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Il servizio pubblico dei robot

Il servizio pubblico dei robot

Il più grande test di giornalismo generato da una macchina realizzato dalla BBC fino a oggi”. Alle ultime elezioni in Gran Bretagna i 700 articoli sui risultati nei vari collegi elettorali li ha scritte un robot.Uno sforzo produttivo “che non sarebbe mai stato possibile con i giornalisti”, spiega Robert McKenzie, il direttore dei BBC News Labs. La macchina ha inserito in un template nomi e numeri di vincitori e sconfitti, legandoli tra loro con una struttura narrativa e un linguaggio programmati secondo lo “stile BBC”.
Un esperimento utile a capire come potrebbe cambiare il giornalismo e quale spazio avrà quello di servizio pubblico.
Il giornalismo dei robot sta già rivoluzionando il lavoro delle agenzie di stampa a carattere finanziario. Un terzo dei lanci di Bloomberg utilizza già una qualche forma di automatismo tecnologico. Grazie ad Automated Insights l’Associated Press produce ogni trimestre 4400 news su report finanziari. A proposito dell’applicazione dell’Intelligenza artificiale nelle redazioni il New York Times ha parlato di ascesa del robot reporter. E in Cina si sta già immaginando di sostituire gli anchorman, i conduttori dei telegiornali, con una figura creata dagli algoritmi. Una tecnologia che ricorda quella utilizzata per produrre i video deepfake, contro i quali il Wall Street Journal ha creato una vera e propria task force anche di giornalisti.
Un mese fa mi è capitato di mostrare in un’aula universitaria il celebre video fake su Barack Obama realizzato dal regista Jordan Peele: nessuno lo aveva mai visto e, soprattutto, nessuno ha intuito si trattasse di un falso. Il che conferma che essere un millennial o un post-millennial non significa essere digitalmente esperto e che nell’era del deepfake il giornalismo forse può avere ancora un senso.
Già, ma quale giornalismo?
L’esperimento della BBC conferma che le news sono ormai diventate una commodity. Notizie legate ai risultati elettorali, agli eventi sportivi, alle informazioni di Borsa, alle previsioni del meteo presto potranno essere fornite solo dalle macchine, che lo faranno con più precisione, più rapidamente e a costo zero. Perché la BBC dovrebbe pagare dei giornalisti per un compito che un bot può svolgere meglio e più in fretta?
Se per giornalismo di servizio pubblico si intende quello generalista, il minimo comune denominatore dell’informazione, allora quello lo serviranno gli algoritmi, gratuitamente, come già stanno facendo le piattaforme di Facebook e Google.
Per sopravvivere il giornalismo dovrà cambiare, reinventarsi e non siamo nemmeno sicuri sarà sufficiente. Come ha scritto benissimo Mario Tedeschini Lalli, “il giornalismo professionale è e sarà sempre di più una nicchia, una nicchia che potrà distinguersi solo per autorevolezza e perché fornisce contenuti di qualità diversa, cioè contenuti prodotti secondo un metodo diverso”. Un giornalismo umile, che controlla, verifica, spiega, anche utilizzando la tecnologia, come nel debunking dei deepfake che diventeranno presto molto semplici da produrre, tanto che non crederemo più a niente. Il WSJ parla di “democratizzazione dei deepfake”: già oggi alcuni software open source consentono a chiunque con una qualche conoscenza tecnica e una scheda grafica sufficientemente potente di creare un deepfake. Le aziende editoriali del futuro dovranno diventare anche aziende tech.
Ora, facciamo anche noi un esperimento. Proviamo a immaginare le reazioni in Italia se la notizia della BBC avesse riguardato la RAI. Molti avrebbero gridato allo scandalo (“l’informazione di servizio pubblico lasciata ai robot”), altri avrebbero brindato alla tecnologia che rimpiazza la lottizzazione, altri avrebbero chiesto l’abolizione del canone, visto che l’azienda pubblica ha più di 1700 giornalisti, una decina di testate giornalistiche e, con la TgR, “la redazione più grande d’Europa”. Numeri dai quali partì il tentativo abortito di riorganizzazione dell’informazione RAI progettato da Carlo Verdelli, l’attuale direttore della Repubblica, che al tema ha dedicato anche un libro (“Roma non perdona). In quel libro Verdelli ricordava che la BBC è il primo sito di news in Gran Bretagna, mentre quello di Rainews nell’ultima classifica Audiweb è al 32esimo posto. Oggi della riforma dell’informazione RAI non parla più nessuno. Speriamo nei robot.




