all’Innovazione di Palazzo Chigi Alessio Butti la commissione sulla strategia italiana dell’AI di cui fa parte Benanti, che negli scorsi mesi è diventato presidente di un’altra commissione: quella sull’impatto AI sull’editoria, voluta dal sottosegretario Alberto Barachini.

Il confronto sul ddl è avvenuto anche internamente a Palazzo Chigi, tra il dipartimento per l’informazione e l’editoria e quello per la trasformazione digitale, in particolare sul copyright. Un tema ovviamente già affrontato durante il lavoro delle due commissioni, poi incluso al capo 4 del ddl, sulle disposizioni a tutela degli utenti e in materia di diritto d’autore.

Benanti sa bene quanto il lavoro su un testo che metta d’accordo tutti possa essere laborioso. Con Fortune Italia ha parlato a margine della firma, da parte della multinazionale Cisco, della Rome Call for AI Ethics, il documento creato dalla Pontificia Accademia per la Vita e promosso dalla Fondazione RenAIssance istituita da Papa Francesco e guidata dallo stesso Benanti, che fa anche parte della Commissione Onu sull’AI. Quando chiediamo come faccia a far parte di così tante commissioni diverse, il professore ride: “È come per le trottole: basta continuare a girare, perché se ti fermi cadi”.

Creata nel 2020, alla call del Vaticano questa estate si aggiungerà l’adesione dei rappresentanti delle fedi orientali, dopo quelli delle fedi abramitiche nel 2023. “Più si cerca un’adesione su un testo specifico, più il lavoro è lento. Ora dobbiamo capire come questi principi interrogano quella parte di intelligenza artificiale arrivata in questi anni, i grandi Llm. C’è una nuova urgenza: tutelare i singoli utenti perché gli llm vanno a interagire proprio con loro”.

Nel caso della firma della Rome Call (che è sostenuta da contributi volontari di enti di ricerca e soggetti singoli, perché “ricevere finanziamenti dai firmatari sarebbe un conflitto d’interessi”, spiega Benanti) collidono l’universo Vaticano, quello governativo e quello delle grandi aziende della tecnologia. Che ruolo può avere una iniziativa del genere in un Paese che cerca di trasformarsi in un centro di sviluppo per l’AI? Secondo Benanti “è chiaro che un’iniziativa che trova principi che siano un ponte tra pubblico e privato può facilitare il dialogo”. Non è nella call che avviene quel dialogo, “ma vedere che i principi sono accettati da entrambi i mondi, in un momento in cui vogliamo che la società sfrutti queste potenzialità, ci rende felici. La Rome Call avrà raggiunto il suo scopo quando non ci sarà più bisogno di lei. Quando queste cose accadranno senza contributo culturale”.

Tra le soluzioni del ddl italiano al nodo dei diritti d’autore, c’è l’apposizione dell’opt out: l’estrazione dei dati per addestrare sistemi AI è consentita se ciò non è vietato da chi detiene i diritti. Nel caso di contributo umano rilevante, anche i prodotti creati con l’ausilio dell’AI possono essere protetti da copyright. Quello di una commissione “è un lavoro prepolitico”, dice Benanti. Tra i contributi della commissione editoria – una relazione firmata e certificata su blockchain – c’è proprio il concetto di opt out, la riconoscibilità di quanto scritto dall’umano e il ‘watermarking’ di ciò che è generato dalle macchine. Guardrail netti che, ammette, lasciano ancora tanto “grigio” nel mezzo.

Entrambe le relazioni delle commissioni, spiega, contengono l’analisi di “quello che sta succedendo” e giudicano il contesto “con competenze scientifiche”, per poi “offrire alla politica la possibilità di attuare la sua decisione. Come commissioni ci siamo fermati qua”, anche se il comitato sull’editoria “tornerà a riunirsi”.

Le decisioni, “come è giusto che sia”, spettavano alla politica. “Da presidente di una delle due commissioni e da membro dell’altra, direi che sono stati fatti importanti passi in avanti. Si pensi agli strumenti per proteggere i minori”.

