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Smart working: si sta come le penne lisce sugli scaffali

Smart working: si sta come le penne lisce sugli scaffali

Ci è voluta l’emergenza per rendere inutili anni di discussioni e convegni

E all’improvviso si sono scoperti tutti fenomeni.

Uno dei temi più dibattuti nella teoria e con la minore efficacia nel concreto, è quello dello smart working.  Solo negli ultimi quattro anni, i risultati di ricerca riguardo articoli auto prodotti, convegni e chiacchierate organizzate a vario titolo dalle Botteghe di Categoria sono circa 180.000!

È bastata una settimana di emergenza per derubricare tutta questa iper produzione antologica a un mero “chiacchiericcio condominiale” dove la retorica del centralismo della Persona – bellissima metafora in uso nelle riunioni e sulle pareti dei corridoi – è venuta totalmente a mancare in questo matrimonio felice fra sindacalisti e direttori del personale che ha raggiunto le nozze d’oro in sterili dibattiti e attività di relazioni industriali talmente efficaci da conseguire, nella punta del massimo virtuosismo, alla mediazione di  3,5 giornate di smart working al mese.

Il folle dominio del controllo

Nella lista delle sconfitte, c’è la responsabilità comune nel tentativo di presidiare il proprio giardinetto, di aver letteralmente bloccato per anni la possibilità di crescita della cultura dello smart working raccontandosi che il vero ostacolo alla crescita delle organizzazioni sono “i capi che vogliono controllare i dipendenti”. Che, seppur in parte vero, ci stiamo dimenticando totalmente che quei capi fra 5 anni saranno in pensione e al loro posto comparirà un management di generazioni a cui non interessa né stare in ufficio, né controllare chicchessia.

Ma si sa, il dinosauro parla ai dinosauri e soprattutto è convinto che i dinosauri non si estingueranno mai.

Parlando con alcuni amici sindacalisti (ma ho anche amici nelle direzioni del personale, nonostante tutto), alcuni di loro ricordano – fra gli accordi di smart working più visionari in Italia – quello proposto (a memoria) dalla allora Omnitel in tempi in cui ancora vigeva il CCNL della metalmeccanica (poi convertito in CCNL delle TLC). La direzione del personale di allora per alcuni aveva mangiato pesante ed aveva immaginato spazi senza scrivanie personali, spazi comuni e autocertificazione delle presenze. Indovinate chi furono i principali oppositori della proposta? Sindacati, colleghi HR e intellettuali. Gli stessi che oggi predicano l’open organization sui giornali di management.

Tutta l’epica creata ad hoc in questi anni è stata bruciata nel giro di 24 ore. Sui social e sui giornali, più del virus (e delle penne lisce abbandonate sugli scaffali dei supermercati letteralmente depredati) la parte del leone l’hanno fatta i lavoratori da casa.

Startupper, CEO di se stessi ed altri animali mitologici

Migliaia i post di “imprenditori” le cui “aziende” non risultavano minimamente scalfite dall’emergenza, perché “noi” lo smart working lo facciamo da sempre. Apri il profilo Linkedin del personaggio in questione e scopri essere il titolare di un’azienda di massimo 12 persone, abitante di coworking alla moda, i cui dipendenti lavorano prevalentemente da casa perché di fatto l’ufficio è poco più che un indirizzo formale a cui recapitare la posta. Bocciati.

I maestrini dalla penna rossa

La categoria degli HR si è espressa dopo 24 ore, con un comunicato stampa in cui si invitavano tutti gli appartenenti alla categoria a dimostrare senso di responsabilità ed approfittare della splendida opportunità per attivare pratiche virtuose di home office. Come sempre in ritardo sulla tabella di marcia.

Dall’associazione di categoria più coinvolta nell’argomento mi sarei aspettato contenuti decisamente diversi anziché inserirsi nel flusso comunicativo su pratiche che ormai tutti avevano già adottato più o meno gioco forza.

Nel goffo tentativo di mantenere il presidio sull’argomento, quando è arrivato il momento in cui bisognava farsi trovare preparati e col rodaggio terminato, non solo in Italia abbiamo scoperto che parlare di smart working era addirittura una “notizia”, ma ancora una volta le Risorse Umane sono state considerate come l’ufficio amministrativo per la realizzazione di un comunicato scritto in bella copia su carta lucida. Difficile pensare d’ora in poi che, se nelle aziende cambierà qualcosa nella cultura di approccio al lavoro, questo cambiamento si possa afferire alle Categoria di Riferimento.

Ormai il coronavirus ha preso la paternità del cambiamento più importante e senza nemmeno la necessità di trovare lo sponsor che paghi il buffet per l’ennesimo convegno.

Quelli che ci credevano e finalmente lo hanno potuto fare

Naturalmente la crisi è stata l’opportunità per coloro che al lavoro da casa ci credono da sempre, per dimostrarne efficacia e modernità in tempo di benessere dei dipendenti, inquinamento, sostenibilità ambientale e tutto ciò che è fin troppo banale ripetere qui e che avremo letto chissà quante volte in questi giorni.

Ho dunque lanciato una richiesta di informazioni al mio network su Linkedin, chiedendo come le aziende si stessero organizzando in queste ore. Dalle decine di risposte pervenute ho avuto modo di farmi un’idea generale del contesto, del momento storico in cui il tema sta vivendo in termini culturali, ma anche di quanti pochi abbiamo affrontato in maniera davvero visionaria, l’argomento.

Fra le risposte più immediate alla crisi, laddove alcune aziende si sono fatte trovare mediamente già preparate, ho riscontrato delle buone pratiche che andassero un pò più in là rispetto alle indicazioni generiche (fra queste: Dedagroup, Deloitte, BlogMeter, Schneider Electric).

