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“In Italia manca un protocollo sulla comunicazione dell’emergenza”. La denuncia di Michele Zizza su HuffPost

“In Italia manca un protocollo sulla comunicazione dell’emergenza”. La denuncia di Michele Zizza su HuffPost

Su HuffPost Italia il giornalista e ricercatore Michele Zizza affronta il tema della corretta comunicazione in casi come quello che stiamo vivendo a causa del coronavirus, denunciando la mancanza di un “protocollo sulla comunicazione dell’emergenza”. Zizza parlerà di questi temi oggi alle 15 in un collegamento la trasmissione ‘Timeline’ sul Skytg24.

In Italia manca un protocollo sulla comunicazione dell’emergenza.

Poche ore fa il premier Conte ha affermato che in questi casi serve anche una buona comunicazione. È stato scritto in un post sulla sua pagina Facebook e lo ha ribadito in un collegamento nella trasmissione condotta da Mara Venier. È vero, in questi “casi” è importante una corretta comunicazione, fondamentale consiglierei al presidente Conte. Intanto vorrei sottolineare che stiamo vivendo un “fatto”, nello specifico un’emergenza, non un’urgenza, ma un’emergenza e l’Italia è il Paese delle emergenze.

Pensiamo ai rischi idrogeologici, agli sbarchi e ora al coronavirus.

Nonostante i continui alert però non siamo ancora dotati di un protocollo per la gestione della crisi per quel che concerne la comunicazione. Palazzo Chigi dovrebbe occuparsene, ma non è stata mai avanzata alcuna proposta. Una timida volontà risale al 2016 quando i Vigili del Fuoco provarono a riunire, intorno a un tavolo, tecnici ed esperti di comunicazione e gestione delle emergenze per parlare di Smem. È stato l’unico momento in cui si è parlato di un documento necessario nel nostro Paese. La gestione dell’emergenza coronavirus ha infatti trovato impreparati molti amministratori locali, sindaci e commissari che hanno fatto fatica a reperire informazioni necessarie per le rispettive comunità. Un altro aspetto importante, emerso in questa emergenza, è stato quello dei tanti protagonisti che hanno voluto dire la loro distogliendo l’attenzione dei lettori dalle fonti ufficiali.

Negli Stati Uniti il fenomeno è descritto nel principio dello Stealing Thunder che descrive perfettamente gli effetti generati da una cattiva comunicazione nelle emergenze. Proprio lo studio dello Stealing Thunder ha permesso di correggere molti errori di comunicazione che nascono nelle crisi. Ad oggi dunque, il presidente del Consiglio, Autorità preposta, non ha promosso alcuna iniziativa per sviluppare un documento da attivare in caso di emergenza. Intanto nelle tv e sui social si è generato un flusso di informazioni che hanno confuso e procurato allarme contribuendo a favorire scelte che hanno condizionato il quadro sociale nelle ultime ore.

Qualcuno sosteneva che la comunicazione non fosse una scienza esatta, purtroppo non è più cosi e le analisi sui pubblici, sui media e sui processi che ne derivano dicono esattamente il contrario e per questo va garantito al Paese un modulo empirico sulla comunicazione che deve coinvolgere le università, il Dipartimento di Protezione Civile, lo Stato Maggiore della Difesa, il Servizio pubblico televisivo, i maggiori media e gli stakeholders chiamati ad affrontare le emergenze. Le linee guida mettono al centro la Presidenza del Consiglio dei Ministri che deve coordinare il lavoro e garantire l’attivazione del protocollo in caso vi sia una emergenza in atto. Alcuni punti sono stati già studiati in sede accademica ma vanno condivisi e ufficializzati altrimenti, anche dopo questa crisi, ne usciremo col risultato di aver imparato a lavare bene le mani ma ancora senza strumenti utili ad affrontare una qualsiasi futura evenienza. Tutt’ora, a distanza di giorni dall’inizio dell’emergenza, le notizie sono tante e riempiono l’ecosistema mediatico e informativo lasciando confusi gli amministratori locali e i cittadini che, purtroppo, nell’era della post verità, vengono influenzati da reclame che fanno leva sul sentimento per ottenere qualche click o creare “l’esca elettorale”. Un protocollo sulla comunicazione dell’emergenza è dunque fondamentale per il nostro Paese e la politica ha il dovere di fornire questo strumento per non rischiare di trovarsi impreparata davanti a futuri scenari di crisi.




4 modi per gestire l’incertezza (solo uno è quello buono)

4 modi per gestire l'incertezza (solo uno è quello buono)

Quando ci troviamo in una  condizione di incertezza, ci è impossibile tenere a bada non solo un contesto che oggettivamente sfugge al nostro controllo, ma i nostri stessi pensieri. 
L’incertezza si traduce in uno stato di allarme che, non avendo un oggetto preciso, è ondivago e  suscettibile a qualsiasi nuovo stimolo esterno.
Tutto ciò provoca irritazione e disagio. Può arrivare a deprimerci, a paralizzarci o a riempirci d’angoscia. 

