1

Tutta colpa della comunicazione! Un paese così duale anche quando cerca spiegazioni trova conflitti

Tutta colpa della comunicazione! Un paese così duale anche quando cerca spiegazioni trova conflitti

La comunicazione e il “ben altro”

Quando le cose vanno storte, qualcuno se la cava dicendo che non si è stati capaci di comunicare. A volte è così, altre volte – quando sono in campo organizzazioni complesse con loro procedure e regole – la comunicazione è a valle di ben altro. E quel “ben altro” è fatto di cose che riguardano una lunga fila di requisiti per cui – tanto nelle aziende quanto nelle istituzioni – si esercita la difficile arte del comando. Competenza, controllo pieno dei dati reali, analisi comparative, staff professionale, vissuto esperienziale per pesare pensieri e parole, senso autocritico, autorevolezza, capacità di gerarchizzare i pericoli.

Giorno per giorno, da quando è stato proclamato l’allarme sul caso Coronavirus, si addita il deficit comunicativo. Ma come è spesso nelle cose del nostro Paese, sempre e su tutto “duale”, questa critica suona nel complesso ambigua.

C’è chi dice che si comunica poco, chi troppo. C’è chi dice che si comunica per spiegare le misure, chi  dice che si comunica per litigare con chi vuole misure diverse. C’è chi dice che la comunicazione deve essere in capo a chi comanda, chi dice che deve essere in capo a chi la sa fare.

In Italia non vige il pensiero unico.  Nella prima settimana la comunità scientifica si è spaccata attraverso vari conflitti.  Il sistema politico-istituzionale ha fatto lo stesso. E – terzo soggetto sempre in campo – il sistema dei media si è rivelato contraddittorio, perché ogni volta è andato dietro agli uni e agli altri riflettendo un quadro più conflittuale di ciò che è tollerabile in piena crisi ed emergenza. Ebbene, alla fine di questo primo round  è successa una cosa immaginabile.  Prima dell’intervallo del fine settimana, ha parlato il massimo arbitro, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con poche e severe parole: “attenzione a non sollevare paure, attenzione a non cedere a teorie antiscientifiche, attenzione a non prestarsi all’autolesionismo”. E’ lui, dunque, ad avere posto il problema di adeguare le narrazioni.

L’altro conflitto insorto, tra salute ed economia

Come si sa un quarto fronte si era formato nel frattempo, sollevato da chi ha cominciato a lanciare il tema dell’economia ferita che a poco a poco – anziché trovare forme di espressione convergenti con la priorità della salute –  è diventato un tema antagonista rispetto alle dinamiche sanitarie, nel frattempo con impennate di numeri e di territori uno dopo l’altro inclusi (alla sera di mercoledì 4 marzo parliamo di oltre 3 mila contagiati, 276 guariti e 107 decessi).

A questo punto – entrati nella seconda settimana – il senso della comunicazione scomposta, della litigiosità oltre l’asticella, della conflittualità rispetto a tutti i soggetti in campo, ha superato la percezione di un volto diverso della realtà che aveva pure la sua verità e la sua legittimità: gente normale e volonterosa che si prestava (e si presta) ad attuare le misure;  grande dedizione di medici e infermieri; impegno di amministratori e funzionari; governo all’opera per cercare di tenere salute pubblica e economia in equilibrio di prospettiva;  media in pressione per assicurare una soglia elevata e razionale di adeguate conoscenze.

Insomma, la conseguenza della settimana scomposta ha fatto prevalere l’avvio del secondo round con una percezione più influenzata dalla confusione (che c’è stata) rispetto al coraggio operoso (che c’è stato).

coronavirus

La comunità scientifica a questo punto si è ricompattata. Ottenendo tra l’altro – probabilmente a spese della Protezione Civile (di cui è pure parte) – la sostanziale regia comunicativa pubblica. E si è ricompattata spostando chiaramente l’interpretazione generale dell’evento da un iniziale “tutto sotto controllo” a un definitivo “la situazione è grave”. Nessun altro dispone di dati salienti per mitigare questo giudizio. E quindi il sistema politico-istituzionale a questo punto ha accusato il netto passaggio, ha regolato le misure prese (secondo decreto) di conseguenza e ha cercato di attutire i conflitti inter-istituzionali, con un momento di cautela comunicativa.

Qualcuno parli al Paese

E qui è sbucato di nuovo il terzo soggetto a sparigliare. I media.  Due giorni di tuoni (ore di maratone tv) contro la comunicazione “confusa” e poi il titolo cubitale in prima pagina di Repubblica, a firma del direttore Carlo Verdelli, “Qualcuno parli al paese”. Magari dietro l’idea di spostare dai media stessi (accusati sempre di allarmismo) alla politica l’accusa vagante di far confusione. Anche nel caso di Repubblica una cosa va detta: titolo giusto come tema cornice di ogni crisi di queste dimensioni; ma anche titolo forzato rispetto al momento in cui una certa ricomposizione si andava producendo.

