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Il progetto di GUNA “Benessere in scena”, un virtuoso esempio di sostenibilità sociale

Il progetto di GUNA “Benessere in scena”, un virtuoso esempio di sostenibilità sociale

Sentirsi
rilassati ascoltando un brano musicale.

La
sensazione di pace di fronte ad un dipinto.

Emozionarsi osservando le affascinanti movenze dei ballerini intenti a eseguire un balletto a teatro.

Spesso si è parlato di come l’arte possa avere degli effetti benefici sulla nostra salute.

Già gli antichi Greci credevano nel potere catartico del teatro, concetto che è stato esplorato in maniera sempre più approfondita nel corso della storia. Aristotele – che fu uno dei primi a parlarne nella sua poetica, affermava:

“Tragedia dunque è mimesi di un’azione seria e compiuta in sé stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno, a suo luogo, nelle parti diverse; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pieta’ e terrore, ha per effetto quello di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni

Il filosofo sosteneva che lo scopo del dramma è quello purificare gli spettatori tramite l’eccitazione artistica di alcune emozioni, così da lasciar sfogare il pubblico, che poteva scaricare la tensione e trovare sollievo dalle sue personali passioni.

A dar ragione ad Aristotele, nel tempo, si sono succedute diverse menti brillanti come Carl Jung, Sigmund Freud o Alfred Winnicot che hanno saputo portare alla luce diversi benefici delle varie forme d’arte sul nostro stato fisico e mentale. Oggi l’influenza benefica dell’arte sulla salute è un concetto assodato, un’evidenza scientifica che è stata recentemente messa in risalto dal rapporto numero 67 dell’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità), coerentemente intitolato: What is the evidence on the role of the arts in improving health and well-being? A scoping review.

A incentivare il dibattito su questo tema è anche la possibilità data dalle moderne tecnologie e dai recenti progressi scientifici di esplorare ancora più in profondità il rapporto tra salute ed espressione artistica, consentendoci di scoprire in quale misura ed in che modo l’arte può influenzare il nostro equilibrio psico-fisico.

Da queste premesse, nasce l’ambizioso e brillante progetto “Benessere in scena” di Guna, azienda farmaceutica da oltre 3 decenni leader italiana nel settore delle terapie naturali d’avanguardia, in collaborazione con il Teatro alla Scala di Milano. 

Il progetto si è strutturato in una serie appuntamenti nella meravigliosa cornice del prestigioso teatro milanese, in cui il pubblico ha avuto la possibilità di assistere a incontri con scienziati, giornalisti, esperti, medici e artisti, con lo scopo di esplorare ed approfondire il legame che intercorre tra il benessere e l’arte in tutte le sue declinazioni. Il ciclo di talk aperti al pubblico – organizzati prima della messa in scena di vari balletti – sono stati moderati dal critico e regista di danza Francesca Pedroni.

I temi trattati nel corso degli appuntamenti in calendario hanno riguardato diverse tematiche, spaziando tra argomenti di estrema attualità. Ascoltare la musica, osservare un dipinto, guardare una performance teatrale o di danza possono infatti avere diversi e misurabili effetti come di modulare la percezione del dolore, ridurre gli stati di ansia, ridurre lo stress pre e post operatorio, favorire l’attenzione e la memorizzazione, influenzare l’elasticità e la plasticità della nostra risposta immunitaria, aiutare la donna durante l’evoluzione della gestazione, e altri ancora.

Tra i diversi interventi, assai interessante il contributo di Carlo Ventura, medico cardiologo e ricercatore di Biochimica all’Università di Bologna e al CNR, che ha potuto spiegare a seguito dell’esperimento Cell Melodies come il suono generato dalla musica – in particolar modo quella ascoltata dal vivo – riesca a comunicare, oltre che con l’udito e l’anima, con la fisiologia stessa delle cellule. Lo studio del Dottor Ventura ha dimostrato infatti che le cellule sollecitate con i diversi stimoli vibrazioni derivanti dalla danza e dalla musica mostrano una diversa velocità di crescita e differenze morfologiche e citoscheletriche significative.