RIDURRE L’INCERTEZZA. Poiché sentirsi incerti non è per niente piacevole, nel tempo ci siamo inventati mille strategie per tenere a bada l’incertezza: stipulare assicurazioni e altri contratti. Attivare strumenti di pianificazione, previsione e verifica. Rilasciare attestati e certificazioni. Formulare regole e leggi, promesse e giuramenti. Istituire procedure e gerarchie. Sostenere esami ed eseguire accertamenti. Accumulare denaro.

PROGRESSI SCIENTIFICI. Lo sviluppo delle discipline scientifiche è stato, con ogni probabilità, la strategia più efficace fra tutte. Da una parte, il progresso scientifico riduce costantemente, o almeno sposta più in là, il punto in cui gli orizzonti diventano incerti. Dall’altra, la scienza comprende in sé l’idea stessa di incertezza, e la considera nelle proprie teorie, nei propri  metodi, nei processi di validazione.

MARGINI E CONFORT. A partire dal secondo dopoguerra abbiamo costruito un mondo in cui l’incertezza sembra essere progressivamente scivolata ai margini: quelli più remoti, più disagiati, più sfortunati e meno visibili. Valorizziamo l’idea di confort, e tutti gli strumenti che possono procurarcene ancora di più. Sottovalutiamo l’intrinseca fragilità dei sistemi che abbiamo costruito. Ignoriamo la nostra fragilità individuale e quella del pianeta che abitiamo, e che sfruttiamo con rapacità incosciente. 

LA PRETESA DI AVERE RISPOSTE CERTE. Non riusciamo a renderci conto del  fatto che un incremento di complessità, di interconnessione e di opzioni possono solo aumentare – e non certo diminuire – i gradi di incertezza. E non basta: pretendiamo di ottenere risposte chiare e soluzioni efficaci e certe, anche quando è oggettivamente impossibile averne perché la situazione è in sé instabile, ambigua, confusa. O perché è del tutto inedita e imprevedibile nei suoi sviluppi. 

NEGOZIARE CON L’INCERTEZZA. Ci sono però alcune cose che, come singoli individui, possiamo fare. E dovremmo farle non tanto per rendere i tempi meno incerti, quanto per imparare a negoziare con il nostro individuale e senso di incertezza.

QUATTRO ALTERNATIVE. UNA SOLA È BUONA. Del resto, almeno in questo specifico momento, non sembra che abbiamo alternative migliori.
O ci facciamo travolgere dall’incertezza (risultato: disorientamento e caos). Oppure tentiamo – vanamente –  di azzerarla tenendo tutto sotto controllo (risultato: paranoia e frustrazione). O facciamo finta che tutto proceda normalmente (risultato: comportamenti poco sensati e pericolosi).
C’è però una quarta alternativa: accettare l’incertezza, facendo una scelta di flessibilità adattiva. Questo significa anche darsi da fare per cavare, da una situazione negativa, qualche elemento positivo.
D’altra parte, essere adattabili è una delle caratteristiche più preziose della nostra specie. Alla faccia della nostra propensione ad adagiarci nel confort, forse possiamo provare a valorizzarla anche a livello personale.

IL MOMENTO GIUSTO PER IMPARARE. Il nostro cervello non impara in ogni momento, ma individua le situazioni in cui un nuovo apprendimento è necessario, e determina quale tipo di apprendimento è più benefico.
Lavora poco quando i contesti sono prevedibili, ma lavora più intensamente quando le circostanze cambiano. A dircelo è uno studio svolto dall’Università di Yale. Approfittiamone: l’incertezza ci rende più attenti, ci incoraggia a pensare e ci aiuta a imparare qualcosa di nuovo.

PENSARE CON PAZIENZA. Tra le molte cose che possiamo imparare ce n’è una importante: essere pazienti. Scrive lo psicoanalista Luigi Zojala nostra mente non è più abituata ad aspettare e tantomeno a pensare con pazienza. Eppure anche i nostri pensieri difficilmente sono istantanei: quelli veri giungono solo dopo qualche attimo, solo dopo averli “chiamati”. La mente che interviene in modo istantaneo, dunque, si disabitua a pensare articolatamente.

VIA DAL FLUSSO INTOSSICANTE. A proposito di pensieri articolati.
In questo periodo, leggere un romanzo può essere una buona idea e una grande opportunità. Allarga gli orizzonti e fa viaggiare con la mente ben oltre le mura di casa e il perimetro della provincia. Migliora il tono dell’umore e accresce l’empatia. Ce lo dicono i neuroscienziati: leggere romanzi cambia il cervello, per davvero.
In più, ci aiuta a tirare il fiato e a staccare lo sguardo dagli schermi e dal flusso intossicante delle notizie.

LE COSE IMPORTANTI. Dover modificare il nostro modo di lavorare, o non poter più fare cose che fino all’altro ieri ci apparivano scontate, può anche aiutarci a ragionare su ciò che è davvero importante e a capire quali sono le nostre priorità. Magari a ridefinirle, perché forse, senza che ce ne accorgessimo, sono cambiate con il passare del tempo. O forse stanno cambiando proprio adesso.

