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Il mondo dopo il Coronavirus

Yuval Noah Harari: the world after coronavirus 

L’umanità
sta affrontando una crisi globale. Forse la più grande crisi della nostra
generazione.  Le decisioni prese da
persone e governi nelle prossime settimane probabilmente daranno forma al mondo
per gli anni a venire.  Danno forma non
solo ai nostri sistemi sanitari ma anche alla nostra economia, politica e
cultura.  Dobbiamo agire in modo rapido e
decisivo.

Dovremmo
anche tenere conto delle conseguenze a lungo termine delle nostre azioni.  Quando si sceglie tra le alternative,
dovremmo chiederci non solo come superare la minaccia immediata, ma anche in
che tipo di mondo abiteremo una volta superata la tempesta.  Sì, la tempesta passerà, l’umanità
sopravvivrà, la maggior parte di noi sarà ancora viva, ma abiteremo in un mondo
diverso.  Molte misure di emergenza a
breve termine diventeranno un appuntamento fisso della vita.

Questa
è la natura delle emergenze.  Accelerano
rapidamente i processi storici.  Le
decisioni che in tempi normali potrebbero richiedere anni di deliberazione
vengono prese nel giro di poche ore.  Le
tecnologie immature e persino pericolose vengono messe in servizio, perché i
rischi di non fare nulla sono maggiori. 
Interi paesi hanno la funzione di cavie in esperimenti sociali su larga
scala.

Cosa
succede quando tutti lavorano da casa e comunicano solo a distanza?  Cosa succede quando intere scuole e
università vanno online?  In tempi
normali, governi, aziende e consigli scolastici non accetterebbero mai di condurre
tali esperimenti.  Ma questi non sono
tempi normali.

In
questo momento di crisi, affrontiamo due scelte particolarmente importanti. La
prima è tra sorveglianza totalitaria e responsabilizzazione dei cittadini.  La seconda è tra l’isolamento nazionalista e
la solidarietà globale.

Sorveglianza “under the skin”

Per
fermare l’epidemia, intere popolazioni devono rispettare determinate linee
guida.  Ci sono due modi principali per
raggiungere questo obiettivo.  Un metodo
è per il governo di monitorare le persone e punire coloro che infrangono le
regole.  Oggi, per la prima volta nella
storia dell’umanità, la tecnologia consente di monitorare tutti
continuamente.  Cinquanta anni fa, il KGB
non poteva seguire 240 milioni di cittadini sovietici 24 ore al giorno, né
poteva sperare di elaborare efficacemente tutte le informazioni raccolte.  Il KGB si basava su agenti umani e analisti e
non poteva semplicemente collocare un agente umano per seguire ogni cittadino.

Ma
ora i governi possono fare affidamento su sensori onnipresenti e potenti
algoritmi invece che su spettri in carne e ossa.  Nella loro battaglia contro l’epidemia di
coronavirus diversi governi hanno già implementato i nuovi strumenti di
sorveglianza.  Il caso più notevole è la
Cina.  Monitorando attentamente gli
smartphone delle persone, facendo uso di centinaia di milioni di telecamere con
riconoscimento facciale e obbligando le persone a controllare e riferire la
temperatura corporea e le condizioni mediche, le autorità cinesi non solo
possono identificare rapidamente i sospetti coronavirus, ma anche rintracciare
i loro movimenti e identificare chiunque con cui sono entrati in contatto.

Una
serie di app mobili avvisa i cittadini della loro vicinanza ai pazienti
infetti.  Questo tipo di tecnologia non
si limita all’Asia orientale.  Il primo
ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha recentemente autorizzato la Israel
Security Agency a impiegare la tecnologia di sorveglianza normalmente riservata
alla lotta contro i terroristi per rintracciare i pazienti affetti da
coronavirus.  Quando il sottocomitato
parlamentare competente si è rifiutato di autorizzare la misura, Netanyahu l’ha
approvata con un “decreto di emergenza”.

Potresti
sostenere che non c’è nulla di nuovo in tutto questo.  Negli ultimi anni sia i governi che le
società hanno utilizzato tecnologie sempre più sofisticate per tracciare,
monitorare e manipolare le persone. 
Tuttavia, se non stiamo attenti, l’epidemia potrebbe tuttavia segnare un
importante spartiacque nella storia della sorveglianza.  Non solo perché potrebbe normalizzare il
dispiegamento di strumenti di sorveglianza di massa nei paesi che finora li
hanno respinti, ma ancora di più perché indica una drammatica transizione dalla
sorveglianza “over the skin” a “under the skin”.  Fino a quel momento, quando il dito toccava
lo schermo dello smartphone e faceva clic su un collegamento, il governo voleva
sapere esattamente su cosa stava facendo clic. 
Ma con il coronavirus, il focus dell’interesse si sposta.  Ora il governo vuole conoscere la temperatura
del dito e la pressione sanguigna sotto la sua pelle.

Il pudding dell’emergenza

Uno
dei problemi che dobbiamo affrontare per capire dove ci troviamo rispetto alla
questione della sorveglianza è che nessuno di noi sa esattamente in che modo
veniamo sorvegliati e che cosa potrebbero portare i prossimi anni.  La tecnologia di sorveglianza si sta
sviluppando rapidissimamente, e ciò che sembrava fantascienza 10 anni fa è oggi
una vecchia notizia.

Come
esperimento mentale, considera un governo ipotetico che richiede che ogni
cittadino porti un braccialetto biometrico che controlli la temperatura
corporea e la frequenza cardiaca 24 ore al giorno.  I dati risultanti vengono raccolti e
analizzati da algoritmi governativi.  Gli
algoritmi sapranno che sei malato anche prima che tu lo sappia, e sapranno
anche dove sei stato e chi hai incontrato. 
Le catene di infezione potrebbero essere drasticamente accorciate e
persino rotte del tutto.  Un tale sistema
potrebbe probabilmente fermare l’epidemia in pochi giorni.  Sembra meraviglioso, vero?  L’aspetto negativo è, ovviamente, che ciò
darebbe legittimità a un nuovo terrificante sistema di sorveglianza.  Se, ad esempio, sai che ho fatto clic su un
collegamento Fox News anziché su un collegamento CNN, che può insegnarti
qualcosa sulle mie opinioni politiche e forse anche sulla mia personalità.