Lo scopo di un esperimento live di questa portata, condotto in collaborazione con GUNA, è stato di registrare l’andamento della HRV, ovvero della variabilità nella frequenza del battito cardiaco, del Primo ballerino del Teatro alla Scala Mick Zeni. La misurazione è stata effettuata attraverso sensori applicati sul corpo dell’artista durante le attività di riscaldamento e di danza: i risultati della misurazione hanno dimostrato quanto inizialmente ipotizzato dai ricercatori.

Il primo ballerino ha spiegato che «Con la musica sembra di essere più vivi, presenti, e sul palcoscenico ancora più prepotentemente che nella vita. Il battito accelera e si arriva a livelli molto alti di concentrazione». A conferma di ciò, le parole del Dottor Ventura: «Il suono è uno storico strumento di guarigione, da sempre considerato una delle forze più rigenerative, che riequilibrano, contribuiscono a combattere depressione o blocchi emotivi e a ridurre il cortisolo, l’ormone dello stress». Attualmente sono in corso ulteriori studi per indagare le possibili implicazioni delle scoperte del Dottor Ventura per il benessere dell’organismo umano.

Gli interventi che si sono susseguiti durante i talk organizzati da GUNA, hanno evidenziato in particolar modo quanto non sia solo la “pratica” dell’arte a migliorare la qualità della vita degli individui, bensì anche la sua fruizione, aprendo potenzialmente le porte a nuove prospettive e a nuovi paradigmi in medicina rigenerativa e di precisione: la raccolta di queste testimonianze e ricerche certamente potrà dar seguito ad una serie di affascinanti stimoli e nuovi spunti per approfondire l’attraente legame tra l’essere umano e l’espressione artistica.

Certamente, scegliere di esplorare tematiche che sono volte a trovare una chiave per la cura ed il benessere dell’essere umano, come quella del rapporto tra salute ed arte, è una strada che oltre che a rivelarsi culturalmente affascinante, può sensibilizzare la comunità scientifica, stimolando nuove ricerche in questa direzione. A tal proposito illuminanti le parole di Alessandro Perra, direttore scientifico di GUNA, che nel suo speech al teatro alla scala ha affermato:

«La bellezza e le sue “frequenze armoniche” non solo dona benessere ma mantiene anche giovani (studio di PsycoNeuroEndocrinology 2006 su NGF e amore romantico); le emozioni negative e le loro “frequenze disarmoniche” infiammano e quindi fanno invecchiare (Brain Behaviour and Immunity 2013). Quanto vi sto raccontando può sembrare “romantico”, e forse lo è, ma per certo posso dirvi che è anche molto scientifico. Lo dimostrano i numerosi studi che Guna ha pubblicato su Riviste internazionali proprio su questi meccanismi molecolari, e su malattie gravi e complesse (espressione di disarmonia fra le cellule, della capacità oramai persa di comunicare tra di loro) come l’Artrite Reumatoide o la Vitiligine o la Psoriasi. C’è davvero qualcosa di nuovo all’orizzonte (…) Dostoevskij disse: “La bellezza salverà il mondo”, e se osserviamo ciò che ci dice oggi la scienza, non possiamo che dargli ragione.»

Oggi, il dibattito sui cambiamenti climatici e sulla crisi economica ha puntato i riflettori principalmente su due tipi di sostenibilità, quella ambientale e quella economica; ma quando parliamo di sostenibilità è opportuno includerne anche una terza, ovvero quella sociale, intesa come la capacità di garantire condizioni di benessere per l’essere umano, che rappresenta – anche – una parte non trascurabile della responsabilità sociale delle aziende, come ha autorevolmente confermato il Presidente di GUNA Dott. Alessandro Pizzoccaro:

«GUNA ha costruito con passione e determinazione un progetto in armonia con la sua missione: la ricerca della salute attraverso terapie rispettose dell’organismo, dell’ambiente e in sintonia con l’anima. Questo progetto, “Benessere in scena”, figlio di una partnership così importante – e convinta – qual è quella con il Teatro alla Scala, sta permettendo di esplorare un tema che certamente potrà portare benefici all’intera comunità, ovvero lo straordinario e potente ruolo della fruzione dell’atto artistico per il benessere complessivo dell’individuo.»

