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Lavori da casa? Sarà meglio spegnere Alexa

Lavori da casa? Sarà meglio spegnere Alexa

Davvero vorresti che informazioni confidenziali finissero nelle mani di sconosciuti?

«Forse siamo un po’ paranoici» – ammette l’avvocato Joe Hancock, dello studio legale britannico Mishcon de Reya – «ma ci viene richiesto di riporre molta fiducia in queste organizzazioni e in questi dispositivi. Preferiremmo non assumerci questi rischi».

La paranoia e la fiducia di cui parla l’avvocato Hancock riguardano un’unica classe di oggetti (e le aziende che li producono): gli assistenti personali virtuali – come Alexa, ma anche Google Assistant e Siri – cui pressoché tutti possono accedere dallo smartphone e molti dallo smartspeaker.

Li abbiamo sempre vicino, sono in grado di captare ciò che diciamo (sia perché glielo ordiniamo, sia per errore) e di ciò che hanno registrato fanno un uso che nel recente passato s’è dimostrato non esattamente trasparente.

Così è capitato che spezzoni di conversazioni private (e a volte imbarazzanti) finissero nelle orecchie di sconosciuti, senza che chi quelle a conversazioni aveva partecipato ne sapesse niente.

Il che è un problema già consistente quando si parla di argomenti normali e banali come capita spesso tra persone che vivono sotto lo stesso tetto, ma può diventare veramente grosso quando sotto quel tetto si lavora.

In epoca di telelavoro forzato, dove quanti hanno un impiego “da scrivania” hanno attrezzato una sorta di ufficio domestico, bisogna tenere conto di tutti i fattori che differenziano la stanza di casa adibita a ufficio dal luogo di lavoro reale.

Uno di questi fattori è la possibile presenza degli smart speaker – i vari Amazon EchoGoogle Home o Nest e via di seguito – dotati di assistenti vocali, che a questo punto possono assorbire informazioni confidenziali e segreti inerenti l’attività lavorativa.

Ecco quindi che lo studio Mishcon de Reya ha chiesto ai suoi dipendenti che lavorano da casa di zittire o, meglio ancora, disabilitare completamente gli assistenti domestici durante le chiamate di lavoro.

Hancock ammette che, dopo le modifiche apportate al modo in cui vengono gestite le conversazioni registrate, è meno probabile essere spiati da Amazon o Google che da un prodotti di una marca sconosciuta o poco nota. D’altra parte, la prudenza non è mai troppa.

Più volte abbiamo ripetuto che usare uno smart speaker significa mettersi in casa un microfono aperto, e nutrire una fiducia sostanzialmente assoluta verso le aziende che li producono: un po’ troppo, per chi tratta informazioni confidenziali.




Via le code per evitare il rischio contagio: la app ufirst diventa gratuita per aiutare ospedali, supermercati e farmacie

Via le code per evitare il rischio contagio: la app ufirst diventa gratuita per aiutare ospedali, supermercati e farmacie

L’amministratore delegato Barletta: «Uno strumento importante nell’emergenza per evitare grandi assembramenti, offriamo aiuto a chi gestisce servizi essenziali». Utenti e clienti potranno prenotarsi da casa con un clic

Nella sanità, sia nel Lazio e che in Lombardia, si lavora per capire come mettere in rete alcuni grandi ospedali Covid che hanno richiesto il servizio: l’obiettivo è organizzare e regolare gli accessi dei pazienti che hanno bisogno di una visita di controllo o di un trattamento che non può essere rinviato, ma anche capire se è possibile gestire il flusso delle emergenze.  Le richieste arrivano da piccoli studi medici, catene della grande distribuzione, farmacie: perché se ridurre i tempi di attesa era utile nella vita quotidiana prima del coronavirus, è diventato fondamentale nell’era del distanziamento sociale, quando evitare assembramenti e file si è rivelato la strategia principale contro la circolazione del contagio da Covid-19. Lo strumento si chiama ufirst, una app che consente ai gestori di servizi pubblici, punti vendita e studi professionali di scandire gli ingressi e agli utenti di prenotarsi con un clic e di essere informati in tempo reale su quando arriva il proprio turno.  Con lo slogan “Mettiti in fila da remoto”, ufirst –  piattaforma nata per semplificare l’accesso ai servizi –  ha deciso di offrire gratuitamente fino al 30 giugno a tutte le strutture aperte al pubblico con un punto di accesso fisico il proprio software ufirst business, partecipando all’iniziativa di “Solidarietà Digitale” promossa dal Ministro per l’Innovazione tecnologica e la Digitalizzazione, in modo da offrire un aiuto fondamentale a uffici ed esercizi commerciali che restano aperti per fornire i servizi essenziali ai cittadini. 

