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Enrico Giovannini: «Il domani non è mai uno solo»

Enrico Giovannini: «Il domani non è mai uno solo»

Siamo nella tempesta più difficile, ma perché non proviamo a sfruttare questo vento? L’economista portavoce di uno sviluppo più sostenibile e più equo spiega come potremo ripartire. Senza per forza dover tornare al punto di prima

Gli esperti di «studi sul futuro» tengono a specificare che, nella loro disciplina, si dovrebbe sempre parlare di «futuri», al plurale. E non solo perché, come diceva Niels Bohr, premio Nobel per la Fisica nel 1922, «è difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro», ma perché possiamo scegliere il futuro (è il titolo del mio libro del 2014, edito da Il Mulino), non solo subirlo.

Mi rendo perfettamente conto che può essere difficile leggere queste righe, in un momento così drammatico, senza scetticismo, o senza provare un moto di fastidio.

Un tempo nel quale il numero di contagiati dal coronavirus e il numero dei morti aumentano ogni giorno in tutto il mondo. Un tempo in cui metà della popolazione mondiale subisce restrizioni senza precedenti alla libertà di movimento. Un tempo in cui il senso stesso del futuro appare stravolto. Ma è proprio in questo tempo che siamo chiamati a ragionare sul domani che vogliamo costruire come individui, come società, come comunità umana che abita il pianeta Terra.

Da un mese a questa parte i siti web di tutto il mondo sono pieni di riflessioni di esperti di diverse discipline sui futuri che possiamo decidere di realizzare: futuri di condivisione e solidarietà o futuri di conflitti e scontri tra società e tra gruppi sociali; futuri in cui la tecnologia ci consentirà di trasformare in meglio la nostra vita, offrendo nuovi spazi di libertà o futuri in cui la tecnologia sarà usata per controllare le persone e realizzare torsioni dei sistemi politici in senso antidemocratico; futuri in cui lo Stato assumerà un ruolo molto più ampio di quanto sperimentato negli ultimi quarant’anni per proteggere le persone e orientare le scelte verso il benessere collettivo o futuri in cui lo Stato collasserà a causa dell’insostenibilità finanziaria; futuri che trasformeranno in meglio le società, che finalmente sceglieranno di migliorare l’ambiente e abbandoneranno il consumismo sfrenato, o futuri che renderanno tutti molto più poveri e aumenteranno le disuguaglianze.

Solo tre mesi fa (ma sembra passata un’era geologica), i leader mondiali discutevano a Davos, in occasione dell’annuale World Economic Forumsu come avviare una trasformazione profonda del capitalismoper renderlo più sostenibile sul piano ambientale e meno diseguale su quello sociale. E si citava il numero crescente di imprese che abbracciavano i nuovi principi di responsabilità sociale d’impresa, impegnandosi a contribuire alla realizzazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, approvata da tutti i Paesi del mondo il 25 settembre 2015, e al conseguimento dei suoi 17 obiettivi e 169 sotto-obiettivi. E si citava la straordinaria trasformazione (mai vista negli ultimi 35 anni, dicevano gli esperti mondiali) della finanza, finalmente orientata a imprese e progetti finalizzati alla realizzazione dell’Agenda 2030, alla transizione energetica, all’adozione dei principi dell’economia circolare. E i politici presentavano i loro Green New Deal, cioè i piani finanziati dai governi per trasformare i sistemi economici e combattere la crisi climatica, così da rispondere alla domanda di cambiamento proveniente dai giovani di tutto il mondo.

E ora, al tempo del coronavirus, dove sono quelle idee, quelle speranze, quegli impegni che facevano dire ai tanti che da anni spingevano per la trasformazione del modello socio-economico che era finalmente «la volta buona»? Dove sono quei politici, quei leader delle imprese e della finanza, quegli opinion leader e quegli attivisti di tutto il mondo? Tutto dimenticato? Tutto accantonato in nome della necessità di fronteggiare la drammatica caduta del reddito, dei consumi, delle attività economiche e dell’occupazione che stiamo osservando in tutto il mondo e che ci aspettiamo sarà senza precedenti?