Il palcoscenico, la cornice di un dipinto, lo
spartito musicale, sono tutti luoghi in cui vengono condivisi arte e bellezza.
GUNA insegna che, a volte, anche le imprese possono essere veicolo virtuoso per
concetti di innovazione di questa portata.




«Accetta e clicca qui» (e la foto di una donna): così il principe saudita ha hackerato Bezos

Mbs avrebbe inviato una fotografia simile alla nuova compagna del proprietario del Washington Post per intimidirlo ma anche per installare uno spyware nel suo telefono

Il messaggio non avrebbe potuto essere più esplicito. L’8 novembre 2018, appena un mese dopo l’assassinio di Jamal Khashoggi, Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo, riceve un messaggio indesiderato dall’account WhatsApp di Mohammed bin Salman.

Secondo le Nazioni Unite che hanno aperto un’indagine sulla vicenda, il messaggio del principe ereditario dell’Arabia Saudita contiene un’unica fotografia che ritrae una donna bruna. La somiglianza con Lauren Sanchez con cui il miliardario all’epoca ha una relazione clandestina, è evidente. Il messaggio — secondo quanto racconta il Guardian — contiene anche un testo che recita: «Litigare con una donna è come leggere il Contrat

«Accetta». Sarebbe iniziato così lo scambio che ha portato all’hackeraggio del telefono di Bezos. Per Agnes Callamard, il relatore speciale delle Nazioni Unite che sta indagando sull’omicidio di Khashoggi, il messaggio è la prova del tentativo da parte della corona saudita di intimidire Bezos . L’obiettivo — questa la teoria — era farlo sentire vulnerabile mentre il suo giornale, il Washington Post, continuava a pubblicare storie sull’omicidio di uno dei suoi stessi giornalisti, Jamal Khashoggi, per la cui morte Mbs era già allora il principale indiziato come mandante.

Indietro veloce di qualche mese. Secondo la ricostruzione delle Nazioni Unite, la storia è iniziata il 21 marzo 2018, quando Bezos viene invitato a una piccola cena in onore del principe ereditario la cui lista degli ospiti includeva l’ex giocatore di basket Kobe Bryant e l’amministratore delegato della Disney, Bob Iger. Due settimane dopo, il 4 aprile, i due uomini si scambiano i numeri di telefono a una cena . Il 1 ° maggio, Bezos riceve «un messaggio dall’account del principe ereditario … tramite WhatsApp», spiega l’Onu. «Il messaggio è un file video crittografato. In seguito viene stabilito, con ragionevole certezza, che il download del video infetta il telefono di Mr Bezos con un codice dannoso». Nei giorni e nelle settimane che seguono, Bezos — che all’epoca era sposato — manda messaggi di testo privati alla sua ragazza, descrivendo i suoi sentimenti. Tali testi saranno successivamente pubblicati dal National Enquirer, anche se non è ancora chiaro come il magazine sia entrato in possesso di questi scambi. Da sottolineare però — fa notare sempre il Guardian — come il principe ereditario all’epoca abbia incontrato due volte il proprietario del National Enquirer, David Pecker, noto a Hollywood e Washington come un uomo vicino a Donald Trump, la cui presidenza ha rapporti particolarmente stretti con Riad.