Marketing emozionale in sanità: scopriamo come utilizzarlo

Marketing emozionale in sanità: scopriamo come utilizzarlo

L’assistenza sanitaria è radicata nella scienza e il Marketing emozionale ne è la riprova. Dati e statistiche sono vitali per lo sviluppo di farmaci, per il trattamento di pazienti e persino per il marketing di successo.

Detto questo, per il consumatore sanitario, i fatti razionali basati sull’evidenza sono spesso secondari. La salute è un argomento pieno di emozioni. Spesso, questa emozione è ad un livello estremo, come per le persone che hanno a che fare con una diagnosi difficile o che stanno lottando per prendere decisioni terapeutiche o per sentirsi sopraffatte dagli oneri finanziari legati alla malattia. Il Marketing emozionale nell’assistenza sanitaria è un modo efficace di impegnarsi perché attinge all’emozione che è già così presente per il consumatore sanitario.

Perché il marketing emozionale è efficace

La ricerca dimostra che la pubblicità che combina fatti ed emozioni tende ad avere più successo perché le campagne emozionali possono aiutare a creare un senso di differenziazione duratura per il marchio. Gli sforzi di marketing che combinano il razionale e l’emotivo sono coinvolgenti e promuovono una sensazione di connessione tra il consumatore sanitario e il marchio.
Ma perché esattamente le campagne emotive sono così efficaci? Una connessione emotiva porta all’impegno affettivo, secondo la ricerca di Elyria Kemp dell’Università di New Orleans. Quando c’è un impegno affettivo, “i consumatori possono venire a identificarsi con il marchio del fornitore di assistenza sanitaria e viene creata una connessione auto-brand”.
Il Marketing emozionale nel settore sanitario funziona perché è autentico ed empatico. La spiegazione si trova con il neurotrasmettitore dopamina. La dopamina è scatenata da entrambe le emozioni positive e negative, secondo una recente ricerca dell’Università del Michigan. La ricercatrice Ann Graybiel del MIT McGovern Institute (Massachusetts Institute of Technology ) ha condotto a tal proposito uno studio sul processo decisionale emotivo che è stato in grado di identificare i circuiti neurali coinvolti nell’elaborazione delle emozioni e nel prendere decisioni.

Nello specifico, un sistema alimentato con la dopamina chiamato bouquet striosome-dendron gioca un ruolo chiave nel processo decisionale. Quando il marketer vuole influenzare il processo decisionale, vale la pena considerare questo ciclo di feedback sull’ormone in oggetto.

Il Marketing emozionale è vantaggioso per il paziente sanitario?