Qualcuno, come Deloitte, ha preferito tenere la maglia del business socchiusa. Unitamente alle precauzioni e all’invito ad operare da casa senza limiti, blocco delle trasferte internazionali; laddove il cliente richiedesse la presenza, e nel rispetto delle singole policy, vale il libero arbitrio del consulente.

Hanno brillato per lungimiranza, facendo qualcosa di diverso da tutti gli altri, coloro che si sono presi a cuore la situazione di chi, con la chiusura delle scuole, si è trovato a dover gestire i figli in mancanza di altri supporti familiari. È il caso di Best Western e SI Hotels che hanno previsto una riduzione del computo delle ferie del 50%. Notevole anche l’organizzazione di Heinemann, colosso del retail aeroportuale che riesce a gestire la crisi da chiusura scolastica garantendo tuttavia le aperture dei negozi.

Abbattere i limiti mensili. Allora si può fare!

Interessante il caso di Bebit, agenzia di comunicazione torinese che, oltre ad aver abbattuto il limite settimanale dello smart working, ha fatto recapitare a casa dei propri dipendenti tutto il necessario per continuare a lavorare. Anche il Gruppo Acolad con sede a Bologna, leader nelle traduzioni in tutto il mondo e che opera in 14 paesi con una community di oltre 14.000 traduttori professionisti, ha abbattuto i limiti settimanali e inserito la gestione della crisi nella policy di qualità. Stesso vale per Credem, gruppo bancario emiliano fra i pochi ad avere già un utilizzo dello smart working quasi del doppio rispetto alla media.

Sempre in area emiliana, questa volta moda (Woolrich) e finanza (Crif) hanno adottato insieme alle misure precauzionali standard, anche la sospensione dei corsi di formazione.

Cosa per niente scontata considerando che Randstad, primaria agenzia per il lavoro, il giorno dopo il primo allarme ha mantenuto i corsi di formazione previsti su Milano nonostante il blocco comunale cautelativo. Attraverso la voce dell’ufficio del personale è stato inviato un messaggio a tutti i collaboratori interni, in cui oltre ad insegnare come lavarsi le mani si invitavano “coloro che provenivano da zona rossa di valutare arbitrariamente con il proprio responsabile l’ipotesi di stare a casa o andare in ufficio”. A fronte di molte lamentele interne dal personale (soprattutto femminile che rappresenta in azienda oltre il 70% dei dipendenti), a cui è stato negato lo smart working con la scusa che non tutti hanno i pc aziendali (seppure sembra che l’azienda abbia basato tutti i processi sulla Suite di Google), nel pomeriggio di lunedi 24 febbraio arrivava un contrordine e finalmente anche l’indicazione di bloccare le trasferte e lo stop di tutte le attività formative.

Ma il mondo dell’interinale sembra doversi battere con problemi ancor più gravi del virus se è vero che moltissime aziende Lombarde e Venete al di fuori delle zone rosse hanno iniziato a richiedere il fermo di lavoratori a tempo e addirittura di far assorbire i costi alle stesse agenzie per il lavoro. Curioso che la richiesta provenga proprio da quei territori le cui aziende si lamentano costantemente con i giornali di non trovare lavoratori.

Vi assicuro che mancano i computer

A proposito di computer, da una primaria multinazionale di assicurazioni arriva la segnalazione che, in mancanza di qualsiasi comunicazione a supporto dello smart working e in considerazione soprattutto dei fermi scolastici, i dipendenti hanno sollevato una vera e propria mozione. Solo martedì 25 febbraio è stato risposto loro che “sono finiti i computer a causa del coronavirus” invitandoli a lavorare con lo smartphone, salvo poi intorno alle 16.00 chiamare i dipendenti uno ad uno per chiedere di “procurarsi un pc poiché sono finite le scorte”. Ma siamo certi che questi sono solo pettegolezzi.

Risorse Umane non vi conosco

Il caso di Selle Royal è interessante ancora di più poiché in azienda, nonostante la struttura numericamente importante, non esiste un direttore del personale. La situazione di crisi è stata svolta in collaborazione fra le varie business unit

Naturalmente non sono mancati i casi di chi almeno nelle prime 48 ore della gestione della crisi non ha ritenuto necessario dare alcuna informazione. Fra questi, addirittura la Regione Veneto a detta di uno dei suoi dipendenti.

Cosa ci insegna il coronavirus?

Il primo insegnamento è che quando si affrontano temi concreti (l’emergenza), si stana la fuffa. La “digital transformation” e l’”innovazione” spalmata a fiumi nelle slide e nei filmini aziendali ha dimostrato di essere fragile come pancarrè alla prova del burro freddo. Non solo alcune aziende non sono pronte a sostituire brutte usanze analogiche con buone pratiche digitali, ma molte non hanno nemmeno la strumentazione minima per farlo. Per non parlare della cultura.

Ci siamo nascosti dietro alle borraccette di alluminio quando è evidente che la sostenibilità ambientale è un’altra cosa. In questi giorni a Milano si respira aria di montagna. Abbiamo davvero bisogno di tirare fuori l’auto dal garage, costruire grattacieli per contenere umani in scatola e leggere post di gente incazzata con Trenitalia tutte le mattine?

Quando si parla troppo di un tema è perché così si giustifica meglio il tempo che si impiegherebbe per realizzarlo. Ricordatevi tutte le polemiche sorte intorno al divieto di fumo nei cinema: sembrava che l’industria del tabacco, Hollywood, Cinecittà, la Kodak e Poltrona Frau sarebbero fallite miseramente. È fallita solo la Kodak e proprio perché non ha voluto cambiare.

Il peggior nemico al cambiamento è il filo spinato: voler presidiare un argomento come se fosse di proprietà e non permettere ad altri di metterci piede facendo sentire tutti ospiti tenuti a seguire regole incomprensibili, è un errore che alla lunga risulta fatale. Quando arriva il momento in cui il contesto fa saltare le regole, si potrebbe scoprire che è possibile migliorare anche senza il tuo intervento e a quel punto non solo non sei più rilevante, ma diventi addirittura superfluo. E in breve, esci dal gioco.