Secondo Callamard e Kaye, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di espressione, il «targeting» di Bezos è solo l’inizio di una campagna più ampia per intimidire le persone vicine a Khashoggi e in frequente contatto con il giornalista. La cronologia pubblicata dagli investigatori fa riferimento ad altri quattro importanti oppositori sauditi presi di mira con malware nelle settimane seguenti: Yahya Assiri e Omar Abdulaziz, il comico londinese Ghanem al-Dosari, e un funzionario di Amnesty International che lavorava in Arabia Saudita. Gli investigatori hanno sottolineato anche come ci sia stata «una massiccia campagna online» contro Bezos e Amazon in Arabia Saudita.

Nel rapporto di FTI Consulting – la società che ha analizzato il telefono dell’a.d. di Amazon per conto delle Nazioni Unite — si legge come Bezos abbia avuto un briefing dettagliato sulla campagna saudita contro di lui il 14 febbraio. Poi due giorni dopo, sempre secondo il rapporto FTI, il principe ereditario invia un altro messaggio a Bezos, sostenendo che «ciò che ascolti o dici non è vero ed è giunto il momento che tu dica la verità». L’1° aprile però la campagna contro Bezos cessa. Un fatto da mettere in relazione, probabilmente, con il fatto che Mike Pompeo, il segretario di stato americano, ha negli stessi giorni sollecitato privatamente il principe ereditario a tagliare i suoi legami con il suo stretto consigliere, Saud al-Qahtani, noto come l’uomo della cyber war di Riad.

Sarebbe proprio Al-Qahtani il fautore dell’utilizzo contro Bezos e gli oppositori dello spyware Pegasus, tra i prodotti di punta dalla Nso, società di sicurezza informatica di Herzliya, in Israele. Pegasus si serve del meccanismo, tutto psicologico, del clickbaiting: invia un messaggio agli utenti di WhatsApp; se una volta aperto il messaggio si clicca sul contenuto, spesso un link, l’azione consente al programma di spia di installarsi sul cellulare, senza che l’utente se ne accorga. Secondo un rapporto di Citizen Lab del 2018 Pegasus negli ultimi anni è diventato molto popolare presso i governi di alcuni paesi del Golfo – Arabia saudita, Bahrein, Emirati arabi uniti – e per fini anche diversi da quelli del contrasto al crimine. Tra questi: spiare i propri cittadini, per limitarne più efficacemente le libertà e neutralizzare le opposizioni. Pegasus è lo stesso software che all’inizio del 2019 aveva infettato e spiato i cellulari circa 1.400 persone – tra questi molti attivisti politici e giornalisti – attraverso una falla di WhatsApp, popolare sistema di messaggistica di proprietà di Facebook.

Jeff Bezos@JeffBezos

#Jamal

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27.50020:03 – 22 gen 2020Informazioni e privacy per gli annunci di Twitter8.899 utenti ne stanno parlando

Per il momento tutte le parti in causa negano un coinvolgimento. In un tweet, il governo saudita ha definito «assurde» le accuse. Stessa cosa ha affermato la American Media Inc, proprietaria del National Enquire, che non ha voluto fare ulteriori commenti. L’Arabia Saudita ha insistito sul fatto che il principe ereditario non avesse nulla a che fare con l’omicidio di Khashoggi. Ha anche negato l’uso della tecnologia di sorveglianza contro i critici del regno. Ma, mercoledì sera, mentre la storia continuava a crescere, Bezos ha postato su Twitter una foto che lo ritrae al funerale di Khashoggi. Come dire, insomma, che la cyber guerra è tutt’altro che finita.




Quando il cervello fa tilt: che cosa sono i bias cognitivi e come vengono usati contro di noi

Pregiudizi, fatti sostituiti con impressioni, logiche perfettibili. Quello dei bias cognitivi è un campo vasto, queste “défaillance di pensiero” vengono usate dalla nostra mente per non fare fatica ebasate su percezioni imprecise e pregiudizi (anche ideologici) ci pongono fuori dal giudizio critico. Il marketing ne fa incetta per spingerci a comprare, i movimenti che raccolgono accoliti vi fanno leva per rastrellare seguaci e, come dimostriamo qui, i bias cognitivi rischiano di fare incarcerare innocenti.

