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IGPDecaux presenta la campagna Segnali d’Italia Milano

IGPDecaux presenta la campagna Segnali d’Italia Milano

Dare risalto alle persone, ai mestieri, ai luoghi che meritano di essere conosciuti, valorizzati e presi ad esempio, a quelle storie che hanno fatto del bene comune il loro impegno quotidiano. Questo l’obiettivo di Segnali d’Italia Milano, la Campagna ideata e promossa da IGPDecaux che arriva ora a Milano, dopo il successo dell’edizione 2018 che ha visto come protagoniste le città di Parma e Napoli.
Realizzata da IGPDecaux, in media partnership con Corriere della Sera, in main partnership con Edison e Viacom International Media Networks Italia con il suo brand MTV, in collaborazione con Fondazione Italiana Accenture e Fondazione Sodalitas, Segnali d’Italia Milano sarà presente sui circuiti Out of Home di IGPDecaux in tutta la città, dal 20 dicembre 2019 e fino ai primi giorni di febbraio 2020.

La Campagna, presentata durante l’incontro di mercoledì 27 novembre, alle ore 12.30, presso la Sala Azionisti Edison (Foro Bonaparte 31), si è svolta alla presenza di Roberta Guaineri, Assessora a Turismo, Sport e Qualità della vita, Claudio Bertona, Project Leader di Segnali d’Italia, Cristina Parenti, Senior Vice President Communications and External Relations di Edison, Chiara Giacoletto Papas, Senior Director Pr & Communication di Viacom International Media Networks Italia, Valentina Pellegrini, CdA di Fondazione Ernesto Pellegrini ONLUS, Camilla Archi e Luca Bolognesi della startup Bella Dentro e Giangiacomo Schiavi, giornalista di Corriere della Sera e moderatore dell’incontro.

Undici le storie individuate da IGPDecaux, Corriere Milano e Buone Notizie – l’impresa del bene per raccontare l’impegno della città e dei suoi cittadini nel contribuire a migliorare la vita sociale e culturale della metropoli. Storie esemplificative di realtà spesso poco conosciute, di persone, artigiani, associazioni e imprese che sono riuscite a creare qualcosa di nuovo e socialmente utile, puntando sulla creatività e sul recupero di spazi inutilizzati, valorizzando il patrimonio esistente, dando così vita ad un circolo virtuoso di nuovo sviluppo, occupazione e interazione. Come quella dell’azienda agricola Cascina Campazzo, nel Parco Ticinello, un’oasi verde che ha combattuto oltre 40 anni per realizzare un progetto di integrazione territoriale tra agricoltura e città, riuscendo a far comprendere alle istituzioni quanto le aree agricole abbiano tutt’oggi una funzione e un valore sociale. Ma anche del Gruppo L’Impronta, non profit presente nel quartiere Gratosoglio a sud di Milano, che grazie al suo team di 150 persone, offre luoghi di accoglienza, attività educative e di formazione ad oltre 500 persone fragili e con disabilità; il Gallab, nato da un’ex falegnameria nel quartiere Gallaratese che ha dato vita ad un luogo dove coltivare una passione, imparare un mestiere, valorizzare il dialogo intergenerazionale creando nuove forme di aggregazione e propulsione sociale.

A partire dal 20 dicembre e per tutta la durata della Campagna, le pagine di Buone Notizie e Corriere Milano del Corriere della Sera daranno spazio, di settimana in settimana, a ciascuna delle storie raccontate.
Ma Segnali d’Italia Milano, quest’anno si arricchisce di un ulteriore elemento: il progetto sarà anche il mezzo per invitare il mondo del terzo settore milanese – associazioni non profit, imprese sociali e comitati cittadini – a presentare progetti di interesse collettivo e partecipare al Bando SEGNALI D’ITALIA CHIAMA MILANO: una Giuria composta da esperti e dai partner della Campagna, selezionerà i due progetti più meritevoli, per idea, efficacia, fattibilità e realizzazione, assegnando a ciascuno un premio in denaro, da utilizzare per l’implementazione dell’attività o per la sua comunicazione.