Per ora sembra sia così. Ma basta ricordare per un attimo che è doveroso parlare di «futuri» possibili che la nostra attenzione si risveglia e che l’innata capacità dell’uomo di immaginare il domani (qualcuno dice che questa, al contrario dell’intelligenza, sia presente solo nella nostra specie) ci aiuta a recuperare lucidità e a capire che a questa crisi possiamo reagire in tanti modi, e che da questo dipenderà il nostro futuro. Per esempio, possiamo rifiutare la classica logica dei «due tempi» (ora mi occupo dell’emergenza, al resto penserò dopo), scegliendo di orientare le politiche e le scelte individuali non al rimbalzo indietro, cioè al tentativo di tornare a dove eravamo prima della crisi, ma a un «rimbalzo in avanti», verso un futuro diverso e, sperabilmente, migliore.

Prendiamo l’Italia. Come dimostrato dai dati elaborati dall’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) a febbraio di quest’anno, il nostro Paese non era su un sentiero di sviluppo sostenibile. Povertà, disoccupazione, inquinamento, disuguaglianze tra gruppi e territoriali, bassa educazione, profondi divari nell’accesso ai servizi sanitari e educativi, alta evasione fiscale (110 miliardi all’anno) e così via. Ma veramente vogliamo tornare a dove eravamo? O piuttosto non dobbiamo impegnarci per stimolare una «resilienza trasformativa», cioè ridurre al massimo la caduta del reddito e la distruzione di base produttiva, proteggere i più deboli e rafforzare il sistema sanitario, ma anche preparare e orientare la ripresa e la ricostruzione per migliorare i diversi aspetti della qualità della vita?

Alcuni esempi. Ogni anno lo Stato eroga a famiglie e imprese 19 miliardi di sussidi che danneggiano l’ambiente e 16 miliardi di sussidi che favoriscono l’ambiente. Ogni anno lo Stato riconosce decine di miliardi di spese fiscali, cioè di detrazioni e deduzioni per motivazioni diverse, definite nel corso degli anni da governi di vario orientamento. Ebbene, non sarebbe il momento di operare una profonda revisione degli incentivi e delle spese fiscali alla luce delle nuove priorità e urgenze?

Molte imprese ripenseranno le proprie catene di fornitura. Alcuni pensano che la globalizzazione diventerà regionale, cioè che le imprese preferiranno rivolgersi a fornitori più vicini sul piano territoriale, all’interno di aree geoeconomiche più omogenee. Questa tendenza rappresenta un’opportunità per il nostro Paese, la seconda manifattura d’Europa, a patto di rivedere le procedure amministrative che presiedono all’insediamento di nuove imprese e il sistema degli incentivi, nel rispetto delle regole ambientali e del rispetto dei diritti dei lavoratori.

L’esperimento forzato di smart working che milioni di persone stanno facendo può cambiare il modo in cui le imprese e le città funzionano. Per esempio, se tante imprese manterranno questa pratica anche dopo la rimozione dei divieti di movimento, ma lo faranno in modo disordinato (per esempio, tutte il venerdì), le nostre città continueranno a essere intasate e inquinate per quattro giorni a settimana, invece che cinque. Se, al contrario, la politica coordinasse meglio le decisioni delle imprese, si potrebbe avere una riduzione del traffico e dell’inquinamento per tutta la settimana.