BENESSERE EMOZIONALE. Inc. elenca 10 priorità per il benessere materiale ed emozionale. Probabilmente non le condividiamo tutte, ma la numero 10 merita, credo, di essere segnalata qui: praticare un sano distacco (nonattacchment) da idee, piani e aspettative, sapendo che la flessibilità rende adattabili. E che essere adattabili aiuta a vivere meglio

INCERTEZZA CREATIVA. Infine: una ricerca dell’Università statale di Mosca, fondata su un’ampia rassegna dei maggiori studi internazionali riguardanti la creatività e su un ugualmente ampio campione, istituisce un legame positivo piuttosto forte tra attitudine creativa e capacità di tollerare l’incertezza. È un motivo ulteriore per provarci.

Un caro saluto da Milano.




La viralità della rete contro il coronavirus

La viralità della rete contro il coronavirus

Per diminuire il rischio degli asintomatici, bisogna tracciarli. E c’è un solo modo che permette di individuare il grosso di questi reparti d’assalto del virus: usare i dati dei social.

La sfilata dei camion militari di Bergamo equivale alle prime immagini dei sacchi neri con i corpi dei caduti americani in Vietnam che arrivarono nel Sessantotto nelle case statunitensi. Da quel momento la guerra fu di tutti, senza illusioni e esorcizzazioni. Ora si tratta di reggere all’offensiva, di trovare il Piave per non far dilagare il contagio.

Una ricerca degli scienziati della regione toscana svolta a Vo’, il comune veneto epicentro dell’epidemia italiana, ci dice che oltre il settanta per cento dell’infezione che ha coinvolto tutta la popolazione comunale è stata indotta dagli asintomatici giovani. Esattamente come spiegava nel suo saggio Tomas Pueyo che abbiamo riportato proprio su queste pagine. Sono proprio le figure sociali più dinamiche e resistenti che infettatesi nelle fasi iniziali del contagio, quando ancora non era scattato l’allarme, oggi producono gli effetti a cascata che contiamo ogni sera con le drammatiche conferenze stampa della protezione civile. 

Gli asintomatici sfuggono a tutte le griglie selettive del sistema sanitario, come ospedali e medici di base, e presumono per altro di avere anche la possibilità di una maggiore circolazione.

Intervenire su questi micro focolai itineranti è indispensabile e urgente. C’è un solo modo che permette di individuare il grosso di questi reparti d’assalto del virus, tracciarli e recintarli o, comunque, sapendo dove si concentrano, pianificare in quelle aree gli sforzi maggiori sull’infrastruttura sanitaria: i social.

Come ci hanno spiegato tutti gli epigoni di Cambridge Analytica, sono i social il luogo dove si rileva ogni impercettibile increspatura umorale ed emotiva, permettendo di realizzare un microtargeting di precisione che mette nel mirino individui e singoli gruppi omogenei su cui intervenire. I listini di borsa ci raccontavano come questa tecnica produca centinaia di miliardi di fatturato per gli OTT. Google e Facebook già fanno queste azioni di scannerizzazione sociale, da anni, e usano e rivendono i dataset localizzati che ricavano dalle loro elaborazioni. 

Attraverso i dati dei social si potrebbe avere una mappatura dei rischi legati alla diffusione del Covid-19

Per cui il problema ora non è come esporre i cittadini a un controllo sociale, ma come usare questa strategia di analisi e profilazione di massa per un interesse universale indifferibile, quale quello della sopravvivenza. Ogni fisima garantista, ogni pedante richiesta di certezze sulle forme della profilazione, che non sia stata già diretta nei confronti di coloro che da tempo fanno strame dei nostri diritti, in virtù di un fine speculativo che diventa anche, come proprio Cambridge Analytica dimostra, una palese interferenza nelle nostre libertà. Il punto allora non è come lo Stato e le comunità locali fanno quello che già fanno Google e facebook, ma quando. 

Dovremmo essere proprio noi cittadini a chiedere agli organismi istituzionali di fare presto, proprio come titolavano i giornali all’indomani del terremoto in Irpinia: “fate presto”. Altro che giocare con dettagli procedurali. Dobbiamo fare subito una mappatura dei punti di disagio e di pre-incubazione che sono rilevabili semanticamente sui social. 

A livello nazionale il governo dovrebbe indicare un centro di responsabilità riconoscibile, un comitato interministeriale, in cui i dicasteri di sanità, innovazione, ricerca e delle regioni possano definire obbiettivi e procedure a partire da un negoziato con le piattaforme della sorveglianza privata che devono concedere le API, le chiavi digitali, per accedere ai dataset che già loro raccolgono.

Questi dati devono confluire in un cloud computing pubblico che renda trasparente la mobilità dei dati individuali in nome di un fine comune: individuare le fonti reali del contagio. In questo spazio vanno sovrapposti i dati ricavati dai social, con i flussi della mobilità telefonica che sono già usati da alcune regioni, come la Lombardia. Ma senza i social le celle della telefonia mobile ci dicono solo che qualcuno si sposta da un punto all’altro.