È scientifico: 8 persone su 10 detestano i propri colleghi (ma è anche vero che 8 su 10 flirtano con i propri colleghi e allora si comprende anche meglio tutta questa smania da scrivania!). Solo “i capi” sono convinti di lavorare con team straordinari e affiatatissimi a cui erogano annualmente un team building nel bosco o in barca a vela garantendosi democraticamente l’odio di tutta l’azienda.

Una prova concreta? Chiedete ai vostri collaboratori quanti di questi hanno cenato o hanno passato del tempo insieme con le rispettive famiglie una sola volta nell’ultimo mese.

Capovolgere i criteri di smart working passando da un giorno alla settimana a 3 giorni alla settimana non solo renderebbe le relazioni con i colleghi più qualitative, ma eviterebbe di trasformare quel giorno di libertà condizionata come il ponte per un weekend più lungo o un giorno di ferie extra.

Chi davvero pensa che lo smart working renda le Persone asociali o che si perda familiarità con i propri colleghi, è qualcuno che ha semplicemente bisogno di affetto. Suggerirei un cane da compagnia: grazie a Bobi farà tantissime amicizie al parco e magari trova l’anima gemella a cui raccontare nell’intimità quanto si stava bene quando si organizzavano convegni.

Cosa è successo dopo la prima settimana di emergenza

Era inevitabile che questo articolo attraesse altre testimonianze e qualche whistleblower.

FCA, Datalogic, Mettler_Toledo e GD fra i ripetenti

E così veniamo a sapere che ancora in data 1 marzo FCA non abbia concesso lo smart working ai propri dipendenti. Il nostro testimone ci riferisce che FCA quasi tre anni fa ha cominciato una fase di sperimentazione limitata ad un giorno alla settimana per i livelli più alti, da management a capi ufficio, di un solo settore. La fase fu stabilita di 6 mesi poi estesa ad un anno, dopo la quale, in caso di risultati positivi, lo smart working avrebbe dovuto essere esteso a tutti i dipendenti. Dopo quasi tre anni e ripetuti appelli, la fase di sperimentazione continua, nonostante tutti siano dotati di pc personale. La motivazione addotta dall’azienda per l’attuale blocco della concessione del telelavoro è l’impossibilità di dotare tutti i dipendenti di un cellulare aziendale. I dipendenti si sono detti disponibili a sostenere questa spesa individualmente se necessario, nonostante l’azienda sia dotata di un dispositivo digitale di comunicazione inserito nel pc che consente di essere collegati in tempo reale attraverso messaggi, videochiamate e videoconferenze.

In questa situazione, dipendenti e sindacati hanno colto l’occasione per richiedere di attivare l’attesa implementazione del telelavoro, per motivi di sicurezza sanitaria e per andare incontro alle esigenze dei genitori. Non è mai arrivata risposta alcuna, ancora ad oggi, 7 marzo.

Diversa la situazione in CNH, azienda del Gruppo, che invece sembra essere decisamente più avanti rispetto alla Casa Madre, sulla base di alcuni documenti che ho avuto la possibilità di consultare nel portare avanti questo reportage.

Lascia allibita anche la notizia che riguarda Datalogic. Nei giorni immediatamente successivi alle prime allerte avevamo ricevuto tante segnalazioni in merito alla negazione da parte della direzione del colosso tecnologico bolognese, di qualsiasi forma di smart working nonostante le pressanti richieste dei dipendenti. A conferma di queste, è stato pubblicato dall’Agenzia Dire nella giornata di ieri 6 marzo, un articolo in cui a distanza di 3 settimane dall’evidenza della situazione critica, ancora la direzione del personale di Datalogic gioca a braccio di ferro con i Sindacati

A denunciarlo sono i delegati assieme a Fiom-Cgil e Fim-Cisl.

Da giorni in azienda si chiede che i dipendenti possano operare con questa modalità invece di prendere le ferie, ma “a nulla sono valse le argomentazioni” di delegati e sindacati che hanno chiesto un incontro sin dalla settimana scorsa, ma Datalogic “pare immune alle esigenze dei propri dipendenti, e a quelle di prevenzione di contagio nell’interesse di tutti, sia che siano genitori di figli con le scuole chiuse, sia che siano titolari di permessi 104 per familiari disabili che potrebbero avere situazioni delicate a casa, sia che siano futuri padri con una gestante in famiglia, eccetera eccetera”.

L’attacco sindacale è duro e frontale: “L’azienda è sorda sia dal punto di vista sindacale che individuale: tante e tanti hanno richiesto individualmente la possibilità di prestazione di lavoro da remoto” per “ragioni di accudimento o di ragionevole prevenzione sanitaria contro la diffusione coronavirus, ma la direzione ha declinato tutti i casi richiesti, salvo coloro certificati come situazioni a rischio immunologico. Corretto, ma è il minimo”.

Ricordiamo che con lo smart working, in quelle aziende dove sono presenti anche le aree di produzione, si potrebbero ridurre notevolmente le file e gli assembramenti per la mensa, che non sono rispettose della minima distanza di sicurezza di un metro istituita in tale frangente dalla sanità pubblica. Eppure Datalogic, così come anche altre aziende fra cui ci risulta – salvo smentite – anche il gruppo GD sempre a Bologna, non solo hanno tenuto le mense aperte, ma in questo caso addirittura la palestra mentre le prime confezioni di disinfettante sono state assicurate ad un cavo di acciaio per evitare che vengano “sottratte” dagli stessi dipendenti. Attendiamo di vedere il posizionamento dell’azienda nella classifica del prossimo Great Place to Work!