Ma
se riesci a monitorare cosa succede alla mia temperatura corporea, pressione
sanguigna e battito cardiaco mentre guardo il video clip, puoi imparare cosa mi
fa ridere, cosa mi fa piangere e cosa mi fa arrabbiare davvero.  È fondamentale ricordare che rabbia, gioia,
noia e amore sono fenomeni biologici proprio come la febbre e la tosse.  La stessa tecnologia che identifica la tosse
potrebbe anche identificare le risate.

Se
le aziende e i governi iniziano a raccogliere i nostri dati biometrici in massa,
possono conoscerci molto meglio di quanto conosciamo noi stessi e quindi non
solo possono predire i nostri sentimenti, ma anche manipolarli e venderci tutto
ciò che vogliono – sia esso un prodotto o un politico.  Il monitoraggio biometrico renderebbe le
tattiche di hacking dei dati di Cambridge Analytica simili a quelle dell’età
della pietra.  Immagina la Corea del Nord
nel 2030, in cui ogni cittadino deve indossare un braccialetto biometrico 24
ore al giorno.  Se ascolti un discorso
del Grande Capo e il braccialetto rileva i segni rivelatori della rabbia, sei
finito.

Ovviamente,
si potrebbe sostenere la sorveglianza biometrica come misura temporanea presa
durante uno stato di emergenza. 
Sparirebbe una volta terminata l’emergenza.  Ma le misure temporanee, hanno la brutta
abitudine di resistere alle emergenze soprattutto perché all’orizzonte si
profila sempre una nuova emergenza.  Il
mio paese d’origine, Israele, ad esempio, ha dichiarato lo stato di emergenza
durante la sua Guerra d’indipendenza del 1948, che ha giustificato una serie di
misure temporanee dalla censura alla stampa e la confisca delle terre a
regolamenti speciali per preparare il budino (non ti prendo in giro).  La guerra d’indipendenza è stata vinta da
molto tempo, ma lo stato di Israele non ha mai dichiarato la fine
dell’emergenza e non è riuscito ad abolire molte delle misure
“temporanee” del 1948 (il decreto sul budino di emergenza è stato
misericordiosamente abolito nel 2011). 
Anche quando le infezioni da coronavirus si ridurranno a zero, alcuni
governi affamati di dati potrebbero sostenere di aver bisogno di mantenere in
atto i sistemi di sorveglianza biometrica perché temono una seconda ondata di
coronavirus o perché c’è un nuovo ceppo di Ebola in evoluzione in Africa
centrale, o perché … hai compreso l’idea. 
Negli ultimi anni è scoppiata una grande battaglia per la nostra
privacy.  La crisi del coronavirus
potrebbe essere il punto di svolta della battaglia.  Perché quando le persone possono scegliere
tra privacy e salute, di solito scelgono la salute.

La polizia del sapone

Chiedere
alle persone di scegliere tra la privacy e la salute è, in effetti, la vera
radice del problema.  Perché questa è una
scelta falsa.  Possiamo e dobbiamo godere
sia della privacy che della salute.  Possiamo
scegliere di proteggere la nostra salute e fermare l’epidemia di coronavirus
non istituendo regimi di sorveglianza totalitaria, ma piuttosto dando potere ai
cittadini.  Nelle ultime settimane,
alcuni degli sforzi più riusciti per contenere l’epidemia di coronavirus sono
stati orchestrati da Corea del Sud, Taiwan e Singapore.  Mentre questi paesi hanno fatto un certo uso
delle applicazioni di tracciamento, hanno fatto molto più affidamento su test
approfonditi, sulla rendicontazione onesta e sulla cooperazione volontaria di
un pubblico ben informato.

Il
monitoraggio centralizzato e le dure punizioni non sono l’unico modo per far sì
che le persone rispettino le linee guida benefiche.  Quando le persone vengono informate dei fatti
scientifici e quando le persone si fidano delle autorità pubbliche, i cittadini
possono fare la cosa giusta anche senza un Grande Fratello che veglia sulle
loro spalle.  Una popolazione
auto-motivata e ben informata è di solito molto più potente ed efficace di una
popolazione ignorante e controllata. 
Considera, ad esempio, lavarti le mani con sapone.  Questo è stato uno dei più grandi progressi
di sempre nell’igiene umana.  Questa
semplice azione salva milioni di vite ogni anno.  Mentre lo diamo per scontato, è stato solo
nel diciannovesimo secolo che gli scienziati hanno scoperto l’importanza di
lavarsi le mani con il sapone.  In
precedenza, anche i medici e le infermiere procedevano da un intervento
chirurgico all’altro senza lavarsi le mani. 
Oggi miliardi di persone ogni giorno si lavano le mani, non perché hanno
paura della polizia del sapone, ma piuttosto perché comprendono i fatti.  Mi lavo le mani con il sapone perché ho
sentito parlare di virus e batteri, capisco che questi piccoli organismi
causano malattie e so che il sapone può rimuoverli.