Come tutti i tentativi di “introdurre delle regole in un mondo così nuovo, questo non sarà l’ultimo e probabilmente altre novità seguiranno, anche con lo sviluppo delle tecnologie stesse”. Insomma, come per la fabbrica di San Pietro (l’ente che gestisce da 500 anni i lavori della Basilica) il lavoro su regole e principi di una tecnologia in continua evoluzione non finisce mai. L’importante è costruire in tempo l’impalcatura giusta.

Il disegno di legge

Il 23 aprile il Cdm ha approvato il disegno di legge (suddiviso in 5 capitoli e 26 articoli) che secondo il Governo porterà l’Italia ad avere una politica industriale sull’AI. Oltre che sulla tutela del diritto d’autore, le norme intervengono sulla strategia nazionale, le autorità nazionali, le azioni di promozione e le sanzioni penali. Ecco alcuni dei punti più important

 I fondi

Dopo l’annuncio di Giorgia Meloni arrivato il 12 marzo durante l’evento sull’AI voluto dal Governo a Roma, è stato inserito nel ddl (non c’era nelle prime bozze) il famoso tesoretto ‘fino a’ un miliardo per l’AI, da spendere su partecipazioni in startup e pmi attraverso Cdp Venture Capital e il fondo di sostegno del Mimit.

Giustizia

Da uno a tre anni: è la pena prevista per il reato di sostituzione di persona se si usano deepfake, la cui diffusione (per scopi criminali) è a sua volta punita con pene che arrivano fino a cinque anni “se dal fatto deriva un danno ingiusto”.

I 2 controllori

A vigilare sul’AI saranno, come annunciato settimane prima, Agid e Acn, rispettivamente con poteri di monitoraggio e sanzionatori. Alle attività chiave per la sicurezza nazionale, si legge nel documento, non si applicano le regole del ddl.

I bollini

Oltre a prevedere altre aggravanti sull’AI nella tutela del diritto d’autore, il ddl chiede a tv, radio e piattaforme di streaming l’inserimento di bollini o marcature chiaramente visibili per identificare i contenuti realizzati con AI, mentre anche sui social questi contenuti dovranno essere identificabili.




Il Vaso di Pandoro: riflessioni per manager

Il Vaso di Pandoro: riflessioni per manager

A quasi sei mesi dalla multa dell’Antitrust e dalle indagini sul caso Pandoro-gate che hanno investito Chiara Ferragni e le sue società, Selvaggia Lucarelli pubblica Il Vaso di Pandoro, libro-inchiesta che ripercorre dagli esordi l’ascesa e la caduta della influencer e del suo mondo.

Il libro è un’esamina socio-culturale che evidenzia il grande ruolo dei media, non solo dei social media ma anche dell’informazione tutta, nella creazione del personaggio Ferragni quale imprenditrice di successo e simbolo di empowerment femminile dedito alle cause sociali e alla beneficenza. Nulla di più distante dalla realtà dei fatti che è emersa a partire solo dallo scorso dicembre, nonostante vi fossero dei prodromi da anni:

  • 2016: annuncio progetto charity per terremoto nelle Marche, mai finalizzato;
  • 2017: Soleterre per il diritto alla salute dei bambini, con lancio su account Depop per cui era pagata (#adv) e con ricavato poco più di 4.000 euro;
  • 2019: bambola Trudi e ricavato in favore di Stomp Out Bullying, ad oggi oggetto di indagine da parte della Procura di Milano;
  • 2020: beneficenza e advertising insieme per linea abbigliamento e biscotti Oreo;
  • 2021: donazione per ospedale Buzzi attraverso vendita su Wallapop, da cui è pagata (#adv).