L’ultima segnalazione arriva dalla Mettler_Toledo di Milano, la cui direzione del Personale, in seguito alle misure estremente ristrettive del Decreto del 9 marzo, in una prima mail ai dipendenti, comunicava l’adeguamento alle norme della Presidenza del Consiglio interpretandola a proprio uso e consumo:

Gentili Colleghi,

è stato pubblicato nella serata di ieri il Decreto ‘IO RESTO A CASA’, che attiva su tutto il territorio italiano le medesime limitazioni, in merito agli spostamenti, riservata alla Lombardia e a 14 province del Nord e Centro Italia fino al 9 marzo u.s. L’azienda, in conformità a quanto sopra, adegua ed amplia le misure a tutta Italia, con le seguenti modalità. CHIUSURA AZIENDALE Da venerdi 13 marzo fino a venerdi 3 aprile compreso, l’azienda sarà chiusa a partire dalle ore 13. Pertanto, a tutti i dipendenti, sarà caricata automaticamente mezza giornata di ferie;[…] SALES I venditori su tutto il territorio italiano continueranno ad operare presso e con i clienti, utilizzando i DPI (guanti, mascherina, occhiali, salviettine disinfettanti) laddove necessario, facendone richiesta direttamente a …. Laddove non fosse possibile recarsi direttamente presso il cliente, è possibile organizzare un incontro da remoto, utilizzando le istruzioni per la WEBEX ricevute nella giornata di ieri. SERVICE I tecnici ricompresi su tutto il territorio italiano continueranno ad operare presso e con i clienti, utilizzando i DPI (guanti, mascherina, occhiali, salviettine disinfettanti) laddove necessario, facendone richiesta direttamente a … Back Office continuerà ad assegnare interventi tecnici fino a saturazione della capacità tecnica, verificando preventivamente la possibilità di accesso al sito e dando priorità secondo i criteri di urgenza ed importanza. Nel caso in cui non fosse possibile utilizzare la giornata lavorativa completa o parte di essa in attività presso il cliente, i tecnici sono tenuti ad utilizzare ferie/permessi a copertura/compensazione del mancato intervento. […] Certi della vostra collaborazione, vi auguriamo buon lavoro,

Siccome non era abbastanza indecente, si è pensato di fare una decina di passi indietro:

Gentili colleghi,

una precisazione a quanto precedentemente inviato. La CHIUSURA AZIENDALE è prevista SOLTANTO al VENERDI POMERIGGIO, nel periodo compreso tra il 13 marzo al 3 aprile (4 venerdi in totale), in cui verrà applicata mezza giornata di ferie.

Mi spiace per il refuso,

Non trovano collaboratori perchè sono dei “mona”.

Anche dal Nord-Est arrivano pessime notizie. Le comunica proprio il Gazzettino, uno dei giornali veneti in prima linea con gli “imprenditori che non trovano collaboratori perchè sono tutti a casa sul divano ad aspettare il reddito di cittadinanza”, per intenderci.

Poteva mai il Gazzettino non dare voce ad uno degli imprenditori più visionari del territorio?

Vetrya, Ducati e Chiesi Farmaceutici promosse

Se parliamo di tecnologia, ben altra stoffa ha dimostrato il Gruppo Multinazionale Vetrya ad Orvieto, dove già da sabato mattina alle 9 tutti i dipendenti avevano ricevuto una mail allo scopo di fare una mappa della situazione attuale (eventuali soggiorni in Cina o in uno dei comuni interessati in Italia, o contatti con persone che avevano soggiornato in Cina da gennaio) e addirittura un Piano IT con la verifica della situazione attuale e pianificazione per permettere a tutti di lavorare da casa con portatili aziendali o pc personali. Per la sede di Milano permesso immediato a tutti i dipendenti di lavorare in smart working

Anche da Chiesi Farmaceutici di Parma registriamo la testimonianza di uno dei collaboratori:

-Istituzione di un Team multifunzionale dedicato  / condivisione delle informazioni e delle soluzioni adottate sull’emergenza Coronavirus  / smart working automatico per i colleghi che abitano in aree colpite da questa crisi / smart working prolungato anche per i colleghi che abitando in aree vicine alle aree colpite / il personale che dovesse presentare sintomi influenzali di rimanere a casa fino a completa guarigione / l’introduzione di sistemi di controllo della temperatura / Vengono installati dispenser di disinfettanti per le mani in tutti gli ingressi aziendali / limitare i meeting con grande partecipazione (più di 5 partecipanti) preferendo teleconferenze o videoconferenze / Viene data indicazione di limitare meeting che prevedano viaggi o permanenze in strutture alberghiere / limitare viaggi che implichino la frequentazioni di luoghi affollati / L’orario della mensa aziendale viene suddiviso in più turni per evitare il sovraffollamento delle aree / Viene prevista la possibilità di un servizio take away per i colleghi che preferiscano consumare il pranzo presso l’ufficio.

Anche Ducati a Bologna già dal 23 febbraio sono state prese misure precauzionali rigide. Un nostro contatto ci parla di smartworking obbligatorio per chi accusa sintomi influenzali e per chi è stato o è stato a contatto con persone delle zone rosse; smartworking facoltativo ma fortemente consigliato per gli altri. Si sta inoltre valutando come gestire l’ingresso di personale che non può stare in smart (es operai) dalle vicine zone arancio (la provincia di Modena comincia a 15 km da Borgo Panigale, e molti ci abitano)

In Ducati lo smart working è già stato introdotto da circa 8 mesi in molti reparti(mi viene da pensare che sia uno dei successi della nuova direzione del personale insediatasi da poco più di un anno) , ma con il limite di un giorno a settimana e la richiesta preventiva di 48 ore. E fin qui, niente di particolarmente straordinario rispetto alla media delle grandi aziende. Se non altro, l’emergenza è riuscita ad abbattere qualsiasi vincolo temporaneo.