Ma
per raggiungere un tale livello di compliance e cooperazione, è necessario
avere fiducia.  Le persone devono fidarsi
della scienza, fidarsi delle autorità pubbliche e fidarsi dei media.  Negli ultimi anni, politici irresponsabili hanno
deliberatamente minato la fiducia nella scienza, nelle autorità pubbliche e nei
media.  Ora questi stessi irresponsabili
politici potrebbero essere tentati di prendere la strada maestra per
l’autoritarismo, sostenendo che proprio non ci si può fidare del pubblico per
fare la cosa giusta.  Normalmente, la
fiducia che è stata erosa per anni non può essere ricostruita dall’oggi al
domani.  Ma questi non sono tempi
normali.  In un momento di crisi, anche
le menti possono cambiare rapidamente. 
Puoi avere aspre discussioni con i tuoi fratelli per anni, ma quando si
verifica un’emergenza, scopri improvvisamente un serbatoio nascosto di fiducia
e amicizia e ti affretti ad aiutarci a vicenda. 
Invece di costruire un regime di sorveglianza, non è troppo tardi per
ricostruire la fiducia delle persone nella scienza, nelle autorità pubbliche e
nei media.

Dovremmo
sicuramente utilizzare anche le nuove tecnologie, ma queste tecnologie
dovrebbero dare potere ai cittadini. 
Sono assolutamente favorevole al monitoraggio della temperatura corporea
e della pressione sanguigna, ma quei dati non dovrebbero essere usati per
creare un governo onnipotente. 
Piuttosto, quei dati dovrebbero permettermi di fare scelte personali più
informate e anche di rendere il governo responsabile delle sue decisioni.  Se potessi monitorare le mie condizioni
mediche 24 ore al giorno, imparerei non solo se sono diventato un pericolo per
la salute di altre persone, ma anche quali abitudini contribuiscono alla mia
salute.  E se potessi accedere e analizzare
statistiche affidabili sulla diffusione del coronavirus, sarei in grado di
giudicare se il governo mi sta dicendo la verità e se sta adottando le giuste
politiche per combattere l’epidemia. 
Ogni volta che le persone parlano di sorveglianza, ricorda che la stessa
tecnologia di sorveglianza può di solito essere utilizzata non solo dai governi
per monitorare gli individui, ma anche dagli individui per monitorare i
governi.  L’epidemia di coronavirus è
quindi un importante test di cittadinanza. 
Nei giorni a venire, ognuno di noi dovrebbe scegliere di fidarsi dei
dati scientifici e degli esperti sanitari e non su teorie di cospirazione
infondate e politici egoisti. Se non riusciamo a fare la scelta giusta,
potremmo ritrovarci a rinunciare alle nostre più preziose libertà, pensando che
questo sia l’unico modo per salvaguardare la nostra salute.

Abbiamo bisogno di un piano
globale

La
seconda importante scelta che affrontiamo è tra l’isolamento nazionalista e la
solidarietà globale.  Sia l’epidemia
stessa che la conseguente crisi economica sono problemi globali.  Possono essere risolti efficacemente solo
attraverso la cooperazione globale. 
Innanzitutto, per sconfiggere il virus dobbiamo condividere le
informazioni a livello globale.  Questo è
il grande vantaggio degli umani rispetto ai virus.  Un coronavirus in Cina e un coronavirus negli
Stati Uniti non possono scambiarsi consigli su come infettare l’uomo.  Ma la Cina può insegnare agli Stati Uniti
molte preziose lezioni sul coronavirus e su come affrontarlo.  Ciò che un medico italiano scopre a Milano la
mattina presto potrebbe salvare una vita a Teheran di sera.  Quando il governo del Regno Unito esita tra
diverse politiche, può ottenere consigli dai coreani che hanno già affrontato
un dilemma simile un mese fa.  Ma
affinché ciò accada, abbiamo bisogno di uno spirito di cooperazione e fiducia
globale.

I
paesi dovrebbero essere disposti a condividere informazioni apertamente e
chiedere umilmente consigli e dovrebbero essere in grado di fidarsi dei dati e
delle intuizioni che ricevono.  Abbiamo
anche bisogno di uno sforzo globale per produrre e distribuire apparecchiature
mediche, in particolare di kit per effettuare i test respiratori.  Ogni paese invece di cercare di farlo
localmente e di accumulare qualsiasi attrezzatura possa ottenere, con uno
sforzo globale coordinato potrebbe accelerare notevolmente la produzione e
garantire che le attrezzature salvavita siano distribuite in modo più
equo.  Proprio come i paesi nazionalizzano
le industrie chiave durante una guerra, la guerra umana contro il coronavirus
potrebbe richiedere di “umanizzare” le linee di produzione cruciali.
Un paese ricco con pochi casi di coronavirus dovrebbe essere disposto a inviare
apparecchiature preziose in un paese più povero con molti casi , confidando che
se e quando successivamente avrà bisogno di aiuto, altri paesi verranno in suo
aiuto.

Potremmo
prendere in considerazione un simile sforzo globale per riunire il personale
medico.  I paesi attualmente meno colpiti
potrebbero inviare personale medico nelle regioni più colpite del mondo, sia
per aiutarli nell’ora del bisogno, sia per acquisire preziose esperienze.  Se più tardi cambierà il centro
dell’epidemia, l’aiuto potrebbe iniziare a fluire nella direzione opposta.  La cooperazione globale è di vitale
importanza anche sul fronte economico. 
Data la natura globale dell’economia e delle catene di
approvvigionamento, se ogni governo fa le proprie cose in totale disprezzo
degli altri, il risultato sarà il caos e una crisi sempre più profonda.  Abbiamo bisogno di un piano d’azione globale
e ne abbiamo bisogno in fretta.  Un altro
requisito è raggiungere un accordo globale sui viaggi.  La sospensione di tutti i viaggi
internazionali per mesi causerà enormi difficoltà e ostacolerà la guerra contro
il coronavirus.  I paesi devono cooperare
al fine di consentire ad almeno un rivolo di viaggiatori essenziali di
continuare ad attraversare i confini: scienziati, medici, giornalisti,
politici, imprenditori.  Questo può
essere fatto raggiungendo un accordo globale sulla preselezione dei viaggiatori
da parte del loro paese d’origine.  Se
sai che solo i viaggiatori attentamente schermati erano ammessi su un aereo,
saresti più disposto ad accettarli nel tuo paese.