“Da un anno e mezzo serviamo grandi clienti, ma da quando è scoppiata l’emergenza il nostro servizio è diventato ancora più importante e necessario per evitare grandi assembramenti e per evitare di fare aspettare la gente in fila, soprattutto adesso che le previsioni meteo annunciano il ritorno della pioggia e del freddo” spiega l’amministratore delegato Paolo Barletta. “Abbiamo parlato con il Ministero dell’Innovazione, con cui stavamo seguendo una serie di tematiche per cercare di integrare sempre di più la pubblica amministrazione – erano nostri clienti Ferrovie, comuni come quello di Milano, aziende sanitarie e ospedali come il Gemelli e il San Raffaele – e abbiamo pensato che per fare in modo che sempre più persone, più supermercati e più farmacie potessero utilizzare questo strumento fosse necessario renderlo gratuito. Un modo per essere utili nell’emergenza”.  

Da quando nei giorni scorsi è stata lanciata l’iniziativa, racconta, sono oltre 250 i nuovi punti in corso di attivazione: “Il nostro team sta lavorando su tutto il territorio nazionale, dando ovviamente la precedenza al Nord Italia soprattutto nelle aree più colpite. La Regione Lazio lanciato una call alle farmacie per convenzionarsi al fine di gestire i flussi. Ora, con l’indicazione che tutti i servizi bancari devono essere su appuntamento, stiamo cercando di integrare quanti più sportelli possibili per garantire la continuità dei servizi”.  

Ufirst, sottolinea, è uno strumento diverso dalle app che fioriscono in questi giorni. “Sono nati numerosi strumenti last minute per fare sapere alle persone dove c’è più o meno fila, che si basano essenzialmente sulle segnalazioni degli utenti e che offrono una stima dei tempi d’attesa. Noi invece siamo integrati con la struttura e questo consente tra l’altro, come invece accadeva con le vecchie applicazioni, di non creare due diverse file: una virtuale e una reale. Se io vado al supermercato e prendo dal totem il numero 20, la persona che subito dopo di me usa la app prenderà il numero 21 e così via. Il cliente che va sul posto, come una persona anziana magari, non è svantaggiato.  Inoltre la nostra tecnologia è compatibile è compatibile con il 99 per cento dei sistemi salta coda esistenti al mondo”.  Il servizio, sottolinea infine Barletta, sarà gratuito anche per i clienti che abbiano già sottoscritto un contratto e che abbiamo subito un forte impatto: “Chi  ne farà richiesta avrà una estensione per i mesi dell’emergenza”.

Gli operatori interessati possono richiedere l’accesso  inviando una richiesta all’indirizzo di posta solidarieta@ufirst.com. Dopo aver ricevuto l’autorizzazione, sarà sufficiente installare il software e attivarlo. Tempo stimato, non più di 30 minuti. Una volta in funzione, il personale della struttura potrà fare avanzare la fila a distanza dal proprio dispositivo smartphone, tablet o pc semplicemente selezionando i numeri successivi quando l’utente precedente sarà uscito. A loro volta, i clienti dell’esercizio potranno prendere il loro posto in fila direttamente dall’applicazione ufirst (scaricabile su App e Google Play store) senza la necessità di muoversi da casa.  




Addio cari giornali di carta, vittime del virus

Addio cari giornali di carta, vittime del virus

La pandemia ha trovato i quotidiani indeboliti, senza difese immunitarie, stremati da 10 anni di crisi. Non c’è vaccino, è ora di costruire un modello nuovo per le news

Dieci anni fa in questi giorni giravo l’Italia con il collega Massimo Gaggi per presentare L’Ultima Notizia (Rizzoli), un libro-inchiesta con il quale cercavamo di capire il futuro dei giornali e del giornalismo. Eravamo all’inizio della grande crisi della carta stampata, si cominciavano a vedere i segni di un cambiamento epocale del modello di business, ma nessuno sapeva quando sarebbe stata stampata “l’ultima copia del New York Times” (titolo brillante di un altro libro, scritto da Vittorio Sabadin).