Degna di nota l’istituzione di una task force interna che aggiorna quotidianamente i dipendenti tramite app e email. Per chi entra in azienda, misurazione obbligatoria della temperatura in ingresso. Anche la mensa ha subito un “restyling”: posti distanziati per limitare i contatti e il bar aziendale è chiuso. Inutile dire che le visite alla fabbrica e al museo, fiore all’occhiello dell’azienda di Borgo Panigale, sono sospese. “Misure che all’inizio ai più sembravano severe” – dice il nostro contatto -“ma il tempo ha dato ragione”.

I Riders lasciati a piedi

Niente di nuovo sul fronte Riders. Durante la prima settimana di emergenza sembrava che Deliveroo almeno per una volta avesse abbandonato il consueto cinismo suggerendo ai propri fattorini di restare a casa se fosse stato necessario, mentre il competitor Just Eat offriva 5 euro in più a consegna nella settimana di massima allerta. Ma il rispetto è durato poco e già questa settimana, dalla pagina del Sindacato dei Riders (quello vero, non i sindacati gialli appositamente creati dalle Compagnie di Food Delivery, come testimoniato da una recente puntata di Report) emerge ancora una volta il pessimo comportamento dell’azienda nei confronti dei propri non-dipendenti.




Coronavirus, qualcuno parli a questo Paese

Coronavirus, qualcuno parli a questo Paese

Serve una voce che con il massimo dell’autorevolezza plachi il panico

Qualcuno dovrà parlare al Paese, prima o poi. Qualcuno dovrà farlo perché la situazione che stiamo vivendo non ha precedenti, perché qualcosa di imprevedibile e angosciante ci ha infilati in un tunnel, emotivo prima ancora che sanitario, dentro il quale bisogna trovare presto un modo per convivere, per adattarsi al buio, in attesa dell’uscita.

Non si tratta di dispensare rassicurazioni o richiami alla razionalità in occasioni pubbliche o in interventi a pioggia dentro i molti programmi televisivi colonizzati dall’argomento. L’invito è più solenne: un messaggio a reti unificate, e siti, e radio, in cui il presidente della Repubblica o il presidente del Consiglio guardino in faccia gli occhi di milioni di italiani spaventati e, con sincerità, dicano loro il po’ di verità di cui dispongono e passino il messaggio che non c’è un colpevole da odiare ma un’emergenza comune
da affrontare, possibilmente ritrovando quel senso di comunità che questo Paese, anche nei giorni dell’infuriare del morbo, sembra scordarsi di avere avuto.

Il coronavirus, visto al microscopio, ha le sembianze innocue di una pallina da golf punteggiata sulla superficie da un certo numero di segnalini rossi, a fargli appunto corona. Non è mortale come la peste che nel milleseicento provocò un milione di morti, e neanche come l’Asiatica, che ne fece quasi un milione e mezzo.

Probabilmente ne uccide di più una normale influenza stagionale, di certo la polmonite (11 mila decessi l’anno), o l’alcolismo, gli incidenti stradali. E poi ha una percentuale di guarigione molto elevata, dicono gli esperti che molti ne escono senza neppure sapere di averlo contratto.

Eppure, da quando è comparso in Cina, nella città di Wuhan, e l’11 gennaio ha causato la prima vittima, 50 giorni fa (appena 50); da quando la pallina, dopo aver rimbalzato in Corea del Sud, Giappone, Iran, è rotolata fino da noi, nella lombarda Codogno, il 21 febbraio, 10 giorni fa (appena 10), per poi schizzare impazzita nel resto d’Europa, nelle Americhe, nel Medio Oriente; da quando il tunnel si è materializzato, facendo sprofondare l’inizio del 2020 in una specie di botola dove non vale la logica dei numeri ma vince l’irrazionalità del panico, il nostro piccolo mondo si è chiuso in mondi ancora più piccoli, sperando che il male si scateni altrove, scansando il proprio cortile, e la nostra piccola Italia ha preso ad agitarsi come un formicaio disturbato da un bastone.

Sembrava e continua a sembrare impossibile che un virus a bassa letalità possa mandare in tilt il sistema glorioso della nuova era digitale, le potenzialità fantastiche dell’intelligenza artificiale, la convinzione universale che ormai agli umani niente è precluso, tranne il teletrasporto, per ora.

E invece tutto si è inceppato, le borse sprofondano, le stime di crescita si afflosciano, crollano le prenotazioni aeree e decollano le disdette di tutto, dai viaggi agli eventi internazionali. Le teleconferenze hanno sostituito le riunioni, la distanza tra le persone (almeno un metro o, meglio, due) è diventata l’unità di misura della convivenza. Si farà l’Olimpiade a Tokyo del prossimo luglio? Boh. In meno di due mesi, la pallina da golf con la corona ci ha rispediti in un altro evo, quello della precarietà e dell’incertezza. Un salto all’indietro così brusco da generare, comprensibilmente, sgomento e panico.

In questa lacerazione globale, noi italiani stiamo pagando uno dei prezzi più alti. Terzo Paese per contagiati dopo Cina e Corea del Sud, trattati dagli altri Stati come molti di noi hanno preteso e pretendono di trattare i migranti delle molte terre dei fuochi, indesiderati per contrappasso come potenziali esportatori del male, ci troviamo a fare i conti anche con una dissipazione del nostro valore di nazione, con lo spettro di una recessione rapidissima sullo sfondo di un’economia già provata e potenzialmente esposta al collasso. Il nostro sistema sanitario nazionale ci è già arrivato, al collasso.

In 10 anni sono stati cancellati 70 mila posti letto, mancano 8 mila medici e 35 mila infermieri. A furia di tagli, abbiamo debilitato le nostre difese immunitarie, fino a renderle assolutamente inadeguate a fronteggiare la gestione ordinaria, figurarsi un ciclone come quello che si sta abbattendo su un Paese che ha colpevolmente deciso di ammainare una delle bandiere della propria Costituzione, il diritto alla salute per tutti i cittadini.

