L’obesità, soprattutto quella infantile, sta diventando un
problema sempre più attuale nei paesi più industrializzati del pianeta. L’OMS,
in un comunicato reso pubblico l’ottobre scorso, stimava che entro il 2030 i bambini
e i ragazzi obesi saranno 254 milioni, il 60% in più rispetto a quelli del
2016, se non si interviene immediatamente. A questo proposito alcuni governi
hanno iniziato a tassare i cibi contenenti un elevato quantitativo di zuccheri,
considerati più dannosi per la salute. Se in Italia solo con la legge di
bilancio 2020 è stata introdotta la cosiddetta ‘’sugar tax’’, cioè la tassa
sulle bibite zuccherate, nel Regno Unito una tassa simile è già in vigore dal
2016. Nella fattispecie italiana la legge prevede una tassa pari al 10
centesimi a litro per le bevande zuccherate ad eccezione delle bevande dolcificate
con meno di 25 grammi di zucchero per litro. La tassa è stata introdotta sia
per disincentivare l’uso di bevande unhealty ma anche nella speranza che si
segua l’esempio del Regno Unito dove molti produttori hanno dimezzato le
quantità di zuccheri pur di non far rientrare i loro prodotti tra quelli
soggetti a tassazione.
In linea con gli intenti dei governi il colosso inglese
Unilever, che opera nel campo dell’alimentazione e delle bevande, ha deciso di
modificare considerevolmente la propria strategia di marketing. L’azienda
infatti ha deciso di smettere di rivolgere le proprie pubblicità di cibo e
bevande ai bambini a partire dal 2020. Unilever non è nuova a questo tipo di
iniziative, già nel 2003 aveva pubblicato una lista di principi guida per la
comunicazione dei suoi prodotti di food and beverage, escludendo la promozione di
prodotti che contrastassero con una dieta salutare ed equilibrata. Nel 2010 l’azienda aveva firmato,
insieme ad altri 18 leader del settore alimentare, la ‘’children’s food and
beverage advertising initiative’’, dichiarando che, ai bambini sotto gli 11
anni, avrebbe rivolto soltanto pubblicità di prodotti che rispettassero degli
standard nutrizionali.
La proposta attuale fa un ulteriore
passo avanti con l’azienda che decide di rivolgere la sua comunicazione non più
ai bambini, che possono essere facilmente suggestionabili, ma ai genitori che
sono quindi in grado di valutare se un prodotto può essere più o meno adatto. Questa
modifica non riguarda solo le pubblicità nei canali tradizionali, come gli
annunci televisivi o cartacei ma anche tutte le attività online, sui social
media e sulle app. L’azienda, tra le altre cose, ha annunciato che non saranno
più scelti, per pubblicizzare i prodotti, influencer che abbiano come target
principale i bambini sotto i 12 anni.
In particolare, per quel che
riguarda il settore dei gelati (Unilever possiede il brand Algida), l’azienda
dichiara che le comunicazioni avverano in maniera responsabile e che i gelati
rivolti ai bambini, entro la fine del 2020, non avranno più di 110 calore e
conterranno massimo 12 grammi di zucchero a porzione. Su questi prodotti, per
renderli più facilmente riconoscibili, verrà applicato il logo di ‘’responsibly
made for kids’’ al fine di aiutare i genitori ad identificarli.
Marian Salzman: «Il futuro è migliore di quanto pensiate»
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Anticipatrice di nuove tendenze, 60 anni, americana, è stata chiamata da Philip Morris per accompagnare la compagnia verso un futuro «smoke-free»
Dilemma: ti chiama una delle più grandi compagnie di tabacco, in questo caso la Philip Morris International, e ti chiede di pensare a una strategia che sì supporti il proprio business, ma che faccia capire al mondo che bisogna puntare a un futuro senza fumo. Una bella sfida, quasi paradossale. E Marian Salzman ha accettato: il gruppo è un colosso e la challenge è più che stimolante. E così lei, americana di 60 anni, oggi ne è vicepresidente senior, reponsabile delle comunicazioni globali per Philip Morris, tra i dirigenti di pubbliche relazioni più premiati al mondo, trendpotter di riferimento.
Il suo impegno è quello di costruire un futuro senza fumo e, per farlo, sta sta stringendo alleanze con ONG, gruppi di difesa e autorità di regolamentazione, accompagnando la multinazionale per cui lavora in questo enorme processo di trasformazione, che da produttrice di tabacco sta sperimentando altre vie. Ma lei non ha paura di percorrere strade nuove, tanto che oggi è riconosciuta per essere una vera anticipatrice di nuove tendenze.
Che cosa osserva di più per capire il futuro? La gente? Il clima? La politica? I giovani? La moda? «Scovare nuove tendenze per me è una cosa naturale. Non è qualcosa che ho coltivato di mia volontà sin dal principio, è solo una parte di ciò che sono e di ciò che sono sempre stata. Di me stessa, so bene una cosa: sin da bambina mi piaceva osservare e decifrare le tendenze. Mi sono resa conto da tempo che non posso andare a fare la spesa, aggirarmi in un aeroporto o navigare sul web senza cercare modelli ricorrenti o pattern. Osservo tutto ciò che mi circonda: la gente, il clima, la politica e i giovani. Ma se dovessi fare una scelta fra queste cose, la risposta verrebbe da sé: sono perennemente affascinata dalle esperienze e dalle motivazioni delle persone. Adoro osservare le persone e poi riunire i tasselli del puzzle per capire quale sarà la prossima novità».