Questi sono stati ignorati a beneficio di uno storytelling compiacente e succube dell’enorme bolla di benevolenza mediatica che ha sempre circondato Ferragni.
Ed è questa bolla che ha permesso all’influencer di creare un impero valutato 75 milioni di euro (giugno 2023). Ma su quali basi si fondava, e come veniva gestito tanto successo? Fragilità manageriale, impreparazione e una certa dose di prepotenza mista a cinismo sembrano essere i canoni che hanno contraddistinto negli anni il “sistema Ferragni” e che sono emersi grazie alla crisi, alle indagini giornalistiche e alle testimonianze dei dipendenti.

Di questa vicenda è interessante analizzare alcuni aspetti e alcune anomalie, utili a comprendere delle dinamiche che possono investire qualsiasi brand o azienda.

Arretratezza digital

Il digital si trasforma e si evolve costantemente. Cambiano tendenze, modi e usi delle piattaforme, mentre ne nascono delle nuove dettate da regole comportamentali e di engagement sempre diverse. Come sottolineato da Serena Mazzini (esperta di social media manager intervistata da Lucarelli NdR), Ferragni è un brand che non si è saputo evolvere perché è rimasto ancorato alle logiche del primo Instagram e fatica a entrare in quelle di TikTok, dove vince il contentainment (funzionano i contenuti coinvolgenti per il pubblico, non le mere foto NdR). Mazzini continua spiegando che gli utenti non sono più interessati a modelli aspirazioni da seguire o all’ostentazione del lusso, ma si rivolgono ai social come a dei “piccoli schermi televisivi nei quali specchiarsi e nei quali cercare, spesso, compagnia o confronto diretto”.

Cosa significa questo per la strategia di comunicazione di un brand? Che deve essa stessa evolvere e adattarsi ai nuovi paradigmi di comunicazione social, pena la perdita di pubblico e l’incapacità di attrarne di nuovo.

Impreparazione al ruolo

Intesa come la capacità di svolgere un ruolo aziendale grazie alla competenza (derivante anche da appropriati studi) e all’esperienza, non solo per attitudine e istinto personali, che senza dubbio sono importanti, ma non possono essere tutto. Oggi, troppo spesso, si affidano ruoli legati alla comunicazione, o anche al management, a persone, non a professionisti.

Ne è un esempio l’ufficio stampa Balocco, che si scopre essere stato la fonte di Lucarelli nel scoperchiare il vaso di Pandoro. A dicembre 2022, la giornalista contattò l’ufficio stampa per chiedere lumi sulla vicenda e fu proprio lo stesso a spiegare che fra Balocco e Ferragni vi era una sinergia commerciale finalizzata alle vendite e che la beneficenza era cosa distinta derivante solo da una donazione dell’azienda dolciaria.

Quando Lucarelli evidenziò il fatto che il Corriere (e tutti i principali quotidiani nazionali) avesse scritto “Ferragni e Balocco sostengono insieme l’ospedale…” e che quindi la comunicazione era ingannevole, l’ufficio stampa rispose che “ciò esulava dalle sue competenze”. I rapporti con i media, e quindi anche la richiesta di rettifiche, è parte integrante del lavoro di ufficio stampa. Lo si impara il giorno 1 di stage (e su qualsiasi manuale di relazioni pubbliche).

Altro esempio è la gestione familiare, scanzonata e a volte spregiudicata delle aziende TBS Crew e Chiara Ferragni Collection da parte di Fabio Maria Damato. Il general manager vanta un background come fashion editor per Class Editori e il Corriere, nonché come autore di testi di moda per Amica. Alla Bocconi frequenta il “corso di studi in economia” ma la laurea non è mai confermata dallo stesso. Sotto la direzione di Damato le aziende di Ferragni spiccheranno il volo e arriveranno ai fatturati milionari da sogno che tutte le testate di economia hanno raccontato.

L’intuizione è quella di far diventare Chiara Ferragni testimonial per grandi brand, in modo da ottimizzare risorse e profitti. E i profitti saranno clamorosi se si pensa che un brand di yogurt arriva a pagare 500/600.000 euro per alcuni post e storie. Si può contestare la spregiudicatezza con cui si decide di chiudere contratti con qualsiasi tipo di brand, perdendo di vista il posizionamento alto su cui aveva lavorato Ferragni negli anni, ma il ROI parla chiaro.