Quindicimila euro a ciascuno dei due progetti selezionati verranno assegnati da Edison partner della Campagna e da Viacom International Media Networks Italia con il suo brand MTV che focalizzerà l’attenzione sul progetto che si è distinto per aver saputo coniugare al meglio i temi di rigenerazione urbana e street art.  IGPDecaux invece destinerà quindicimila euro in spazi pubblicitari a ciascuno dei due progetti vincitori.

Dal 20 dicembre sarà possibile accedere alla piattaforma digitale ideatre60 di Fondazione Italiana Accenture e compilare il form del bando, oppure accedere ad essa tramite il sito www.segnaliditalia.it per iscrivere il proprio progetto e partecipare a SEGNALI D’ITALIA CHIAMA MILANO: c’è tempo fino al 28 febbraio 2020.
Inoltre, l’iniziativa sarà supportata da un’attività social e web incentrata sull’hashtag #segnaliditalia declinata sui canali IGPDecaux dal 20 dicembre al 29 febbraio 2020.

“La nostra radicata presenza nelle città e di conseguenza la profonda conoscenza delle stesse ci hanno portato a credere che l’Italia sia ricca di peculiarità ed eccellenze locali da scoprire e valorizzare e di cui essere orgogliosi. Per questo abbiamo promosso la Campagna Segnali d’Italia – afferma Fabrizio du Chène de Vère, Amministratore Delegato di IGPDecaux. Crediamo che l’Out of Home sia il mezzo più efficace per valorizzare lo spazio urbano come luogo di comunicazione, in grado di parlare alla gente proprio perché presente tra la gente, accompagnandola ogni giorno nei suoi spostamenti cittadini. Proprio per questo abbiamo scelto di proporre il progetto qui a Milano per invitare il mondo del terzo settore milanese a dare voce al proprio impegno”.

La Campagna Segnali d’Italia Milano è realizzata in media partnership con Corriere della Sera. Main partner sono Edison e Viacom International Media Networks Italia con il suo brand MTV. Collaborano al progetto Fondazione Italiana Accenture e Fondazione Sodalitas.

Advisor della comunicazione è The Round Table, la creatività è di Cookies & Partners, i fotografi sono Stefano Guindani e Giacomo Maestri.




La miglior strategia di marketing: diventare ambientalisti

La società, e quindi i consumatori, è sempre più attenta alle tematiche ambientali sia in termini di inquinamento che di utilizzo delle risorse. Per un’impresa essere ‘’compliant’’’ fornisce un importante vantaggio competitivo ma il processo di transizione in ambito di sostenibilità può rivelarsi molto costoso.

Cosa comporta l’inquinamento?

I danni prodotti dall’inquinamento delle acque e dell’aria sulle persone e sull’ambiente sono sempre più studiati. Di poche settimane fa la notizia dell’eccezionale acqua alta a Venezia, provocata dal riscaldamento globale e dall’innalzarsi del livello del mare, che ha portato alla morte di due persone e a danni economici non ancora precisamente quantificati. Rimanendo nel bel paese, un altro caso simbolo dell’impatto dell’inquinamento sulla vita delle persone è l’Ilva di Taranto, acciaieria che utilizza tecnologie obsolete. Nel capoluogo ionico da anni si osservano tassi più alti rispetto la media di incidenza per malattie oncologiche associate all’esposizione industriale. Superiore alla media è anche il tasso di leucemie infantili. Inoltre, la relazione Lancet del 2017, ha evidenziato come tra il 2000 e il 2016, a livello mondiale, gli eventi atmosferici estremi sono aumentati del 46% e nell’ultimo decennio il trend è peggiorato, con un aumento degli eventi estremi di ben l’86%, causando danni per 129 miliardi di dollari solo nel 2016

Quanto vale sul mercato essere ‘’green’’?