Lei viene spesso ricordata per aver popolarizzato il termine “metrosexual”. Per cos’altro vorrebbe essere ricordata in futuro? «Spesso, per scherzo, dico che sulla mia lapide sarà inciso “metrosexual”. Sono passati quasi due decenni da quando ho acceso i riflettori sul fenomeno degli uomini etero che abbracciano il loro lato “femminile”, ci sono ancora delle persone che mi contattano per parlarne. Non ho inventato io la metrosessualità, né ho mai inventato un trend, del resto. Sono una trendspotter, non una trendsetter. Ho innescato la cosiddetta “metrosexual mania” nel 2003 e nel 2004, prendendo in prestito un termine coniato un decennio prima da un giornalista britannico (anche se con un altro significato) per descrivere ciò che vedevo per strada e nei negozi tutti i giorni: uomini etero che facevano shopping con le loro amiche, che si curavano le sopracciglia, che compravano una crema sofisticata per il viso, che frequentavano un wine bar. David Beckham era l’icona di questo mondo. Applicando un termine malizioso a un fenomeno di grande interesse, io e la mia squadra abbiamo mandato in delirio i media di tutto il mondo. Vorrei davvero essere ricordata come qualcuno che ha lavorato per rendere il mondo un posto migliore, con campagne come #GivingTuesday e #HeForShe, insieme a organizzazioni come One Young World. E quest’ultima mia avventura, insieme a Philip Morris, si iscrive nel medesimo solco».
Che cosa significa per lei lavorare, oggi, in un’azienda del tabacco, quando quest’ultima afferma di voler costruire un futuro senza fumo? «Philip Morris International si è rivolta a me per chiedermi di aiutarli a realizzare la loro visione di un futuro senza fumo, un futuro dove gli adulti che altrimenti continuerebbero a fumare sostituiscano le sigarette con valide alternative senza combustione. Questa è una distinzione importante, considerando che gran parte dell’impatto tossico delle sigarette è legato al fumo, alla combustione in sé, piuttosto che al tabacco o alla nicotina. Riuscivo a intravedere l’opportunità di fare qualcosa di positivo per la salute pubblica e per gli uomini e le donne che fumano. Potevo dare il mio contributo per ridurre la popolazione mondiale dei fumatori, oggi stimata a 1,1 miliardi. Come avrei potuto rifiutare un’offerta del genere?».
Da sempre lei è molto interessata ai temi del cambiamento: verso quale direzione vorrebbe si dirigesse il mondo? «Anche se ogni giorno conviviamo con paure e incertezze opprimenti, siamo via via più fiduciosi nel nostro potere – parlo di noi cittadini e consumatori – di agire per un cambiamento reale. Questa constatazione mi riempie di ottimismo quando penso ai prossimi anni».
Cosa possiamo aspettarci dal 2020? «Credo che il 2020 sarà più consapevole, più sensato e meno caotico. Io spero che l’approccio sereno e collaborativo, con l’esempio dato dai giovani attivisti come Greta Thunberg, Malala Yousafzai e altri, mostrerà alle generazioni più mature che è possibile – e preferibile – essere impegnati, concentrati e forti pur senza perdere di vista la propria umanità o quella di chiunque altro. In un’epoca di caos e di rabbia, questa è una lezione di speranza che possiamo imparare da una generazione che sta emergendo. Ed è proprio un messaggio di speranza che, secondo me, traspare dalle 20 tendenze che ho menzionato per il 2020 nel report Chaos, the new normal».
Le 7 tecnologie per costruire gli aeroporti del futuro
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Le compagnie aeree e i gestori degli scali puntano i loro investimenti su riconoscimento facciale, intelligenza artificiale e digital twin
Lisbona – “La tua faccia? Sarà la tua carta d’imbarco”. La profezia arriva dall’Air transport It Summit che Sita, Società internazionale di telecomunicazioni aeronautiche, ha tenuto nei giorni scorsi a Lisbona. Biometria, internet of things, blockchain, cloud e intelligenza artificiale: sono alcuni dei capitoli di investimento da parte di aeroporti e compagnie aeree. Per rendere più smart gli scali, infatti, sono stati spesi globalmente 50 miliardi di dollari nel 2018 e la cifra è destinata a crescere a 61,4 miliardi per il 2019. Emerge da un’indagine effettuata da Sita, azienda fornitrice di soluzioni informatiche in mille aeroporti del mondo, controllata da 400 operatori del settore con 2800 clienti in 200 paesi, fra cui 40 autorità governative.
“Gli attuali 4 miliardi di passeggeri raddoppieranno nei prossimi 20 anni. È urgente ottimizzare processi e movimenti, magari all’interno di infrastrutture medio-piccole, assicurando a ogni utente un’esperienza veloce, automatizzata e senza interruzioni – spiega Sergio Colella, presidente di Sita per l’Europa. “I passeggeri forniscono volentieri i propri dati, se sono gestiti efficacemente e se ciò genera un vantaggio. I dati dimostrano che la soddisfazione degli utenti cresce del 20% secondo 6 compagnie e aeroporti su 10, dopo gli investimenti”.