Mentre il marketing emozionale ha chiari vantaggi per le aziende sanitarie, che dire dei pazienti? C’è un valore per il consumatore sanitario? Il dottor Yael Schenker, un medico dell’Università di Pittsburgh, non è così sicuro. Nella sua ricerca, ha analizzato oltre 500 annunci pubblicitari e televisivi legati al cancro e ha scoperto che la maggior parte faceva affidamento su appelli emotivi, principalmente evocando speranza e/o paura.
L’85% delle pubblicità mostrava appelli emotivi, con il 61% che evoca speranza e il 30% che evoca paura. Schenker ha dichiarato al New York Times che la sua ricerca “smentisce l’idea che la pubblicità consente ai pazienti di fare scelte migliori”. Il NYT si basa sull’argomento di Schenker e fa una forte argomentazione sui pericoli del Marketing emozionale. Mentre la spesa per gli annunci sanitari continua ad aumentare, questa preoccupazione continua ad acquisire rilevanza.
Quando l’emozione viene utilizzata per nascondere o distrarre da fatti rilevanti, compresi il prezzo e i rischi, il paziente può essere danneggiato. Non solo la paura e le emozioni simili sono potenzialmente dannose per il paziente, ma si scopre che possono essere demotivanti e non produrre comunque l’effetto desiderato per il Marketing Sanitario.
Al contrario una ricerca pubblicata sulla rivista American Marketing Association ha scoperto che l’attivazione di un’emozione positiva favorisce l’elaborazione di informazioni sulla salute, mentre l’attivazione di un’emozione negativa ne ostacola il trattamento. Emozioni positive come speranza, pace, umorismo, ispirazione, interesse, gioia e gratitudine possono essere efficacemente utilizzate nelle campagne di Marketing Sanitario.
In Texas la Solis Women’s Health ha scoperto che l’utilizzo della paura nelle campagne di prevenzione mammografica ha scatenato prima ansia nelle donne coinvolte, fino a procrastinare gli appuntamenti e i controlli di routine. Passando invece ad una campagna di marketing legata ad emozioni positive, hanno però visto una crescita di oltre il +10% in un solo anno.

Le emozioni come motore del Marketing Sanitario

Un ottimo modo per incorporare emozioni autentiche nel marketing è usare contenuti generati da pazienti reali. La ricerca ha dimostrato che i pazienti si fidano delle esperienze di pazienti con patologie o storie cliniche simili più di altre forme di media. Il contenuto emotivo intrinsecamente autentico potrebbe spiegare perché è così.
Vediamo insieme alcuni esempi di campagne di successo che utilizzano il Marketing emozionale in ambito sanitario:
Philips: Choth Breathless
Philips ha creato un video che racconta come ha utilizzato la narrazione emotiva per promuovere il suo mini concentratore di ossigeno portatile. Il video del Breathless Choir ha raccontato una serie di storie di pazienti reali, persone con varie difficoltà respiratorie, come la fibrosi cistica e la BPCO.
Questi pazienti si sono riuniti per imparare a cantare e l’esibizione finale evoca sentimenti positivi come speranza e gioia. Più di 15 milioni di persone hanno guardato il video online, commentando e ricondividendolo su altre piattaforme. Il video ha addirittura vinto il Gran Premio Pharma Lions al Festival Internazionale della Creatività 2016 di Cannes.
Vale la pena aggiungere che il video non ha nulla a che vedere con i classici annunci di vendita, in realtà il prodotto non è nemmeno menzionato, anche se è visibile. Secondo Philips, le entrate per i dispositivi sono aumentate del +14% nel trimestre successivo il lancio della campagna.

GlaxoSmithKline’s Theraflu: “What Powers You?”

Nella serie di annunci per il loro trattamento Theraflu popolare per raffreddore e influenza, GlaxoSmithKline mostra il potere di andare oltre il marchio. Raccontando le storie ispiratrici di persone reali nella campagna “What Powers You?”, GlaxoSmithKline attinge a una serie di emozioni positive. Il prodotto reale è secondario alla campagna.
Il filo ispiratore di tutte i video è sempre lo stesso: alcune persone hanno bisogno di aiutare gli altri. Non importa cosa li guidi ma non lasceranno nemmeno l’influenza e la malattia ad ostacolarli. Ecco perché Theraflu celebra con orgoglio il fuoco interiore  – potere personale – che spinge le persone ad andare oltre ciò che ci si aspetta.

Conclusioni

Uno dei modi migliori per incorporare le emozioni nella tua Strategia di Marketing è usare la narrazione. Questa è la differenza tra una testimonianza diretta, coinvolgente, e una semplice vendita di prodotto: la prima ha molte più probabilità di creare una risposta emotiva e una sensazione di connessione.

Lo storytelling nel marketing consiste nel dipingere un’immagine vivida, piuttosto che elencare semplicemente un flusso di fatti. I fatti dovrebbero essere inclusi per essere etici e più efficaci, ma non devono essere l’obiettivo principale.