Ora l’evasione di massa dalle zone più infestate si è esaurita, e dobbiamo capire chi spostandosi ha trasportato il virus in territori dove altri giovani asintomatici l’hanno raccolto. Dobbiamo tracciare questo passaggio: il momento in cui un residente in una data regione, anche inconsapevolmente, segnala un proprio, seppur minimo, disagio, un raffreddamento, qualche colpo di tosse, stanchezza o mucose arrossate. Da qui deve partire la caccia.

Per fare questo bisogna disporre di un cruscotto semantico per interrogare i database. È su questa funzione che si gioca tutta la partita: come individuare quelle parole chiave, le famose keyword, che permettono di intercettare i sentiment in rete. Una prima forma di base è già stata allestita alla Sapienza nel corso della professoressa Felicia Pelagalli, selezionando le parole del raffreddamento. Ora bisogna andare oltre, e declinare questi termini secondo pratiche, esperienze e culture regionali.

Un ragazzo di Bolzano segnala un’eventuale sua contrarietà in maniera diversa di un calabrese o di un sardo. Su queste sfumature bisogna lavorare per avere la massima focalizzazione e poter setacciare i maniera più focalizzata possibile le zone dove vivono i casi d’insorgenza dell’incubazione. 

Tracciare gli spostamenti potrebbe essere necessario per impedire la diffusone del virus al Sud

A Napoli, nel corso di Marketing e nuovi media della Federico II, stiamo sgrezzando un primo nocciolo semantico, e su questa base speriamo di poterci interfacciare quanto prima con le competenze delle aree informatiche e sanitarie per ancorare questo vocabolario alle modalità più pertinenti del fenomeno e con le dinamiche più aderenti alle logiche dei social. Siamo alla vigilia di un prossimo picco nelle regioni del centro-sud, dobbiamo fare presto subito, dando a ognuno la certezza della trasparenza, dell’uso pubblico e soprattutto delle responsabilità nominative e identificate di quest’operazione.

È una mobilitazione dei saperi, di abilità e di volontà, che mette in campo una logica che non a caso si chiama virale, che avrebbe la stessa potenza, mobilità, e adattabilità del coronavirus. 

Se non ora, quando?




DISINFORMAZIONE E FAKE NEWS NEI GIORNI DEL CORONAVIRUS

DISINFORMAZIONE E FAKE NEWS NEI GIORNI DEL CORONAVIRUS

Mercoledì 11 marzo Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, durante un briefing a Ginevra, ha annunciato che la malattia virale COVID-19, nota come coronavirus, che si è diffusa in almeno 114 paesi uccidendo oltre 4.000 persone, è ufficialmente una pandemia, ossia “un’epidemia con tendenza a diffondersi ovunque, cioè a invadere rapidamente vastissimi territorî e continenti”.

La nota ufficiale dell’OMS e, qualche ora più tardi, quella del governo italiano, che annunciava l’entrata in vigore di norme ancora più restrittive per prevenire il contagio – norme che prevedono la chiusura di negozi e locali garantendo solo servizi essenziali, alimentari e farmacie fino al 25 marzo –, non sono state le uniche notizie che hanno monopolizzato l’attenzione degli italiani.

Su Facebook, Twitter e Instagram una delle notizie più condivise di quel giorno riguardava infatti la presunta donazione all’Italia, da parte del governo cinese, “di 1000 ventilatori polmonari, 50mila tamponi, 20mila tute protettive, 100mila mascherine di massima tecnologia, 2 milioni di mascherine ordinarie”.

L’infografica diffusa dal Movimento Cinque Stelle, condivisa su molti account social, sovente accompagnata da lodi al regime cinese, da attacchi all’Unione Europea e/o da frasi che sottolineano la superiorità dei regimi autoritari, Cina e Russia, rispetto alle democrazie, è diventata nell’arco di poche ore più virale del virus stesso. Peccato che le informazioni contenute nell’infografica dei grillini fossero false.

L’operazione conclusasi venerdì 13 marzo con l’arrivo in Italia del materiale, dopo il contatto telefonico tra il ministro degli Esteri italiani, Luigi Di Maio e la sua controparte cinese, Wang Yi, è infatti una normale transazione commerciale, non una donazione come vorrebbe farci credere la propaganda del Movimento Cinque Stelle. Come sottolinea il portale Money.it non si tratta affatto di un regalo, ma di una vera e propria strategia economica del governo cinese, che avrebbe chiesto alle aziende di avviare un’esportazione massiccia di questi dispositivi nei Paesi più colpiti dal coronavirus. 

Qualche giorno prima dell’accaduto, l’ex Ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, in un articolo pubblicato sul sito Formiche.net, stigmatizzava proprio l’atteggiamento acritico  del governo italiano e di gran parte dell’opinione pubblica nazionale rispetto alle responsabilità della Cina nella gestione della crisi legata al coronavirus.

A detta di Terzi non solo “dalla Sars in poi la Cina ha nascosto, censurato e truccato i dati sulla sanità pubblica, impedendo di reagire in tempo grazie al suo dominio delle agenzie Onu”, ma la scomparsa di Li Zehua, ex giornalista cinese della CCTV che ha documentato l’assenza di trasparenza e la propaganda del Partito comunista cinese nella gestione dell’emergenza del Covid-19, di cui non si hanno più notizie da giorni, “riaccende i riflettori sulla manipolazione e falsificazione dell’informazione da parte del governo cinese”.