L’impegno delle linee aeree è stato di 40,8 miliardi di dollari (il 4,84% dei ricavi) nel 2018, in aumento rispetto ai 24,8 del 2017. Gli aeroporti ne hanno messi sul piatto 10 (il 6,06% dei ricavi). La spesa converge sempre più su servizi cloud, cybersecurity, business intelligence, web app, data center, processi self-service e infrastrutture. “Condividere i dati” è quindi il nuovo mantra lanciato nel corso dell’evento, che ha visto anche la partecipazione di Armando Brunini, amministratore delegato di Sea. La società gestisce gli aeroporti di Malpensa e Linate, con 33,7 milioni di passeggeri, 107 linee aeree, 210 destinazioni in 90 Paesi. Così, dalla nota spesa globale di oggi è possibile capire come sta cambiando l’aeroporto del futuro, con le innovazioni pronte per il 2025.
1. Biometria
Convalidare da sé la propria identità con un selfie durante il check in online o direttamente in aeroporto senza esibire a ogni passaggio carta d’imbarco e passaporto. Sarà possibile con una scansione del proprio volto in meno di 5 secondi, grazie alle fotocamere del chiosco automatico o con il proprio smartphone. I dati biometrici del viso rilevati dall’intelligenza artificiale saranno infatti abbinati a quelli registrati nel chip del passaporto e alla carta d’imbarco.
Basterà poi farsi riconoscere dalle altre fotocamere al momento di caricare il bagaglio, abbinato con i propri dati biometrici, ai controlli di sicurezza, di confine e infine all’e-gate d’imbarco. Il 9% degli aeroporti ha già adottato questa soluzione, come Orlando negli Usa, ma saranno il 44% nel 2022. In futuro Sita che si possa arrivare a un token di viaggio vitalizio, grazie a soluzioni blockchain.
Fra gli scali che investono in questa tecnologia (il 61% entro il 2022) ci sono anche Malpensa e Linate. Qui ci saranno sei chioschi per l’enrollment, 25 e-gate, 10 gate pre-security e 7 face spot security (per un ulteriore controllo). Su questo fronte Sea ha investito 21 milioni.
2. Digital twin
L’airport management system è una centrale operativa con capacità predittiva per i carichi di lavoro e congestionamento del traffico, in grado di rimodulare in pochi secondi tabelle orarie, stalli occupati, flussi di mezzi e persone all’imbarco anche in caso di eventi dirompenti (come una bomba d’acqua) grazie all’Ai. Con i sensori a tecnologia Lidar permette inoltre di monitorare movimenti e presenze in ogni area, in modo anonimo.
Gli operatori hanno così a disposizione un “gemello digitale” (digital twin) dell’intera struttura e possono decidere con un colpo d’occhio di smistare il flusso ai gate, aggiornare tempi d’attesa o riprogrammare le operazioni di terra. L’83% e l’80% degli aeroporti investono o investiranno in business intelligence per gestire il flusso dei passeggeri e le operazioni di volo.
3. Beacons
Con l’internet of things sarà possibile un servizio sempre più personalizzato muovendosi nella struttura fisica. Il 54% degli aeroporti invierà notifiche in app sui tempi d’attesa per il volo e il 77% investirà in strumenti per la navigazione indoor entro il 2022. Un esempio? Dal primo quadrimestre del 2020 sarà disponibile a Malpensa (nel T1) la tecnologia beacon con connessione bluetooth: entrando in aeroporto, l’App Sea Milan Airports indicherà il volo e guiderà I passeggeri al gate indicando il percorso più breve, arricchendolo di informazioni sui servizi (ascensori, scale mobili, farmacie, shopping).
4. Imbarco bagaglio self service
Tre aereoporti su quattro forniranno il servizio di imbarco bagaglio self service entro il 2022. Gli aeroporti che hanno investito in questa procedura sono raddoppiati dal 18% al 36% nel giro degli ultimi quattro anni. L’utente potrà evitare le file etichettando da solo il bagaglio da stiva nel giro di un minuto. Questo, secondo Sita, permetterebbe di aumentare del 60% la capacità operativa dell’aereoporto, riducendo del 40% i costi operativi dello scalo.
Dal prossimo anno il Terminal 2 di Malpensa sarà il primo in Italia senza operatori al check-in perché verranno trasformati tutti i banchi in self bag drop: saranno 21, un po’ come sul modello londinese di Gatwick. In caso di peso superiore al previsto, il passeggero pagherà la differenza con sistemi di pagamento elettronici, nella medesima postazione
5. Smart security
Oltre 8 aeroporti su 10 stanno investendo in infrastrutture, business intelligence e processi di self-service, così anche Sea Milano prepara l’installazione di macchine Edes-Cb (Explosives Detection Systems for Cabin Baggage) con tecnologia Tac al posto dei tradizionali raggi x. I nuovi dispositivi di controllo permetteranno di non dover estrarre computer, tablet e smartphone dalla valigia, che potrà contenere anche creme e liquidi oltre 100 millilitri.
Entreranno in funzione a regime entro l’estate a Linate e per la fine del 2020 a Malpensa. La tecnologia, per cui Sea ha investito 17 milioni, è già in uso per i controlli dei bagagli da stiva e permette di riconoscere, in maniera automatica, la minima percentuale di esplosivo, svolgendo anche una parte del lavoro dell’operatore. Inoltre, le linee automatizzate per la gestione del bagaglio a mano permetteranno di gestire un numero più elevato di passeggeri, fino a 250 all’ora.