Il Marketing emozionale nel settore sanitario può essere di grande beneficio sia per il consumatore sanitario che per l’azienda sanitaria, ma esiste un modo giusto e un modo sbagliato per affrontarlo. Quando si tocca l’emozione nel marketing, dovrebbe sempre essere fatto in un modo incentrato sul paziente piuttosto che con l’obiettivo di fuorviare o di distrarlo.
Per ottenere i migliori risultati, assicurati di bilanciare l’emotivo e il razionale e cerca di concentrarti sulle emozioni positive. Come stai usando le emozioni nelle tue campagne di marketing?




Coinvolgere una parte ostile… conviene

Coinvolgere una parte ostile… conviene

È abbastanza comune per chi opera nell’area della leadership e dei conflitti trovarsi a dare consulenza a imprese che han bisogno di avviare un dialogo costruttivo con stakeholders ostili per risolvere relazioni tese, opposizioni e situazioni di blocco o conflitto aperto. Tipicamente si tratta di rapporti con le comunità attorno a una sede produttiva, con associazioni ambientaliste o di consumatori.
È segno di un’impresa lungimirante e saggia approcciare i conflitti in modo aperto e trasformativo (molto diverso dalla “gestione”, che presuppone l’inevitabilità della loro continuazione). Ci vuole coraggio e un’ottima leadership. Tuttavia bisogna ammettere che, a causa della diffusione di approcci comunicativi legati alla sostenibilità e alla Responsabilità Sociale d’Impresa, sono sempre di più le organizzazioni che prendono la via del dialogo con i propri portatori d’interesse, i cosiddetti stakeholders, con un approccio proattivo anche in caso di situazioni conflittuali o comunque di relazioni tese.
Ma recentemente mi è capitato qualcosa di veramente molto diverso: direi una forma di “iper-prevenzione”, molto, molto intelligente. Un collega americano – un airport manager – mi ha chiesto una consulenza su come consigliare la popolazione residente nell’area circostante un aeroporto al fine di coinvolgere le autorità aeroportuali in un dialogo costruttivo quando vi siano problemi (rumore, traffico, inquinamento; paura di questi…) che eccitano gli animi e creano conflitti. Una situazione, lo riconosciamo tutti, tutt’altro che improbabile. Il collega stava cercando di sviluppare un modello da proporre ai propri colleghi al fine di evitare le frequenti situazione di “muro contro muro” che si verificano intorno a installazioni fortemente impattanti sul territorio.
Confesso che, dopo un momento di difficoltà iniziale per adattare i miei processi di pensiero al contesto, mi sono divertito a pensare “alla rovescia” e sviluppare una lista di azioni ispirate dal Metodo CASE© e dalla mia esperienza nel campo della trasformazione dei conflitti. Ho trovato geniale l’idea di passare da un semplice approccio proattivo nell’avviare il dialogo con la controparte, restando sempre nei propri panni, a quello di sostegno alla controparte stessa per aiutarla a partecipare al dialogo in modo costruttivo ed efficace, in vista dello sviluppo di soluzioni mutualmente sodisfacenti. L’idea del collega americano era veramente visionaria, ma basata su solido buonsenso: quante volte ci sarà capitato di tentare di raggiungere un risultato importante in un dialogo e trovarci frustrati perché l’interlocutore non riusciva ad afferrare le nostre proposte, oppure comprendere la nostra visione? Oppure: quanto è frustrante trovarsi con un fronte di interlocutori spezzettato, contraddittorio e conflittuale al suo interno? A me è capitato spesso. L’idea di educare i propri interlocutori a divenire negoziatori più affidabili e ragionevoli è davvero rivoluzionaria e può portare a risultati eccezionali se portata con coraggio e leadership fino in fondo.
La lista che segue è stata rivista e collaudata con l’autorità aeroportuale che aveva commissionato la consulenza e possiamo dire che la sua efficacia è stata testata: mi fa perciò molto piacere poter ora condividere questo progetto con i lettori di Leadership&Management Magazine. Prima di passare ai consigli pratici, mi preme ricordare che le indicazioni sono rivolte a cittadini, associazioni o simili che siano stakeholder di un soggetto il quale (almeno apparentemente) svolge un’attività che impatta negativamente sulle loro vite. Quindi, se sei un manager o un imprenditore, tieni presente che la lista “parla” al comitato di zona che esprime preoccupazione per le emissioni della tua fabbrica, oppure all’associazione ambientalista che si oppone all’ampliamento del tuo stabilimento. Dovrai trovare il modo di passare queste informazioni ai tuoi interlocutori. I colleghi americani, in qualche caso, hanno offerto una formazione ai comitati. In altri è circolato un piccolo manualetto; si sa che gli statunitensi hanno la mania degli “handbook”.
Lo fai nel tuo interesse, anche se potrebbe a prima vista sembrarti che stai favorendo l’organizzazione e l’efficacia del tuo “nemico”. Nell’approccio alla trasformazione del conflitto partiamo dall’idea che non esistono “nemici” ma solo parti che hanno per il momento una percezione divergente degli obiettivi. E l’obiettivo del processo è di riallineare gli obiettivi verso prospettive mutualmente soddisfacenti.
Perciò, quello che ci si attende se darai una mano ai tuoi oppositori suggerendo loro questi passi di trasformazione, è che divenga molto più facile il dialogo con loro e l’individuazione di piani e progetti che possano soddisfare i bisogni sia della tua organizzazione sia dei suoi stakeholders. Ecco dunque cosa consigliamo di suggerire:

  • individuare tutte le voci simili alla loro nel contesto (altri gruppo, associazioni…);
  • se possibile, mettersi insieme e coordinarsi: la dispersione di energia genera il fallimento, quantomeno perché la controparte non può ascoltare un numero infinito di voci (resisti alla tentazione del “divide et impera”: dal tuo punto di vista è un’illusione. Moltiplichi solo le rotture di scatole e allunghi i tempi all’infinito);
  • trasformare i loro conflitti interni per individuare un portavoce (o più) equilibrato e autorevole. Gestire continuamente le relazioni interne e le ondate emotive (già questo non è facile… ma possibile);
  • raccogliere più informazioni possibili: informazioni dirette – non pettegolezzi – le più accurate che sia possibile. Ignorare quelle evidentemente orientate e quelle intenzionalmente distorte. La verità è sempre più forte;
  • distinguere i fatti dalle emozioni: i fatti sono necessari per sviluppare azioni efficaci; le emozioni sono motivanti, ma spesso portano fuori strada quando non sono individuate come tali;
  • scoprire cosa muove le emozioni: qual è il pericolo percepito a causa della controparte? È reale? Cercare di stabilirlo con obiettività;
  • quali sono i bisogni essenziali VERI che si sta cercando di soddisfare (fatti, non emozioni)?;
  • considerare anche i “pro” di avere la controparte nell’area: non sono lì solo per arrecare danno. Se sono veramente dei delinquenti, normalmente ci sono leggi da applicare (e la campagna può diventare dura, ma le istituzioni possono essere alleate). Ma nel 99% dei casi non lo sono, perciò non considereremo quell’1 per cento;
  • stabilire obiettivi ragionevoli, definire i punti negoziabili e quelli no con buonsenso, essere flessibili per quanto possibile;
  • considerare la controparte un interlocutore legittimo e un partner nel trovare soluzioni. Rispettarla (anche l’1 per cento, per il caso che ci si sia sbagliati sul loro conto…);
  • MAI lavorare CONTROSEMPRE impegnarsi PER qualcosa di diverso (una situazione, un accordo, un’operazione…) che migliorerà la situazione per tutti, e scoprire come;
  • scoprire chi è il vero interlocutore, dotato di potere decisionale(uno o più, in una o più occasioni) per vere discussioni costruttive e per la ricerca di soluzioni Win/Win;
  • sedersi al tavolo con una vera volontà di conoscere, comprendere e trovare soluzioni Win/Win;
  • essere aperti ai suggerimenti, condividere i propri dati apertamente, considerare quelli della controparte attentamente e onestamente;
  • essere cooperativi nel lavoro per raggiungere gli obiettivi (secondo gli accordi), in buona fede e flessibili per adattarsi a circostanze mutevoli.