L’esperimento forzato di smart learning che i docenti e gli studenti stanno facendo ha trasformato tante case in aule universitarie e scolastiche e ha obbligato tutti a elaborare nuovi approcci educativi. Visto che l’Italia non dispone di un programma sistematico di formazione continua degli adulti, non si potrebbe, una volta che le ragazze e i ragazzi siano tornati in classe, sfruttare questa innovazione per impostare un tale programma a costi contenuti? Nel momento in cui si immettono nel mercato ingenti fondi pubblici finalizzati al sostegno delle imprese, non sarebbe possibile orientarli anche verso l’adozione di tecnologie e pratiche innovative nella direzione dell’economia circolare, paradigma in grado di ridurre l’impatto ambientale, aumen- tare l’occupazione e ciononostante incentivare produttività e redditività (fino al 15%, come indicano i dati dell’Istat pub- blicati l’anno scorso)?

E si potrebbe continuare. Come dice quel famoso motto di Seneca: «Non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare». Ecco perché, nonostante la drammatica tempe- sta in cui siamo, spetta a noi cercare di governare le vele e la barca per cercare di portare il nostro Paese su un sentiero di sviluppo sostenibile. Possiamo, quindi, abbracciare i principi dell’Agenda 2030 per guidare i nostri comportamenti individuali e collettivi anche in questa situazione, e così costruire un modello più sostenibile sul piano economico, sociale e ambientale più giusto. Oppure possiamo affidarci alle stesse impostazioni culturali e politiche che hanno reso le nostre società vulnerabili e diseguali, fino alla prossima crisi. A noi spetta scegliere il futuro che vogliamo. Forse non sarà la «ter- ra promessa», da alcuni, ma la migliore per tutti tra quelle permesse.

Enrico Giovannini, 62 anni, è un economista e docente universitario. È stato ministro del Lavoro sotto il governo Letta e presidente dell’Istat. È cofondatore e portavoce di ASviS.




Coronavirus, Twitter: Jack Dorsey dona un miliardo di dollari in beneficenza

Coronavirus, Twitter: Jack Dorsey dona un miliardo di dollari in beneficenza

La donazione pari al 28% del suo patrimonio (3,6 miliardi di dollari) per l’Covid, e in parte per la salute e l’istruzione delle donne. Il ceo della compagnia californiana promuove il reddito di base universale

L’amministratore delegato di Twitter Jack Dorsey ha annunciato che donerà 1 miliardo di dollari per finanziare gli sforzi di soccorso al coronavirus, ma anche fare beneficenza ad altri enti. Dorsey ha spiegato che l’importo è pari a circa il 28% del suo attuale patrimonio netto, che sarebbe di circa 3,6 miliardi di dollari.

L’operazione sarà attuata trasferendo la somma in azioni di Square al suo fondo Start Small con l’obiettivo di sostenere questioni come la salute e l’istruzione delle ragazze, insieme all’idea di un reddito di base universale, attraverso il suo fondo Start Small. “Il reddito di base universale” è una grande idea che necessita di sperimentazione. La salute e l’istruzione delle ragazze sono fondamentali per l’equilibrio”, ha sottolineato in una serie di tweet.

“Perché ora? Le esigenze sono sempre più urgenti, e voglio vedere l’impatto nella mia vita. Spero che questo ispiri altri a fare qualcosa di simile. La vita è troppo breve, quindi facciamo tutto il possibile oggi per aiutare le persone adesso”, ha detto.

Dorsey ha postato un link a un documento di Google, che ha detto che sarà aggiornato per mostrare dove vanno i soldi nel tentativo di mantenere la massima trasparenza.




Analisi del sangue, app sanitaria e tracciamento dei contatti: il piano Ferrari per la fase 2

Analisi del sangue, app sanitaria e tracciamento dei contatti: il piano Ferrari per la fase 2

Maranello ha svelato i dettagli del piano “Back on Track”, per la ripartenza sicura delle sedi di Modena e Maranello

Ferrari scalda i motori per la ripartenza per il dopo emergenza Covid-19. La casa del Cavallino ha svelato i dettagli del piano “Back on Track” (“Torna in pista”), nato per le sedi di Modena e Maranello dalla collaborazione con un pool di virologi ed esperti e patrocinato dalla Regione Emilia Romagna.