6. Un’app per tracciare i bagagli
Se la tecnologia World Tracer è già in uso dal 1991, grazie alle web app ogni compagnia aerea potrà fornire aggiornamenti riguardo il bagaglio smarrito al passeggero che, dopo aver fatto denuncia alle autorità competenti, riceverà un codice univoco di tracciamento e decidere data e luogo della consegna, imitando l’esperienza degli ecommerce più famosi. Metà degli aeroporti ha investito nel tracciamento dei bagagli in area check in nel 2019 e comunque il numero dei bagagli smarriti è in calo costante nell’ultimo decennio, da 46.9 milioni di pezzi nel 2007 a 24.8 milioni nel 2018. La spesa annuale correlata è scesa da 4,22 miliardi di dollari a 2,4 miliardi.
7. Cybersecurity
Se è vero che “ci sono due tipi di aziende, quelle che sono state hackerate e quelle che ancora non sanno di esserlo state” (John Chambers, Cisco), la priorità per scali e aerolinee è diventata l’addestramento del personale, mentre cresce la ricerca in intelligence delle minacce informatiche.
La difesa informatica è il tema di spesa più diffuso fra gli aeroporti (95%) e il secondo per le compagnie aeree (96%). Nel mondo, fra luglio 2016 e gennaio 2019, sono state attaccate 12 strutture. Oltre 100 voli subirono ritardi in Vietnam per un attacco agli scali di Ho Chi Minh e Hanoi e la piattaforma di Kiev fu colpita dal ransomware WannaCry. Nel 2018 gli hacker misero in scacco la rete wireless nell’aeroporto di Atlanta; mezzo milione di passeggeri subì ritardi e cancellazioni per un errore di sistema del centro Eurocontrol a Bruxelles e un furto di dati alla British Airways mise a rischio la sicurezza di 380mila carte di credito.
Come ulteriore tassello per supportare gli aeroporti a integrare le soluzioni informatiche nel processo di trasformazione digitale, Sita, che ha chiuso il 2018 con 1,7 miliardi di ricavi, ha appena acquisito il 100% di Software Design, società italiana con un team di 70 esperti, specializzata nell’integrazione di soluzioni software per gli aeroporti e principale fornitore di servizi a Capodichino (Napoli), scalo che, anche grazie ai sistemi digitali, ha potuto gestire un aumento del 16% di viaggiatori, arrivati a 10 milioni nel 2018.
Nutella, come sfruttare il packaging nella comunicazione di impresa
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Ognuno di noi ha, almeno una volta, assaggiato la nutella.
La crema di nocciole più famosa del mondo è stata inventata nel 1964
dall’industria dolciaria Ferrero. Il successo di questo prodotto, che ha reso i
Ferrero la famiglia più ricca d’Italia, è sicuramente dovuto al sapore del
prodotto, che piace molto soprattutto ai più piccoli, ma anche all’intelligenza
del top management che ha permesso di sfruttare tutte le leve del marketing,
adattandole ai diversi paesi in cui il prodotto è distribuito.
La Ferrero infatti, avendo un prodotto non personalizzabile,
hanno sfruttato abilmente il packaging per trasmettere i propri valori ai
clienti piuttosto che fare del barattolino di vetro un mero contenitore. I
vasetti infatti, spesso diversi tra di loro, spesso vengono riutilizzati e
apprezzati dai clienti.
Il primo vasetto del 1964, che conteneva 200 grammi di
prodotto, aveva una forma conica con il tappo bianco che tutti conosciamo. Pochi
anni dopo il vasetto originale venne sostituito con vasetti di diverse forme,
sempre in vetro, arricchiti con svariate decorazioni, come ad esempio personaggi
dei cartoni animati o i luoghi più famosi d’Italia, che lo resero un oggetto da
collezione e ne permisero il riutilizzo.
Seguendo le orme della coca-cola, la Ferrero nel 2013 lanciò
il vasetto personalizzato con la campagna ‘’nutella sei tu’’. Non solo nei
negozi divenne possibile acquistare barattoli con 150 nomi ma divenne possibile
anche acquistare su internet un vasetto con il proprio nome, nel caso in cui non
fosse presente tra i 150 disponibili in negozio. Visto l’enorme successo di
questa iniziativa, l’anno seguente la Ferrero decise di lanciare i vasetti con
le frasi motivazionali e nel 2015 con varie espressioni dialettali. Nel 2017 i
vasi delle dimensioni più grandi vennero prodotti con un numero di serie progressivo
e unico, al fine di rendere ogni barattolo diverso da tutti gli altri. A
sostegno della diversità, nel 2019 la ferrero ha lanciato l’edizione speciale
che ha preso il nome di nutella gemella per veicolare il messaggio che ‘’anche
se siamo tutti diversi, c’è sempre qualcosa che ci unisce’’.
Ferrero ci insegna come anche un prodotto di larghissimo consumo può essere reso speciale e unico grazie ad un packaging originale.
“Strumenti innovativi per la mappatura degli stakeholder e per la rendicontazione integrata”
“Strumenti innovativi per la mappatura degli stakeholder
e per la rendicontazione integrata”
Prof. Luca Poma Università LUMSA di Roma e all’Università statale della Repubblica di San Marino
Introduzione
In
una delle sue celebri “lezioni americane”, “Exactitude”, l’indimenticabile
Italo Calvino – nella top ten degli autori italiani del ‘900 – si concentra
sulla “forza della parola” e – per contro – sulla crescente banalizzazione del
linguaggio nei tempi moderni. Le parole sono come un abito, che dà forma ai
nostri pensieri e ci permette di decidere come desideriamo essere percepiti
all’esterno, dal pubblico con il quale inevitabilmente entriamo quotidianamente
in contatto.