Come puoi vedere, non considero la possibilità di un fallimento! Come cantò John Lennon, “Puoi dire che sono un sognatore”… ma, in verità, ho molta comprovata fiducia nell’approccio alle negoziazioni onesto, rispettoso ed equilibrato. Se ti trovi in una situazione di conflittualità, latente o attuale, con uno o più stakeholders apparentemente ostili hai solo da guadagnare a farne degli interlocutori lucidi, onesti e capaci.
Provare per credere.




Carlsberg ha creato la prima bottiglia di birra al mondo fatta di carta riciclabile e sostenibile

Carlsberg ha creato la prima bottiglia di birra al mondo fatta di carta riciclabile e sostenibile

Carlsberg ha presentato la prima bottiglia di birra al mondo fatta di carta. Realizzata  con fibre di legno riciclabili e sostenibili, si tratta di una vera svolta green per il noto marchio di birra danese.
Carlsberg sta lavorando con successo alla realizzazione di una bottiglia prodotta a partire da fibre di legno provenienti da fonti sostenibili, la Green Fiber Bottle, già dal 2015 insieme agli esperti di innovazione EcoXpac, alla società di packaging Billerud Korsnäs e ai ricercatori della Technical University of Denmark, supportati da Innovation Fund Denmark.
Dopo anni di lavoro, il birrificio danese ha ufficialmente presentato due prototipi di bottiglia in carta. Entrambi sono realizzati con fibre di legno provenienti da fonti sostenibili e completamente riciclabili e sono dotati di una barriera interna per consentire alle bottiglie di contenere la birra senza degradarsi.
Il primo prototipo utilizza una sottile barriera di polimeri di PET riciclato e il secondo, invece, una barriera in PEF, polimero a base biologica. Entrambe le bottiglie verranno utilizzate per testare il migliore rivestimento e arrivare all’obiettivo di una bottiglia a base biologica al 100% e senza polimeri.
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La nuova bottiglia fa parte dell’iniziativa “Together Towards Zero” di Carlsberg, che impegna l’azienda a raggiungere zero emissioni di carbonio per i suoi birrifici e una riduzione del 30% della sua impronta di carbonio totale entro il 2030.
Myriam Shingleton, vicepresidente per lo Sviluppo del Gruppo Carlsberg, ha dichiarato che le nuove bottiglie in carta sono più sostenibili rispetto a quelle in vetro e ai contenitori in alluminio:

“L’impatto sulla produzione è molto basso, perché l’energia e l’efficienza della tecnologia che stiamo utilizzando riducono le emissioni di carbonio rispetto ad altri processi produttivi”

L’azienda, che sfoggia tra l’altro un marchio di colore verde, ha già dimostrato di voler diventare sempre più green anche con altre iniziative. Già dall’anno scorso, ad esempio, non utilizza più gli anelli di plastica per tenere insieme le lattine di birra. Questo strumento, apparentemente innocuo, è in realtà molto inquinante e particolarmente pericoloso per gli animali marini che spesso vi rimangono impigliati.




Valutazione d'impatto sociale, dopo il decreto ecco cosa sapere e cosa fare

Valutazione d’impatto sociale, dopo il decreto ecco cosa sapere e cosa fare

La pubblicazione del decreto segue quello sul bilancio sociale degli enti di terzo settore con cui si relaziona esplicitamente presentando la valutazione di impatto come elemento del bilancio sociale con cui condivide principi di redazione. Ecco una guida alla lettura