L’obiettivo non è anticipare la riapertura – la data per il ritorno in fabbrica sarà decisa dal Governo – ma aprire in modo sicuro.

Il progetto prevede diverse fasi. Si pare con la piena attuazione del «Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro» sottoscritto da Governo e parti sociali il 14 marzo 2020, ulteriormente rafforzato e personalizzato con il supporto di competenze specialistiche qualificate sugli ambienti di lavoro Ferrari.

Screening con analisi del sangue

La fase successiva prevede uno screening dei collaboratori Ferrari, su base volontaria, con esami del sangue mirati a verificare il loro stato di salute in relazione alla diffusione del virus. Il test – completamente gratuito per i lavoratori – sarà poi esteso, sempre su base volontaria, ai membri della “Comunità Ferrari”: i familiari conviventi dei collaboratori e il personale dei fornitori presente in azienda.

Rilascio di un’App sanitaria

Si proseguirà poi dando a ogni collaboratore l’opportunità di scaricare un’App per ricevere supporto medico sanitario nel monitoraggio della sintomatologia del virus. Grazie all’applicazione sarà possibile anche il tracciamento dei contatti delle singole utenze, in forma anonima e aggregata. La gestione dei dati sarà affidata a una società esterna ed estranea a Ferrari, che così non avrà accesso alle informazioni individuali su spostamenti e contatti dei singoli lavoratori. Questi dati saranno però utili in caso di positività al Covid-19 di un utente, permettendo di ricostruire con certezza i suoi contatti all’interno della “Comunità Ferrari”.

Psicologo in fabbrica e assistenza ai casi di Covid-19

Ferrari fornirà inoltre un servizio di assistenza sanitaria e psicologica, telefonica e domiciliare, alle proprie persone. In caso di positività al Covid-19, verrà loro messa a disposizione una copertura assicurativa specifica oltre a un alloggio adatto all’autoisolamento, con assistenza medica e infermieristica a domicilio e supporto di materiale sanitario (quali medicinali, ossimetro e, nel caso di emergenze, ossigeno).

Collaborazione con la Regione Emilia Romagna

Ferrari condividerà l’esito del progetto “Back on Track” con la Regione Emilia Romagna, con l’obiettivo di mettere a disposizione della comunità delle imprese regionali e nazionali le pratiche e il know-how del progetto, in modo gratuito.

Team di scienziati

Per sviluppare gli aspetti scientifici la casa di Maranello è in stretto contatto e collabora con la USL di Modena e potrà contare anche sulla consulenza, tra gli altri, del dottor Nicola Bedin, Presidente di Lifenet Healthcare, e del professore Roberto Burioni dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano; oltre al pool sanitario di medici Ferrari coordinati dal dottor Maurilio Missere.

John Elkann: «Progetto a tutela dei lavoratori»

Il progetto è stato citato anche dal presidente John Elkann nella lettera agli azionisti Exor: «Abbiamo definito – scrive Elkann – sistemi e protocolli per permettere la riapertura graduale e in sicurezza dei nostri luoghi di lavoro, in stretta collaborazione con i rappresentanti dei nostri lavoratori e le autorità sanitarie competenti. I risultati di questo progetto – ha chiarito Elkann – verranno condivisi a livello locale e in tutto il mondo per contribuire alla creazione di nuove procedure per la protezione della salute dei lavoratori in ognuna delle loro comunità».




Come è (in parte) mutata e come è percepita la pubblicità ai tempi del coronavirus

Come è (in parte) mutata e come è percepita la pubblicità ai tempi del coronavirus

Quali cambiamenti si possono notare nella pubblicità ai tempi del coronavirus? E che percezione ne hanno gli italiani in questo periodo?