La popolazione richiede sempre più investimenti e cura dell’ambiente, l’istituto di ricerca Nielsen, a tal proposito, riporta che il 66% dei consumatori è disposto a pagare di più per acquistare prodotti di brand sostenibili. I consumatori sceglieranno insomma le aziende che sono state in grado di costruirsi una reputazione valida in termini di sostenibilità ambientale e che sono noti per i loro sforzi in questo senso. Inoltre l’economia verde, a basse o nulle emissioni di carbonio e circolare nell’uso delle risorse, sta attirando un crescente interesse anche degli investitori, generando un numero sempre crescente di nuove iniziative finanziarie e di maggiore qualificazione di quelle in corso.

Cosa vuol dire essere green?

Dal punto di vista aziendale risulta quindi sfidante diventare più ‘’green’’ dei competitor. Nella pratica ciò comporta la realizzazione di una strategia di sostenibilità ambientale che includa ogni aspetto delle attività aziendali, dall’approvvigionamento delle materie prime alla consegna del prodotto finale. Essere un’azienda green significa svilupparsi in ottica di sostenibilità in diverse aree: dall’efficienza energetica, allo sviluppo di progetti green ma anche orientarsi verso una gestione ‘’paper less’’. È fondamentale analizzare cosa si aspettano in termini di sostenibilità ambientale i consumatori target, comunicare al mercato l’innovazione, essere trasparenti in ciò che si sta facendo in termini di sostenibilità ed utilizzare un’etichettatura dei prodotti in grado di fornire ai clienti informazioni sui prodotti
Così facendo da un lato si riuscirà ad incrementare l’awareness riguardo le iniziative sostenibili dell’azienda e dall’altro aumentare il valore di mercato dell’azienda stessa: quando il valore percepito di ciò che offri sale, il consumatore sarà molto più predisposto a considerare l’acquisto del tuo prodotto.

Quali sono i costi del passaggio?

La Commissione europea ha posto come obiettivi energetici e climatici al 2030, una riduzione almeno del 40% delle emissioni di gas a effetto serra, il raggiungimento di una quota pari almeno al 32% di energia rinnovabile e un miglioramento almeno del 32,5% dell’efficienza energetica. Per raggiungere questi obiettivi è richiesto un aumento degli investimenti annui di 180 miliardi.
Dunque, sta diventando sempre più imprescindibile per le aziende allinearsi alle richieste dei consumatori in logica di sostenibilità ma i costi da sostenere, spesso ingenti, spesso rallentano il processo. Perciò è importante porre in essere un’attenta analisi costo-beneficio e per le aziende che saranno pioniere in logica di sostenibilità sarà più facile accaparrarsi quote di mercato non indifferenti
 




Uber: come le società possono sfruttare le innovazioni tecnologiche

Lo scorso 10 maggio a Wall Street ha debuttato Uber, la società di taxi privati. Il debutto non è stato dei migliori e la società, ad oggi, non ha fatto che perdere valore. Uber, che nel momento in cui si è quotata in borsa operava in perdita, non ha mostrato miglioramenti nel terzo trimestre dell’anno segnando una perdita netta di 1,16 miliardi.
Se da una parte la paura degli investitori può esser dovuta alla sorte della competitor Lyft, quotata in borsa poche settimane prima oppure alle tensioni commerciali tra Usa e Cina, molti analisti avranno certo osservato come il modello di business di Uber non è sostenibile. Come sottolineato dal Ceo dell’azienda prima della quotazione, essa potrebbe non fare mai utili. Ciò è dovuto principalmente al fatto che l’azienda non può sfruttare le economie di scala, usate normalmente per abbattere i costi all’aumentare della produzione, in quanto all’aumentare degli utenti, dato il servizio erogato dalla società, aumentano inevitabilmente anche i costi da sostenere.