Gli psicologi israeliani Daniel Kahneman e Amos Tversky, già a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, hanno studiato a fondo le modalità con cui l’essere umano prende decisioni. Il loro lavoro, che ha contribuito a divulgare il concetto di bias cognitivo (se ne contano oltre 100) è stato tuttavia basato su ricerche meno ampie svolte da diversi altri specialisti negli anni precedenti.

Perché sono insidiosi

Iterando gli errori imposti dai bias cognitivi, si rischia di cadere in una forma di pensiero disfunzionale che conduce alla sofferenza emotiva.

Tra i diversi tipi di bias cognitivi c’è quello di conferma, individuato e teorizzato nei primi anni Cinquanta dallo psicologo americano Burrhus Frederic Skinner secondo il quale ognuno di noi tenderebbe ad allinearsi a quelle persone o a quelle linee di pensiero che confermano le nostre opinioni, escludendo così ogni forma di contraddittorio. Così, per esempio, leggiamo soltanto libri o quotidiani che cementano le nostre convinzioni.

Il bias di gruppo, molto simile a quello di conferma, induce a sovrastimare le capacità del gruppo di cui si fa parte, adducendo a fattori esterni i successi ottenuti da gruppi antagonisti i quali non si riconosce un merito proprio.

A seguire, tra i bias più frequenti, c’è quello di ancoraggio. Quando dobbiamo fare una scelta ci basiamo su fattori ed elementi che riteniamo essere ottimi per fare paragoni e che, in realtà, non soltanto non sono tali ma ci impediscono di vedere un aspetto nel suo insieme.

Questo tipo di bias è molto usato nelle vendite: quando si compra uno smartphone da 1.200 euro appare ragionevole comprare un accessorio da 150 euro, per esempio degli auricolari bluetooth. In realtà, con il prezzo dell’accessorio si può acquistare un cellulare di bassa gamma. Se acquistiamo una vettura da 100mila euro, spenderne 10mila in optional appare ragionevole e non è per forza detto che tali optional siano necessari.

Il pregiudizio sullo status quo (bias sullo status quo) è molto diffuso. La situazione attuale è ottimale, ogni modifica è considerata una regressione. Così non cambiamo operatore telefonico, magari a fronte di un’offerta per noi vantaggiosa, perché temiamo costi nascosti o tempi di attivazione lunghi.

E, semmai ci rendessimo conto di avere preso una decisione perfettibile, il bias di rinforzo delle scelte ci viene in soccorso, facendoci ricordare le scelte migliori di quello che sono state in realtà, mettendone in evidenza (e persino enfatizzando) i punti positivi e evitando di considerare quelli negativi.

Il pregiudizio e le sue conseguenze

I bias portano a fare scelte imprecise e non sono sempre scevri di conseguenze pesanti. Lo spiega l’avvocato Carlo Blengino in un articolo pubblicato a fine 2018 su Il Post, in cui parla della trascrizione di un’intercettazione ambientale, quindi la trascrizione di un file audio in cui si sentivano le parole “vi ho portati giù ora vi ammazzo”. Una frase che non avrebbe lasciato scampo all’imputato se non fosse che, in seguito a un ascolto più attento della stessa traccia audio, il risultato è apparso del tutto diverso: l’imputato ha detto “vi ho portati giù, ora calmatevi”. La pessima qualità dell’audio e il pregiudizio con cui questo è stato ascoltato, stavano portando le autorità a prendere un granchio.




Il futuro della politica è in mano all’intelligenza artificiale

La stagione della campagna presidenziale statunitense è ufficialmente, ma davvero ufficialmente, arrivata, il che significa che è il momento di affrontare gli strani e insidiosi modi in cui la tecnologia sta distorcendo la politica. Una delle principali minacce che si profilano all’orizzonte è l’arrivo di personalità artificiali, destinate a dominare il dibattito politico. Il rischio nasce da due tendenze che si presentano contemporaneamente: la generazione di testi alimentata dall’intelligenza artificiale e le chatbot (i software che simulano una conversazione con un essere umano) sui social network. Queste “persone” generate da computer sommergeranno le discussioni realmente umane su internet.