Non potrà essere l’eroismo degli operatori impegnati allo sfinimento nelle zone rosse o gialle, dagli scienziati di epidemiologia agli addetti alle pulizie, a contenere il danno. Si stancheranno, quegli eroi, a un certo punto saranno costretti ad abbassare la guardia proprio nel momento in cui, invece, bisognerebbe alzarla e tenerla altissima.

C’è un dovere superiore, il bene nazionale, che imporrebbe di sostenerli specie adesso, che il tunnel è ancora lungo e la loro esperienza, maturata in un campo e in un tempo improvviso, può fare la differenza.

Salvo per l’irresponsabilità di qualche politico che conta di cavare vantaggio anche da questa infezione sociale, molto più perniciosa di quella virale, i toni di chi ha qualche responsabilità nella gestione della cosa pubblica sembrerebbero improntati a una sospensione di velleitarie ostilità da campagna elettorale. Se c’è un comune sentire italiano, questi sono i giorni per farlo emergere con fermezza contro ogni tentativo di sfruttare persino il Covid-19.

Serve una voce che con il massimo dell’autorevolezza parli al Paese, rimetta a posto gli sciacalli, plachi il panico che va diffondendosi e proietti dell’Italia, anche all’estero, a quanti ci stanno evitando come la peste, l’immagine di una nazione ferita ma fiera, capace di affrontare con dignità il baco inatteso del Terzo millennio.




L’azienda più innovativa al mondo? Google

L’azienda più innovativa al mondo? Google

Ogni anno il Boston Consulting Group stilla la lista delle 50 aziende più innovative al mondo. Il BCG basa la sua analisi principalmente sull’evoluzione del business model e sulla distruption. Nel 2019 l’azienda più innovativa, secondo il Boston consulting group è stata Alphabet-Google, seguita da Amazon ed Apple. Nonostante ben 27 aziende sono americane -oltre le prime tre abbiamo al quarto posto Microsoft, al sesto Netflix seguita di IBM, Facebook e Tesla- nel 2019 c’è stato un incremento delle aziende europee nella classifica che sono passate da 10 a 16 (tra le europee spicca Adidas che è al 10 posto, BASF al 12esimo e Siemens al 16esimo). Sebbene ci siano state 6 new entry europee nel 2019 l’Italia non è rappresentata nella lista anche se i manager delle aziende italiane considerano l’innovazione come una priorità (95%) e si aspettano maggiori investimenti in questo ambito (80%)

Cosa accomuna queste aziende?

La maggior parte di queste aziende, sicuramente tutte le
prime 10, stanno implementando l’uso dell’intelligenza artificiale nel proprio
business. Alphabet-Google ad esempio ha sviluppato la guida autonoma, Amazon
utilizza l’IA nelle vendite al dettaglio e per il riconoscimento vocale
(Alexa), così come fa Apple con Siri. I forti innovatori inoltre utilizzano le
piattaforme e gli ecosistemi dove le piattaforme permettono lo sviluppo di
offerte commerciali mentre gli ecosistemi si basano su un insieme di partner
che condividono tecnologie, software, applicazioni e piattaforme al fine di
produrre una soluzione integrata apprezzabile dai clienti. Importanti, secondo
il Boston Consulting Group, in ambito innovativo sono anche l’analisi dei big
data e la velocità nell’adottare le nuove tecnologie.  Queste società inoltre continuano sempre ad
innovare, rivedendo costantemente non solo i propri prodotti ma anche i
servizi, le offerte e i modi di coinvolgere i clienti.

Cosa fare?

Mentre fino a poco tempo fa la tecnologia era pensata e
implementata solo da aziende che operavano in quel determinato settore ora non
è più possibile per nessuno, a prescindere dal settore di appartenenza, non
utilizzarla. L’innovazione non è mai andata veloce come in questi ultimi anni e
un’azienda deve esser sempre disposta ad accettare i cambiamenti e reinventarsi
per stare al passo con i tempi.




LO STRAORDINARIO, DIROMPENTE POTERE DELLE RELAZIONI

LO STRAORDINARIO, DIROMPENTE POTERE DELLE RELAZIONI

Dare, è la miglior forma di comunicazione

Il sottotitolo di questo articolo è mutuato da uno spot pubblicitario corporate dell’azienda di connettività Thailandese TrueMove, spot che è entrato a pieno titolo nella storia della comunicazione e del reputation management; come l’ancor più noto “Thankyou Mum”, emozionante clip sul coraggio, l’impegno e la tenacia necessari ad arrivare al successo, prodotto da Procter & Gamble in occasione delle Olimpiadi del 2012.

Il messaggio del video TrueMove però non vuole solo graffiare a fondo l’audience mediante l’uso sapiente delle emozioni, che sono il più potente stimolante reputazionale esistente, ma porta con sé un messaggio specifico e precipuo: ciò che consegniamo ad altri, prima o poi ritornerà a noi positivamente, magari attraverso altre e inaspettate strade.

Uscendo per un attimo dal frame narrativo del politicamente corretto proprio delle emozioni di tono positivo, vorrei riflettere con i lettori su altri aspetti propri di un approccio ontologico a questi domini di conoscenze, tale da includere nel nostro orizzonte non solo gli enti, ma anche gli oggetti e – appunto – le relazioni che legano essi tra loro e a loro volta li correlano con l’osservante.

Una delle possibili definizioni di responsabilità è: l’area o la sfera di influenza sulla quale l’individuo può produrre razionalmente effetti attorno a sé, sulle altre persone, sull’ambiente, sulla vita in generale.

Immaginiamo allora metaforicamente un grande quadrato: è l’area che conosciamo, e quindi sulla quale possiamo esercitare controllo e della quale possiamo prenderci responsabilità. Li dentro, naviga la nostra intera vita, e si attivano e disattivano i flussi che ci pongono in relazione con entità altre, e che cambiano di portata sulla base di infinite variabili, endogene ma anche esogene e financo epigenetiche.