Sfortunatamente,
attualmente i paesi non fanno quasi nessuna di queste cose.  Una paralisi collettiva ha attanagliato la
comunità internazionale.  Sembra che non
ci siano adulti nella stanza.  Ci si
sarebbe aspettati di vedere già settimane fa un incontro d’emergenza di leader
globali per elaborare un piano d’azione comune. 
I leader del G7 sono riusciti a organizzare una videoconferenza solo
questa settimana e non ha prodotto alcun piano di questo tipo.  Nelle precedenti crisi globali – come la
crisi finanziaria del 2008 e l’epidemia di Ebola del 2014 – gli Stati Uniti
hanno assunto il ruolo di leader globale. 
Ma l’attuale amministrazione americana ha rinunciato al lavoro di
leader.  Ha chiarito molto che si
preoccupa della grandezza dell’America molto più che del futuro
dell’umanità.  Questa amministrazione ha
abbandonato anche i suoi più stretti alleati. 
Quando ha vietato tutti i viaggi dall’UE, non si è preso la briga di
dare all’UE un preavviso, figuriamoci di consultare l’UE in merito a tale
drastica misura.  Ha scansionato la
Germania offrendo presumibilmente $ billions a una società farmaceutica tedesca
per acquistare i diritti di monopolio su un nuovo vaccino Covid-19.  Anche se l’attuale amministrazione alla fine
cambierà il punto di vista e presenterà un piano d’azione globale, pochi seguiranno
un leader che non si assume mai la responsabilità, che non ammette mai errori e
che si prende regolarmente il merito da solo lasciando tutti i biasimi agli
altri.

Se
il vuoto lasciato dagli Stati Uniti non sarà riempito da altri paesi, non solo
sarà molto più difficile fermare l’attuale epidemia, ma il suo retaggio
continuerà ad avvelenare le relazioni internazionali per gli anni a
venire.  Eppure ogni crisi è anche
un’opportunità.  Dobbiamo sperare che
l’attuale epidemia aiuterà l’umanità a realizzare il grave pericolo
rappresentato dalla disunità globale. 
L’umanità ha bisogno di fare una scelta. 
Percorreremo la via della malattia o adotteremo la strada della solidarietà
globale?  Se scegliamo la disunione, ciò
non solo prolungherà la crisi, ma probabilmente porterà a catastrofi ancora
peggiori in futuro.  Se scegliamo la
solidarietà globale, sarà una vittoria non solo contro il coronavirus, ma
contro tutte le future epidemie e crisi che potrebbero assalire l’umanità nel
21 ° secolo.




Coronavirus, a rischio il valore del marchio Italia. “Serve una grande campagna nazionale”

Coronavirus, a rischio il valore del marchio Italia. "Serve una grande campagna nazionale"

Era il decimo al mondo, oltre 2 mila miliardi di dollari

Quando il Coronavirus e le sue ricadute socio-economiche saranno alle spalle, di quanto si sarà svalutato il marchio “Italia”, che secondo Brand Finance nel 2019 era il decimo più pregiato al mondo con un valore di 2.110 miliardi di dollari, di poco superiore al Pil tricolore? Se lo domanda, con preoccupazione, la società britannica che è tra i leader internazionali nel prezzare i marchi di aziende e, in questo caso, Stati. L’ultimo aggiornamento, dell’ottobre scorso, ha visto l’Italia scendere dall’ottavo al decimo posto come valore del marchio nazionale, scavalcato dalla Corea del Sud e dai principali Paesi del G7

Tuttavia lo choc con cui il Paese tra i più belli e visitati al mondo ha iniziato il 2020 rischia di ripercuotersi fortemente sul “brand Italia”, che a dire della società nata a Londra nel 1996 è “uno dei principali asset di questa nazione”. Sono numerose, in queste due settimane, le evidenze che dimostrano come gli effetti economici legati all’attuale crisi dipendano molto dalla crisi d’immagine. I dati che attestano l’Italia come il terzo Paese più contagiato nel mondo, e peggio ancora la percezione che il mondo ha nei confronti degli italiani e dei prodotti locali, rischiano di fare molto più male che non il Coronavirus stesso.

“Disdire una vacanza in Sicilia, dove il numero dei contagiati è ridicolo, oppure bloccare il Grana Padano, che non può trasmettere il virus, dipende sicuramente dalla pessima immagine che abbiamo trasmesso oltre confine – afferma Massimo Pizzo, dirigente italiano di Brand Finance – Questa crisi d’immagine, che impatta sia sul business sia sul soft power della nazione, è particolarmente rilevante perché danneggia i punti di forza della nostra immagine: il Made in Italy, il turismo e lo stile di vita; non ha invece reale impatto sui nostri punti di debolezza nel percepito internazionale come la gestione della cosa pubblica o la leadership nella ricerca scientifica”.

Il dirigente di Brand Finance suggerisce, per correre ai ripari, “un piano che non si limiti a gestire la crisi, ma una vera e propria strategia per gestire il brand nazione, analoga a The Great Campaign quella lanciata qualche anno dal Regno Unito”. Allora fu una strategia che sembrò funzionare: l’isola ha aumentato le entrate economiche originate da immagine e reputazione nazione nonostante la Brexit, raggiungendo nel 2019 un valore del brand Regno Unito di 3.851 miliardi di dollari, molto più della sua previsione di Pil 2019 (pari a 2.720 miliardi).

“Il team che dovrà gestire la crisi d’immagine dell’Italia – aggiunge Pizzo – non dovrebbe limitarsi a coinvolgere guru della comunicazione, ma dovrebbe innanzitutto condurre analisi di marketing e finanziarie per stabilire lo stato attuale del marchio, Italia identificando i fattori su cui focalizzare la strategia con relativo impatto economico tenendo conto dei costi e di ritorni sugli investimenti”.