E questa nuova onda ha determinato, con video circolante in tutte le tv e in rete, il ritorno comunicativo del capo del Governo, Giuseppe Conte, per spiegare il decreto e le nuove misure severe.

Chi scrive osservava già da giorni l’anomalia italiana, rispetto ad altri paesi europei, della politica – non quella dei partiti che sono pressoché eclissati rispetto alla crisi,  ma quella che guida per mandato della maggioranza parlamentare le istituzioni – a volere usare tutti gli spazi possibili per spiegare ai cittadini passo passo gli eventi della crisi (in particolare nel sistema regionale, ma il via a questo walzer lo avevano dato all’inizio sia Salvini spingendo per l’estremizzazione sia lo stesso Conte per parare Salvini con la sua ubiquità rassicurante in tutto il sistema tv).

coronavirus

E’ evidente che in momenti cruciali il leader – nazionale o regionale – deve dare un segnale, possibilmente sobrio e non retorico, di responsabilità in ordine alle misure assunte. In questo c’è anche una responsabile assunzione di possibili impopolarità. Ma poi è compito della comunicazione istituzionale – intesa come sistema delle responsabilità tecniche – di spiegare, contare, argomentare, indirizzare, proibire, sollecitare, eccetera. Mai con l’idea che si sta facendo battaglia politica, mai con l’idea che dietro a quella comunicazione c’è lucro di consenso.

Qui gli errori commessi sono di sistema. Sono di crisi diffusa di classe dirigente. E di evaporazione di una cultura di comunicazione istituzionale resistente e radicata. Anche se chi scrive deve dire che questa volta la comunicazione del premier Conte non va iscritta negli errori, nel senso che almeno questa volta a lui toccava assumersi la responsabilità delle misure.

Cosa serve ora?

Adesso, di nuovo, servirebbe un momento di bocce ferme per una regolata metodologica generale. Comunità scientifica, politica, imprese, amministrazioni e sistema mediatico, senza dover fare vistosi summit propagandistici, sanno come parlarsi per tentare di uscire dalla contorsione del giorno per giorno, del caso per caso, del marketing che insegue le paure.

Le comunità locali, stanno dando un buon esempio, cercando di trovare parole comprensibili e tollerabili per vivere il duro passaggio (per alcune di loro durissimo) e conservando tolleranza e solidarietà. Abbiamo in casa molte testimonianze di buonsenso collettivo che possono diventare paradigma di una cultura nazionale di governo della crisi.

coronavirus

E in alcune di queste comunità territoriali le università – qui e là ci sono casi interessanti – diventano un luogo abbastanza neutrale e con public engagement per dare parole e pensieri al proprio territorio.

La dimensione nazionale dispone però di risorse, luoghi di eccellenza, competenze, relazioni internazionali per entrare nella fase tre, quella in cui anche la comunicazione può finire per diventare virtuosa. Non perché da essa dipenda tutto. Ma perché quando funziona la regia generale, funziona anche l’immagine e la reputazione. Che non è cipria, ma leva credibile per contrastare lo sciacallaggio che si segnala giorno per giorno in mezzo mondo (ieri l’indecente spot su Canal+ in Francia sulla Pizza Corona) e per il quale rischia di essere davvero cipria la pura irritazione della nostra Farnesina.




Il coronavirus ha svelato l’inganno: siamo prigionieri delle narrazioni (ma l’epidemia di panico forse ci salverà)

Il coronavirus ha svelato l’inganno: siamo prigionieri delle narrazioni (ma l’epidemia di panico forse ci salverà)

Il Covid-2019 ha provocato due contagi, uno fisico e uno mediatico. Il secondo ha prodotto molti più ripercussioni del primo. Tornare a un mondo gerarchico, con le informazioni maneggiate dagli specialisti e diffuse soltanto tra gli addetti ai lavori (Asl o operatori sanitari) è impensabile

Il coronavirus ha diviso l’opinione pubblica italiana secondo linee preesistenti e prevedibili. I sovranisti amplificano il pericolo e danno la caccia all’untore cinese, i populisti alimentano complottismi e sfiducia nelle autorità, i liberal dicono che l’influenza stagionale fa più vittime e vanno a pranzo al ristorante cinese. E poi ci sono le prese di posizione assunte per reagire ad altre prese di posizione, come quelli che deridono le mascherine perché se le mettono i parlamentari di destra. Finora non abbiamo quasi mai parlato della malattia, abbiamo parlato solo della sua percezione. Negli ultimi anni abbiamo usato il termine “virale” più nella sua accezione mediatica che medica, e il Covid-2019 ha di fatto provocato due epidemie, una fisica e una mediatica, con la seconda che ha prodotto molti più “contagi” e ripercussioni della prima. E come la prima verrà studiata, domata e iscritta nei protocolli sanitari, così la seconda dovrebbe venire analizzata scrupolosamente, per elaborare protocolli e vaccini per le prossime emergenze.