La vita è composta da scopi, perché in assenza di obiettivi si silenzia l’Io; da libertà, perché senza la possibilità di modificare l’esistente, non esiste ingaggio realmente intrigante; e da barriere, perché in assenza di ostacoli da superare – reali, o più spesso autoindotti – l’obiettivo è già raggiunto e quindi il “gioco” (della vita) termina istantaneamente. Nell’ambito di questa formula, tutti i giorni siamo chiamati a decidere: trattenere o lasciare?

I più antichi tra i nostri marcatori somatici suggeriscono ossessivamente un’unica cosa: trattieni. Tratteniamo oggetti, tanto che ci irrita perdere anche solo una penna a sfera; tratteniamo chili in eccesso, perché atavicamente addestrati – fin dall’epoca del pleistocene – a prepararci ai periodi di carestia; tratteniamo persone, che siano figli o amici, perché la nostra visione antropocentrica della vita pone sempre noi al centro di tutto, e gli altri meri satelliti della nostra esistenza.

I soldi sono uno degli esempi più eclatanti: tratteniamo anche quelli, accumulandoli, invece che scambiarli con emozioni, e non solo perché – comprensibilmente – angosciati da una vecchiaia in miseria, ma perché siamo più o meno tutti vittime di un inspiegabile impulso inconscio che ci autolimita: chi trattiene denaro è nella condizione di avere per se, ma non è in grado di sopportare di concedere ad altri di avere le stesse cose. Quanto è limitante, per un soggetto immerso in un oceano di correnti che vorticosamente lo correlano, appunto, agli altri, dai quali esso dipende, in virtù di una fittissima rete di sinapsi sociali che disegnano delicati equilibri all’interno di organizzazioni complesse, bloccare un flusso di sopravvivenza così centrale qual è il denaro?

Aggiungo che il meta-messaggio con il quale la società quotidianamente ci bombarda è chiarissimo: devi avere, per qualificarti come essere. Eppure essere e avere sono categorie assai differenti, e incasellate, anche gerarchicamente, in una sequenza ben chiara: siamo qualcuno (quello è il nostro DNA…) e facciamo qualcosa (ad esempio svolgiamo il nostro ruolo professionale) per avere qualcos’altro (ad esempio il denaro, o ciò che con esso possiamo scambiare).

Riscoprendo allora questa preziosa consapevolezza, di essere, e di poter essere ciò che più desideriamo del tutto a prescindere da ciò che abbiamo, dobbiamo allora, forse, reimparare a lasciar andare.

Lasciar andare, sì, perché le uniche cose alle quali permetteremo di staccarsi di noi, e che affideremo ad altri, saranno le sole che ci sopravviveranno. Ciò che tratterremo – specie se parliamo di conoscenze e consapevolezze – finirà nella tomba con noi; ciò che invece regaleremo ad altri, proseguirà la sua vita anche dopo di noi. E questo è – probabilmente – l’unico vero segreto per garantirci l’immortalità.

Inoltre, lasciar andare qualcosa che ci appartiene, affidandolo ai flussi inqueti del metaforico quadrato della nostra vita, ci permette di ampliare la nostra sfera di influenza, la nostra area di responsabilità: qualcosa di nostro, si allontana da noi e gradatamente, mentre si allontana, sposta i nostri punti di ancoraggio sempre più lontano, cambiando le nostre prospettive, contaminando nuovi territori, aumentando di conseguenza il perimetro del nostro percepito, e cambiando il nostro punto di vista sull’universo che ci circonda.

In definitiva, la licenza di
operare di chiunque, individuo o organizzazione, tenderà ad aumentare tanto più
il soggetto darà ad altri, pronto a
sua volta a ricevere e accogliere, coltivando, migliorando e nutrendo la
propria rete di relazioni.

Condividendo, ovvero dividendo con, sinonimo di possedere insieme, partecipare, offrire del proprio ad altri, e viceversa, all’estenuante ricerca del giusto equilibrio che ci permetta di essere utili, e anche di trarre sopravvivenza da chi ci circonda per proseguire nella nostra personale missione, quale che sia, nella quale coinvolgere sempre più altre persone, sempre più altre parti di noi.

Le relazioni: il potentissimo solvente universale, in grado di permetterci di risolvere più velocemente qualunque crisi, di portare a buon fine qualunque piano di comunicazione, di gestire con successo qualunque processo di change management, sul lavoro come nella vita.

In definitiva, non dobbiamo mai sottovalutare lo straordinario, dirompente, potere delle relazioni.




4 banche su 5 non rispettano i diritti umani. Il nuovo rapporto di BankTrack

Lloyds, Bank of America, Goldman Sachs e Société Générale ultime in classifica. Benino due italiane. La strada da fare è ancora lunga

«Le banche sono ancora implicate – o addirittura facilitano direttamente – le violazioni dei diritti umani, comprese le violazioni dei diritti delle popolazioni indigene, l’accaparramento di terre (ovvero il land grabbing, ndr) e persino i crimini di guerra».

L’affermazione, che non lascia spazio a grandi interpretazioni di alleggerimento, proviene da Ryan Brightwell, autore dell’edizione 2019 del rapporto The BankTrack Human Rights Benchmark 2019pubblicato, appunto, dall’Ong BankTrack. Un rapporto che segue quello del 2016, con qualche variazione nei criteri di valutazione, e i cui risultati generali non sono esaltanti. Gli istituti finanziari indagati si muovono nella direzione giusta, perlopiù, ma con estrema lentezza e partendo da livelli di attenzione sul tema della tutela dei diritti umani ancora bassissimi.

GRAFICO sintesi dati generali sulle maggiori grandi banche commerciali e diritti umani – fonte rapporto The BankTrack Human Rights Benchmark 2019 – 1

Progressi lenti e indecisi

Emergono perciò lentezza e indecisione che non potevano che essere accompagnate dalla denuncia allarmata dell’organizzazione che promuove lo studio. Perché BankTrack si prefigge di impedire alle banche di finanziare attività commerciali dannose, promuovendo al contrario il settore quando dimostra un’impronta fortemente etica. E contribuire all’affermazione di società giuste.

