BREXIT, OVVERO COMUNICAZIONE POLITICA E MANIPOLAZIONE DEL CONSENSO: CHI PAGA IL CONTO?
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18 dicembre, Claudio Vigolo intervista il Prof. Luca Poma, autore dell’articolo “COMUNICAZIONE POLITICA E MANIPOLAZIONE DEL CONSENSO: CHI PAGA IL CONTO?” sulle manipolazioni occulte del dibattito pubblico in occasione della campagna “Leave” in UK (2016).
Ecco l’audio del “Blocco” (5 min. circa):
Scrivere per lo smartphone: una nuova linearità
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Seguo da anni Mario García, uno dei più famosi newspaper designer a livello mondiale, che tra l’altro impersona al meglio il sogno americano: arrivato ragazzetto profugo cubano in Florida, senza sapere una parola di inglese, è diventato giornalista e poi visual designer, fino a progettare quotidiani su tutte le piattaforme e a insegnarlo alla scuola di giornalismo della Columbia University.
Ha vissuto tutta intera la trasformazione dei giornali, dalla composizione tipografica al digitale: ha portato il colore sulle pagine di serissimi quotidiani come il Wall Street Journal e il tedesco Die Zeit; ne ha ridotto il formato senza farli assomigliare a giornaletti scandalistici, anzi; ha dato al Washington Post la veste attuale; ha realizzato le edizioni digitali di tanti giornali in tutto il mondo.
“Visual journalism: a way to encourage reading, a way to bring visual excitement to the pages of newspapers that had traditionally being long masses of grey text.”
E infatti il primo volume della sua nuova trilogia The Story, si intitola Transformation. Il secondo, decisamente più interessante e attuale, Storytelling (l’edizione per Kindle costa solo 5 euro). In attesa del terzo dedicato al design, ho letto entrambi, non paga di leggermi da anni i suoi post.
Seguo così assiduamente un designer di quotidiani soprattutto perché:
i grandi quotidiani come quelli che chiamano come consulente Mario García hanno le risorse per sperimentare tanto e fare le cose in grande: le loro soluzioni sono di ispirazione per chiunque scriva online, qualsiasi cosa
l’industria dei quotidiani lotta da anni per trovare il modo per farsi leggere, coltivare e aumentare i loro abbonati: se trovano il modo di concentrare testi lunghi e complessi sulle superfici più piccole, possiamo rubare idee anche per siti e blog
il nostro designer cubano-statunitense è generoso e ciarliero, ci racconta e ci fa vedere un sacco di cose interessanti.
The Story, impaginato come le schermate di uno smartphone, ma con font classiche e persino vintage (Bembo per il testo, Deutsche Gothic per i titoli), è un inno alla storia, anzi alle buone storie, che sono alla base di qualsiasi pezzo giornalistico, su qualsiasi medium. Quello che rende i libri così interessanti sono le soluzioni che Garcia ha individuato per rendere gli articoli, soprattutto i più lunghi, leggibilissimi sui pochi centimetri quadrati dei nostri telefoni.
“If we have a good story the rest is easy.”
Oggi le storie possono avere le “gambe corte”: una breaking news breve e veloce sul sito, poche righe sui social, ma immediati, e finisce lì. O possono avere le “gambe lunghe” e prestarsi ad approfondimenti e dossier da pubblicare anche a una certa distanza di tempo, come quelli ricchissimi del New York Times o del Washington Post. In entrambi i casi però, i testi devono considerare il nuovo “giornalismo delle interruzioni”, consumato ovunque, tutto il tempo da circa l’80% della popolazione mondiale che li legge sul telefono. Legge, sì, legge, perché nonostante tutto ci stiamo abituando a leggere sul minischermo anche testi lunghissimi.
“The smartphone, the smallest platform, but the one your audience keeps as a constant companion.”
Il 98% delle persone tiene lo schermo verticale: scrolling surclassa swiping. Per questo García propone per i testi una “nuova linearità”, che asseconda la velocità con la quale il nostro pollice fa avanzare i contenuti sullo schermo. Una linearità fatta di un ritmico alternarsi di brevi paragrafi di testo, immagini, didascalie, video, grafici, citazioni, caption, sottotitoli. Se ben orchestrati, ci permettono di reggere/leggere con agio e leggerezza testi di parecchie decine di migliaia di caratteri. I grandi quotidiani gli hanno dato retta e i dati sulla lettura danno loro ragione.
Sulla stampa spaziamo con gli occhi, cogliendo il contesto del “paesaggio” testuale; sullo smartphone siamo concentrati sullo scrolling e il ritmo si gioca tutto in quel nastro stretto di parole e immagini.