Il panico da COVID-2019 – da distinguersi dall’epidemia reale – ha mostrato quello che sappiamo già, ma non abbiamo ancora compreso e realizzato fino in fondo: nel mondo mediatico in cui viviamo i nostri comportamenti sono dettati dalle narrativeChi forgia le narrative governa (o insidia il governo). La polemica sui contagi al Nord non è solo un dibattito sulle tattiche di gestione dell’emergenza, ma uno scontro sulle rispettive narrative, e nulla lo mette più in chiaro degli attacchi di Salvini e dei media vicini alla Lega, che dopo l’esplosione del contagio in Italia accusano i “buonisti” di “aver combattuto il razzismo invece del virus” (la svolta verso la minimizzazione successiva del governatore Fontana non è un cambiamento di narrativa, cioè di una visione del mondo, ma soltanto la difesa della sanità lombarda).

In altre parole, il razzismo – una narrativa – era la tattica giusta, e combatterlo – con un’altra narrativa – è stato sbagliato. Fossimo rimasti razzisti, saremmo rimasti sani. Una narrativa che in Italia ha, se non prevalso, avuto largo spazio, con conseguenze fatali. L’associazione del virus all’”untore” asiatico ha portato alla tranquillizzante logica dell’isolamento: chiudiamo i voli con la Cina e il virus non atterrerà in Italia. Il “paziente 1” di Codogno mostrava sintomi associabili al coronavirus, ma era italiano, come probabilmente anche l’ignoto per ora “paziente 0”, ed è stato rimandato a casa, dopo aver infettato mezzo pronto soccorso. Probabilmente è stato un caso sfortunato, che poteva accadere a Cosenza o a Cortona quanto a Codogno, ma il fatto che sia successo proprio nella provincia del Nord, quella operosa, benestante, organizzata e tradizionalista, colpisce pesantemente la narrativa del sovranismo italiano che la vede come il cuore e il modello del Paese, un luogo dove rifugiarsi dalla depravazione della globalizzazione. E genera un’altra narrativa, quella del Sud che vuole proibire l’ingresso ai lombardi, in una gongolante ritorsione contro decenni di narrativa antimeridionale. Il corona-razzismo internazionale e interrazziale ha lasciato il posto al razzismo interregionale.

Ma intanto, siccome l’Italia sta sostituendo nel ruolo dell’”untore globale” la Cina (i primi contagiati in Algeria e in Brasile provengono dalla Lombardia), ecco che scatta un’altra narrativa tipica di chi si sente in imbarazzo: in realtà, gli italiani sono stati semplicemente più bravi e solerti a scovare i casi di contagio, mentre in Francia o in Germania lasciano gli ammalati a piede libero. Se fosse così, tra qualche giorno Francia e Germania dovrebbero mostrare numeri epidemiologici ben più alti dell’Italia, ma tanto tra qualche giorno parleremo d’altro.

Il coronavirus è l’epidemia che ha messo il pianeta di fronte alla sua dimensione globalizzata, ma anche il panico che ha generato è stato un fenomeno globale, che si è propagato molto più rapidamente del virus stesso. È la prima epidemia ai tempi dei social e dei media globali. La prima epidemia ai tempi del populismo. E le misure per contenerla sono in buona parte dettate non tanto dalle esigenze sanitarie, quanto dall’ansia della politica rispetto alla psicosi dell’opinione pubblica, o perlomeno la seconda pesa nelle decisioni quanto la prima. Sarà curioso leggere, quando verrà scritta, una ricerca degli economisti sui danni provocati dal panico rispetto all’impatto sul Pil dell’epidemia reale, sempre che sia possibile separare nettamente le motivazioni nel caso di decisioni come la chiusura dei voli o del carnevale veneziano.Ma non può sfuggire la correlazione tra i numeri di contagi di alcuni dei Paesi più colpiti e il loro rapporto alterato con i media, censurati nel caso della Cina e dell’Iran, privi di qualunque freno nel caso dell’Italia. I ricercatori che studiano l’impatto delle malattie (non solo infettive), utilizzano vari indici che nascondono dietro sigle neutrali come SDI (social-demographic index) le voragini che separano i diversi Paesi per igiene, alimentazione, prevenzione, livello della sanità e possibilità di accesso alle sue strutture, e anche per cultura e disciplina della popolazione.

Non esiste – per ora, forse – un indice che misura il grado di virulenza dei media, social e non, né sono ancora state scritte linee guida che gettino un ponte in precario equilibrio tra il negazionismo e l’allarmismo. Ma se accettiamo la necessità, per il bene comune, di limitare la libertà di movimento e di assemblea, non possiamo difendere nello stesso tempo la libertà di dire idiozie. E’ una questione di igiene. Immaginatevi, per esempio, i notiziari sul coronavirus che mettono accanto al numero dei contagiati e dei morti quello dei guariti – in questo momento, rispettivamente 81288, 2770 e 30358 – e il panico fatica a nascere. Ma nei media vale la regola che una buona notizia non è una notizia, e se in più alcuni giornali italiani scambiano il numero dei guariti (recovered in inglese) con quello dei ricoverati, non c’è mascherina che tenga.