Fare di una debolezza un’opportunità

Per sopperire al problema da anni l’azienda sta sviluppando la guida autonoma, facendo investimenti per svariati miliardi di dollari. Solo il passaggio alla guida autonoma, senza quindi più la necessità di un autista, potrebbe rendere sostenibile il modello di business dell’azienda che riuscirà ad abbattere i costi.
Nonostante i progressi raggiunti nell’ultimo periodo, le automobili che si guidano da sole continuano ad avere qualche problema nel gestire alcune delle situazioni più imprevedibili, che si presentano quando ci si muove per strada. Se da una parte le auto a guida autonoma sono affidabili in situazioni in cui ci sono poche variabili e le manovre non sono complicate, come in autostrada, esse risultano meno sicure nel traffico cittadino dove la presenza di semafori, incroci e pedoni aggiungono diverse complicazioni per i software che decidono come far muovere l’automobile.
Gli studi verso un’auto in grado di guidarsi da sola si stanno sviluppando velocemente, tra enormi progressi e situazioni drammatiche come nel caso di Elaine Herzberg, la donna investita da un’auto autonoma. nonostante questo incidente gli studi continuano al fine di migliorare l’affidabilità delle vetture. Avere un sistema di giuda autonoma permetterà infatti non solo il pareggio di bilancio di aziende quali Uber ma anche di salvare molte vite. Come già nel 2013 diceva Anthony Levandowski, l’ingegnere dietro il progetto Waymo: “Ogni anno in cui ritardiamo [il passaggio alla guida autonoma] più persone muoiono a causa degli incidenti stradali’’.




Mary Cain, la confessione della stella dell’atletica Usa: “Spinta a dimagrire dal team della Nike, mi tagliavo. Nessuno mi ha aiutata”

Mary Cain, la confessione della stella dell’atletica Usa: “Spinta a dimagrire dal team della Nike, mi tagliavo. Nessuno mi ha aiutata”
Il caso rivelato al New York Times sta scuotendo il mondo dello sport americano. Nel mirino il Nike Oregon project, il miglior programma del paese per la preparazione di atleti promettenti. Formato da soli uomini e capeggiato dall’allenatore Alberto Salazar, che la umiliava davanti ai compagni se non perdeva peso. Mary per tre anni non ha avuto il ciclo, si è procurata cinque fratture per l’osteoporosi ed è diventata autolesionista. Tutti vedevano, ma nessuno ha fatto niente. Ora Nike ha aperto un’indagine interna


Un video confessione che svela il dietro le quinte di una giovane sportiva ai massimi livelli. Di una promessa dell’atletica stroncata da un allenatore e un team fatto di soli uomini ossessionati dal suo peso, che doveva ridursi sempre di più. Così all’astro nascente del Nike Oregon Project Mary Cain, per tre anni, è scomparso il ciclo e, a causa dell’osteoporosi dovuta al grave squilibrio ormonale, si è causata cinque fratture. Una tortura “fisica e psicologica” sfociata anche nell’autolesionismo a cui però nessuno faceva caso. Perché bisognava soltanto vincere, “no matter what“. Un caso che sta scuotendo il mondo dell’atletica americana, con decine di sportivi che esprimono la loro solidarietà a Mary e chiariscono: quello che è capitato a lei è successo anche a tante altre ragazze.
L’esperienza nel Nike Oregon Project – Mary Cain, che oggi ha 23 anni, ha fatto nomi e cognomi in un video del New York Times Nike ha aperto un’indagine interna per verificare la fondatezza delle accuse. La multinazionale sportiva aveva infatti creato il suo team, considerato molto prestigioso, per promuovere l’atletica. Era il migliore programma del paese per chi aveva qualità promettenti e l’accesso era concesso soltanto ad atleti dal grande potenziale. Una di loro era Mary Cain: a 17 anni si era qualificata per la finale dei 1.500 metri ai Mondiali di Mosca nel 2013, diventando così la più giovane a rappresentare gli Usa nell’atletica. Era anche la mezzofondista americana più giovane e più veloce di tutti i tempi, quelle che tutti pensano destinate a vincere le Olimpiadi.

Nel 2012 chi la allenava era Alberto Salazar, a capo del Nike Oregon Project: quello che veniva considerato l’allenatore perfetto, quello dei record. Vincitore della maratona di New York e dello IAAF Coaching Achievement Award nel 2013, due anni dopo sarà accusato di essere coinvolto in casi di doping. Motivo per cui nel 2019 è stato sospeso per 4 anni dal mondo dell’atletica e il Nike Oregon Project è stato chiuso.