Quali storie sono le più adatte allo srotolamento e come devono essere progettate per catturare e tenere incollato il lettore? 1. Devono avere un forte potenziale visivo, da esprimere attraverso foto, video, grafici, citazioni, screenshot. Come la famosissima storia del crollo del Ponte Morandi del New York Times (anche in italiano):
Quanti elementi visuali? Tra i 5 e i 6. I video non devono superare i 30 secondi.
E si possono mescolare foto e video? Sì, ma il meno possibile.
Attenzione: se si inserisce uno screenshot da un social, per esempio un tweet, questo non deve ripetere cose già dette nel testo. Anzi, bando a tutte le ripetizioni: ogni elemento deve essere unico e far progredire la storia. 2. Titoli e sottotitoli sono fondamentali per spingere chi legge sempre avanti: tra evocazione e descrizione, ma mai criptici. Per riuscirci, ci può aiutare il sottotitolo:
3. Il testo deve essere semplice: paragrafi brevi, ognuno un focus; periodi brevi, perché la colonna di testo stretta li fa sembrare ancora più lunghi. La ricchezza del contenuto e dello stile è affidata al lessico e all’integrazione tra testo e visual.
“In the mobile world, it is not just that less is best, less is the only way.”
4. L’incipit è decisivo: meglio piombare nella storia “in medias res”, per inchiodare chi legge a scoprire come si è arrivati fin lì o cosa sta per succedere, come nel lungo reportage del New York Times dedicato alla caduta di Aleppo in Siria:
5. Le didascalie sono fondamentali: raccordano testo e immagini, costituiscono un punto di ingresso in più, veicolano messaggi importanti. “I’m only going for the things that I’m passionate about” dice questa intima Nicole Kidman in bianco e nero in didascalia. Continuiamo a leggere per sapere quali sono queste cose che tanto la appassionano.
6. La fine del paragrafo annuncia o si riferisce all’immagine che viene dopo:
7. I vuoti sono spazi espressivi:
Insomma, la vera interazione è sempre più quella tra il nostro pollice e lo schermo che si srotola. Vi ricordate The Snow Fall? Il grandioso web-documentario del New York Times che nel 2012 fece incetta di premi e vinse anche un Pulitzer? Era ben scritto, ma pieno di link ed effetti speciali: nonostante i premi e l’indubbia qualità, ben pochi lo lessero per intero.
Invece ora un’altra storia vera di un salvataggio dopo una valanga, costruita con la linearità raccomandata da Mario García, ci tiene incollati allo smartphone. Io per leggerla ci ho messo una mezz’oretta, sempre col fiato sospeso, ma sono arrivata in fondo senza accorgermene: è Five Feet Under, pubblicata dal quotidiano norvegese Bergens Tidende (in inglese):
PS In The Story, Storytelling, ci sono anche due ottimi capitoli dedicati alle notifiche push (al NYT ci lavorano ben 11 persone) e alle newsletter. PPSS Sono abbonata al NYT da qualche mese: mi è stato utilissimo per un lavoro che ho fatto quest’anno ma continuo a leggerlo con profitto e piacere tanti sono gli spunti e le soluzioni che ne traggo.
Crisi del 737 Max: si dimette Muilenburg, amministratore delegato della Boeing
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L’azienda in una nota: Boeing deve «ripristinare la fiducia» e «riparare i rapporti con le autorità di regolamentazione, i clienti e tutte le altre parti interessate»
Si è dimesso l’amministratore delegato di Boeing, Dennis Muilenburg. Al suo posto la società ha nominato ceo David Calhoun. Boeing ha spiegato che un cambiamento era necessario, nel tentativo di ripristinare la reputazione del gruppo dopo la crisi del 737 Max. Smith fungerà da amministratore delegato ad interim durante il breve periodo di transizione prima che Calhoun, attuale presidente, assuma la guida della società.
Boeing deve «ripristinare la fiducia» e «riparare i rapporti con le autorità di regolamentazione, i clienti e tutte le altre parti interessate», sottolinea la stessa società, che si impegna a «operare con un rinnovato impegno per la piena trasparenza, compresa la comunicazione efficace e proattiva con la Faa», Federal Aviation Administration, agenzia federale dell’aviazione, «con gli altri regolatori globali e i suoi clienti». Il quadro finanziario del colosso aerospaziale rimane nebuloso dopo gli incidenti mortali che hanno riguardato i modelli 737 Max.
La difficile storia del 737 Max
«Siamo stati umiliati». Dennis Muilenburg, l’algido ingegnere, amministratore delegato della Boeing, la settimana scorsa in un’imbarazzante intervista è sceso dal suo piedistallo e ha fatto mea culpa. «Siamo stati umiliati da questi due incidenti – ha detto – stiamo apportando mutamenti alla nostra azienda e anch’io sto cambiando come leader».