Tornare a un mondo gerarchico, con le informazioni maneggiate dagli specialisti e diffuse soltanto tra gli addetti ai lavori (Asl o operatori sanitari) è impensabile. Ma governare le narrative non significa usarle sempre per alimentare i peggiori istinti di panico e xenofobia. E il coronavirus lo sta mostrando, anche se il bias negativo dei media mette in risalto solo le conseguenze negative del corona-panico. Ma già adesso vediamo migliaia e forse milioni di persone indossare la mascherina, speriamo lavarsi le mani, e in generale reagire con compostezza e disciplina. La mascherina fece la sua comparsa nel nostro immaginario nel 2003, all’epoca della Sars, insieme alla misurazione della temperatura negli aeroporti. All’epoca, venne recepita come una misura esagerata e ridicola, dettata dalla paranoia. Oggi la consideriamo normale e la mettiamo di nostra volontà, senza aspettare richiami dalle autorità.

Una nuova narrativa – essere responsabili della propria salute e quindi di quella collettiva – ha preso piede con una rapidità impossibile prima dell’avvento della società mediatica. Anche quelli che avevano iniziato a lavarsi le mani prima di visitare i malati, venivano guardati come igienisti paranoici. L’arcivescovo Amvrosij, che durante la peste a Mosca cercò di impedire ai fedeli di baciare le icone taumaturgiche, venne dilaniato dalla folla inferocita; era il 1771, e l’imperatrice Caterina era in corrispondenza con Voltaire e Diderot. E quando, nel 1854, il dottor John Snow rimosse la maniglia sulla pompa d’acqua in Broadwick Street, fermando l’epidemia del colera a Londra, venne preso per pazzo (la maniglia viene tuttora rimossa e rimessa ogni anno, in una cerimonia che ricorda quanto sia difficoltoso il cammino della scienza). Era uno scontro di narrative, e sul lungo periodo vincono sempre quelle che permettono di sopravvivere.

Ovviamente, potremo tirare le somme delle due epidemie, quella del coronavirus e quella del corona-panico, soltanto quando si saranno concluse, e si potranno contare le vittime della prima e i danni e/o benefici della seconda. Ma se si scoprisse che grazie al panico globale – possibile soltanto in un mondo globalizzato – per la prima volta siamo riusciti ad arginare un’epidemia? Perché le epidemie erano globali anche prima di Facebook, e ogni anno si ammalano di influenza stagionale da 250 milioni a un miliardo di persone. Con una mortalità intorno allo 0,1-0,2%, significa 250 mila-1 milione di morti l’anno. Ogni anno. Se la mortalità del coronavirus è intorno al 2%, e la virulenza è più o meno quella di un virus stagionale “ordinario”, significa un rischio di 20 milioni di morti.

Se, come sembra, i grafici di diffusione del virus da verticali stanno diventando sempre più pianeggianti, anche grazie a misure draconiane come la segregazione di interi territori, da Wuhan al Lodigiano, il numero delle vittime (nonostante inevitabili esplosioni di contagio locali) potrebbe essere irrisorio su scala globale, poche migliaia. Questo significherebbe aver salvato circa 19 milioni 995 mila vite. Incluse quelle dei razzisti per prevenzione che picchiano quelli con gli occhi a mandorla negli autobus e nei supermercati (senza temere di prendere il contagio a toccarli), dei complottisti, degli apocalittici, dei paranoici, dei medici mediatici che si insultano sui social, dei giornalisti che pubblicano notizie non verificate e traducono male dall’inglese e perfino dei no-vax. Questo significherebbe aver fatto prevalere, perfino in sistemi politici non esattamente compassionevoli, la narrativa che la salvezza di una vita umana viene prima del profitto e della ragion di Stato.

Nel mondo animale, le epidemie eliminano gli esemplari più deboli e rafforzano con gli anticorpi quelli più resistenti. Vale anche per le epidemie di panico. E in un mondo sempre più globale e complesso, i più resistenti non sono quelli più robusti, ma quelli più capaci di adattarsi ai cambiamenti, di adottare comportamenti razionali, di mantenere la disciplina, di soppesare rischi e benefici invece di farsi prendere da emotività tribali, di cooperare con gli altri, di non soccombere al contagio. Ci sarà una selezione naturale. Stiamo già elaborando gli anticorpi: se nei primi giorni parlare di psicosi esagerata era più pericoloso che andare a Codogno, ora il mood che prevale (dopo tre giorni a casa con la famiglia) è quello di «la vita deve andare avanti». Inventeremo vaccini. Alzeremo le difese immunitarie contro il panico, ed elaboreremo protocolli per arginare le prossime epidemie rapidamente ed efficacemente, senza eccessi come quello di chiudere 3700 persone in una nave da crociera, trasformando il contagio da probabile in quasi certo.. Oppure, le tossine sedimentate da ondate di panico, una dopo l’altra (chi si ricorda dell’Isis?), finiranno per compromettere definitivamente il nostro genoma, portando a una mutazione o al risorgere di atavismi cavernicoli. In entrambi i casi, sarà merito (colpa) di un mondo globale dominato da narrative mediatiche.