Dall’inizio della diffusione del coronavirus molte cose sono cambiate, per i consumatori tanto quanto per i produttori e i brand. Da un lato, non potendo uscire di casa ed essendo in isolamento, i consumatori hanno mutato le loro abitudini, dall’altro molte aziende hanno dovuto ripensarsi, reagendo con immediatezza alle esigenze imposte dal periodo, come hanno fatto, ad esempio, i brand di moda con varie iniziative per contrastare l’emergenza coronavirus.
Se produzione e consumo di prodotti e servizi si sono trasformati in risposta alle problematiche attuali, non potevano che adeguarsi anche le comunicazioni (personali e aziendali), nelle forme quanto nel contenuto: la pubblicità ai tempi del coronavirus, così, è inevitabilmente cambiata.

PERCHÉ E COME È IN PARTE CAMBIATA LA PUBBLICITÀ AI TEMPI DEL CORONAVIRUS: ALCUNI ESEMPI

onsiderando le diverse direttive che i cittadini sono stati chiamati a rispettare, infatti, alcuni brand si sono domandati se fosse opportuno continuare a diffondere le comunicazioni pubblicitarie, già realizzate e semmai anche lanciate in precedenza, basate su concetti quali la vicinanza fisica alle persone care, il viaggiare, il mangiare fuori casa, il fare la spesa in punti vendita, e così via.
Detto in altri termini, la domanda che si sono posti i brand sarebbe la seguente: la pubblicità che esprime una “vita normale” può suscitare un effetto straniante nei consumatori e addirittura infastidire oppure permette un’evasione momentanea, potendo sognare e desiderare di tornare alla “normalità”?

Ogni brand ha dato una propria risposta: c’è chi ha deciso di sospendere del tutto comunicazioni di tipo pubblicitario, chi ha provveduto a modificarle, chi invece ha mantenuto la linea seguita già in precedenza. Ovviamente, non c’è una risposta corretta in assoluto e la sola regola da seguire è di restare sempre coerenti al proprio tone of voice e al proprio target rispettando la situazione.

Hershey, ad esempio, ha optato per lo stoppare provvisoriamente spot pubblicitari che mostrano abbracci, per spostare l’attenzione sui prodotti, e Nike ha invitato ad allenarsi a casa, immettendosi nel flusso di iniziative del tipo #iorestoacasa. Anche altri brand hanno cercato di comunicare in modo chiaro la necessità di tenere una distanza sociale (fisica) e di non uscire di casa se non per urgenze, come ha fatto Audi in un breve video che stacca i tre cerchi solitamente uniti nel logo , mentre alcune campagne, come quella attribuita a Netflix e legata al claim «stai a casa o Netflix ti spoilera i finali» si sono rivelate non lanciate direttamente dal brand (in questo specifico caso la finta campagna è diventata velocemente virale, costringendo Netflix a pubblicare una specifica sui propri canali social ufficiali).

Focalizzato sulla possibilità di comunicarelavorare, condividere a distanza è il nuovo spot realizzato da Vodafone con il coinvolgimento dei clienti della compagnia telefonica, ai quali è stato chiesto di registrare dei brevi video mentre svolgevano diverse attività in casa.

Barilla, invece, ha dedicato il suo spazio pubblicitario sul Corriere della Sera del 2 marzo 2020 ai propri dipendenti, che stanno continuando a lavorare anche in questo difficile periodo, ringraziandoli uno ad uno, con un lungo elenco di nomi e un messaggio breve e chiaro sintetizzabile in quel «siamo fieri di voi» evidenziato con maiuscole e grassetto.

Alcuni brand invece hanno deciso di sospendere la comunicazione pubblicitaria. Lo hanno fatto aziende che vendono prodotti di grandi dimensioni, come ad esempio Poltrone Sofà, che ha stoppato la messa in onda degli spot probabilmente proprio per l’impossibilità di comprare questo genere di prodotti senza recarsi in negozio, o le agenzie di viaggi, i cui servizi al momento non possono essere sfruttati dai consumatori. Lo ha fatto anche Coca Cola Italia, ritenendo più opportuno concentrare le attenzioni e le energie su aspetti più importanti in questo momento.