Il
“marketing relazionale” è ormai entrato nella pedagogia del business, ma non di
sole vendite vive un’azienda, o meglio: per vendere – ma soprattutto per
continuare a vendere – costruendo valore nel tempo, è necessario coltivare le
relazioni con gli stakeholder in modo realmente efficace, aperto
all’innovazione, e inclusivo delle novità dettate dallo sviluppo frenetico del
mondo digitale.
I
cittadini oggi si sentono sempre più liberi di manifestare la propria opinione
o, perlomeno, hanno la piena consapevolezza di “essere parte dell’equazione
globale”. Molte organizzazioni per contro si ostinano a tenerli fuori dalle
proprie dinamiche di decisione, nonostante keyword come “fiducia”,
“reputazione” e “rispetto” siano ormai – da tempo – parte integrante della
catena del valore.
La
narrazione costruita dall’azienda è centrale, nell’attrarre il Cliente
nell’universo dell’azienda, e l’importanza del preziosissimo asset intangibile
della “reputazione”, che è concretamente in grado di condizionare i
comportamenti di acquisto – dei prodotti, ma anche dei servizi – da parte dei
Clienti finali, é acclarata.
Il
termine “transmedia storytelling” – la costruzione di un universo
narrativo coerente su vari media, e soprattutto di esperienze in grado di
coinvolgere le persone e i Clienti – sta entrando prepotentemente nel
vocabolario degli addetti ai lavori: non solo rappresenta il futuro – anzi,
ormai il presente – del narrare storie create dalle aziende, ma esprime il
potere della cultura contemporanea che tende a fondere l’esperienza delle
aziende con quella dei fruitori, in una perfetta sintesi. Un processo per cui
si generano nuove “trame” e si aprono nuovi mercati partendo dalla circolazione
dei contenuti e delle idee che gli stessi Clienti finali creano attorno a un
prodotto, un servizio o un marchio.
Il
reputation management include strumenti ad alto valore aggiunto creati con lo
scopo di misurare e orientare l’opinione pubblica, condizionando positivamente
i comportamenti di acquisto; implica anche la ricezione dei commenti in modo
aperto e il coinvolgimento dei vari pubblici verso il miglioramento della percezione
che pubblicamente hanno dell’organizzazione.
L’era
della mera trasmissione unilaterale di contenuti – senza curarsi
dell’impressione e delle idee del proprio pubblico – è alla fine, cosa che
risulta evidentissima se solo si osservano le dinamiche relazionali dei vari social-network:
occorre lavorare su sistemi che prevedano un feedback istantaneo nonché
strumenti di narrazione collettiva, perché gli utenti non solo vogliono poter
“dire la loro” sulla storia narrata dal marchio, cosa che ormai viene data
assolutamente per scontato, ma vogliono anche poter influenzare le scelte delle
aziende; di fatto la “storia di successo” è solo quella che gli autori
“abbandonano” dal punto di vista creativo come un guscio di noce nell’oceano
della creatività del pubblico dei fruitori. Questo è un territorio nuovo, in
cui produzione e consumo scambiano i propri ruoli e discutono le proprie
ambizioni, mostrandosi specchio di un’era interconnessa, votata alla vera
partecipazione.
Oggi
sono sempre più frequenti le situazioni di co-protagonismo tra aziende, Clienti
finali e pubblico in generale. Federico Minoli, Amministratore delegato della
storica marca di motociclette Ducati, ebbe a dichiarare: “Improvvisamente la
domanda vera è: di chi è la marca? Noi siamo convinti che la marca sia dei
Ducatisti”. Come è facile comprendere, un atteggiamento virtuoso come
questo ha conseguenze sull’intera offerta di servizi dell’azienda e sulle
strategie di marketing della stessa.
La
rendicontazione integrata
Quattro
le parole chiave del Reputation management: l’identità, ovvero il DNA
dell’azienda, la sua mission, i suoi valori; l’immagine che è il
riflesso dell’identità dell’organizzazione così come è percepita – anche in
modo differente – dai diversi pubblici; quindi, la reputazione, ovvero
il grado di allineamento tra l’identità dell’organizzazione e la sua immagine,
costruita nel tempo dall’organizzazione insieme ai suoi pubblici; da non
dimenticare, infine, che la reputazione può migliorare sempre e solo se la
relazione tra i soggetti è basata su criteri di autenticità.
Le organizzazioni sempre più spesso “rendicontano” ai propri
stakeholder, con vari strumenti, alcuni più adeguati, altri meno. La
“rendicontazione non finanziaria” è stata resa obbligatoria del 31/12/2017 per
Direttiva UE per tutte le aziende da 500 dipendenti in su (in futuro questo
limite verrà probabilmente abbassato), ma è in realtà prassi corrente anche per
le PMI più attente a costruire con la propria Clientela un rapporto di fiducia,
in grado di condizionare i comportamenti di acquisto.