Torniamo ora alla fake news sulle donazioni cinesi all’Italia.

Quella diffusa mercoledì 11 marzo è infatti solo l’ultima di una lunga serie di narrazioni disinformative legate al coronavirus che imperversano su media e social media da più di due mesi, ossia da quando sono emersi i primi casi di contagio legati al COVID-19.Il fenomeno delle fake news, di cui in Italia si parla troppo poco e quando lo si fa, lo si fa ancora con approssimazione, merita invece di essere analizzato in profondità. 

Il case study del coronavirus è per certi versi emblematico di come funzioni una campagna di disinformazione e degli obiettivi politici e geopolitici che si propongono gli attori che promuovono questo tipo di operazioni.

Prima di esaminare in dettaglio le fake news e le narrative legate al COVID-19, ritengo opportuno aprire una parentesi di carattere metodologico e storico, utile per comprendere l’attuale scenario e le sue implicazioni in chiave geopolitica.  Le fake news sono un virus, non biologico ma politico e la possibilità che molti di noi ne siano già stati infettati è piuttosto elevata. Se non sappiamo più a chi credere, se siamo stufi della mole di notizie da cui siamo bombardati e se pensiamo che la cosa migliore sia fregarsene, beh allora la probabilità di essere stati già contagiati è davvero alta.

Lo scopo delle fake news, parola recente ma concetto molto vecchio, in epoca sovietica si chiamavano Aktivnie Meropriyatiya (Misure Attive) come conferma l’ex agente del KGB Ladislav Bittman, è quello di distruggere le democrazie occidentali dal loro interno. Ladislav Bittman, scomparso nel 2018 all’età di 87 anni, era considerato uno dei massimi esperti di questa pratica. Nel corso di un’intervista realizzata con il New York Times qualche mese prima della sua scomparsa,  Bittman fornisce una sua definizione di fake news.

Le fake news sono informazioni deliberatamente distorte e inserite segretamente nel processo di comunicazione al fine di ingannare e manipolare

L’ex agente ricorda come all’epoca della Guerra Fredda ad ogni ufficiale del KGB fosse richiesto di dedicare almeno il 25% del proprio tempo alla fabbricazione di fake news.

Passando all’analisi tecnica delle operazioni Bittman rivela che il KGB, una volta prodotta una fake news, cercava di piazzarla in qualche giornale in lingua inglese di un Paese del Terzo Mondo come India o Thailandia dove era più facile l’opera di inganno o di corruzione dei giornalisti. Lo step successivo era riproporre dopo un paio di anni la stessa notizia in un giornale russo citando come fonte quella indiana o thailandese. Era questo il modo per distanziarsi da una bugia da loro stessi creata. Nel 1986 – spiega sempre Bittman – il KGB voleva diffondere la notizia del virus dell’HIV prodotto in laboratorio dagli americani in Occidente e così si avvalse di due scienziati della DDR. Nell’arco di qualche mese la notizia divenne virale e, diffondendosi in tutto il mondo, arrivò anche in America.

Oggi, sottolinea l’ex spia sovietica, grazie ai media digitali è molto più facile rendere virale una fake news. Il lasso di tempo tra la produzione di una fake news e la sua diffusione virale può essere ridotto a mesi o addirittura a settimane, a seconda dello scopo che ci si prefigge.

Torniamo ora al coronavirus e, avvalendoci del sito Eu vs Disinformation, proviamo a vedere quali sono stati i messaggi relativi all’epidemia veicolati dai media legati al Cremlino in Europa e nel nostro Paese.  È importante sottolineare che nel mondo globalizzato, grazie alle tecnologie digitali, anche narrative promosse al di fuori dell’Italia possono facilmente diffondersi da noi alla stregua di un vero e proprio virus contaminando le nostre percezioni.

Domenica 15 marzo, facendo una ricerca mirata con la keyword coronavirus nel database dei casi di disinformazione, troviamo ben 78 “entries”.   Vediamo quali sono le principali narrative di disinformazione. La narrativa più ricorrente è quella secondo la quale il virus è un’arma biologica creata dall’Occidente –  dalla CIA, dalla NATO, dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra – per isolare la Cina, per provocare una Sinofobia, per muovere una guerra ibrida contro la Cina, per indebolire economicamente la Cina, per fare fuori la Russia, la Cina o più in generale gli avversari degli Stati Uniti.  Tecnicamente tutti questi fake sono classificabili come teorie cospirazioniste (o del complotto) ossia teorie alternative più complesse rispetto alle versioni ufficiali e critiche nei confronti del senso comune o della verità circa gli avvenimenti comunemente accettata dall’opinione pubblica. Per definizione tali ipotesi non sono provate perché se lo fossero cesserebbero di essere “teorie”. Le teorie cospirazioniste vengono sovente elaborate in occasioni di eventi, in questo caso la pandemia da coronavirus, che catturano l’interesse dell’opinione pubblica.