In mezzo, però, c’è la vicenda di Mary. Il team tutto maschile incaricato della sua preparazione atletica, con Salazar in testa, premeva costantemente sul fatto che dovesse dimagrire. Era ossessionato dal suo peso, sempre di più. Una linea che ha avuto conseguenze pesantissime per Mary: la sua vita si era trasformata in un crescendo di umiliazioni, autolesionismo, pensieri di suicidio e perdita del ciclo, con squilibri ormonali per cui è arrivata a procurarsi cinque fratture. Il team del Nike Oregon Project sapeva tutto, la vedeva. Ma non faceva niente, non si curava né del suo disagio fisico né di quello mentale. “Ero entrata perché volevo essere la migliore atleta di sempre – ha detto Mary al Nyt – e invece sono stata emotivamente e fisicamente violentata da un sistema ideato da Alberto e avallato dalla Nike“. Il suo allenatore, ha continuato, “era costantemente impegnato a cercare di farmi perdere peso. Aveva creato un numero arbitrario di 114 libre (51,7 chili). Di solito mi pesava di fronte ai miei compagni di squadra e mi umiliava davanti a tutti se non stavo perdendo peso. Voleva darmi la pillola anticoncezionale e dei diuretici per raggiungere lo scopo”. Una situazione di non ritorno: “Mi sentivo impaurita e incastrata, iniziai ad avere pensieri suicidi. Ho iniziato a tagliarmi. Alcuni vedevano che mi tagliavo. Ma nessuno ha mai fatto o detto qualcosa”. Quando spiega ai suoi genitori cosa stesse accadendo loro la riportano subito a casa. “A quel punto non pensavo neanche più alle Olimpiadi – dice – stavo solo cercando di sopravvivere”.
Rivelazioni sulle quali Nike ha avviato indagini interne. E le rivelazioni di Mary sono ulteriormente supportate da Steve Magness, ex assistente di Salazar poi diventato whistleblower di quanto accadeva dietro le quinte degli allenamenti del Nike Oregon Project. Ricorda, parlando col Guardian, quando gli chiesero di convincere un’atleta a perdere peso. Guardando i dati, osservò che i valori erano in linea, che non c’era nessuna necessità di dimagrire. Ma a quel punto la risposta fu: “Non mi importa quello che dice la scienza, so quello che vedo coi miei occhi. Ha il culo troppo grosso’. Nella stanza – precisa – non c’era nessuno a cui importassero benessere e salute. Quando la cultura di porta all’estremo, è questo quello che succede”.




LAVORARE PER 4 GIORNI AUMENTA LA PRODUZIONE DEL 40%. PERCHÉ NON LO FACCIAMO IN ITALIA?

LAVORARE PER 4 GIORNI AUMENTA LA PRODUZIONE DEL 40%. PERCHÉ NON LO FACCIAMO IN ITALIA?

Lavorare meno, lavorare tutti. Dopo lo tsunami causato dalla crisi finanziaria del 2008, questo slogan è entrato prepotentemente nel dibattito pubblico e, di recente, anche nelle istituzioni italiane. 

Il nuovo presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, sostiene da tempo che una riduzione dell’orario di lavoro, a parità di stipendio, sia una leva per far aumentare l’occupazione e per ridistribuire la ricchezza. Secondo il custode delle pensioni italiane, gli incrementi di produttività andrebbero compensati con un aumento della retribuzione o con maggiore tempo libero.
Le aziende ricorrono sempre più spesso all’utilizzo del termine flessibilità per calibrare l’orario di lavoro dei dipendenti. Peccato che il concetto di lavoro flessibile finisca spesso con l’essere utilizzato a svantaggio dei lavoratori. Il laptop e il cellulare aziendale ti permettono di lavorare agevolmente da remoto ma ti costringono anche a leggere le email di lavoro a orari improbabili. Il lavoro part time in Italia rappresenta sempre più spesso l’unica possibilità per evitare di rimanere senza un’occupazione, e il lavoro flessibile assume sempre più spesso la connotazione di lavoro precario, con meno tutele e meno stabilità di chi ha un impiego fisso. Il bilanciamento tra attività lavorativa e vita privata viene messo in secondo piano, sacrificato sull’altare delle esigenze aziendali.