Il problema è che mentre aumentava il ROI, diminuiva la solidità delle aziende, a causa di politiche di licenziamenti di dipendenti storici a fronte di assunzioni familiari. La situazione lavorativa dei dipendenti non era da meglio. Lavoravano per stage sottopagati e stipendi da fame, se paragonati al costo della vita di Milano, oppure come finte partite Iva e sotto costante pressione psicologica. Una situazione del genere, che non può reggere al nascere della prima crepa, peggiora con la crisi quando di fatto i dipendenti vengono lasciati da soli a gestire le perquisizioni della guardia di finanza e tutto ciò che ne deriva.

Come accennato nell’articolo di dicembre, quella del Pandoro-gate è una crisi manageriale, non di comunicazione. Le pratiche messe in atto per “camuffare” la beneficenza sono una scelta che nell’inchiesta di Lucarelli trova solide testimonianze. Probabilmente il tutto è frutto davvero della mancanza di guida e di consulenza da parte di professionisti, mancanza che oggi ancora si sente in tutta la gestione post crisi e in quella delle scelte editoriali di Ferragni (come spiegato sopra).

Trasparenza del ROI digitale

Tutti i social media funzionano con algoritmi e secondo metriche precise che determinano la riuscita, o meno, di ogni azione intrapresa. Quando si fa un investimento nel digitale è fondamentale monitorare la campagna e i risultati, perché non sempre il pubblico risponde come atteso, e in questo caso è possibile cambiare strategia o contenuto. Questa semplice regola non è mai valsa per Ferragni, che stipulava contratti senza obbligo di insight, dove il contenuto (scritto e preparato dal team, poi postato dalla influencer) veniva deciso unilateralmente da Ferragni.

Gestione di crisi

Come ben evidenziato da Alberto Mattia (esperto di crisis management intervistato da Lucarelli), Chiara Ferragni è un single point of failure, ovvero un unicum che se diventa indisponibile per qualsiasi motivo decreta il fallimento delle sue aziende. È lei stessa con la sua vita, le sue scelte, i suoi outfit, i suoi figli e via dicendo, il perno sul quale si muovono le sue società di servizi (advertising) e prodotti (linee di abbigliamento e accessori). L’impreparazione al ruolo del/i manager di Ferragni evidenziata sopra, fa sì che l’inchiesta di dicembre 2022 e l’avvio delle indagini del successivo giugno, prima in Balocco e poi in TBS Crew e Fenice, vengano prese sottogamba. Non si ritiene opportuno dire qualcosa in merito o preparare una strategia atta a rispondere alle (eventuali) accuse e a preservare la reputazione aziendale.

Dopo la gestione fallimentare nei primi giorni della crisi, vengono assunti dei consulenti di comunicazione, ma ancora ad oggi non vi è da parte di Ferragni reale consapevolezza dell’accaduto, presa di coscienza, pentimento, volontà di risanare i rapporti con tutti gli stakeholder coinvolti. Probabilmente la scelta dei consulenti da parte di Ferragni non è stata la migliore, sarebbe stato meglio coinvolgere un professionista esperto di comunicazione di crisi nello specifico, ma soprattutto sarebbe stato meglio seguire quello che i consulenti (sicuramente) avevano suggerito in termini di azioni, tono di voce, posizionamento.

Alla luce di quanto evidenziato, è imprescindibile per ogni azienda scegliere personale formato e aggiornato sulle dinamiche di comunicazione e di mercato, anche se questo richiede un investimento importante, perché non sarà mai così importante come quello che si può perdere se il brand e l’azienda vengono lasciati in mano all’incompetenza e all’improvvisazione.




Diverity & Inclusion… ma diverse da chi?

Diverity & Inclusion… ma diverse da chi?