Il decennio successivo è stato caratterizzato da una continua emorragia di copie, un dissanguamento che ha messo in crisi i giornali, li ha resi deboli, ha abbassato le loro difese immunitarie. Purtroppo sappiamo bene, dall’esperienza di questi giorni, che queste sono le condizioni della popolazione più a rischio. Per anni si è guardato ai giornali di carta come a splendidi dinosauri in attesa dell’asteroide. O magari dell’arrivo di un “cigno nero” altrettanto inatteso. Temo che ci siamo: il coronavirus, secondo me, segna la fine del giornalismo cartaceo.

È una constatazione che faccio con dolore. Chi mi conosce sa che ho una storia d’amore con i giornali. Basta andare su Twitter o Instagram e digitare #emerotecabardazzi, per scoprire che da tempo pubblico foto di pagine di quotidiani ingialliti con la stessa passione con cui gli altri condividono tramonti e aperitivi. Ho una vasta collezione di giornali che continua ad arricchirsi anche in questi giorni e che ha fatto 10 traslochi in giro per il mondo (per la disperazione di mia moglie).

Aggiungo, per prevenire una seconda obiezione, che può sembrare insensibile parlare di fine dei giornali mentre migliaia di giornalisti in tutto il mondo sono impegnati, in modo eroico, nel cercare di far arrivare ogni giorno in edicola un’informazione all’altezza della crisi che stiamo vivendo. Ho fatto il giornalista per 30 anni, lo sono ancora che faccio un mestiere diverso e ho il massimo rispetto per la categoria e per le 10 mila edicole (erano 36 mila prima della crisi) sparse in tutta Italia. Ma se c’è una cosa che la pandemia ci sta insegnando, è che è meglio dire subito tutta la nuda verità, con trasparenza, e chiudere quel che c’è da chiudere per evitare i contagi. Se si vorrà preservare un’informazione di qualità e un nuovo ecosistema giornalistico sostenibile, purtroppo tra brevissimo tempo sarà necessario riconoscere che la carta è oggi la “zona rossa” del giornalismo.

Un decennio in buona parte sprecato

Il modello di business dei giornali ha prosperato fino al 2009-2010, quando hanno cominciato a farsi sentire gli effetti della recessione globale provocata dalla crisi finanziaria americana. Ne è seguito un decennio di incertezza e logoramento, cercando di trovare compromessi tra lo status quo e timide aperture al digitale. Adesso è giunto il momento della verità: la crisi del 2020 e la nuova recessione planetaria che l’accompagnerà. Chi ha avuto più coraggio e si è spinto con decisione sulla strada dell’innovazione, avrà un vantaggio competitivo nei prossimi mesi. Il New York Times, tanto per fare un esempio, può permettersi in questi giorni di non preoccuparsi troppo se l’edizione cartacea non riesce a essere distribuita, perché ormai è un sottoprodotto del digitale.

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È utile ricordare alcuni dati di fatto su come il settore dei quotidiani arriva all’appuntamento con il “coronavirus dei giornali”. Serve per capire perché le difese immunitarie siano così basse.

Il giornalismo è ancora concepito per l’era industriale, dalla quale nel frattempo il mondo è uscito per entrare in una nuova information age basata su presupposti diversi. Il prodotto di base del giornalismo, la notizia, è diventata una commodity che non ha più il valore sufficiente per sostenere l’organizzazione del lavoro di aziende editoriali ancora strutturate come all’inizio del XX secolo. Il sistema ha tenuto fino a quando, a metà degli anni Zero del XXI secolo, non ha cominciato ad essere dissanguato dei propri ricavi pubblicitari, che si sono in gran parte spostati verso colossi del web come Google e Facebook.

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Questo grafico rende bene l’idea del fenomeno negli Usa.

Il macro fenomeno globale più rilevante nell’editoria degli ultimi anni è stato il progressivo aumento dei ricavi legati ai lettori (abbonamenti cartacei e digitali, vendite in edicola, membership), a fronte della costante decrescita dei ricavi pubblicitari. Il sorpasso dei ricavi da audience rispetto a quelli da advertising è avvenuto nel 2013 e il trend continua a livello globale, come indica questo grafico di Wan-Ifra aggiornato al 2017:

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Il valore globale dell’industria dei newspapers nel 2017 era di circa US$ 150 MLD, di cui 87 miliardi provenienti dalla diffusione cartacea e digitale e solo 67 dalla pubblicità.