La sorveglianza elettronica non è la risposta al Coronavirus

La sorveglianza elettronica non è la risposta al Coronavirus

Hacker’s Dictionary. Si moltiplicano le richieste di geolocalizzare i cittadini per limitare l’infezione. Ma si può fare solo nel rispetto della privacy e in un quadro di garanzie costituzionali

La gestione delle misure per arginare il Coronavirus ha rivelato la totale, marchiana e colpevole incapacità dei leader europei ed occidentali di preservare la salute pubblica. Macron lo sapeva dai primi di Gennaio, Johnson ha temporeggiato, Trump ha sottovalutato e la Merkel tentennato.

L’Italia ha fatto meglio. Tuttavia ritardi, errori nella comunicazione, notizie trapelate a giornalisti amici, impreparazione e indecisioni, hanno favorito la pandemia. Come annunciare la zona rossa in Lombardia senza chiudere le stazioni.

Adesso si pensa di correre ai ripari utilizzando strumenti tecnologici di sorveglianza per tracciare gli spostamenti della popolazione.

L’unico leader “occidentale” capace di dirlo a chiare lettere è stato il capo ad interim del governo israeliano, Benjamin Netanyahu. Nel suo discorso alla nazione ha citato l’uso efficace dei dati telefonici a Taiwan per garantire la quarantena. Come pure è successo nell’autoritaria Singapore e nella Cina che prima aveva negato e poi censurato la notizia dell’epidemia.

Nethanyahu è stato molto criticato perché alludeva all’uso di sistemi di sorveglianza di tipo militare usati dall’antiterrorismo del suo paese e, pare, ai tool di una start up di nome Rayzone che usa Big Data, intercettazioni telefoniche, geolocalizzazione e fonti aperte – social network, social media e blog – per effettuare la sorveglianza elettronica del target.

Ora un approccio populista al problema chiede di decidere tra la salute e la privacy anche da noi. È una falsa dicotomia. I paesi democratici devono trovare un giusto equilibrio fra i due diritti fondamentali e preservarli entrambi.

Si potrà fare in Italia? Sappiamo che in caso di eventi eccezionali è possibile derogare dalla Gdpr, il regolamento europeo per la protezione dei dati personali. Ma a patto di capirne l’utilità.

Secondo il professore Michael Birnhack dell’università di Tel Aviv è possibile applicare un criterio proporzionale di sorveglianza per garantire privacy e salute pubblica. A cominciare dai target del Big Brother elettronico.

Per primi, i pazienti. Hanno bisogno delle migliori cure, la loro privacy è ridotta dall’ospedalizzazione ma protetta. La loro anamnesi dice tutto.

Secondo, le persone isolate in casa. Chi esce viola la legge. Dovrebbe essere un deterrente sufficiente per chi non ha motivi impellenti. Geolocalizzare quelli che consapevolmente violano le restrizioni potrebbe non servire perché lascerebbero il telefono a casa.

Terzo, i malati di cui si vuole ricostruire il percorso dell’infezione. Non tutti ricordano dove sono stati prima di essere infettati. I dati del cellulare possono aiutare. Secondo il professor Birnhack la maggior parte delle persone è pronta a cedere quei dati e consentirne l’utilizzo. Rimarrebbero quelli che devono nascondere la frequentazione con pusher, amanti e prostitute.

Infine la localizzazione di chi è stato esposto a un paziente conclamato. Qui ogni informazione serve. Per avvisare quelli potenzialmente contagiati la sorveglianza telefonica può aiutare.

Si può fare con i dati delle compagnie telefoniche ma è una misura probabilmente sproporzionata. Secondo Birnhack si può fare il contrario: chiedere alle compagnie di contattare chi era nel posto sbagliato al momento sbagliato, offrendo una serie di garanzie legali.

Le possiamo immaginare: l’adeguata protezione cibernetica di quei dati; l’uso temporaneo e la distruzione degli stessi una volta utilizzati; il divieto di usarli per altri fini; un comitato di vigilanza sull’intero processo e il coinvolgimento del Garante della Privacy.




HYBRID ANALYTICA: LE NUOVE FRONTIERE DELLA PROPAGANDA RUSSA IN OCCIDENTE

HYBRID ANALYTICA: LE NUOVE FRONTIERE DELLA PROPAGANDA RUSSA IN OCCIDENTE

La disinformazione costituisce il 90% dell’attuale guerra. Non è più necessario bombardare le città. È sufficiente bombardare i cervelli.

Oksana Zabuzhko, scrittrice e intellettuale ucraina

Hybrid Analytica: Pro-Kremlin Expert Propaganda in Moscow, Europe and the U.S.: A Case Study on Think Tanks and Universities, il paper realizzato da Kateryna Smagliy, accademica ucraina ex direttrice del Kennan Institute di Kyiv, oggi collaboratrice del programma Next Generation Leaders presso il McCain Institute, con il contributo del ricercatore Ilya Zaslavskiy, è il primo lavoro ad analizzare in maniera scientifica, avvalendosi di case studies, un fenomeno già ribattezzato hybrid analytica. Il paper è disponibile qui in PDF. Per capire in cosa consista l’hybrid analytica è necessario fare un passo indietro e tornare al concetto di guerra ibrida.

Guerra Ibrida

La guerra ibrida, o guerra non lineare, è una forma di guerra che ai tradizionali strumenti bellici (aviazione, esercito, etc) affianca strumenti non militari (attacchi cibernetici, disinformazione, etc). Valery Gerasimov, Capo di Stato Maggiore delle forze armate russe e teorico dell’omonima dottrina, sottolinea come «il ruolo degli strumenti non-militari nel conseguimento di obiettivi strategici politici e militari è cresciuto e, in molti casi, questi strumenti hanno superato il potere delle armi in quanto ad efficacia».