Quando si parla di politiche di sviluppo delle Risorse Umane è sempre più frequente l’utilizzo della sigla D&I, acronimo di Diversity & Inclusion. In linea con gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, uno dei punti fondamentali dell’iniziativa dell’Onu riguarda proprio la valorizzazione delle diversità, in particolare per quanto riguarda la disparità di genere. Ma perché è così importante in ambito organizzativo? La risposta è nei dati. Il report dal titolo Breaking down gender biases, shifting social norms towards gender equality della United nations development programme 2023 ha registrato che, rispetto ai Paesi europei, l’Italia presenta percentuali di persone con bias di genere molto elevate: il 61% della popolazione ne ha almeno uno (il 65,3% degli uomini e il 57,9% delle donne). Per esempio, il 19,2% degli italiani ha bias di natura politica, l’8% di natura scolastica, il 29,7% di natura economica.

Come si collocano le aziende italiane in questo contesto? Ne abbiamo parlato con Flavia Brevi, Communication manager di Libellula, fondazione nata nel 2018 come iniziativa di responsabilità sociale di Zeta Service che accompagna le aziende nello sviluppo di progetti volti alla decostruzione degli stereotipi e a sostegno dello sviluppo di un ambiente di lavoro inclusivo. “Quando sei giovane c’è la scuola che ti forma, ma quando sei una persona adulta dov’è che sviluppi sensibilità su questi temi se non nel posto di lavoro dove vivi la gran parte del tuo tempo? Un’azienda virtuosa può educare le sue persone a disinnescare bias di genere, contrastare la violenza in tutte le sue forme, anche quelle verbali. In questo senso le imprese hanno un ruolo sociale che impatta tutta società in cui viviamo, anche al di fuori del luogo di lavoro”.

Brevi insiste sulle micro aggressioni, troppo spesso sottovalutate: “È importante sensibilizzare le persone per evitare che, più o meno inconsciamente, usino un linguaggio non inclusivo perché anche quella è violenza. In questo le aziende hanno una grande responsabilità perché spesso i luoghi di lavoro sono l’unico posto dove una vittima di violenza domestica può (e deve) potersi sentire al sicuro, accolta, compresa”. Ma siamo sulla buona strada; la sensibilità delle aziende sui temi della D&I e della lotta alla violenza e agli stereotipi di genere sta aumentando: “Lo notiamo, per esempio, dal fatto che c’è molta più progettualità. Una volta le imprese ci chiedevano supporto solo per progetti spot in occasioni particolari come il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, e l’8 marzo, la Giornata della donna, mentre ora i progetti di queste occasioni hanno una ‘coda lunga’ che continua poi per tutto l’anno. È un messaggio importante, perché le iniziative di D&I non restino una mera operazione di pinkwashing, ma diventino un reale impegno all’interno di un percorso a lungo termine e che necessita sensibilizzazione e formazione continua”.

Sostenere la genitorialità condivisa

Proprio per valorizzare e premiare le aziende più virtuose, Fondazione Libellula ogni anno organizza Libellula inspiring company, il premio rivolto a tutte le aziende aderenti al network che si sono distinte per aver dato vita a progetti volti a prevenire e contrastare la violenza e la discriminazione di genere, dentro e fuori il contesto di lavoro. Nel 2023, per la categoria ‘Prevenzione e contrasto alla violenza di genere’ il premio è andato ad Andriani, azienda specializzata nella produzione di pasta naturalmente senza glutine di alta qualità; un riconoscimento frutto di un percorso iniziato già da qualche anno, ma che è solo all’inizio, come racconta Sara Rossi, Coordinatrice per le tematiche D&I di Andriani: “Il percorso è iniziato nel 2021 quando, dopo essere diventata società benefit, l’azienda ha dato vita a un percorso che si inserisce all’interno di quella che è la volontà dell’organizzazione, ossia, apportare un cambiamento culturale. Lo abbiamo fatto a partire dai feedback dei nostri lavoratori, coinvolti per capire insieme che cos’è la violenza di genere e che cosa sono gli stereotipi, provando quindi a deostruirli. Inoltre, ci siamo serviti del potere pedagogico del teatro per permettere alle persone di immedesimarsi in contesti diversi dai propri. Visto il successo e la partecipazione, abbiamo poi deciso di mettere in scena un vero e proprio spettacolo ripercorrendo le gesta di cinque grandi donne del passato di periodi storici e background diversi: Lady Diana, Frida Kahlo, Evita Perón,Marlene Dietrich e Luisa Spagnoli’’. Rossi spiega come sia stato importante coinvolgere le persone in veste di attori protagonisti per lo spettacolo, così da essere parte attiva del processo di sensibilizzazione non solo dei colleghi, ma anche di una platea esterna all’azienda.