Tutto è iniziato nell’ottobre 2018, con il primo schianto in Indonesia di un 737 Max, il nuovo aereo di punta della compagnia. A marzo del 2019 lui era nella sua casa di Chicago quando è stato chiamato durante la notte da un centro operativo Boeing, che lo ha avvisato del secondo incidente in Etiopia. Complessivamente 346 tra passeggeri e personale di bordo hanno perso la vita nei due incidenti. A quel punto le autorità mondiali e per ultima la Faa, hanno deciso la messa a terra del velivolo. Niente più voli di aerei 737 Max finché non si fossero capite le cause dei disastri. Boeing ha accettato con riluttanza la decisione, ha chiesto scusa con molto ritardo, ha sempre unicamente pensato a rimettere gli aerei in volo, entrando apertamente in contrasto con le autorità di controllo. Per mesi Muilenburg ha solo cercato di placare le preoccupazioni, di calmare gli animi, citando dati sui guasti tecnici, spesso errati, annunciando, in contrasto con le autorità di controllo, date sul ritorno in volo degli aerei, minimizzando i difetti tecnici.
La traccia del volo Boeing 737 caduto in mare in Indonesia
Da marzo Boeing ha continuato a produrre quaranta 737 Max al mese, benché quelli già consegnati, 383, fossero fermi a terra, chiusi negli hangar, in attesa di capire cosa non fosse andato bene. E sono ben 400 i 737 pronti per la consegna che sono stati bloccati. Insomma, per Boeing è una vera disgrazia, tanto più che a dicembre, l’azienda di Seattle ha deciso lo stop sine die della produzione, una mossa choccante, con grandi implicazioni per la vasta rete di fornitori e dipendenti Boeing e per l’economia americana. L’azienda ha assicurato che non ci saranno ripercussioni negative sul piano occupazionale, anche se è difficile dire quanto durerà lo stop. Lo stesso presidente Usa Donald Trump ha chiamato Muilberg alla Casa Bianca per avere chiarimenti. Secondo il Wsj nessuno si aspetta che la Faa revochi il divieto dei voli almeno fino a febbraio, ma si tratta solo di ipotesi, in realtà c’è incertezza assoluta sulla ripresa dei voli.
Dal decollo agli ultimi istanti prima dell’incidente: la ricostruzione del disastro dell’Ethiopian airlines
Ridurre gli sprechi alimentari è possibile e conveniente
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Secondo quanto riportato a seguito degli studi del progetto
‘’reduce 2018’’, portati avanti dall’università di Bologna e dal ministero
dell’ambiente, in Italia gli sprechi alimentari ammontano a 15 miliardi
all’anno, di cui 12 miliardi rappresentano il valore del cibo gettato dalle
famiglie e la restante parte agli scarti di filiera. L’1% della popolazione
italiana ha dichiarato di aver buttato del cibo ogni giorno nel 2018, dato
inferiore rispetto al 2014 quando a gettare cibo quotidianamente era un
italiano su due. Nonostante il miglioramento, il valore del cibo buttato rimane
molto alto, 15 miliardi infatti corrispondono a circa l’1% del Pil del nostro
paese.
A risentire dello spreco alimentare è anche l’ambiente, in
quanto gli scarti devono esser portati nelle discariche e negli inceneritori e
poi smaltiti. Non sprecare cibo ancora
commestibile, inoltre, significa risparmiare le energie e le risorse
normalmente impiegate nella catena che dal campo porta gli alimenti fino alle
tavole e dare una mano alla propria comunità.
Con quest’ottica si è sviluppata
MyFood, startup italiana che ha vinto il bando food waste reduction finanziato
dalla fondazione Unicoop Firenze. MyFoody nasce con la missione di
combattere gli sprechi alimentari. Lo fa utilizzando una piattaforma web e un’app
che permette al consumatore di acquistare prodotti a rischio spreco a un
prezzo ridotto, prenotandoli online e recandosi per il ritiro e il pagamento
nei punti vendita più vicini a lui. Utilizzando l’app e acquistando i prodotti
prossimi alla scadenza si riesce a risparmiare circa il 50% sulla spesa. My
food ha riscosso, sin dalla sua fondazione nel 2015 un grande successo e al
momento vanta tra i partner alcuni dei supermercati più forti in italia come
Lidl e Coop. Al momento disponibile nelle principali città, myfood ha
dimostrato come anche nel piccolo è possibile fare qualcosa.