Tuttavia, la rendicontazione aziendale attuale viola intrinsecamente le
regole di base del Reputation management: è “agiografica”, auto-referenziale,
riporta solo i successi delle aziende e non rispetta quasi mai il principio del
“comply or explain” (le aziende illustrano molto raramente i motivi per i quali
non sono riuscite a raggiungere gli obiettivi dettati dagli impegni assunti con
i loro pubblici). Come è possibile costruire fiducia in assenza del requisito –
essenziale – della precitata autenticità…? La relazione tra organizzazione e
stakeholder è a quel punto come un fragile castello di carte, pronto a crollare
al primo episodio di crisi reputazionale: le cronache – e i Social – sono pieni
di case-history di questo genere.
Le
più recenti analisi sulla reportistica corporate posizionano le aziende in
due macro-categorie: imprese che cercano di soddisfare i bisogni di conoscenza
espressi dai loro pubblici in modo proattivo, con sistemi di reportistica più o
meno evoluti, o aziende puramente “marketing-oriented” che ritengono superfluo
ogni sforzo in rendicontazione.
Anche
nel primo caso (aziende CSR-oriented), in controllo del flusso di comunicazione
è sempre saldamente in mano all’azienda, che segue i processi di eventuale
integrazione strategica della CSR, elabora gli strumenti di reportistica, e
filtra i dati, decidendo integralmente sostanza e forma del contenuto del
Bilancio integrato.
Il
rischio di “lifting” è quindi evidente, dal momento che non esistono efficaci
strumenti di controllo (per i bilanci sociali non vige l’obbligo di
certificazione da parte di Enti terzi); inoltre – aspetto a mio avviso sostanziale
– si registra quasi sempre l’assenza di un apposita sezione di tipo “comply or
explain”, nella quale l’azienda dovrebbe auspicabilmente illustrare gli
obiettivi non raggiunti nel corso dell’anno (scostamento tra i
risultati a fine anno e le attese iniziali).
L’obiettivo
principale della rendicontazione dovrebbe essere:
coinvolgere attivamente gli stakeholder esterni
nel processo di redazione del bilancio integrato
coinvolgere attivamente i dipendenti
nell’aggiornamento del cruscotto di indicatori quali-quantitativi contenuto nel
Bilancio integrato, così da limitare l’effetto “lifting” da parte della
Direzione/da parte degli azionisti
aumentare la percezione di trasparenza e di
fiducia e quindi aumentare la licenza di operare concessa all’azienda dagli
stakeholder
garantire a tutti i pubblici informazioni
aggiornate sull’azienda, in modo disintermediato, 365 giorni all’anno, senza
dover interpellare ogni volta l’azienda stessa
soprattutto, garantire informazioni sugli
obiettivi non raggiunti dall’azienda
Tali
obiettivi sono raggiunti nella maggior parte dei casi solo in parte, spesso per
nulla: le aziende sono quindi oggi chiamate a un maggior sforzo in direzione
della trasparenza di processo, della coerenza, e della genuinità nella
rendicontazione.
Una case-history di autenticità
Come
vedremo nel proseguio di questo Paper, il “Social Hub” rappresenta attualmente il
più moderno esperimento al mondo – riuscito – di rendicontazione integrata
online multinacanale e multistakeholder.
Si
tratta di una piattaforma web che mette l’organizzazione in grado di comunicare
con tutti i propri pubblici di riferimento, in modalità continua, rendicontando
ai cittadini – in tempo reale – sui progressi dell’organizzazione
nell’assolvimento del proprio mandato.
Il
Social Hub è un’evoluzione nel campo degli strumenti di rendicontazione, una sfida
che è punto di arrivo di un progetto sperimentale che garantisce un flusso di
dati totalmente disintermediati 365 giorni all’anno, senza soluzione di
continuità, imputati direttamente on-line dagli stakeholder
dell’organizzazione, che collaborano attivamente all’aggiornamento di numerose
tabelle inserite in un apposito cruscotto di indicatori.
La storia del
progetto e le sue basi teoriche
Il sistema normalmente applicato a tutti gli strumenti di rendicontazione è quello della “logica Aristotelica”: in logica classica, il principio di non contraddizione afferma l’incongruenza di ogni affermazione la quale implichi che una certa proposizione “A” e la sua negazione – diciamo la proposizione “non-A” – sono allo stesso tempo entrambe vere. Aristotele infatti diceva che “…non è lecito affermare che qualcosa sia e non sia nello stesso modo ed allo stesso tempo…”. Ne deriva che – in base a questo paradigma – vi è un esatto punto oltre il quale un pubblico non è più di interesse dell’organizzazione. O si è stakeholder, o non lo si è: ciò che c’è oltre l’ipotetica linea di demarcazione, secondo questo approccio, non deve interessare l’organizzazione, che in questo modo – però – pone di fatto un limite alla propria stessa licenza di operare.