Non mancano brand però che hanno scelto di continuare a diffondere le comunicazioni pubblicitarie già realizzate o lanciate in precedenza, come vediamo in vari spot che sponsorizzano le uova pasquali.

QUAL È LA PERCEZIONE DELLA PUBBLICITÀ AI TEMPI DEL COVID-19 IN ITALIA?

È un errore quello di aziende che continuano a diffondere comunicazioni legate ad attività o situazioni che non possiamo vivere attualmente o eventi e festività che saranno inevitabilmente trascorsi in maniera diversa dal passato? Come si diceva sopra, non c’è una risposta valida in assoluto.

Possiamo però chiederci qual è la percezione della pubblicità ai tempi del coronavirus per meglio comprendere cosa si aspettano i consumatori.

Focalizzando l’attenzione sul panorama italiano e sulla fruizione televisiva, risultano interessanti a tal proposito i dati della ricerca realizzata da Conic e Hokuto, “La pubblicità vista dalla quarantena“, con interviste svolte dal 23 al 25 marzo 2020 e somministrate a un campione di 800 spettatori televisivi under 18, con quote campione per sesso, fasce di età e area geografica.

I dati, presentati in un webinar il 2 aprile 2020, sottolineano come il livello di preoccupazione per questo periodo sia molto elevato (solo l’11% si dichiara un po’ preoccupato e appena il 2% non preoccupato) e come dalla pubblicità non ci si aspetti affatto un accentuare ulteriormente questa sensazione o, più in generale, sensazioni negative.

Se la pubblicità non è ritenuta inopportuna in questo periodo solo dal 14% dei telespettatori vanno considerati altri dati che sembrano rendere non così consolidata questa opinione, perché la maggior parte degli intervistati ammette di divertirsi guardando la pubblicità (il 13% molto, il 43% abbastanza, il 33% poco e l’11% per nulla) e di ritenere che la pubblicità continui a svolgere il proprio ruolo, quello di aiutare nella scelta di prodotti e servizi (secondo il 12% molto e per il 53% abbastanza).

Il dato più interessante, comunque, è quello che evidenzia come i telespettatori ritengano che la pubblicità ai tempi del coronavirus dovrebbe comunque essere incentrata principalmente sull’intrattenere, con toni simpatici, leggeri. Va rilevato che tra gli intervistati le persone più adulte sono quelle che chiedono di essere più incluse nei messaggi pubblicitari sia da parte di marche che offrono prodotti diretti a loro, sia dalla comunicazione pubblica, anche con un messaggio adeguato allo specifico momento. In generale, però, le persone si aspettano che la pubblicità continui a raccontare storie, specie ambientate in una sorta dimensione da sogno e di “mondo ideale” che ha sempre caratterizzato la pubblicità: scene all’aperto o momenti condivisi con amici e famiglia, quindi, non risultano essere strane o fastidiose, al contrario continuano ad essere apprezzate, per il desiderio di poterlo fare presto; in questo caso, infatti, non si tratta di un qualcosa a cui alcuni possono accedere ed altri no – come è invece nella comunicazione relativa al settore del lusso –, perché si tratta di situazioni che con il tempo sarà possibile per tutti rivivere. Le aziende che fanno pubblicità ora sono ritenute essere soprattutto quelle che guardano al domani (per il 23%), che sanno adattarsi alla situazione (22%), che possono offrire sempre qualcosa di utile (per il 18%), per cui è probabile che ne guadagneranno in termini di reputazione anche in futuro.




A proposito di brand, ne parliamo con l’autore

A proposito di brand, ne parliamo sabato con l’autore

LA ROTTA DEI BRAND Nella Società dei Consumi. Vi anticipo qualche riga dopo aver letto il testo ed essermi confrontata con l’autore.