Non c’è dubbio che ”la valutazione dell’impatto sociale” sia uno degli elementi introdotti dalla Riforma del Terzo settore che, presentando maggiore innovatività, ha catturato da subito l’attenzione di studiosi e addetti ai lavori. Il legislatore della legge 6 giugno 2016, n. 106 recante “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale” (legge delega) ha richiamato più volte l’impatto sociale, arrivando a relazionare l’affidamento agli enti dei servizi d’interesse generale nella fase di programmazione a livello territoriale “al rispetto di standard di qualità e impatto sociale del servizio” e a creare un potenziale collegamento – sviluppato poi solo indirettamente – tra impatto sociale e benefici fiscali.
Sicuramente hanno influenzato la scelta operata gli esempi derivanti da altri contesti internazionali, in particolare l’esempio della prassi britannica che ha eletto il “social impact measurement” come criterio di valutazione principale per l’operato delle charities e il “social return on investment” come metodo di valutazione di riferimento per esprimere un giudizio sui progetti in essere.
In questo contesto si colloca il decreto del Ministero del lavoro del lavoro e delle politiche sociali del 23 luglio 2019 “Linee guida per la realizzazione di sistemi di valutazione dell’impatto sociale delle attività svolte dagli enti del Terzo settore”, volto a dare attuazione alla richiesta “esplicita” da parte del legislatore delegante di disciplina della materia. La pubblicazione del decreto segue quello sul bilancio sociale degli enti di terzo settore con cui si relaziona esplicitamente presentando la valutazione di impatto come elemento del bilancio sociale con cui condivide principi di redazione.
Ciò detto, cos’è l’impatto sociale? Ce lo dice ancora una volta la norma delegante per la quale “per valutazione dell’impatto sociale si intende la valutazione qualitativa e quantitativa, sul breve, medio e lungo periodo, degli effetti delle attività svolte sulla comunità di riferimento rispetto all’obiettivo individuato”. Ad una prima lettura il proposito appare di difficile realizzazione, dato che le attività di interesse generale impattano sulla comunità di riferimento assieme a tanti altri fattori e prevederne gli effetti “di medio e lungo periodo” appare improbo per il più accorto dei valutatori.
Il proposito diviene più realistico se si considerano correttamente le linee guida come “standard di processo”, che delineano un percorso dichiarando come dice la norma il proprio “valore promozionale ponendosi quale strumento di facilitazione della concreta realizzazione della valutazione di impatto sociale (VIS)”. Tale processo deve essere regolato da alcuni principi quali intenzionalità, rilevanza, affidabilità, misurabilità, comparabilità, trasparenza e comunicazione), principi in gran parte comuni al processo di costruzione del bilancio sociale.
La scelta di standard di processo non definisce invece, specifici indicatori e misurazioni, compito proprio di uno standard di contenuto. La scelta sembra l’unica operativamente percorribile in quanto gli ambiti di intervento delle attività di interesse generale oggetto di misurazione sono estremamente eterogenei e qualsiasi formula “rigida” ed omnicomprensiva di valutazione dell’impatto sociale sarebbe stata comunque approssimativa ed insufficiente.
Basti pensare alla diversità delle situazioni che concernono gli interessi generali dell’art. 5 del Codice del Terzo settore che vanno dalle prestazioni socio-sanitarie alla tutela dell’ambiente, dall’adozione internazionale al commercio equo e solidale. Non sembra possibile, quindi, trovare una formula valutativa generale, considerato che anche la stessa attività nel medesimo contesto di riferimento può essere svolta con obiettivi, modalità e risultati diversi che richiedono indicatori estremamente differenti. Infatti il Decreto richiede agli enti di “prevedere all’interno del sistema di valutazione una raccolta di dati sia quantitativi che qualitativi, considerando indici ed indicatori, sia monetari che non monetari, coerenti ed appropriati ai propri settori di attività di interesse generale” esplicitando le dimensioni di valore che le attività perseguono.
Le linee guida richiedono così l’esplicitazione del processo di definizione delle finalità, dei risultati e degli effetti che le organizzazioni si propongono di raggiungere a partire dalla partecipazione al processo dei soggetti e/o delle istituzioni individuate come interlocutori o destinatari dell’attività.
Il documento fornisce altresì indicazioni per “organizzare” il proprio percorso valutativo, e definire:

  • dati oggettivi e verificabili;
  • la verifica dello scostamento tra risultati raggiunti e obiettivi programmati;
  • l’utilizzo delle informazioni raccolte a fini di comunicazione esterna agli stakeholders;
  • l’utilizzo di misure di sintesi per rappresentare l’impatto sociale.