Agli
inizi dei ruggenti anni ’60, all’Università di Berkeley, Lotfi Zadeh, un Professore
molto noto per i suoi contributi alla teoria dei sistemi, si convinse che le
tecniche tradizionali di analisi di tale teoria erano così schematiche e
“precise” da risultare inadeguate a descrivere molti dei problemi tipici in un epoca
di forte rinnovamento. Zadeh elaborò una nuova teoria, che alcuni percepirono
inizialmente in contraddizione con la logica aristotelica – e ne nacquero
accese discussioni accademiche! – ma che invece si rivelò essere, come vedremo,
una sua evoluzione dettata dallo sviluppo dei tempi e del pensiero: la logica “ad infiniti valori di verità”, basata
sul concetto di “insiemi sfumati”, anche conosciuta come “logica fuzzy” (da
indeterminato, sfumato, sfocato). Si tratta di un approccio alla logica in cui
si può attribuire a ciascuna proposizione un grado di “verità variabile”
compreso tra un valore 0 ed un valore 1. Quest’intuizione, utilissima per
spiegare molti fenomeni moderni, era stata tratteggiata già prima da
ricercatori del calibro di Bertrand Russel ed Albert Einstein, ma venne
codificata in modo articolato per la prima volta proprio dal Prof. Zadeh.
Quando
parliamo di grado di verità o valore di appartenenza intendiamo dire –
disorientando forse un po’ le nostre mentalità cartesiane, pregnate dal
concetto “o e vero o è falso, o è bianco o è nero” – che una certa proprietà
oltreché essere vera (cioè con valore 1) o falsa (cioè con valore 0) come
prevede la logica classica, può anche essere contraddistinta da valori
intermedi: vero è che “o si è vivi o si è morti” (valore 1 o valore 0) ma
altrettanto vero è che – in logica fuzzy – si può assegnare ad un neonato valore
1, ad un ragazzo appena maggiorenne valore 0,8, ed a un pensionato settantacinquenne
valore 0,15. Detta così può apparire banale, ma la codificazione di questa
riflessione sotto forma di algoritmi matematici avviò una vera e propria
rivoluzione nel mondo della logica moderna.
Un
nuovo modello di mappa degli stakeholder
Abbiamo quindi applicato i concetti su esposti alla Responsabilità Sociale delle Imprese, elaborando un nuovo tipo di procedimento per mappare gli stakeholder basato sull’assunto che “tutti sono stakeholder”, semplicemente con infiniti e sfumati valori di coinvolgimento. La mappa così concepita, è uno strumento innovativo per la lettura dei fenomeni nei quali viene coinvolta l’Organizzazione e delle dinamiche di comunicazione e interazione con i nostri pubblici. Laddove tradizionalmente, l’azienda era infatti rappresentata “al centro”, con intorno all’azienda, collegati da una linea ciascuno, i vari portatori d’interesse, questa nuova mappa degli stakeholder utilizza un diagramma cartesiano a 4 quadranti: nessuna correlazione tra l’Organizzazione e gli stakeholder, Organizzazione dominante sullo stakeholder, stakeholder dominante sull’Organizzazione, e – infine – interconnessioni reciproche e forti.
La nostra modalità di rappresentazione dei rapporti tra l’Organizzazione
e i propri pubblici va ben oltre l’aspetto meramente grafico, e finisce per
coinvolgere nel profondo l’aspetto filosofico di questa materia:
l’Organizzazione è rappresentata come una “texture di fondo” sulla quale “si
appoggiano gli stakeholder, a raffigurare l’esatta “coincidenza” di obiettivi e
desideri tra la prima e i secondi, enfatizzando visivamente Il modo con il quale
percepiamo il nostro ruolo nei confronti del pubblico e intendiamo rapportarci
– nel senso più ampio del termine – a ciò che ci circonda.
L’azione di input verso uno stakeholder, finirà per generare una
rielaborazione di informazioni anche all’interno del perimetro dello
stakeholder stesso, modificando in parte il suo DNA, e queste modifiche
finiranno inevitabilmente per produrre alterazioni all’interno del perimetro
dei pubblici d’interesse del nostro stakeholder, applicando così alle dinamiche
tra Organizzazione e stakeholder il principio che sta alla base delle reti
neurali.
Nelle “reti neurali artificiali”, al termine di ogni fase del processo
di apprendimento, il nodo avente un vettore di pesi più vicino ad un certo
risultato desiderabile è considerato il nodo “vincitore”, e tutti i pesi sono
aggiornati automaticamente in modo da avvicinarli a tale valore. Dato che
ciascun nodo ha un certo numero di nodi adiacenti, quando un nodo vince una
competizione, anche i pesi dei nodi adiacenti sono modificati, secondo la
regola generale che più un nodo è vicino al nodo vincitore tanto più marcata è
la variazione dei suoi pesi. Questo è ciò che succede in una mappa di
stakeholder, laddove una buona prassi ha alte probabilità di venir adottata da
tutto il network e diventa quindi il nuovo valore di riferimento.
Il tipo di mappa evoluta ideato sulla base di questo modello è quindi un
tentativo per codificare graficamente questi concetti: l’organizzazione si
sente così strettamente connessi ai propri pubblici, da arrivare ad affermare
che non ha relazioni con i propri stakeholder, bensì l’Organizzazione “è” i
propri stakeholder, e gli stakeholder sono l’Organizzazione, perché come
Organizzazione siamo parte integrante di uno scenario sociale complesso, con
una missione che va ben al di là del mero coinvolgimento dei “pubblici di
prossimità”.
Anche il posizionamento dei pubblici sulla mappa non è affatto
“casuale”, bensì è frutto della compilazione di dettagliate “checklist” da
parte degli stakeholder stessi e dei loro referenti all’interno dell’azienda, i cui risultati
determinano, mediante l’assegnazione di un valore numerico da -5 a +5 (e
relative frazioni decimali), il posizionamento dell’icona rappresentante uno
specifico pubblico in un preciso punto dello schema, secondo appunto la
misurazione dell’“influenza” dello stakeholder sull’organizzazione e viceversa.