La strumentalizzazione politica dei complotti non è peraltro cosa recente, basti solo pensare all’utilizzo fatto dal regime nazista dei Protocolli dei Savi di Sion, un falso documentale creato dalla polizia segreta zarista, con l’intento di diffondere l’odio verso gli ebrei nell’Impero russo.

È importante notare come questo falso storico creato più di 100 anni fa nella Russia imperiale, in forma di documento segreto, attribuito a una fantomatica cospirazione ebraica e massonica il cui obiettivo sarebbe stato impadronirsi del mondo, sia ancora attuale.

La narrativa delle élite contro il popolo utilizzata nell’ultimo lustro dalla disinformazione russa per screditare la UE e più in generale le istituzioni liberali dando in pasto alla “maggioranza silenziosa” capri espiatori quali banchieri, grandi corporazioni, ebrei, oligarchi, musulmani, burocrati di Bruxelles la ritroviamo puntualmente in questi giorni in molti dei fake sul coronavirus. Prendiamo per esempio questo fake diffuso da Zvezda rete televisiva  dello stato russo gestita dal Ministero della Difesa, puntualmente smascherato dal team di esperti di EU vs Disinformation

“C’è un biolaboratorio a Wuhan – di cui fino a poco tempo fa non si sapeva nulla. Il suo indirizzo è Gaoxin 666 – il numero menzionato nella Bibbia, sotto il quale è nascosto il nome della bestia dell’Apocalisse. Ma è ancora più simbolico che esista grazie ai soldi del famoso banchiere George Soros, che condivide le idee globaliste di Bill Gates. Questo potrebbe far parte di un piano astuto. Il coronavirus colpisce solo i rappresentanti della razza mongoloide, il che è molto sospetto e solleva domande”.

Se analizziamo questo fake, che ad alcuni può apparire abbastanza rozzo, ma che è stato attentamente pianificato per un’audience russa sostanzialmente americanofoba e sensibile ad argomentazioni “religiose” (lo storico Timothy Snyder nel suo libro La Paura e la Ragione parla per il regime putiniano di Fascismo Cristiano), notiamo che la narrativa cospirazionista antioccidentale utilizza i classici cliché complottisti dell’ebreo ricco (Soros), del capitalista americano (Gates), delle élite segrete e dell’occidente satanico e perduto.

Quella dell’Occidente corrotto e dissoluto è un altro dei ciposaldi della dezinformatsiya russa per demonizzare Unione Europea, Stati Uniti e più in generale il mondo liberale.  Secondo questa narrativa, utilizzata principalmente per sfidare gli atteggiamenti progressisti occidentali nei confronti dei diritti delle donne, delle minoranze etniche, religiose e dei gruppi LGBT, l’Occidente effemminato sta marcendo a causa della decadenza, del femminismo e della correttezza politica, mentre la Russia incarna i valori tradizionali.

La disinformazione basata sui valori è di solito incentrata su concetti minacciati come “tradizione”, “decenza” e “senso comune” – termini che hanno tutti connotazioni positive ma che raramente sono chiaramente definiti e definibili.

È interessante osservare come il fake del coronavirus quale arma biologica inventata dagli americani, non solo si stia diffondendo a macchia d’olio – il sito Geopolitica.ru di Aleksandr Dugin in data 15 marzo pubblica un articolo intitolato  “L’ex aiutante di Putin: il coronavirus è un’arma biologica americana” – ma presenti inquietanti similarità con l’operazione Infektion condotta negli anni Ottanta dal KGB. Nel luglio 1983 un giornale di Nuova Delhi, il Patriot Magazine, pubblica una notizia secondo cui il virus dell’HIV sarebbe stato creato dagli scienziati americani che lavorano per il Pentagono al fine di sterminare afro-americani e gay. Per rendere credibile quella che poi si sarebbe rivelata una clamorosa fake news, la testata menziona uno stabilimento realmente esistente in Maryland, quello di Fort Detrick, dove sarebbero avvenuti gli esperimenti.

Due anni più tardi, nel settembre 1985, la notizia appare sui quotidiani di diversi stati africani. Un anno dopo due biologi della DDR, Lilli e Jakob Segel, affermano sulle pagine di un giornale tedesco che loro sono in grado di provare che il virus è stato creato dagli americani. Alla fine del 1986 la notizia viene rilanciata da quotidiani in Camerun, Finlandia, Pakistan, Bulgaria, Kenya, Bangladesh e anche dal britannico Daily Express. Il 30 marzo 1987 anche un’emittente televisiva americana dà la notizia. La fake news creata dal KGB, dopo quattro anni, è arrivata negli Stati Uniti creando un effetto destabilizzante sulla società americana.

L’Active Measures Working Group, voluto da Reagan al momento dell’insediamento alla Casa Bianca nel 1981 per combattere la dezinformatsiya russa, riuscirà a dimostrare, grazie alla collaborazione di ex agenti del KGB come la fake news sia stata prodotta dal Cremlino. Un dossier dettagliato sull’operazione Infektion verrà presentato anche a Mikhail Gorbaciov, che durante un incontro con Ronald Reagan si scuserà personalmente con il Presidente americano, non potendo negare il contenuto di quel dossier.