Lego sta facendo fatica a trovare un’alternativa alla plastica
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Nonostante le ricerche, non ha ancora trovato una formula adatta perché i suoi mattoncini rimangano quelli che conosciamo
Da ormai sette anni Lego sta studiando un modo per produrre i suoi mattoncini con la plastica di origine vegetale. È un progetto ambizioso: la società danese lo ha adottato perché la sua storia e il suo immaginario le impongono, in un certo senso, di posizionarsi come attenta alle questioni ambientali. Ma è anche molto complicato, come ha raccontato di recente il Wall Street Journal, e finora non ci è riuscita se non nel caso di alcuni pezzi secondari. Nello specifico alberi, cespugli e foglie, introdotti sul mercato lo scorso anno e derivanti dalla canna di zucchero coltivata in Brasile. Il resto dei 50 miliardi di mattoncini che Lego produce ogni anno continua a essere prodotto con la plastica tradizionale.
Definire le “bioplastiche” non è semplice, perché al momento sono diversi i materiali che ricadono in questa categoria, più o meno impropriamente: sono in generale quelle plastiche prodotte completamente o in parte con biomasse vegetali, che possono essere biodegradabili ma possono anche non esserlo, e che possono essere prodotte a partire da fonti rinnovabili ma anche fossili. In genere derivano dalla canna da zucchero, ma possono anche essere ricavate da amido di mais, grano, scarti alimentari o fecola di patate. Sono generalmente considerate un’alternativa molto più ecosostenibile della plastica tradizionale, anche se non sono – perlomeno non ancora – un materiale propriamente a basso impatto ambientale. Anche per questo è sconsigliato utilizzare il termine “bioplastiche”, a cui viene spesso preferito “polimeri a base biologica”.
Soprattutto, i problemi delle plastiche di origine vegetale riguardano le loro capacità di sostituire le plastiche tradizionali, derivanti dal petrolio. Lego ha infatti bisogno che i suoi mattoncini si incastrino bene tra di loro, che facciano CLACK, ma che possano anche essere separati facilmente; che siano sufficientemente robusti e che mantengano il loro colore e la loro forma a diverse temperature e soprattutto a lungo. «Se costruisci un castello con i Lego vuoi che sia ancora in piedi dopo cinque anni, dopo dieci, senza che i mattoncini cambino forma o che le torrette cadano», ha spiegato Tim Guy Brooks, a capo del dipartimento di Lego che si occupa di sostenibilità ambientale.
Nel 2012 Lego si impegnò a trovare un modo per iniziare a impiegare alternative sostenibili alla plastica tradizionale entro il 2030, e per farlo investì 150 milioni di dollari in ricerca e sviluppo. Finora ha testato oltre 200 materiali diversi, ma a oggi soltanto il 2 per cento dei suoi prodotti è di origine vegetale. Ha provato a partire dal mais, ma i mattoncini uscivano troppo morbidi; quelli a base di grano non assorbivano come si deve il colore; altri ancora erano troppo difficili da separare, troppo fragili o si “allentavano” col tempo negli incastri. «È un po’ come andare sulla Luna», ha spiegato Brooks. «Quando Kennedy disse di voler mandarci l’uomo, molta della tecnologia e delle attrezzature necessarie non esistevano ancora». Ricorrere alla plastica riciclata per ora non è un’opzione, visto che Lego ha bisogno di mantenere un certo standard di qualità – alto, e soprattutto omogeneo – nelle materie prime.
Lego non è sola in questo tentativo. Coca-Cola, per esempio, nel 2013 aveva promesso di includere una percentuale di materie prime vegetali in tutte le sue bottiglie (in parte lo fa già, fin dal 2009), ma ha poi dovuto spostare gli obiettivi sull’utilizzo di plastica riciclata. Quattro anni fa l’azienda aveva sviluppato una bottiglia di origine vegetale, ma non ha trovato il modo di portarne la produzione ai livelli necessari per metterla sul mercato, spiega il Wall Street Journal. Per sviluppare nuovi materiali industriali su questa scala serve che le aziende investano moltissimi soldi, e perciò Lego ha coinvolto altri gruppi come Nestlé, Procter & Gamble e McDonald’s per unire le forze e trovare materie prime che siano sostenibili non solo a livello ambientale, ma anche economico. La stessa Coca-Cola ha iniziato a condividere le sue tecnologie nel settore con altre aziende, sperando di trovare un modo per rendere l’utilizzo di polimeri biologici sostenibile.
Nonostante se ne parli da decenni, le plastiche di origine vegetale costituiscono meno dell’1 per cento dei 359 milioni di tonnellate di plastica che produciamo ogni anno, secondo European Bioplastics, l’associazione che rappresenta il settore in Europa. Anche se in futuro potrebbero arrivare incentivi e obblighi imposti dai governi, per ora Lego si sta impegnando di sua iniziativa. Come dice Brooks, «non possiamo dire che ispiriamo i costruttori di domani, se distruggiamo il pianeta».