IL FUTURO DEGLI SMART CONTRACTS SECONDO IL DATA ACT EUROPEO

IL FUTURO DEGLI SMART CONTRACTS SECONDO IL DATA ACT EUROPEO

Nel corso delle precedenti newsletter mensili, abbiamo tentato di accompagnare i nostri lettori in una serie di approfondimenti legati al tema della blockchain e degli smart contracts[1].  Il Data Act[2], nel regolamentare il diritto di accesso ai dati prodotti dagli IoT (Internet of Things o Internet delle cose) e nel contesto più ampio relativo ad una strategia europea dei dati (cd. European Data Strategy), prevede anche delle disposizioni specifiche inerenti ai contratti intelligenti o smart contracts in inglese.

Il Regolamento in parola, direttamente applicabile in tutta l’Unione Europea senza necessità di recepimento da parte di leggi nazionali, entrerà pienamente in vigore a partire dal 12 settembre 2025, con alcuni differimenti agli anni successivi limitatamente ad alcune sezioni o disposizioni di dettaglio e rimandando al 2028 una valutazione globale  del regolamento e presentando al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo una relazione sulle principali conclusioni tratte (art. 46).

La definizione di contratto intelligente è contenuta nell’art. 2 rubricato “Definizioni” secondo cui, uno smart contract è un “programma informatico utilizzato per l’esecuzione automatica di un accordo o di parte di esso utilizzando una sequenza di registrazioni elettroniche di dati e garantendone l’integrità e l’accuratezza del loro ordine cronologico” e dovrà rispettare i requisiti previsti dal Data Act solo se utilizzato per “rendere disponibili i dati” (cfr. art. 2 pt. 39, QUI)

In altre parole il corposo regolamento (composto da 119 Considerando e 50 articoli), al fine di rispondere alle necessità dell’economia digitale e di eliminare gli ostacoli al buon funzionamento del mercato interno dei dati, intende stabilire “un quadro armonizzato che specifichi chi ha il diritto di utilizzare i dati di un prodotto o di un servizio correlato, a quali condizioni e su quale base.” (cfr. Considerando n. 3) e, quindi, obbligando i produttori e i progettisti di dispositivi IoT a condividere i dati generati dall’uso dei dispositivi con gli utenti o con terze parti designate dagli utenti.

Una rivoluzione copernicana per i fornitori di servizi IoT e per le aziende

L’approvazione del Data Act rappresenta una rivoluzione significativa sia per i fornitori di Internet delle cose (IoT) che per le aziende (ed in particolare microimprese, piccole imprese e medie imprese) interessate ad accedere ai dati generati dagli IoT. Con questo atto, gli utenti di dispositivi IoT possono richiedere la condivisione di questi dati con terze parti, nel rispetto di determinate condizioni e limiti (articolo 4). Il Regolamento europeo impone ai fornitori di IoT (titolari dei dati) e ai destinatari terzi di stipulare un “accordo di condivisione” dei dati volto a regolamentare il flusso di informazioni. Il Data Act prevede anche l’uso di smart contract per questi accordi, segnando la prima regolamentazione dell’Unione Europea su questo tipo di contratto. Degno di nota è il Considerando n. 104 nella parte in cui afferma che per promuovere l’interoperabilità degli strumenti per l’esecuzione automatica di accordi di condivisione dei dati è necessario “stabilire requisiti essenziali relativi ai contratti intelligenti redatti da professionisti per altri o integrati in applicazioni che sostengono l’attuazione di accordi per la condivisione dei dati”, creando una connessione sempre più stretta tra il diritto e le nuove tecnologie.