I software di generazione di testi sono già abbastanza avanzati da trarre in inganno la maggioranza delle persone, la maggior parte delle volte. Stanno già scrivendo notizie, soprattutto di sport e di finanza. Parlano con i clienti nei siti che vendono prodotti. Scrivono convincenti editoriali su alcuni argomenti d’attualità (anche se esistono dei limiti al riguardo). E sono usati per rafforzare il “giornalismo pink-slime”, quei siti concepiti per sembrare fornitori di notizie locali ma che in realtà pubblicano propaganda.

Anche i contenuti generati da algoritmi che si presentano come se fossero scritti da esseri umani hanno raggiunto livelli record. Nel 2017, per un certo periodo, la Commissione federale per le comunicazioni degli Stati Uniti ha aperto ai commenti online il suo piano di porre fine alla neutralità della rete, ricevendo l’impressionante cifra di 22 milioni di commenti. Molti di questi, forse la metà, erano falsi, e si servivano d’identità false. Questi commenti erano anche poco elaborati: 1,3 milioni erano generati a partire dallo stesso modello, semplicemente con alcune parole modificate perché apparissero diversi gli uni dagli altri. Non reggevano neanche di fronte a un’analisi sbrigativa.

Disinformazione e democrazia

Simili azioni saranno sempre più sofisticate. Nel corso di un recente esperimento Max Weiss, un ricercatore di Harvard, ha usato un programma di generazione testi per creare mille commenti in risposta a un appello del governo federale relativo al programma sanitario Medicaid. Ciascuno di tali commenti era diverso dall’altro, e sembrava frutto di persone reali che difendevano una posizione politica specifica. Hanno ingannato gli amministratori del sito Medicaid.gov, che li hanno ritenuti reali preoccupazioni di esseri umani in carne e ossa. Trattandosi di ricerca accademica, Weiss ha successivamente identificato i commenti e ha chiesto che fossero rimossi, affinché non vi fosse alcuna interferenza irregolare con l’effettivo dibattito sull’argomento. Il prossimo gruppo che tenterà una cosa del genere non sarà altrettanto onesto.

Sono anni che le chatbot distorcono le discussioni sui social network. Circa un quinto dei tweet relativi alle elezioni presidenziali del 2016 è stato pubblicato da bot, secondo una stima. Lo stesso vale per circa un terzo di quelli relativi al voto sulla Brexit dello stesso anno. Un rapporto dell’Oxford internet institute dello scorso anno ha trovato prove dell’utilizzo di bot per diffondere propaganda in cinquanta paesi. Questi tendevano a essere programmi semplici che ripetevano automaticamente slogan, come i 250mila tweet filosauditi “abbiamo tutti fiducia in Mohammed bin Salman” apparsi dopo l’omicidio di Jamal Khashoggi nel 2018.

Il nostro futuro sarà fatto di chiassose discussioni politiche, perlopiù tra bot e altri bot

Individuare molti bot con pochi follower è più difficile che rilevare alcuni bot con molti follower. E misurare l’efficacia di questi bot non è semplice. Le migliori analisi indicano che questi non hanno influenzato le elezioni presidenziali statunitensi del 2016. Più probabilmente distorcono la percezione che le persone hanno dell’opinione pubblica e la loro fiducia nella discussione politica ragionata. Siamo tutti immersi in un nuovo esperimento sociale.

Nel corso degli anni, i bot algoritmici si sono evoluti fino ad avere una propria personalità. Possiedono nomi falsi, false biografie e false foto, talvolta generate dall’intelligenza artificiale. Invece di diffondere propaganda senza sosta, postano solo occasionalmente. I ricercatori possono rilevare che si tratta di bot e non persone in base alla frequenza e all’andamento dei loro post. Ma la tecnologia dei bot continua a migliorare, rendendo difficili i tentativi di rilevamento. I gruppi futuri non saranno così facili da identificare. Riusciranno a integrarsi meglio nei gruppi sociali di persone in carne e ossa. La loro propaganda sarà più sottile, e si mescolerà all’interno delle discussioni che interessano tali gruppi.