Infodemia: il caso da manuale di come non si comunica

Infodemia: il caso da manuale di come non si comunica

Dai gesti eclatanti alle esternazioni contradditorie, passando per provvedimenti a macchia di leopardo: nella gestione dell’emergenza Coronavirus sono stati fatti troppi errori

Attorno alla notizia del primo contagiato italiano il 21 febbraio si è scatenato un progressivo caos comunicativo che ha generato nei cittadini una sensazione di inquietudine che in molti casi si è via via trasformata in panico.

I sociologi della comunicazione la chiamano infodemia: “la circolazione eccessiva di informazioni contraddittorie. Spesso non vagliate con precisione, non verificate, che rendono difficile orientarsi su un determinato tema, argomento, scelta per la difficoltà di individuare fonti non solo affidabili ma anche certe” ( David J. Rothkopf, «Washington Post», When the Buzz Bites Back (11 maggio 2003)

Ma in un Paese a democrazia evoluta, chi deve parlare in eventi potenzialmente catastrofici che possono generare un danno collettivo enorme? Qualcuno potrebbe risponderebbe “tutti, visto che è un diritto costituzionale” confondendo il diritto alla libera espressione con la responsabilità delle informazioni e delle decisioni. Che è anche la confusione che si è generata, complice anche le opportunità del web e dei social network, che ci hanno ormai abituato a una comunicazione “fra pari” e, in parte, “deresponsabilizzzante”.

Un’emergenza come quella del Covid19 si dovrebbe affrontare anche a livello comunicativo con gli stessi principi e le medesime procedure tipici del risk/crisis management. Vediamone alcuni e se e come sono stati rispettati.

1. Centralizzare le informazioni

Nei casi di crisi dovrebbe parlare una sola fonte. Ma, anche in virtù della devoluzione delle responsabilità in materia di tutela della salute, di fatto questo non è accaduto: ogni singola Regione ha adottato proprie strategie di contenimento del contagio (talora anche prive di ragioni scientifiche), con scarso coordinamento se non addirittura in contraddizione con quelle delle altre, e in qualche caso in aperto conflitto con quelle del Governo (tanto che l’Esecutivo ha addirittura fatto un ricorso al TAR). Tutto questo ha creato incertezza e la percezione di mancanza di una guida chiara ed univoca: un agente formidabile per scatenare paure incontrollate e reazioni irrazionali e antisociali come l’accaparramento di generi alimentari nei supermercati.

2. Evitare informazioni in eccesso.

Il ritmo di almeno due conferenze stampa al giorno (fra nazionale e regionale), insieme alla frequenza e monotematicità di aggiornamenti e commenti sulle principali emittenti radio e TV, con interviste a esperti di ogni genere, hanno creato un surplus informativo e confuso: istituzioni nazionali che smentivano istituzioni locali su dati ed interpretazioni e viceversa. Purtroppo, l’effetto domino creato da continui nuovi contagi hanno amplificato a dismisura le notizie e i toni.

3. Informazione sobria, se possibile fatta da un tecnico, evitando banalizzazioni e tecnicismi

In generale la comunicazione di una epidemia dovrebbe essere appannaggio di un tecnico, lasciando la politica e le istituzioni in secondo piano, e pertanto bene ha fatto il Governo a lasciare l’incombenza della conferenza stampa quotidiana al Commissario per l’emergenza Borrelli, capo della protezione civile. Molto meno bene hanno fatto Governatori e Assessori a improvvisarsi virologi, confondendo perfino i virus con batteri. Ma anche il mondo scientifico ci ha messo del suo: medici e scienziati di chiara fama si sono sentiti autorizzati a dare dati e previsioni polemizzando fra loro (chi non ricorda la polemica del prof. Burioni con la “signora del Sacco”? Sono episodi che hanno complicato una narrazione già di per sé complessa).

4. Trasparenza

Da subito si è deciso di dare il massimo della trasparenza a tutti i dati dei contagi, mentre prudenza avrebbe voluto che si comunicassero solo i casi “confermati” dalle controanalisi dell’ISS e non quelli delle persone sottoposte al test o risultate “positive” al primo tampone, anche se asintomatiche. Gli altri Paesi hanno da subito comunicato i soli contagiati certi e con condizioni di salute serie, scelta decisamente meno ansiogena. L’Italia in un batter d’occhio è diventata così il terzo Paese al mondo per contagiati dopo Cina e Corea del Sud. Solo dopo sei giorni, quando oramai il danno era fatto e le conseguenze economiche pesantissime e a lunga durata, l’Italia si è uniformata ai metodi di rilevazione degli altri Paesi.

5. In assenza di certezze, evitare ogni previsione

In una situazione in cui poco o nulla si conosce dell’agente infettante, sarebbe stato opportuno astenersi da previsioni, ma esperti, medici e politici, abbandonando ogni elementare prudenza, si sono lanciati in previsioni più o meno catastrofiste, per poi “cambiare idea” e ritornare su posizioni più possibiliste e meno apocalittiche solo negli ultimi giorni.