Il digitale è stato la fonte principale di crescita dei ricavi, ma nonostante questo incremento la carta continua a produrre a livello globale il 90% dei ricavi degli editori giornalistici. E questa adesso si rivela una grande vulnerabilità.

Dall’inizio della crisi, i modelli di business e la stessa identità di molte news organization sono cambiati moltissimo, scegliendo una miriade di strade diverse.

C’è chi ha scelto di rafforzarsi affiancando attività non giornalistiche che portano nuove fonti di ricavo. È il caso di NewsCorp in Australia che ha puntato molto su RealEstate.com, un sito di annunci immobiliari, per far fronte al crollo dei ricavi nel settore classified spazzati via dal digitale. O di Axel Springer in Germania con Stepstone, il più importante sito tedesco per la ricerca di offerte di lavoro.

Il Washington Post, dopo l’arrivo di Jeff Bezos come editore, sta vivendo una delle trasformazioni più significative, diventando in pratica una tech company dedicata al giornalismo. Le piattaforme di content management create dal WP, l’ecosistema di data analysis e data science e il brand studio interno dedicato al racconto delle aziende, pongono il quotidiano all’avanguardia e ne fanno un modello importante di giornalismo post-cartaceo. L’edizione di carta del WP è diventata, anche in questo caso, secondaria.

Altri hanno puntato su mix simili, ma sempre caratterizzati dalla qualità del giornalismo. È il caso delle testate finanziarie come Wall Street Journal o FT, ma soprattutto del già citato New York Times, protagonista di un sorprendente cambio di paradigma. Alla fine del XX secolo, gli abbonamenti portavano al NYT meno del 5% dei ricavi. Nel 2011 è avvenuta l’inversione di tendenza.

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Nel 2019, il NYT ha raccolto $800 milioni di ricavi solo con il digitale, superando i 5 milioni di abbonati a una delle varie forme di subscription per accedere ai contenuti del giornale. Nell’ultimo trimestre dell’anno, mentre gli abbonamenti crescevano del 4,5%, la raccolta pubblicitaria è calata del 10,7%, rendendo sempre più urgente per il giornale rafforzare il modello di business basato sulla membership. Nel frattempo, nel corso dell’ultimo anno, il NYT ha assunto altri 120 giornalisti, portando la redazione a 1.600 unità, il numero più alto della propria storia più che centenaria.

Dietro le cifre ci sono fenomeni sociali, trasformazioni demografiche e molte considerazioni legate alla rivoluzione digitale. C’è un digital divide crescente e c’è un cambio generazionale enorme relativo alle fonti a cui i diversi gruppi demografici attingono per cercare “notizie”. Il quadro globale lo riassume bene questo grafico del Reuters Institute for the Study of Journalism:

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Siamo in una fase di ibridizzazione dei mezzi che conduce alla transmedialità, con la televisione ancora forte protagonista ma con modalità di fruizione e attori nuovi (pensiamo al boom di Netflix o Amazon Prime).

In uno scenario così, la carta stampata risulta debolissima e l’arrivo della Grande Recessione del 2020 la trova senza anticorpi.

Il caso italiano

Proviamo a vedere la situazione in Italia. Bastano pochi dati per capire che si è vicini a un punto di rottura del sistema. Nel 2007 in Italia la diffusione dei quotidiani si assestava intorno ai 5,5 milioni di copie giornaliere. Oggi si vendono poco più di 2 milioni di copie. Non va meglio neppure alle copie digitali, che nell’ultimo anno sono calate del 3,4% e complessivamente non raggiungono quota 200 mila. Significa che è proprio il “prodotto giornale” a essere in crisi, che sia di carta o replicato tale e quale su un tablet.

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Se si guarda alla pubblicità, la situazione pre-crisi del coronavirus era già gravissima. In un decennio il fatturato si è ridotto del 71,3%: poche filiere (forse nessuna) possono resistere a un crollo del genere senza un radicale cambio di modello di business. Ogni anno da quotidiani e periodici sparisce circa il 10% della raccolta pubblicitaria. E le prospettive per il breve-medio termine si presentano funeste. Una prima indagine condotta nei giorni scorsi da BVA Doxa tra le imprese italiane, segnala che il 76% di esse ha già avuto impatti negativi immediati per il Covid-19: tra le prime azioni da prendere in risposta a questo disastro, il 49% indica che ridurrà gli investimenti in pubblicità e media planning. 