Quando le società decidono di porre attenzione sulle esigenze dei propri dipendenti, tuttavia, i risultati possono essere sorprendenti. In Giappone, Microsoft Japan ha sperimentato la settimana lavorativa di quattro giorni senza nessuna riduzione della retribuzione. Secondo i dati forniti dall’azienda nipponica, la produttività è aumentata del 40% durante il periodo di prova. La durata delle riunioni interne si è dimezzata e si sono registrati risparmi in termini di elettricità e di carta utilizzata, con un effetto positivo anche sull’ambiente. La sperimentazione è stata accolta con entusiasmo dai dipendenti e dai giapponesi che hanno da molti anni un serio problema di superlavoro con ritmi insostenibili che hanno portato anche a morti per lavoro eccessivo davvero inaccettabili.

Restando in Giappone, anche la catena di abbigliamento Uniqlo, nel 2015, ha offerto ai propri dipendenti la possibilità di lavorare soltanto quattro giorni a settimana. In questo caso, però, le ore di lavoro giornaliere venivano aumentate fino a dieci. Nonostante i ritmi particolarmente intensi, però, l’esperimento è riuscito a coniugare l’approvazione dei dipendenti con un aumento della produttività. La settimana corta è stata implementata anche dalla Perpetual Guardian, una società neozelandese che dopo gli incrementi di produttività registrati durante il pilot ha deciso di rendere la policy permanente. Il fondatore della società, Andrew Barnes, ritiene infatti che la settimana lavorativa di quattro giorni non implichi soltanto un giorno in più di riposo ma sia in grado di spronare i dipendenti nel mantenere uno standard elevato volto a soddisfare le esigenze dei clienti. Se un lavoratore viene messo nella condizione di poter bilanciare vita privata e professionale a quanto pare è più felice e questo lo fa lavorare meglio. Questa non sembra una relazione tanto sorprendente eppure ancora in pochi al mondo sembrano comprenderla.


Alcune analisi economiche hanno stabilito come all’aumentare dell’orario di lavoro la produttività del singolo dipendente diminuisca. Ad esempio, una conference call fatta dopo una giornata particolarmente stressante rischia di durare molto più del dovuto. La fatica gioca un ruolo importante nell’organizzazione del lavoro. È arrivato il momento per le aziende di prendere in seria considerazione questo aspetto. La gig economy è stata uno strumento utilizzato in larga parte dalle imprese per diversificare la propria offerta di prodotti e servizi. La forza lavoro non ha tratto particolari benefici dalla rivoluzione tecnologica che, al contrario, ha spesso incentivato la creazione di nuovi lavori con pochissime tutele, come nel caso dei riders.
C’è da dire che le imprese che forniscono servizi – ancora troppo poche in Italia – hanno una struttura più agile in grado di rispondere velocemente alle riforme legislative. La natura industriale italiana al momento sarebbe difficilmente compatibile con una modifica per legge della settimana lavorativa. Le realtà produttive sono ancora legate a un sistema di relazioni industriali tradizionale, dove il sindacato e la contrattazione collettiva hanno un ruolo centrale. Molte aziende, dunque a oggi non sarebbero in grado di garantire un giorno in meno di lavoro a parità di salario, e un intervento legislativo in questo senso rischierebbe di produrre risultati indesiderati, come il calo dell’occupazione e tensioni sociali nelle realtà produttive meno avanzate. È fondamentale quindi procedere con ordine, incentivando le aziende più innovative a svolgere il ruolo di apripista, ridistribuendo i loro incrementi di produttività verso il benessere dei lavoratori. Il sindacato dovrebbe ricoprire un ruolo chiave anche in questo senso. Procedere per decreto potrebbe essere controproducente. Una diversa regolamentazione dell’orario di lavoro da inserire nei singoli contratti collettivi sarebbe invece molto utile. Per le aziende più innovative è ormai imprescindibile uscire dalla vecchia logica che guarda all’orario come mero e primario strumento di controllo per entrare in una nuova era in cui le ore lavorative vengono commisurate alla produttività e al benessere dei dipendenti.