Smart contracts e condivisione dei dati

Gli smart contract offrono vari vantaggi, tra cui la possibilità di ridurre i costi, soprattutto quando gli accordi di condivisione dei dati variano minimamente, ad esempio cambiando solo l’ambito di applicazione. Questi contratti intelligenti possono anche servire come misura di protezione per impedire l’uso non autorizzato o alla divulgazione dei dati da parte dei destinatari (art. 11). Inoltre, le norme sui contratti intelligenti si applicano a qualsiasi accordo di condivisione dei dati, non solo quelli tra titolari e destinatari. Ciò significa che anche l’industria delle criptovalute, che fa largo uso dei contratti intelligenti, dovrà conformarsi al regolamento in parola se gli accordi sottostanti mirano alla “condivisione dei dati”. Tuttavia, il Considerando n. 6 precisa che il Data Act, nel prevedere cd. “norme orizzontali”, lasci aperta la possibilità tanto all’Unione Europea quanto gli ordinamenti nazionali l’onere di “affrontare le situazioni specifiche dei settori pertinenti”.

Requisiti tecnici degli smart contracts

Con riferimento agli aspetti tecnici, in particolare per i servizi di trattamento dei dati, il regolamento pone in capo alla Commissione europea il potere di adottare atti al fine di integrare il regolamento ed istituire un “meccanismo di controllo delle tariffe di passaggio imposte dai fornitori di servizi di trattamento dei dati sul mercato, e di specificare ulteriormente i requisiti essenziali in materia di interoperabilità” (Considerando n. 113).

L’art. 36 (rubricato: “Requisiti essenziali relativi ai contratti intelligenti per l’esecuzione degli accordi di condivisione dei dati”) prevede che il venditore di applicazioni che utilizzano i contratti intelligenti o, in sua assenza, l’azienda (esercente attività di impresa commerciale, imprenditoriale o professionale), deve assicurare che gli smart contracts rispettino i seguenti requisiti essenziali, qui di seguito elencati:

  1. robustezza e controllo dell’accesso: lo smart contract, infatti, deve essere progettato by design in modo tale da offrire meccanismi di controllo dell’accesso e un grado di robustezza molto elevato per evitare errori funzionali e resistere alla manipolazione di terzi;
  2. cessazione e interruzione sicure (cd. kill switch) per cessare l’esecuzione automatizzata delle transazioni ad opera dello smart contract e prevedere al contempo funzioni interne tali da reimpostarlo o trasmettergli l’istruzione di fermarsi o interrompere il proprio funzionamento allo scopo di evitare esecuzioni accidentali future;
  3. archiviazione e continuità dei dati, per garantire, nel caso in cui si debba procedere alla risoluzione o alla disattivazione di un contratto intelligente, che vi sia la possibilità di archiviare i dati relativi alle transazioni nonché la logica e il codice del contratto intelligente al fine di tenere traccia delle operazioni effettuate sui dati in passato (cd. verificabilità);
  4. controllo dell’accesso, per garantire che un contratto intelligente sia protetto mediante meccanismi rigorosi di controllo dell’accesso sul piano della governance;
  5. coerenza, con i termini dell’accordo di condivisione dei dati che il contratto intelligente esegue.

[1] L’ultimo articolo “BLOCKCHAIN E SMART CONTRACT [EP 10/10]” è disponibile QUI.

[2] Regolamento (UE) n. 2023/2854 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2023 riguardante norme armonizzate sull’accesso equo ai dati e sul loro utilizzo e che modifica il Regolamento (UE) n. 2017/2394 e la direttiva (UE) n. 2020/1828 (regolamento sui dati).