Come definiamo l’attuale società? Società dei Consumi?

La società contemporanea, risulta governata dalla cosiddetta Economia della Conoscenza, che viene ad incidere in modo significativo sulle sue caratteristiche e sulle sue dinamiche.

Cos’è l’Economia della Conoscenza?

La Conoscenza, ovviamente, rappresenta un elemento che da sempre contraddistingue l’Uomo e lo accompagna nel suo percorso attraverso la Storia. Fino a tempi relativamente recenti, tuttavia, i legami e le interazioni tra la sfera dell’Economia e quella della Conoscenza non erano mai stati oggetto di adeguata attenzione e di approfondita disamina. Oggi si suole stabilire la nascita di una vera e propria Economia della Conoscenza in coincidenza con l’avvento del Capitalismo Liberale, all’inizio del XIX secolo, quando la Rivoluzione Industriale traspone il sapere scientifico all’interno dell’azienda e realizza una dirompente Meccanizzazione del lavoro e della produzione; da qui inizia storicamente la continua e sistemica tensione dell’impresa verso la creazione di nuovi e più avanzati prodotti, lo studio di innovativi modelli produttivi ed organizzativi, l’apertura di ulteriori mercati.

In questo meccanismo rientra il Capitalismo?

Possiamo dire che il Capitalismo moderno, sin dai suoi albori, è sempre stato una Economia della Conoscenza, nel senso che nelle varie epoche storiche il valore è stato costantemente prodotto dalla organizzazione, dallo sfruttamento e dall’accrescimento del sapere disponibile, ovviamente secondo modelli e con modalità di volta in volta differenti.

E noi come ci collochiamo nel sistema economico?

L’Uomo contemporaneo, il cittadino dei nostri tempi, in buona sostanza, si trova a vivere nella realtà odierna una condizione estremamente difficile, profondamente contraddittoria, per qualche verso addirittura lacerante.

Da un lato, egli si trova inserito in un sistema economico, politico e sociale che si compone di una serie di meccanismi tutti finalizzati alla tutela dell’Accumulo, dove le necessità e le aspirazioni delle persone sono altamente neglette o addirittura non trovano cittadinanza. Dall’altro lato, egli vive immerso in una originale Economia della Conoscenza, basata su asset immateriali e intangibili, che si nutre di saperi, di culture e di innovazioni e che, conseguentemente, ha una necessità estrema e costante di nuovi ed originali apporti da parte dei singoli individui.

La mia vita professionale è da sempre proiettata sul brand, sia per gli aspetti della comunicazione che per quelli del marketing. Il tutto però conseguentemente all’immagine del mondo della marca. Qual è il ruolo del Brand nella Società Moderna?

Esistono più nomi che vengono solitamente utilizzati per indicare questo elemento: Marchio, Marca, Logo, Trademark, Brand; tali termini a volte sono concepiti come equivalenti, altre volte tra di essi vengono operate delle distinzioni, talora anche piuttosto profonde. Utilizzeremo in questo testo i termini Marchio e Brand come sinonimi; la parola Marchio risulta più corretta da un punto di vista strettamente tecnico-giuridico, in quanto corrispondente alla terminologia formalmente utilizzata dalla legislazione del nostro Paese; la parola Brand appare invece maggiormente idonea a richiamare le prospettive evolutive del concetto in esame, in quanto meno vincolata alle rigidità imposte dal diritto vigente. Con i termini Brand e Marchio, in buona sostanza, vogliamo identificare quella unità concettuale, consistente in un segno distintivo, che contraddistingue i beni – prodotti e servizi – presenti sui mercati.

Il Brand, in un certo senso, accompagna da sempre il cammino dell’Uomo.

Sono pienamente d’accordo, in linea con l’analisi di Alberto Improda. Ma sono tematiche così vaste che non posso lasciar correre. Io ho bisogno di approfondimenti. E voi? Vi abbiamo incuriosito?

La rotta del Brand

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