Mettete insieme queste due tendenze e avrete la ricetta per fare in modo che le discussioni non umane prendano il sopravvento sulle discussioni politiche tra esseri umani.

Chi controlla i bot

Presto le personalità alimentate da intelligenza artificiale saranno in grado di scrivere lettere personalizzate a giornali e parlamentari, esprimere il proprio commento nel quadro di processi legislativi pubblici, creando personalità che perdurano e che appaiono reali anche a quanti cercano di smascherarle. Saranno anche in grado di presentarsi come individui sui social network e d’inviare testi personalizzati. Avranno milioni di repliche e discuteranno di tali questioni giorno e notte, inviando miliardi di messaggi, lunghi e brevi. La somma di tutte queste cose gli permetterà di sommergere ogni reale discussione su internet. Non solo sui social network, ma dovunque ci sarà un dibattito.

Magari questi bot dotati di personalità saranno controllati da attori stranieri. Magari da gruppi politici nazionali. Magari dai candidati stessi. Più probabilmente, chiunque potrà farlo. La più importante lezione a proposito della disinformazione nel 2016 non è che ci sia stata disinformazione, bensì quanto sia stato facile e poco costoso disinformare le persone. I futuri miglioramenti della tecnologia renderanno la cosa ancora più economica.

Il nostro futuro sarà fatto di chiassose discussioni politiche, perlopiù tra bot e altri bot. Non è quello che si ha in mente quando si loda il mercato delle idee, o qualsiasi altro processo politico democratico. La democrazia ha bisogno di due cose per funzionare efficacemente: informazione e rappresentanza. Le personalità artificiali possono privare le persone di entrambe le cose.

Sistemi di difesa

È difficile immaginare delle soluzioni. Possiamo regolamentare l’uso dei bot – una proposta di legge in California imporrebbe ai bot d’identificarsi – ma la cosa sarebbe efficace solo con le campagne d’influenza legittime, come la pubblicità. Sarà molto più difficile rilevare le operazioni d’influenza surrettizia. La difesa più ovvia è sviluppare e standardizzare metodi migliori di autenticazione. Se i social network verificano che dietro ogni account c’è effettivamente una persona reale, allora saranno in grado di eliminare più facilmente le personalità false. Ma account falsi sono già regolarmente creati per persone reali senza che queste lo sappiano o vi acconsentano, e le discussioni anonime sono essenziali per un sano dibattito politico, soprattutto quando chi parla proviene da comunità marginalizzate o penalizzate. Non abbiamo un sistema di autenticazione in grado al contempo di proteggere la privacy e che sia efficace per miliardi di utenti.

Possiamo sperare che la nostra capacità d’identificare le personalità artificiali tenga il passo con la nostra capacità di mascherarle. Se la lotta sempre più feroce tra deepfake e rilevatori di deepfake può fungere da guida, anche questo non sarà un compito facile. Le tecnologie di offuscamento sembrano sempre un passo avanti alle tecnologie di rilevamento. E le “persone” artificiali saranno progettate per agire esattamente come le persone reali.

In ultima istanza le soluzioni dovranno essere di natura non tecnologica. Dobbiamo riconoscere i limite del dibattito politico in rete, e dare nuovamente priorità alle interazioni di persona, che sono più difficili da automatizzare e ci permettono di sapere che le persone con cui parliamo sono esseri umani in carne e ossa. Sarebbe una svolta culturale che permetterebbe di prendere le distanze dai testi pubblicati su internet, e di tenersi lontani dai social network e dai thread di commento.