6. Evitare personalismi e gesti eclatanti

Personalismo e sensazionalismo sono forse i “mali” che più hanno generato quelli finora elencati: il personalismo ha portato politici (ma ahimè anche medici e ricercatori) di ogni ordine e grado a commentare dati e previsioni, a speculare sulla situazione per danneggiare la parte politica avversa (o screditare i colleghi), incuranti del danno sull’opinione pubblica. Anche i rappresentanti delle istituzioni non sono sfuggiti alla tentazione della ricerca della visibilità personale o sono caduti nella trappola di discorsi o gesti “ad effetto”, che in un contesto di crisi andrebbero assolutamente evitati. E’ il caso in cui è incorso il normalmente misurato presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, con l’annuncio dell’autoisolamento in diretta Facebook, indossando coram populo una mascherina sterile. Una scelta inutilmente ansiogena.

Che insegnamento trarre allora da quanto accaduto? Che nell’epoca della disintermediazione e della sovrainformazione, anche le istituzioni, come già fanno tante aziende, devono dotarsi di piani di gestione del rischio che prevedano procedure chiare e condivise di comunicazione, secondo i principi che abbiamo esposto, che raccordino e impegnino Governo centrale, Regioni, Comuni e autorità verticali (es. Istituto Superiore di Sanità). Tali procedure dovranno prevedere anche una formazione mirata per le persone che rivestono certi ruoli, affinché non solo ne diventino i garanti ma siano anche messe in grado di sostenere lo stress mediatico di situazioni ad alta complessità ed emotività (molti sono convinti che parlare con i media sia una cosa che possono e sanno fare tutti, ma non è affatto così). Solo così alla capacità di intervento sulle emergenze, spesso eccellente nel nostro Paese, si potrà affiancare anche un’adeguata responsabilità nella gestione della comunicazione e del flusso informativo. Certamente ci sono già competenze ed esperienze virtuose, ma occorre metterle a sistema e farne un patrimonio condiviso. Certo la responsabilità dei singoli non è mai sostituita dalle procedure, ma la presenza di linee guida chiare e un’adeguata formazione possono contribuire in modo decisivo a far crescere una cultura diffusa della corretta comunicazione.

L’autore, Gabriele Bertipaglia, è partner di SEC Newgate Spa e responsabile della divisione Reptutation & Crisis Management. L’agenzia italiana è a capo di un gruppo internazionale specializzato in Public Relations e Advocacy fra i primi 30 al mondo. Per l’emergenza coronavirus ha messo a disposizione di aziende ed enti un team di specialisti per accompagnare la comunicazione di crisi verso clienti, dipendenti, fornitori e sui diversi canali (media, social, etc.).




Il tampone andrebbe fatto ai giornali

Il tampone andrebbe fatto ai giornali

Reale o presunto che sia, l’allarme coronavirus ha rivelato il vero stato di salute dell’informazione italiana: positivo al sensazionalismo

Se è vero che gli amici si vedono nel momento del bisogno, dovremmo iniziare a pensarlo anche dell’informazione.

Da quando la parola coronavirus ha fatto il suo ingresso in Italia col primo caso nel Lodigiano, nell’ultima settimana abbiamo assistito alla conferma di un mestiere che ha da troppo tempo abdicato al senso di responsabilità.

Non si venga a dire che i giornalisti non hanno potuto fare bene il loro lavoro perché le zone rosse impedivano precauzionalmente l’accesso e il transito: le famose suole da consumare si possono sbucciare in molti modi, ma certamente non stando immobili nei salotti degli studi televisivi, non ribattendo ciò che circola da giorni pur di stare sul pezzo, non dando voce agli stessi nomi, non creando panico, non creando inutili collegamenti in stile Botteri coi grattacieli di Pechino alle spalle solo per rassicurare gli italiani che il servizio pubblico ha un proprio inviato in Cina e farle ripetere il già detto solo perché tanto è già pagata da contratto. Tra l’altro, la gaffe del video in cui la Botteri spiega quali precauzioni adottare contro il coronavirus mentre entra nella sede cinese della Rai commettendo una serie di errori madornali è già virale.

Una volta gli inviati incarnavano il carisma della professione perché erano in prima linea, bruciavano gli altri sul tempo e si facevano depositari di un vero – se mai sia ancora possibile parlare di verità quando si parla di giornalismo. Le informazioni miste a disinformazioni corrono ormai alla stessa velocità dei social network.

Principio di precauzione culturale, prima che sanitario

Basti pensare alla ressa degli acquisti di Amuchina o delle mascherine e alla scarsa premura nel riportare alla calma gli italiani piuttosto che gridare loro, da ogni angolo: “Allarme mascherine: esaurite ovunque”.