Grazie a uno staff di poche unità con un piccolo budget, specie se paragonato alle ingenti risorse impiegate dai sovietici, gli Stati Uniti furono in grado di smascherare l’operazione Infektion ma non di eliminare tutti gli effetti ‘tossici’ legati ad essa. Ancora oggi nei testi delle canzoni di alcuni rapper, in certe pellicole televisive, addirittura nei sermoni di alcuni predicatori religiosi, si accredita la tesi dell’HIV come virus creato dal Pentagono per liberarsi di neri e omosessuali. Lo stesso dicasi per analoghe fake news diffuse dal Cremlino in quegli anni, quali la tesi secondo cui JFK sia stato ucciso dalla CIA (Oliver Stone ha girato un film su questo falso storico), l’attentato a Giovanni Paolo II ordito dalla CIA e i rapimenti dei bambini in America Latina ordinati sempre dagli americani per alimentare il traffico d’organi.

Con il collasso dell’URSS nessuno, neppure gli americani, credeva che la Russia avrebbe continuato a usare questi metodi. La Guerra Fredda era finita e si apriva, a detta di molti, una nuova stagione di collaborazione tra Est e Ovest.Dopo gli anni di relativa distensione della presidenza Eltsin, periodo in cui la Russia valuta addirittura l’ipotesi di entrare a fare parte della NATO, la situazione muta completamente con l’avvento sulla scena politica russa di Vladimir Putin, prima (1998 – 1999) come direttore dell’FSB, i servizi segreti federali eredi del KGB, poi come Primo Ministro (1999) e infine come Presidente (2000 – 2008; 2012 – oggi).

Ex ufficiale del KGB dal 1975 al 1991, in servizio a Dresda (DDR) dal 1985 al 1990 presso la STASI, Putin, salito al potere, inizia un’opera di ripristino del vecchio apparato di intelligence. Nella prima fase, che possiamo chiamare di consolidamento, si ricreano i media – nel 2005, per esempio, avviene il lancio di Russia Today (RT) emittente russa globale in lingua inglese –, nella seconda avviene il loro utilizzo in senso offensivo come strumento di information warfare. Uno dei primi esempi di utilizzo della dezinformatsiya si ha in concomitanza con l’invasione russa in Georgia nell’agosto del 2008 e durante il cyber attack del 2007 agli enti governativi dell’Estonia. Nel 2013 il Cremlino crea l’Internet Research Agency.

Le nuove tecnologie digitali schiudono infatti enormi possibilità alla propaganda. 

L’obiettivo della Russia di Putin, ben consapevole di non poter competere a livello politico ed economico con un’Europa coesa, è dividere l’Ovest e favorire lo scontro tra i Paesi dell’Europa. Il mezzo utilizzato è la disinformazione veicolata attraverso fake news. Lo scopo è destabilizzare le democrazie, sovvertirle instillando nella popolazione un senso di confusione e di demoralizzazione usando argomenti divisivi, mettendo per esempio bianchi contro neri, giovani contro vecchi, ricchi contro poveri.In queste settimane la diffusione deliberata da parte dei media russi di teorie cospirazioniste e di false informazioni sul coronavirus per seminare caos e paura è chiaramente finalizzata alla distruzione dell’Europa e a staccare l’Italia dal blocco occidentale.

I più di 400 articoli pubblicati da Sputnik Italia sul coronavirus in soli 2 mesi, fotografano la centralità di questo tema all’interno della strategia comunicativa del principale outlet russo in Italia.In questa fase Sputnik Italia, che da qualche tempo ha scelto di usare toni apparentemente moderati nel tentativo di catturare un’audience più mainstream rispetto a quella di altri media filorussi italiani come Geopolitica.ru e l’Antidiplomatico, ha preferito un approccio basato sul diffondere narrative contraddittorie e divisive evitando fake grossolani. Alcune delle narrative sul coronavirus apparse su Sputnik Italia, utili per comprendere come questa scelta sia solo apparentemente meno destabilizzante e meno pericolosa dei fake più apocalittici, sono le seguenti:

  • Il coronavirus rappresenta una “minaccia biologica” per la popolazione russa 
  • La Russia sta adottando misure preventive efficaci 
  • Un regime autoritario come la Cina sta dimostrando una maggiore efficacia nel gestire la crisi rispetto alle democrazie occidentali 
  • L’UE è completamente inefficace nella gestione della crisi del coronavirus, non è in grado di prendere misure per contenere la diffusione del virus e non è venuta in aiuto dell’Italia
  • L’epidemia di coronavirus potrebbe provocare un crollo del trattato di Schengen e del concetto stesso di UE 
  • I concorrenti italiani nell’UE mirano a sfruttare la crisi del coronavirus in Italia al fine di ottenere vantaggi politici ed economici, compresa l’acquisizione di società italiane strategicamente importanti 
  • Il coronavirus potrebbe creare una situazione socialmente esplosiva in molti paesi europei e innescare proteste popolari più bellicose contro l’élite 
  • La crisi del coronavirus è solo l’inizio del crollo del sistema globale post-Seconda Guerra Mondiale 
  • L’esercito americano potrebbe aver portato COVID-19 a Wuhan 