Tutti i punti sopra elencati richiederebbero osservazioni più approfondite la cui trattazione ci porterebbe lontano nella discussione. Si deve, però, almeno soffermare l’attenzione sul fatto che il processo di valutazione dell’impatto sociale dovrebbe rappresentare per l’ente non solo un mezzo di comunicazione esterna, ma primariamente uno strumento di controllo strategico delle attività mostrando talvolta agli stessi dirigenti le dimensioni di valore perseguito ed il modo per misurarle.
D’altronde se le società lucrative controllano la gestione per capire se i propri target “monetari” e “non monetari” sono in linea con quanto programmato, gli enti del Terzo settore una volta definite le dimensioni esplicative non debbano monitorare la produzione di valore sociale attraverso indicatori liberamente predefiniti.
In merito all’applicazione della norma, come spesso accade in questa Riforma il legislatore non “obbliga” gli enti a comportamenti “virtuosi” collegando tali comportamenti a potenziali benefici. In questa prospettiva, le linee guida prevedono che le pubbliche amministrazioni “possano” richiedere la realizzazione di sistemi di misurazione del social impact per la “valutazione dei risultati in termini di qualità e di efficacia delle prestazioni e delle attività svolte”, anche in via differita, per interventi di almeno 18 mesi e di entità economica superiore ad 1milione di euro. Si introduce così una programmazione e individuazione preventiva di parametri di risultato ed impatto che per essere efficace dovrebbe inserirsi nei meccanismi di assegnazione e remunerazione delle attività svolte.
L’indicazione conferma una percezione avuta dalla lettura del testo, ossia che l’impatto sociale sia considerato un tema soprattutto per “grandi”, visto anche la possibilità di includere la misurazione nel bilancio sociale (obbligatorio per gli enti del Terzo settore che presentano proventi annui superiori a 1milione di euro). Con questo non si vuol dire che gli enti non grandi non abbiano un impatto sulla comunità di riferimento. Si vuole, in realtà, significare che la costruzione di modelli per la misurazione dell’impatto, pensando ai casi internazionali e nostrani di riferimento, non è cosa sempre intuitiva e spesso onerosa in termini organizzativi. Una soluzione per gli enti di minori dimensioni la suggerisce il decreto affermando che i Centri di servizio per il volontariato e le reti associative nazionali possono fornire supporto per l’identificazione e la realizzazione di strumenti di misurazione. L’indicazione appare, in verità, naturale perché un movimento (si pensi alle grandi reti) assume una credibilità maggiore quando riesce a misurare il suo impatto in via complessiva, e per dare un senso all’aggregazione dei dati (e non sommare pere con mele) è opportuno disporre di dati omogenei: inoltre modelli omogenei di misurazione diffondono una cultura organizzativa unitaria. In tal modo anche i piccoli enti potranno strutturare e sperimentare modelli valutativi più semplici, che sicuramente la prassi professionale, tecnica e delle organizzazioni non mancherà di identificare.
Non si può, infine, non apprezzare l’elasticità offerta nell’adozione del modello della valutazione di impatto sociale. Se, infatti, gli schemi di bilancio necessitano della comparabilità tra enti e quindi schemi standardizzati, l’impatto sociale sembra dover essere maggiormente cucito su misura dello specifico ente con una sua applicazione uniforme nel corso del tempo per esplicitare il suo valore. Valore che non è rivolto solo alla comunicazione esterna, ma che può rappresentare un momento di riflessione “istituzionale e strategica” utilissimo per gli stessi dirigenti e interlocutori dell’organizzazione sulla missione dell’ente, gli impatti ricercati sulla comunità di riferimento e le modalità per valutarli. Non resta, quindi, di poter vedere come saranno recepite le indicazioni ministeriali, sperando che la misurazione non resti una dichiarazione di intenti ma una fonte di informazioni nuova per tutti i soggetti interni ed esterni, coinvolti, a diverso titolo, nel Terzo settore.
*Claudio Travaglini, Università di Bologna
*Matteo Pozzoli, Università degli Studi di Napoli “Parthenope”