Centrali all’interno della hybrid war sono i concetti di guerra informativa e di disinformazione. «La disinformazione – scrive Luigi Sergio Germani nel saggio Disinformazione e manipolazione delle percezioni: una nuova minaccia al sistema – paese, uno dei primi lavori in Italia su questi argomenti – era un tema centrale del pensiero politico e strategico del Novecento: l’epoca dei totalitarismi nazista e comunista, i quali la istituzionalizzarono come strumento di governo, praticandola nei confronti della propria popolazione, come evidenziò Hannah Arendt, che analizzò la natura profonda dei sistemi totalitari».

Il ritorno dell’information warfare russa come strumento di politica estera del Cremlino, dopo il crollo del Muro di Berlino e il dissolvimento dell’URSS, si è sostanziato in due fasi, la prima di consolidamento attraverso la ri-creazione dei media, la seconda attraverso il loro utilizzo in senso offensivo.

«Già prima della crisi ucraina il Cremlino aveva deciso di rafforzare le proprie contromisure difensive tese a neutralizzare la percepita “minaccia informativa” proveniente da Occidente, ma anche di potenziare le proprie attività offensive di information warfare, tra cui la disinformazione anti-occidentale, anti-americana e anti-UE. A tale scopo l’apparato mediatico internazionale controllato dal Cremlino viene notevolmente ampliato e modernizzato in seguito a ingenti investimenti. La disinformazione russa rivolta verso l’estero viene veicolata sia dai grandi mezzi di comunicazione – come l’emittente televisiva RT e l’agenzia multimediale Sputnik – sia sfruttando tutti gli strumenti del nuovo universo dei media digitali: social media, siti e blog di “informazione alternativa”, troll di internet (propagandisti pagati dal Cremlino), adoperati non solo per amplificare le notizie false o manipolate ma anche per intimidire e screditare chi si adopera per smascherarle» (Germani).

Va da sé che le nuove tecnologie digitali hanno aperto enormi possibilità alla propaganda. Tra le tecniche più utilizzate dalla propaganda russa, ma anche da Cina e Iran, va sicuramente menzionata quella dell’astroturfing, che consiste nella creazione artificiale di contenuti e voci a supporto di un prodotto, di un tema o di un personaggio. Nata in ambito economico prima dell’avvento di internet, questa pratica raggiunge il suo apice nell’era digitale applicata alla politica al fine di simulare un diffuso supporto verso un regime, un’ideologia, una politica. Per conseguire questo obiettivo vengono ingaggiati alcuni soggetti, opportunamente retribuiti, che producono contenuti filogovernativi a sostegno delle posizioni ufficiali di un regime e in dissenso verso l’opposizione.

Un tipico esempio di produzione di massa di contenuti filogovernativi sono le fabbriche dei troll come quella scoperta a San Pietroburgo. La fabbrica dei troll di San Pietroburgo, di cui si è avuta conoscenza grazie a due ex impiegati, Lyudmila Savchuk e Marat Burkhand che ne hanno raccontato in dettaglio il funzionamento, impiega centinaia di persone e si occupa di produrre profili falsi, contenuti e commenti per siti web della grande stampa internazionale, portali online, forum, social network.

Dai racconti dei due ex collaboratori emerge una realtà inquietante degna del 1984 di Orwell. L’enorme macchina propagandistica, avvalendosi di centinaia di addetti, pagati ben sopra la media retributiva della Federazione Russa, è infatti in grado di confezionare falsi profili e un’enorme mole di contenuti fake e materiale patriottico o a favore del Cremlino. In tal modo questi apparati riescono a propagandare le posizioni del Cremlino, influenzare la discussione online e trasmettere la sensazione di un vasto supporto sia in Russia sia all’Estero per la Federazione.

Hybrid analytic

Veniamo ora al nuovo fenomeno dell’hybrid analytic che l’autrice del report, Kateryna Smagliy definisce «come il processo di progettazione, sviluppo e promozione di varie narrazioni pseudo-accademiche da parte di intellettuali in buona fede ingannati o manipolati, accademici e esperti di think tank o lobbisti politici “sotto mentite spoglie”, reclutati attraverso la rete globale di agenti legati al Cremlino allo scopo di sostenere e supportare l’agenda internazionale o nazionale del regime di Putin, e che portano demolizione dei fatti, disinformazione, errata interpretazione intenzionale degli eventi, indebolimento della fiducia nelle competenze e inquinamento generale del processo decisionale politico e del dibattito pubblico».

Partendo da questa definizione l’analisi della Smagliy esamina i legami tra il Cremlino e i think tank, le università e gli istituti di ricerca in Russia, Europa e Stati Uniti e le modalità con cui esperti russi e occidentali vengono cooptati nel pool di comunicatori del regime di Putin. L’autrice descrive in dettaglio come i think tank legati al Cremlino progettino nuove dottrine ideologiche per il governo russo e come i suoi simpatizzanti promuovano le narrative propagandistiche del Cremlino in Occidente.

Inoltre il lavoro studia il ruolo dei servizi di intelligence russi e delle istituzioni russe di soft power nella progettazione e nell’attuazione delle attuali strategie con cui la conoscenza diventa una vera e propria arma bellica (knowledge weaponization and ideological subversion). Lo studio esamina anche i tentativi degli oligarchi legati al Cremlino di trasformare un’apparente filantropia accademica in vero e proprio accesso politico. L’autrice sostiene che i governi occidentali e le istituzioni accademiche dovrebbero prestare attenzione alla minaccia posta da questa guerra informativa, intensificare gli sforzi per identificare e svelare la rete di agenti russi all’interno del mondo accademico occidentale e adottare meccanismi per salvaguardare l’integrità professionale di università ed enti di ricerca.