Ma le mire egemoniche nei confronti del nostro paese non solo appannaggio di Mosca. Anche in Cina guardano con grande interesse all’Italia e non certo per ragioni umanitarie come qualche politico italiano sembra volerci far credere. Il fatto che qualche giorno fa il portavoce del Ministero degli Esteri della Cina, Hua Chunying abbia postato sul proprio profilo Twitter un video relativo a un flash mob avvenuto sui balconi di Roma per esorcizzare il coronavirus con il commento in inglese  “gli italiani stanno cantando Grazie Cina” dovrebbe farci riflettere.Il rischio è che una volta sconfitto l’incubo coronavirus, l’Italia debba affrontare un’altra emergenza: quella democratica. L’autoritarismo, che all’epoca del crollo del Muro di Berlino si credeva debellato per sempre, ritorna come forza geopolitica a livello mondiale con Russia e Cina, alfieri di un modello illiberale che, grazie a operazioni di sharp powerhybrid analytica e disinformazione, trova estimatori anche in Italia.Sarebbe opportuno che tutti gli italiani, dal primo cittadino che siede al Colle al cittadino comune iniziassero a riflettere sulle drammatiche conseguenze di queste minacce, sperando che non sia già troppo tardi.




Trump, quanto pesano effettivamente i suoi tweet?

Trump, quanto pesano effettivamente i suoi tweet?

Osservando il continuo twittare del presidente degli Stati Uniti la maggior parte di noi si sarà chiesta quale peso abbiano le sue dichiarazioni diffuse via social. Se da una parte l’impatto mediatico è sicuramente molto forte, infatti Donald Trump ha 79 milioni di follower su Twitter (il profilo più seguito al mondo è quello di Katy Perry che conta ben 108 milioni di follower),  uno studio pubblicato sull’American Journal of Political Science, redatto ricercatori Allyson L. Benton e Andrew Q. Philips della City University of London ha dimostrato come l’impatto dei tweet del presidente USA non sia solo mediatico ma anche economico-finanziario.

Lo studio in questione si è incentrato nel periodo che va dal primo gennaio 2015, quando Donald Trump non era ancora presidente, al 2 febbraio 2018 che coincide con la fine del primo anno di mandato e, nel dettaglio, analizza le oscillazioni sul tasso di cambio dollaro\peso messicano a seguito dei tweet del presidente. Gli studiosi hanno scelto questo orizzonte temporale per vedere se i tweet dell’attuale presidente degli Stati Uniti influenzassero i mercati prima che il suo programma politico fosse noto oppure anche quando il suo programma politico era chiaro. La scelta dell’argomento di analisi invece è dipesa dal fatto che, sin da subito, Trump aveva manifestato l’intenzione di fare un passo indietro rispetto le politiche sull’immigrazione attuate da Obama, suo predecessore e, se da una parte alzare un muro al confine pareva un’operazione difficile da compiere, anche per gli ingenti finanziamenti di cui necessitava, dall’altra l’aumento delle pattuglie e delle espulsioni necessitano solo di ordini federali e quindi, di fatto, Trump avrebbe potuto chiudere la frontiera. L’analisi, nel dettaglio, si è incentrata sulla valuta la cui volatilità è influenzata non solo da notizie macroeconomiche e dati di mercato ma anche dall’operato dei governi.

Gli studiosi inizialmente si aspettavano che i tweet di Trump avrebbero influenzato il mercato valutario fino a quando il presidente non avrebbe lanciato la sua offerta per la nomination GOP il 16 giugno 2015. Secondo gli studiosi infatti l’impatto dei tweet politici di Trump relativi al Messico sarebbe scomparso nel momento in cui ha lanciato la sua offerta GOP il 16 giugno 2015 e il 28 giugno 2015 quando, durante un discorso ha delineato i suoi obiettivi relativi al Messico.  Eppure così non è stato. Basta guardare al tweet del 25 gennaio 2017 che, tradotto, diceva: “Grande giornata prevista per la SICUREZZA NAZIONALE domani. Tra le altre cose costruiremo un muro”. Secondo gli studiosi questo tweet non avrebbe in alcun modo dovuto influenzare il mercato valutario in quanto le idee sull’immigrazione di Trump erano già note eppure, quel giorno il peso messicano ha perso i guadagni del giorno precedente dopo il tweet. Non solo, come riporta Reuters in un articolo del 26 aprile 2017, ‘’il capo della banca centrale del Messico ha detto che la banca ha modificato la rotta su come proteggere il peso dopo un paio di tweet del presidente americano Donald Trump che, all’inizio di gennaio, ha spinto la valuta locale quasi ai minimi storici e spazzato via l’effetto di un intervento valutario di $ 2 miliardi.’’

A seguito dei risultati dell’analisi, gli studiosi hanno concluso che: ‘’Sosteniamo che i post della politica sui social media dei politici sono utili per gli investitori. I post sui social media non solo consentono agli investitori di determinare la probabile direzione politica futura del governo, ma consentono anche agli investitori di raccogliere informazioni sul benchmark rispetto al quale i politici cercano di essere valutati e quindi sul livello di determinazione dei politici per attuare i loro obiettivi politici.’’