Ogni stakeholder è quindi durante l’anno oggetto di specifiche strategie
e azioni di comunicazione, elaborate “ad hoc”, tendenti a generare il
cambiamento nella relazione necessario per spostare lo stakeholder – ovviamente
– sempre più verso il riquadro in alto a destra, quello delle “interconnessioni
forti” tra l’Organizzazione e lo stakeholder stesso.
L’evoluzione
nella rendicontazione integrata: il “Social Hub”
Successivamente,
dopo aver sperimentato con successo questo modello sull’azienda farmaceutica
leader in Italia nel settore delle medicine di origine biologico-naturale – ci
siamo posti un’ulteriore domanda: se la posizione più appetibile è – come
abbiamo sottolineato – quella delle interconnessioni forti, non è
anacronistico un sistema di reportistica confezionato esclusivamente
dall’azienda, flusso unilaterale di informazioni, non sottoposto a controlli
esterni, se non – nel migliore dei casi – a una mera “conferma di congruità
formale” da parte di qualche società di certificazione? Come abbiamo scritto, i
bilanci sociali tradizionali sono spesso documenti agiografici, redatti dalle
aziende alla fine dell’anno, più volte di quante si pensi oggetto di “lifting”,
e riportanti sempre solo pluspoint e quasi mai criticità. Un sistema obsoleto,
non trasparente, non condiviso con quegli stessi stakeholder che sosteniamo
sempre essere – a parole – “fondamentali” per il buon fine della missione
stessa dell’Organizzazione.
E’ nato
così il “Social Hub”: una piattaforma web sperimentale frutto di un processo di
condivisione dei contenuti con i vari pubblici aziendali, che collaborano
attivamente per l’intera fase di redazione del documento di rendicontazione
dell’Organizzazione, “emendando” periodicamente il testo stesso del bilancio; ogni
stakeholder può interagire direttamente con la piattaforma, modificando i dati
quali-quantitativi del bilancio relativi al proprio rapporto di
collaborazione/partnership/sponsorship con l’organizzazione, “costruendo” con
essa il Bilancio integrato.
L’Organizzazione
e i suoi stakeholder dispongono quindi di una rendicontazione agile, facilmente
accessibile, chiara e trasparente; solo online, perchè non percepiamo più – da
alcuni anni – alcun valore aggiunto dalla stampa di un supporto cartaceo. Dal
Social Hub è comunque possibile per qualunque utente estrapolare con un
semplice “click” – qualora necessario – una versione cartacea “light” del
Bilancio integrato, senza foto e impaginata in modo agile ed essenziale, così
da limitare lo spreco di carta.
Inoltre, lo strumento si rivela prezioso per permettere all’azienda di individuare precocemente segnali deboli di crisi e sacche d’inefficienza al proprio interno.
Il
bilancio integrato così concepito – frutto di 6 anni di lavoro per
l’adattamento del modello teorico che l’ha ispirato, e predisposto in versione
sperimentale online nel 2014, in versione 2.0 nel 2016, e in versione 3.0 nel
2019 – è stato dotato di un “cruscotto di indicatori” di oltre 60
tabelle – con relativa parte testuale – i cui dati sono aggiornati man mano
durante l’anno direttamente dai vari reparti aziendali, senza alcuna
“mediazione” da parte degli azionisti.
Questo
progetto di condivisione e di totale disintermediazione tra l’organizzazione e
i suoi pubblici, permette ai cittadini di accedere durante tutto l’anno ai dati
grezzi e non “trattati” o commentati dall’organizzazione, per farsi
una propria personale idea dell’andamento delle attività societarie.
Vi è anche
un’area Fotogallery/Videogallery, con la possibilità di pubblicare “storie per
immagini”, interviste, etc., che illustrino meglio all’utente la filosofia e i
progetti promossi dall’Organizzazione.
Una
“time-line” riporta – anno per anno – i “fatti salienti” che hanno
caratterizzato l’evoluzione e la crescita dell’Organizzazione stessa.
È stata infine
creata l’area “Cosa non siamo riusciti a
fare e perché”, primo bilancio integrato in Italia a prevedere un intero capitolo
di questo genere all’interno del Report, consolidando ancor più il principio
“comply or explain”, che prevede l’obbligo – previsto dai framework internazionali in materia,
purtroppo ancora poco applicati in Italia – di rendicontare ogni obiettivo che
si è mancato di raggiungere.
É inoltre possibile “valutare”
il bilancio mediante la compilazione di un apposito Questionario di gradimento
on-line sul Social Hub. Tutti i questionari compilati contribuiscono a
modificare “in tempo reale” la valutazione da parte degli utenti dello
strumento di rendicontazione.
Il modello proposto in questo
Paper – e già collaudato in Italia – è un viaggio affascinante, oltre una nuova
frontiera del marketing relazionale, della sostenibilità e della
rendicontazione trasparente, consci del fatto che non sempre “nuovo” è sinonimo
di “pericoloso”, dal momento che i nuovi scenari della comunicazione vanno
necessariamente governati. Nel contempo, è quasi una “provocazione”, per le
aziende decise a aprire i propri cancelli sulla base di principi di autenticità
e trasparenza, e a sfidare il domani con ottimismo e senza paura.