Per quanto riguarda il ruolo del sindacato nel settore industriale, un esempio virtuoso viene dalla Germania, dove il sindacato Ig Metall ha sottoscritto un accordo con le associazioni industriali grazie al quale i dipendenti potranno scegliere di ridurre il proprio orario di lavoro a 28 ore settimanali, dedicando il tempo libero ai figli piccoli o ai parenti malati. Questa possibilità è stata estesa anche ai lavoratori che svolgono attività particolarmente usuranti. L’accordo dimostra come i lavoratori abbiano ancora bisogno di rappresentanti in grado di tutelare i loro diritti e migliorare la loro qualità della vita. Il contratto collettivo è stato sottoscritto nella regione che ospita gli stabilimenti della Porsche e della Daimler e riguarda oltre novecentomila lavoratori. L’obiettivo è estendere la riduzione di orario ai quasi quattro milioni di lavoratori del settore metalmeccanico.

Come ogni transizione, sono molte le insidie che potrebbero frapporsi tra la diminuzione dell’orario di occupazione e un effettivo aumento del benessere dei dipendenti. I datori di lavoro potrebbero mantenere un doppio regime secondo il quale alcuni dipendenti sarebbero obbligati a prestare attività lavorativa per quattro giorni a settimana mentre la restante parte della forza lavoro continuerebbe a lavorare per cinque giorni settimanali. In questo scenario sarebbe molto facile andare incontro a diverse discriminazioni: un bonus legato alle presenze di importo inferiore, meno giorni di ferie, il rischio di essere emarginati dai colleghi che lavorano di più. È molto importante accompagnare la transizione rafforzando le tutele contro le discriminazioni sul luogo di lavoro. L’Italia, con i rapporti di lavoro part timesta già vivendo una sorta di segregazione nel mercato del lavoro. Evitare di costruirne di nuove potrebbe essere una buona idea.

Il declino del sindacato, soprattutto se osservato dalle giovani generazioni, è un elemento di criticità che non aiuta certo a conquistare diritti. Circa la metà degli iscritti alle organizzazioni sindacali sono ormai pensionati. L’individualismo a cui siamo arrivati non ci consente di arrivare efficacemente alla conquista dei diritti collettivi. Spesso ci si limita ad auspicare un intervento delle aziende virtuose che dovrebbe produrre un effetto volano su tutti i lavoratori, sfruttando la reputazione delle società leader e la loro posizione sul mercato. Ma le leggi esistenti sull’orario di lavoro, lo Statuto dei lavoratori, le norme che regolano i licenziamenti collettivi sono arrivate grazie alla pressione esercitata dai rappresentanti. L’unione fa la forza è sicuramente un principio che nel lavoro vale più che in altri contesti.
Per lavorare meglio, ormai sembra chiaro che bisogna lavorare meno. Raggiungere l’obiettivo richiede però uno sforzo collettivo che un tempo si sarebbe raggiunto solo attraverso le organizzazioni sindacali tradizionali. Oggi le forme di aggregazione sociale sono molto diverse e sono soprattutto molto frammentarie. Per conquistare diritti però bisogna restare uniti. I giovani, non molti, che hanno la fortuna di avere un’occupazione stabile in Italia hanno la possibilità di unirsi per chiedere condizioni di lavoro migliori per loro e per chi ancora deve trovare un lavoro. Con la rivoluzione tecnologica ci è stato promesso un formidabile miglioramento delle nostre condizioni di vita. È arrivato il momento di prenderci quello che è nostro, convincendo le imprese che il loro successo passa anche attraverso il nostro benessere.