GRAFICO sintesi dati generali sulle maggiori grandi banche commerciali e diritti umani – fonte rapporto The BankTrack Human Rights Benchmark 2019 – 2

Un’aspirazione che contrasta col quadro emerso dall’analisi compiuta su 50 delle grandi banche commerciali private nel mondo, passate sotto la lente delle linee guida per i diritti umani indicati dalle Nazioni unite alle imprese. Un testo di riferimento condiviso dalla comunità internazionale eppure, stando al giudizio di BankTrack, tradotto nei fatti in modo del tutto insufficiente dalle imprese finanziarie nelle quattro macro-aree di applicazione sui diritti umani:

  1. l’impegno politico (policy commitment)
  2. la capacità di investigazione (human rights due diligence process)
  3. l’attività di “reportistica” (reporting on human rights)
  4. la riparazione (access to remedy).

La pagella: promossa a pieni voti solo Abn Amro

Secondo il rapporto, quindi, le banche stanno fallendo rispetto alle proprie responsabilità sui diritti umani, ma non tutte nella stessa misura. Tant’è che Ryan Brightwell e i suoi collaboratori hanno stilato una classifica che ricorda un po’ la lavagna tradizionale, divisa tra buoni e cattivi. In questo caso c’è un unico istituto che potremmo dire aver avuto l’approvazione dei ricercatori, ed è Abn Amro (banca olandese, ottava in Europa per capitalizzazione con 68,3 miliardi di euro), in cima per punteggio raggiunto (9,5 su 14) e indicata come leader solitaria. Dopo di lei altri nove istituti cercano di tenere il passo, e tra loro giganti come Rabobank, Citigroup e Barclays.    

TABELLA top 10 delle 50 maggiori grandi banche commerciali valutate sui diritti umani – fonte rapporto The BankTrack Human Rights Benchmark 2019

Dai followers ai ritardatari

Dall’11mo al 29mo posto la lista dei cosiddetti followers, cioè degli inseguitori, è aperta dalle due italiane Intesa Sanpaolo e Unicredit (6 punti ciascuna), vede la presenza di Bnp Paribas, Morgan Stanley, Ubs, Wells Fargo. Ed è chiusa da JPMorgan Chase e RBS Group. Ma a prendersi la nota di biasimo più grave sono quelle che seguono.

TABELLA le peggiori tra le 50 maggiori grandi banche commerciali valutate sui diritti umani – fonte rapporto The BankTrack Human Rights Benchmark 2019

Infatti, dopo gli istituti che studiano ma non si applicano troppo, segue un ultimo gruppo, quello dei laggardsi veri ritardatari. E qui una speciale “menzione di disonore” viene attribuita da BankTrack a chi continua a non compiere progressi adeguati alle proprie risorse e al proprio peso globale. Lloyds, Bank of America, Goldman Sachs e Société Générale vengono perciò additati come cattivo esempio. E in loro compagnia si trovano altri numerosi protagonisti del gotha finanziario planetario: da Royal Bank of Scotland a Bank of China alla francese Credite Agricole.

Qualche progresso

Qualche buona notizia si può comunque trovare. A cominciare dal fatto che 21 banche hanno migliorato il punteggio rispetto all’ultima relazione, contro 12 che l’hanno invece diminuito. In particolare BBVA, National Australia Bank (NAB), Morgan Stanley e Standard Chartered sono avanzate di 3,5 punti o più. Inoltre, 35 dei 50 gruppi indagati hanno adottato una propria policy esplicita che include un impegno di alto livello per rispettare i diritti umani; e almeno 25 banche aggiornano questi principi. Ciò si traduce in un numero più alto che mai di istituti che hanno messo in atto politiche sui diritti umani.

banche fossili
La classifica mondiale delle banche che hanno fornito più fondi al settore delle fonti fossili © “Banking on Climate Change”

Francia, Olanda e Uk stimolano le banche a migliorare sui diritti umani

L’aspetto negativo è però che nessuno è in grado di dimostrare che sta facendo la differenza per le persone sul campo, affrontando abusi identificabili. «La stragrande maggioranza delle banche – sottolinea infatti l’ong – non ha fornito alcuna prova del fatto che nella pratica siano state prevenute, mitigate o sanzionate specifiche violazioni dei diritti umani» (il suddetto access to remedy). Ed è perciò che il direttore di BankTrack, Johan Frijns, considera tanto più significative e positive le recenti mosse attuate da Regno unito, Francia e Paesi Bassi per indurre i singoli istituti ad attivarsi.

Le 10 più grandi banche etiche e sostenibili europee: Banca Etica, l'unica italiana, è al 5° posto. Fonte: "La finanza etica e sostenibile in Europa", Secondo rapporto, Febbraio 2019.
Le 10 più grandi banche etiche e sostenibili europee: Banca Etica, l’unica italiana, è al 5° posto. Fonte: “La finanza etica e sostenibile in Europa”, Secondo rapporto, Febbraio 2019.

In Olanda sono stati compiuti progressi per guidare le banche verso i loro obblighi in materia di diritti umani grazie a un accordo stabilito nel 2019 dall’intero settore bancario nazionale (il Dutch Banking Sector Agreement on Human Rights). Un’iniziativa virtuosa, poiché partecipata da tutti i soggetti coinvolti, anche se resa possibile, secondo Frijns, dalla minaccia di un intervento regolatorio superiore. Così è infatti avvenuto nel Regno unito con l’introduzione, già nel 2015, della legge sulla schiavitù moderna (Modern Slavery Act), e in Francia con una norma che obbliga le banche a essere più trasparenti riguardo ai loro impegni a rispettare i diritti umani (Duty of Vigilance).