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Un altro elemento di debolezza è rappresentato dal crollo del numero degli addetti ai lavori. Non tanto sul fronte giornalistico, quanto su quello poligrafico: la carta, assai più del digitale, ha bisogno di un esercito silenzioso di mille professionalità (tipografi, grafici, stampatori, impiegati ecc.) per raggiungere capillarmente ogni giorno le edicole. Ma la situazione del settore è quella raccontata da questo grafico dell’ultimo rapporto ASIG (l’associazione degli stampatori di giornali):

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In questi giorni le redazioni dei giornali e il loro sistema di distribuzione stanno facendo un lavoro – lo ripeto – eroico per cercare di portare ogni giorno un prodotto di 30-60 pagine di carta nelle case dove gli italiani vivono blindati. Temo però che, passata la fase dell’emergenza, tutte le debolezze del settore verranno a galla e si uniranno alla realtà di un prosciugamento massiccio, impensabile, degli investimenti pubblicitari che proseguirà almeno per tutto il 2020. Una tempesta perfetta che a mio avviso segnerà la fine della carta. E anche di molte tradizionali modalità di lavoro, come le periodiche riunioni di redazione. Lo smart working di queste settimane, del resto, ha offerto spunti importanti per immaginare il futuro.

Da dove ripartire?

Purtroppo, come per la sanità pubblica, è difficile reagire quando la crisi è già in corso. Servivano negli anni scorsi scelte radicali in termini di innovazione: ogni storia di successo dell’editoria in questi anni è basata su un solido approccio R&D.

Ricette se ne possono immaginare tante, modelli di riferimento a cui ispirarsi adesso ne esistono in ogni parte del mondo. Io mi limito a elencare sei lezioni che mi sembra ci abbiano insegnato gli Anni Dieci, per provare a immaginare il giornalismo degli Anni Venti:

  1. I media in questi anni hanno confuso il traffico con l’engagement. Anche nell’era digitale occorre scommettere sul giornalismo di qualità;
  2. La grande scarsità della nostra epoca è l’attenzione delle persone, la si cattura conoscendo bene il proprio pubblico e offrendogli contenuti di qualità. La tecnologia aiuta, senza mitizzarla;
  3. Paid è un buon antidoto a fake: l’informazione tutta gratis non ha un futuro. Ma si è disposti a pagare un’esperienza, non una notizia.
  4. È in corso una ibridizzazione dei mezzi che conduce alla transmedialità, occorre sapere giocare a questo gioco;
  5. Conosci chi ti segue e chi ti paga: data analysis e data science sono fondamentali. Non servono big data, ma relevant data;
  6. Membership sarà una parola chiave per i prossimi anni.

Adesso occorre fare presto, prima che gli effetti dell’imminente Grande Recessione divengano devastanti. Occorre comprendere velocemente che questa è una crisi di settore industriale, inserita dentro una gigantesca crisi economica globale: si può reagire solo con un drastico cambio di sistema. L’ultima copia di carta del New York Times – e di tante altre testate storiche, anche italiane – non è mai stata una realtà così vicina.




L’offensiva comunicativa degli Usa sull’Italia con Casa Bianca e Pompeo

L’offensiva comunicativa degli Usa sull’Italia con Casa Bianca e Pompeo

Dopo il tweet del presidente Trump con le Frecce tricolori, si sono mossi dipartimento di Stato e Casa Bianca in risposta a Cina e Russia

Dopo il tweet del presidente Donald Trump con le Frecce tricolori, il Nessun dorma e il messaggio “Gli Stati Uniti amano l’Italia”, Casa Bianca, dipartimento di Stato e Pentagono si sono mossi in direzione Italia. Obiettivo: respingere l’offensiva di soft e sharp power lanciata dalla Russia e soprattutto dalla Cina, la cui propaganda, come testimoniano gli editoriali sul Global Times, è cambiata negli ultimi giorni passando da “aiutiamo Italia e Spagna abbandonate dall’Unione europea” ad “aiutiamo l’Unione europea abbandonata dagli Stati Uniti”.

https://twitter.com/realDonaldTrump/status/1238880558052257794?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E1238880558052257794&ref_url=https%3A%2F%2Fpublish.twitter.com%2F%3Fquery%3Dhttps%253A%252F%252Ftwitter.com%252FrealDonaldTrump%252Fstatus%252F1238880558052257794%26widget%3DTweet

Il Consiglio per la sicurezza nazionale, che è parte dell’ufficio esecutivo del presidente, ha twittato in sostegno dell’Italia riprendendo la donazione, partita dalla base tedesca di Ramstein e atterrata nella base Usaf di Aviano, di un sistema medico mobile e fisso in grado di stabilizzare fino a 40 pazienti: “Siamo alla ricerca di opportunità nuove e creative per fornire l’assistenza necessaria”, si legge.