Se questo è in estrema sintesi il contenuto del paper è altresì interessante sottolineare come il virus della hybrid analytica abbia intaccato enti e istituzioni occidentali un tempo conosciute per il rigore e la serietà dell’attività accademica e/o di ricerca. L’aspetto più preoccupante che emerge da questo studio non è solo il fatto che la Russia, come ai tempi della Guerra Fredda, sia tornata a investire milioni di dollari nella propaganda anti-occidentale, nonostante il rublo in caduta libera e le miserabili condizioni economiche in cui versa l’80% della sua popolazione, ma la singolare circostanza che anche la realtà occidentale stia diventando paradossale, potremmo dire orwelliana, come quella russa.

Manchester University Press e Cambridge University Press

Emblematico il caso di due rispettabili case editrici britanniche, la Manchester University Press (MUP) e la Cambridge University Press (CUP), che hanno ricevuto critiche molto severe, seppure per ragioni diverse: la prima per aver pubblicato un libro pseudo-accademico intitolato Flight MH17: Ukraine and the new Cold War, la seconda per essersi rifiutata di pubblicare l’accurato saggio sulla cleptocrazia russa, Putin’s Kleptocracy, della studiosa americana Karen Dawisha.

Nel libro di Kees van der Pijl, pubblicato dalla MUP, si sostiene che il tragico abbattimento del volo MH17 della Malaysian Airlines sia dovuto alla «spinta dell’America per il dominio globale» e alla «corruzione politica del capitalismo oligarchico diretto dallo stato in Ucraina» unitamente all’«interesse personale di una nuova Unione Europea guidata dai liberali». Nonostante nel 2018 un’inchiesta internazionale sull’abbattimento del volo di linea MH17 della Malaysia Airlines abbia sancito, con prove inconfutabili, che ad abbattere l’aereo in volo da Amsterdam a Kuala Lumpur fu un missile Buk proveniente dalla 53esima brigata missilistica antiaerea russa di stanza a Kursk, questa monografia completamente ingannevole è ancora disponibile per l’acquisto online. Non solo. Né la Manchester University Press né l’autore si sono scusati per aver pubblicato menzogne a titolo definitivo presentandole al pubblico sotto la veste di studio accademico.

Nel caso di Karen Dawisha, la Cambridge University Press ha ritardato e, infine, rifiutato la pubblicazione del suo studio sulla corruzione russa, una delle indagini più esaurienti sulla plutocrazia e sull’autoritarismo del regime putiniano. La motivazione ufficiale dell’editore è stata che i rischi legali erano troppo grandi, «dato il controverso argomento del libro, e la sua premessa fondamentale che il potere di Putin è fondato sui suoi legami con il crimine organizzato».

Il caso italiano

Il paper di Kateryna Smagliy si occupa anche del nostro Paese evidenziando come il Cremlino abbia effettuato notevoli investimenti all’interno delle istituzioni culturali e accademiche italiane. La fondazione Russkiy Mir ha aperto tre centri di cultura russa all’Università di Milano, all’Università di Pisa e all’Orientale di Napoli. La professoressa Oxana Pachlovska ha osservato che «la fondazione Russkiy Mir, nonostante la crisi economica in Russia, rimane concentrata e lavora sodo. Persino rispettabili intellettuali [italiani] “stanno in fila” per ricevere “i soldi di Putin”, perché la crisi finanziaria dell’Europa ha colpito piuttosto duramente le università. I professori di storia russa hanno la possibilità [finanziaria] di tenere conferenze, pubblicare libri, organizzare scambi di studenti e tali opportunità sono semplicemente non disponibili per gli esperti di studi slavi».

Tra gli atenei italiani citati nello studio compare anche la prestigiosa Università Ca’ Foscari di Venezia, in relazione a un episodio avvenuto nel 2014 che vide protagonista l’allora prorettore Silvia Burini, oggi come già allora direttrice del Centro Studi sulle Arti della Russia (CSAR) della medesima università. In quell’anno in cui la Russia annesse illegalmente la Crimea, il senato accademico dell’Università Ca’ Foscari decise di assegnare al ministro della cultura russo Vladimir Medinsky, noto tra le altre cose per sostenere la rinascita del culto di Stalin, il titolo di professore onorario (“Honorary Fellowship”) per il suo lavoro accademico e il suo ruolo nello sviluppo della cultura russa. 

Alcuni accademici e intellettuali italiani scrissero una lettera aperta per protestare contro questa decisione, affermando che «le università dovrebbero sostenere la ricerca libera e non una cultura che serve un regime politico». A causa di questo scandalo, Medinsky cancellò la sua visita all’Università e Burini fu costretta a volare a Mosca per consegnargli tale riconoscimento. La decisione di assegnare a Medinsky quel titolo fu molto probabilmente influenzata dalla speciale predilezione delle autorità russe per l’ateneo veneziano. Il CSAR era stato inaugurato il 6 marzo 2011 da Svetlana Medvedeva, presidente della Fondazione russa per le Iniziative socio-culturali e moglie dell’allora presidente russo Dmitri Medvedev.

Nel lavoro della Smagliy si menzionano anche i rapporti tra la Lega di Matteo Salvini e il Cremlino e il ruolo dell’associazione culturale Lombardia-Russia nel promuovere in Italia narrazioni filorusse. Siamo certi che nei prossimi mesi il capitolo Italia si arricchirà di nuovi elementi dal momento che il nostro Paese è l’unico in Europa a essere governato da una coalizione dichiaratamente filorussa.

Tornando all’analisi della studiosa ucraina, l’augurio è che la lettura di questo documento, facilmente reperibile online, faccia riflettere le istituzioni accademiche italiane e apra anche gli occhi di tutti coloro che nel nostro Paese continuano a rubricare i tour di scrittori ucrainofobi ed euroasiatici quali Limonov e Prilepin nella categoria “cultura/letteratura”.