Il chimico professionista Dario Bressanini lo ha detto chiaro e tondo qualche giorno fa, intervistato in diretta da Edoardo Buffoni e Michela Murgia che conducono il Tg Zero di Radio Capital: esistono alternative sicure, fatte in casa, all’Amuchina. “Da quando scoppiarono le prime epidemie di Sars e di Ebola, ovviamente anche in posti in cui non ci sono farmacie né supermercati, l’OMS mise a punto una formula molto semplice: alcol etilico – per capirci io ho usato quello avanzatomi dal limoncello, alcol a 96 gradi. Per preparare un litro di questo disinfettante servono 833 millilitri di alcol etilico a cui aggiungere 42 millilitri di acqua ossigenata al 3% che non serve per disinfettare ma ha lo scopo di proteggere da eventuali spore batteriche dato che stiamo realizzando casa una preparazione liquida senza essere un’azienda farmaceutica che ha il controllo totale dell’atmosfera. Poi aggiungere 15 millilitri di glicerina, acquistabile senza problemi, visto che mettere la pelle a contatto con queste sostanze potrebbe essere irritante. Si mette tutto in un recipiente graduato e lo si porta per la parte restante fino a un litro con acqua distillata: chi non volesse comperare nemmeno quella, può semplicemente mettere a bollire la classica acqua del rubinetto e la raffredda ben coperta per evitare che si ricontamini. Si imbottiglia in un recipiente sterile e si aspettano le 72 ore consigliate dall’OMS per rendere il composto idoneo e attivo”.

La psicosi da farmacia e da supermercato è il bastone migliore per non sentirsi in colpa della propria ignoranza.

Mai come in circostanze di emergenza – reale o presunta – come questa, chi assiste alle decisioni politiche, sanitarie e sociali ha il dovere di essere il primo responsabile di se stesso applicando il principio di precauzione non solo per la propria salute fisica ma anche per quella culturale e di pensiero.

Una delle informazioni preventive più efficaci, che da nessuna altra parte ho sentito diramare, me l’ha fornita una operatrice del 118 della Regione Toscana, raggiunta telefonicamente durante il suo turno di lavoro. “Oltre a consigliare di lavarsi le mani, nessuno sta ricordando quanto sia importante disinfettare anche il cellulare che appoggiamo continuamente ovunque, senza alcune premura. Lo stesso cellulare che portiamo poi accanto alla bocca, agli occhi e al naso. Così come tenere pulita la tastiera del computer e il volante. Prestare attenzione ai nostri gesti quotidiani è in queste ore la prima forma di prevenzione”.

Coronavirus: oltre 30 milioni di italiani ne parlano sui social

La parola va data rigorosamente a chi sa decifrare i fenomeni, a chi ha il coraggio di misurarli rispetto al sentito dire dilagante.

Per questo abbiamo raggiunto Pier Luca Santoro, Project manager di DataMediaHub e tra i massimi esperti di dati su informazione e comunicazione. Stava ovviamente già monitorando la situazione e quello che ci ha fornito è il quadro più attendibile in circolazione.

“Ho pensato di concentrare la mia analisi sulla rappresentazione mediatica online da parte dei siti di news del nostro Paese sul tema del coronavirus. Per farlo sono state analizzate le citazioni online di coronavirus negli ultimi 30 giorni filtrando esclusivamente quelle in Italia, in italiano, e prodotte, appunto, sui siti di news quindi quotidiani online, magazine e agenzie di stampa.

Le citazioni sono state oltre 202 mila ed hanno coinvolto più di 30 milioni di italiani tra like, condivisioni e commenti, generando una portata teorica di un triliardo di impression, che stimo ragionevolmente in 250 miliardi di impression effettive. Una potenza di fuoco colossale che, a partire dal giorno del primo morto nel nostro Paese il 20 febbraio scorso, è cresciuta a dismisura.

In 30 giorni, TGCom24 ha prodotto la bellezza, si fa per dire, di 821 articoli; l’ANSA ne ha pubblicati addirittura 2.400; Libero oltre 1.000, solo per citarne alcuni. Ma, come mostra l’infografica, tutte le testate hanno pubblicato una quantità di articoli spropositata. Una quantità eccessiva di articoli che naturalmente difficilmente può essere accurata, a cominciare dal fatto che il manager “untore” ritornato nel lodigiano dopo un viaggio di affari in Cina in realtà non ha mai avuto il Coronavirus: cosa che anche le testate aderenti al “Trust Project” non hanno rettificato, né tantomeno si sono scusate per aver diffuso una notizia falsa, grave”.

“Naturalmente tutto questo è stato ulteriormente amplificato dai social. Un articolo di Adnkronos conta più di 302mila like e poco meno di 51mila condivisioni solo su Facebook. Molti degli articoli più condivisi sono stati relativi alle ricercatrici che hanno isolato il virus. Notizia tutta italiana che non ha avuto alcuna eco mediatica fuori dai confini nazionali, anche perché, come sappiamo, il virus era già stato isolato in precedenza da altri ricercatori non italiani.