I tentativi di disinformazione sono ormai diffusi in tutto il mondo, e sono praticati in più di settanta paesi. È il metodo ordinario con cui si effettua la propaganda nei paesi con tendenze autoritarie, e sta diventando il modo per portare avanti una campagna politica, che si tratti di un candidato o di una questione specifica.

Le personalità artificiali sono il futuro della propaganda. E anche se potrebbero non essere in grado di spostare il dibattito politico in una direzione o in un’altra, possono facilmente sommergerlo del tutto. Non sappiamo quali siano gli effetti di una simile interferenza sulla democrazia, se non che è nociva, e inevitabile.




Louis Vuitton veste i personaggi di League of Legends

La moda sbarca nel mondo del gaming. Louis Vuitton ha annunciato l’avvio di una partnership con Riot Games, la casa di videogiochi di League of Legends. Una partnership a più livelli con uno sguardo rivolto al futuro, come racconta Sara Bassi.

Lo scorso 23 settembre Louis Vuitton ha annunciato l’avvio di una partnership con Riot Games, la casa di videogiochi famosa per aver dato i natali al gioco online League of Legends. La collaborazione prevede diversi livelli, cominciando dalla realizzazione del baule contenente il trofeo del campionato mondiale del videogioco, le cui finali si sono tenute il 10 novembre a Parigi.

La Maison francese si è già resa protagonista di creazioni simili, come la custodia della FIFA World Cup e la Rugby World Cup, ma è la prima volta che avviene per un torneo di eSports. Il design del baule presenta elementi classici della casa di moda ed elementi innovativi ispirati al videogioco. Il risultato è un mix tra la texture con il monogramma, le rifiniture tipiche delle valigie firmate LV e un tocco high-tech.

Naz Aletaha, l’Head of Global eSports Partnership di Riot Games ha dichiarato di essere entusiasta per la collaborazione con LV perché “i suoi motivi influenzano l’aspetto, l’atmosfera e il prestigio del nostro evento di League of Legends”. La pensa così anche il CEO della casa di moda parigina, sottolineando la presenza del marchio accanto ai trofei più ambiti del mondo e come ormai anche la Summoner’s Cup (questo il nome del trofeo) lo sia diventata.

La partnership ha portato anche alla creazione di skin (vesti grafiche) per i personaggi di Qiyana e Senna disponibili per un tempo limitato, di cui una è stata presentata proprio in occasione del League of Legends World Championship, e l’altra sarà rivelata il prossimo febbraio. A firmare questi outfit virtuali è stato Nicolas Ghesquière, direttore artistico della linea donna di Louis Vuitton. A differenza di quanto si può immaginare, queste skin non avranno un costo eccessivo e per comprarle basterà guadagnare punti giocando alcune missioni speciali.

Più recentemente, invece, la casa di moda ha lanciato la linea d’abbigliamento ispirata al videogioco. La collezione limited edition è venduta nel negozio online presente sul sito e in alcuni store in giro per il mondo. Anche stavolta il design riesce a coniugare bene l’immagine del marchio LV con lo stile fantasy-futuristico del videogioco.

Non si tratta, però, della prima volta che il mondo videoludico entra nel mondo di Louis Vuitton. Già qualche anno fa, lo stesso Ghesquière, aveva collaborato con la casa Square Enix, per avere come modella per una campagna Lightning, una dei protagonisti della storica saga di Final Fantasy. Il direttore artistico, infatti, sembra avere un debole per la fantascienza e la tecnologia, che cerca sempre di portare all’interno delle sue collezioni.

La distanza tra il mondo della moda e il mondo del gaming sembra ridursi sempre di più. Questo tipo di partnership è sicuramente innovativa e introduce un lato della moda che potrebbe prendere piede nel prossimo futuro, quello dei vestiti virtuali. I videogiochi stanno altresì crescendo sempre di più nella loro diffusione e fruizione, anche da parte di adulti e famiglie. Inoltre, i giocatori sono ormai abituati agli acquisti all’interno del gioco e questo è un aspetto da non sottovalutare.