Così big data e intelligenza artificiale stanno battendo il coronavirus in Cina

Così big data e intelligenza artificiale stanno battendo il coronavirus in Cina

La Cina ha un alleato prezioso nella sua lotta, a quanto pare vincente, contro il Coronavirus: la tecnologia. Mentre i numeri continuano a palesare che nella Repubblica Popolare Cinese i contagi stanno progressivamente scendendo (quasi nulli, ormai, al di fuori della provincia dell’Hubei), trapelano dettagli interessanti sulla macchina messa in piedi da Xi Jinping per frenare l’epidemia.

E sono dettagli che convalidano la visione del leader, che ormai da tempo ha sposato l’idea di una Cina pioniera delle nuove tecnologie, e non più solo fabbrica del mondo.

Le cronache dal fronte cinese ci raccontano di come, in queste settimane, i colossi dell’industria tech del Paese stiano svolgendo un ruolo di primo ordine nella lotta al coronavirus. E confermano anche che la tanto discussa raccolta dei dati personali dei cittadini, che in Cina viene eseguita con fin troppa parsimonia, sta risultando un alleato preziosissimo in questi giorni di emergenza.

La chiamata alle armi di Xi
Oltre un mese fa, Xi Jinping ha lanciato un appello alle aziende tecnologiche del Paese. Una sorta di chiamata alle armi contro l’epidemia. Del resto, sono passati più o meno diciotto anni dall’ultima grande emergenza sanitaria che ha vissuto il Paese: la Sars. Diciotto anni in cui la Cina è cambiata radicalmente, diventando player di primo ordine in settori strategici come la gestione dei dati e l’utilizzo dei software intelligenti.

All’appello di Xi, i colossi come Alibaba, Baidu e Tencent hanno reagito prontamente, mettendo sul tavolo tutte le loro migliori innovazioni: Big Data, Intelligenza Artificiale, robotica e device connessi. Un vero e proprio arsenale di nuove tecnologie messe a disposizione della Repubblica Popolare.

Dai Big Data all’Intelligenza Artificiale
Grazie ad applicazioni che utilizzano i Big Data, il governo ha intensificato il suo sofisticato e criticato sistema di sorveglianza, che vanta circa 200 milioni di telecamere di sicurezza installate in tutto il Paese. Oggi, lo stesso sistema viene utilizzato per far rispettare la quarantena ai pazienti infetti e per mappare i movimenti del virus.

Un po’ in tutta la Cina, inoltre, è cresciuto esponenzialmente – in queste settimane – l’utilizzo di telecamere intelligenti in grado di intercettare le persone che non indossano una mascherina, ma anche di effettuare una scansione termica in real time così da individuare eventuali casi di febbre.

SenseTime, una delle principali società di intelligenza artificiale in Cina, ha reso noto che il suo software di rilevamento della temperatura “contactless” è stato implementato nelle stazioni della metropolitana, nelle scuole e nei centri pubblici di Pechino, Shanghai e Shenzhen. La stessa società ha inoltre sviluppato una piattaforma in grado di riconoscere i volti, anche se i cittadini scansionati indossano le mascherine.

Alibaba, invece, ha sviluppato un nuovo sistema di diagnosi del Covid-19 basato sull’intelligenza artificiale che permette di rilevare – tramite scansioni tomografiche computerizzate (quindi tramite TAC) – nuovi casi di coronavirus con un tasso di accuratezza fino al 96%. Il tutto in 20 secondi, quindi abbattendo notevolmente i tempi d’attesa dei tradizionali tamponi.

I caschi intelligenti e gli smartphone
Secondo quanto riferisce il quotidiano cinese Global Times, le forze di polizia della città di Chengdu (nella provincia del Sichuan) utilizzano caschi intelligenti in grado di misurare la temperatura di chiunque, entro un raggio di 5 metri.

Ma è lo smartphone il dispositivo cardine, in questi giorni di emergenza. Grazie ad alcune applicazioni, i cittadini cinesi e le autorità stanno affrontando questa storia in modo molto più organizzato. Un’app chiamata Alipay Health Code (sviluppata dal colosso Alibaba) assegna ad ogni cittadino un colore: verde, giallo o rosso. Come un semaforo.

E questo indica chi può essere ammesso negli spazi pubblici, chi ha problemi di salute e chi deve rimanere a casa, in quarantena. L’app utilizza i big data in possesso alla Sanità cinese per identificare potenziali portatori di virus ed è stata adottata in oltre 200 città della Repubblica Popolare.

Anche Tencent, la holding che sta dietro alla popolare app di messaggistica WeChat (la più diffusa in Cina), ha lanciato una cosa simile basata su un codice QR. L’app si chiama “close contact detector” e avvisa gli utenti se entrano in contatto con un potenziale cittadino portatore di virus.

Il maggior operatore telefonico del Paese, China Mobile, ha condiviso con alcuni media i dati di spostamento dei suoi utenti affetti da virus: dal treno preso, fino alla metropolitana o al supermercato. E questo è servito a tracciare, in determinate città, le possibilità di contagio.

Le paure per la privacy
L’efficienza della macchina tecnologica cinese, nel rallentare il contagio da coronavirus sembra un fatto ormai accertato. Ciononostante, rimangono pensanti dubbi sugli effetti – diretti e indiretti – che questa nuova massiccia raccolta di dati potrà avere sulla privacy dei cittadini cinesi.

Molte delle app menzionate, infatti, richiedono agli utenti di registrarsi con il loro nome, numero di identificazione nazionale e numero di telefono. E attualmente non c’è grande trasparenza sul modo in cui il governo di Pechino stia effettuando i controlli incrociati. Più le app diventano diffuse, più cresce la paura che si possano verificare casi di discriminazione verso i cittadini invetti da coronavirus. È l’altra faccia della medaglia di questa storia. La più inquietante.