Una infodemia che ha generato allarmismi ingiustificati oltre che gravi ricadute sull’economia nazionale. Non era certamente questo quello che ci si attendeva da chi si occupa di informazione per professione, e dunque dovrebbe operare professionalmente senza [s]cadere nel clickbait più sfrenato come avviene, purtroppo, ormai da tempo”.

L’Ordine dei giornalisti ha detto basta. Troppo tardi.

La mossa era corretta ma forse è arrivata tardi. A sottolineare lo stato di allerta nel mondo dell’informazione, Carlo Verna – a capo dell’Ordine dei giornalisti – già alcune settimane fa aveva richiamato alla serietà del mestiere ma è evidente che tutto stava già precipitando nell’allarmismo. Ha persino deciso di ricorrere a un testimonial come Piero Angela per ribadire il concetto lo scorso 26 febbraio in conferenza stampa del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti a Roma sul tema ‘Informare non allarmare: coronavirus e comportamento corretto dei giornalisti’.

“Anche per la mia storia mi sento responsabilizzato, il mio Paese va preservato dal contagio del coronavirus, ma anche da un altro contagio, quello della psicosi, che si sta diffondendo soprattutto all’estero: la paura che questo sia un Paese dove non si può più andare”, le parole del noto giornalista e divulgatore scientifico. “Non sono così allarmato dal virus, spero che rientri abbastanza velocemente con la nuova stagione e che nel frattempo si trovi un vaccino o qualche farmaco efficace. Ormai nei telegiornali non parlano quasi d’altro, ovviamente la gente è interessata ma anche la massa di notizie in sé può avere l’effetto di creare preoccupazione nelle persone. Serve buon senso. Una storia come questa del Coronavirus non l’avevo mai vista in 68 anni di lavoro”.

Quindi, a chi credere? Il giornalismo non è una fede ed è sempre bene ricordarlo. Se poi il giornalismo italiano si mette a scimmiottare lo stile dei social network ispirati a velocità, sensazionalismo, superficialità del titolo, magrezza del contenuto, economia dell’attenzione e leve percettive, la deriva è vicina.

Ogni volta che posso, spendo buone parole per l’informazione a mezzo radio da sintonizzare sui canali che fanno dell’approfondimento del pensiero il loro scopo: ci rallentano nella smania dell’illuderci informati e ci fanno frenare prima di aver capito.

Frenare.

Come la buona azione di Instagram che, nel momento in cui si digita #coronavirus per seguire il thread, apre un pop-up che invita a passare prima per il sito aggiornato dell’OMS sulle informazioni ufficiali; in alternativa, si può cliccare subito su “Vedi i post”. Una bella prova di come siamo diventati davanti al bivio del sapere. La sensazione è che ci illudiamo tutti di avere in mano le notizie mentre il giornalismo, purtroppo, sta solo giocando a nascondino.

Foto di copertina: Inews24.it




Coronavirus, Alibaba: l’intelligenza artificiale esegue il test in 20 secondi

Coronavirus, Alibaba: l'intelligenza artificiale esegue il test in 20 secondi

Gli algoritmi sviluppati da Damo Academy, secondo il colosso tech cinese, riescono a identificare l’infezione con un’accuratezza del 96%

L’intelligenza artificiale in prima linea per individuare il coronavirus. Gli algoritmi di Alibaba impiegano 20 secondi per formulare una diagnosi con un’accuratezza del 96%. A sviluppare gi algoritmi che lavorano per individuare l’infezione da Sars-Cov-2 è stata la Damo Academy, stando a quanto riportato da Sina Tech News e altri media.

Il nuovo metodo, spiegano dall’istituto di ricerca cinese, sfrutta complessi sistemi di analisi basati sul machine learning e addestrati con i dati campione di oltre 5 mila casi confermati, secondo le linee guide delle ultime ricerche effettuate sull’epidemia che negli ultimi mesi si è rapidamente diffusa a livello globale.

Nella maggior parte dei casi analizzati, mettendo a confronto le tomografie, l’Ia sarebbe dunque in grado di distinguere i casi di Covid-19 da quelli di una comune polmonite, in poco tempo e con un margine di errore minimo. Il che vuol dire accorciare di pareccho i tempi, considerando che di solito un medico impiega tra i 5 e i 15 minuti per leggere una Tac ed elaborare una diagnosi, con scansioni che a volte richiedono oltre 300 immagini.

Dal 5 febbraio il sistema sanitario cinese (Chinese National Health Commission) prevede l’uso della Tac in aggiunta al metodo di test dell’acido nucleico per garantire una migliore efficacia nell’individuazione del coronavirus.

Il nuovo sistema di diagnosi è stato già testato negli ospedali cinese ed è in funzione nella struttura di Qiboshan, a Zhengzhou, nella provincia di Henan, creato sul modello dell’ospedale di Xiaotangshan di Pechino, completato nel 2003 per far fronte alla diffusione della Sars. A partire da domenica scorsa l’ospedale di Qiboshan accoglie i casi sospetti di Covid-19. Ma il sistema di Alibaba, secondo i media asiatici, dovrebbe essere adottato in più di cento ospedali della provincia focolaio dell’Hubei.