Dal dipartimento di Stato a parlare è invece il segretario Mike Pompeo, lo stesso che alcuni giorni fa in conferenza stampa aveva dichiarato la vicinanza degli Stati Uniti all’Italia ma messo in guardia dalla Cina, precisando anche che “arriverà il giorno in cui valuteremo come il mondo intero ha risposto” all’emergenza e alla propaganda di Pechino. Via Twitter, Pompeo ha sottolineato che “il dipartimento di Stato è orgoglioso di lavorare con gli amici italiani e il Comando europeo degli Stati Uniti per rispondere all’esplosione del coronavirus”.

Anche l’offensiva di Pompeo parte dal sistema medico inviato ad Aviano, un aiuto che ha avuto maggior copertura mediatica negli Stati Uniti (nonostante le resistenze del popolo americano spaventato da ciò che sta accadendo in Europa e da alcuni giorni anche sul suolo americano) che in Italia, dove i giornali sono sembrati in questi giorni più preoccupati di fare da grancassa alla propaganda russa e cinese.

Di aiuti all’Italia – dagli Stati Uniti e non – ha parlato alcuni giorni fa anche Morgan Ortagus, portavoce del dipartimento di Stato, in un’intervista a Sky TG24 ripresa anche da Formiche.net: “Quando tutto questo sarà finito farò una vacanza in Italia, io d’altronde guido una macchina italiana e mio marito parla italiano”, ha spiegato sottolineando di aver parlato con l’ambasciatore italiano a Washington Armando Varricchio. Quanto a Pechino, Ortagus ha spiegato che “sì, la Cina deve fornire aiuto, e spegnere questo incendio. Non sarà l’ultima pandemia, dobbiamo studiare come nascano per evitare che ci siano nuove pandemie”. Infine, la stoccata a Pechino: “Noi accogliamo sempre gli aiuti di Paesi ad altri Paesi, d’altronde la Cina è l’origine dell’epidemia e deve assumersi le proprie responsabilità”.

Lo sforzo comunicativo di Washington – per il quale molto si è speso l’ambasciatore a Roma Lewis Eisenberg – sembra essere stato poco colto in Italia a livello sia istituzionale sia mediatico. L’articolo di oggi del Financial Times che sottolinea gli aiuti russi in Italia ha messo in imbarazzo il mondo atlantico impegnato in sforzi di soft power. Ed è forse anche per questo che nelle prossime ore ci si aspetta un ulteriore segnale forte del Pentagono, dice chi conosce bene come vanno le cose a Washington.




Coronavirus, Giovanni Rana aumenta lo stipendio del 25 per cento per i dipendenti

Coronavirus, Giovanni Rana aumenta lo stipendio del 25 per cento per i dipendenti

Tra le misure anche un ticket mensile straordinario di 400 euro per le spese di babysitting

L’amministratore delegato del Pastificio Rana, Gian Luca Rana, ha varato un piano straordinario di aumenti salariali per 2 milioni di euro, come speciale riconoscimento dell’impegno dei 700 dipendenti presenti nei cinque stabilimenti in Italia che stanno garantendo la continuità negli approvvigionamenti alimentari.

Tra le misure previste – informa l’azienda veronese – vi sono una maggiorazione dello stipendio del 25% per ogni giorno lavorato e un ticket mensile straordinario di 400 euro per le spese di babysitting. Il piano, che decorre retroattivamente dal 9 marzo, coprirà anche il mese di aprile.

Rana ha inoltre deciso di stipulare una polizza assicurativa a favore di tutti i dipendenti, compresi quelli in smart working, in caso di contagio da Covid-19, a integrazione del rafforzamento delle procedure di sicurezza e prevenzione già messe in atto dall’azienda.