1

Il coronavirus terrorizza, il clima no: come nasce la percezione del rischio

Il coronavirus terrorizza, il clima no: come nasce la percezione del rischio

Analisi delle dinamiche con cui si innesca una mobilitazione globale

Con le prime vittime italiane del coronavirus e i casi di contagio anche nel nostro Paese è scoppiata la fobia. Cittadine isolate, scuole chiuse, eventi annullati, protocolli d’emergenza. A livello globale la comunità medico-scientifica lavora per trovare una cura, il Fondo monetario ha rivisto al ribasso le stime di crescita, sono spuntate mascherine ovunque ed è partita una mobilitazione che ha pochi precedenti nella storia. Tutto questo in poco più di un mese e a fronte di un bilancio che, mentre scriviamo, è arrivato a 2461 morti. Secondo il Climate Index Risk negli ultimi 20 anni i fenomeni meteorologici estremi aggravati dal cambiamento climatico hanno causato 500 mila vittime nel mondo. L’Oms stima che tra il 2030 e il 2050 la crisi del pianeta ne provocherà altre 250 mila ogni anno. Solo in Italia l’inquinamento dell’aria è la causa di circa 80 mila decessi l’anno (Aea). E i ricercatori dell’Ipcc calcolano che entro il 2100 le perdite economiche dovute all’emergenza climatica oscilleranno tra gli 8,1 e i 15 trilioni di dollari. Lo scenario è apocalittico, ma oggi per scongiurare la catastrofe ambientale non c’è stata una reazione altrettanto forte. Perché?

«Per dare una risposta bisogna analizzare le dinamiche con cui avviene la costruzione sociale del rischio» spiega Giovanni Carrosio, sociologo dell’Ambiente presso l’università di Trieste. «Per comunicare efficacemente non basta utilizzare dati oggettivi o un approccio razionale, perché la percezione dei rischi è un fenomeno molto complesso che prende forma in base al vissuto e alle credenze delle persone». Questo porta a «sottovalutare o sovrastimare un evento e contemporaneamente innesca reazioni che non sono proporzionate al fenomeno». L’esempio classico è la nostra sensazione nel viaggiare in auto o in aereo. «Razionalmente tutti sappiamo che volare è più sicuro che guidare, ma tutti abbiamo più paura di prendere il volo che di sederci al volante».

I fattori scatenanti

Alla costruzione sociale del rischio concorrono tantissimi fattori, anche molto diversi tra loro. «La scienza e la fiducia che le persone ripongono in essa giocano un ruolo chiave, ma lo stesso fanno elementi simbolici, irrazionali». Proprio parlando di coronavirus abbiamo assistito a episodi di discriminazione nei confronti di cittadini cinesi solo su base razziale, un istinto che risulta più forte di studi scientifici o calcoli probabilistici. Per Marco Bagliani, docente di Cambiamento climatico, strumenti e politiche all’università di Torino, «il parallelismo tra coronavirus e crisi climatica chiama in causa la psicologia dei disastri». Particolare importanza assumono tempi, spazi e ricadute sociali. «L’epidemia del coronavirus si sviluppa su una scala temporale breve e rispetta i tempi tipici dell’attenzione, mentre il cambiamento climatico varia su una scala temporale più lunga. Parlando di spazi, l’epidemia ha una sua collocazione: le città, gli ospedali, una nave in quarantena, mentre la crisi del nostro pianeta non si sviluppa per forza sotto i nostri occhi». Infine le ricadute sulla vita delle persone: «Mettersi in gioco per fermare il virus prevede un sacrificio a breve termine (limitare i viaggi, indossare le mascherine), provare a contrastare il cambiamento climatico invece significa rivedere gli stili di vita per sempre».

L’unico modo per rendere meno dolorosa questa svolta sarebbe cercare quella che Carrosio – citando Alexander Langer – definisce una «transizione socialmente desiderabile». E cioè «non una rinuncia totale, ma un cambiamento frammentato in piccoli traguardi che si portino dietro anche miglioramenti della vita e delle condizioni sociali». Questo approccio può fare la differenza. Ne è convinto anche Luca Iacoboni, responsabile Clima ed Energia di Greenpeace. «Quindici anni fa gli ambientalisti erano considerati tutti catastrofisti. Poi alcuni studi hanno svelato che è meglio comunicare speranza e far leva sui buoni propositi delle persone». Certo, una ricetta vincente per convincere e mobilitare le persone non esiste. «Forse il metodo migliore è arrivare a una sintesi: per indurre all’azione bisogna dire che c’è speranza e contemporaneamente essere determinati nel pretendere azioni concrete». Il mondo dell’attivismo sembra destinato a cambiare a partire da questi impulsi: «L’impegno delle persone sarà più intersecato a livello sociale, meno battaglie isolate e più obiettivi comuni a difesa delle fasce più deboli».




EMERGENZA CORONAVIRUS: LUCA POMA COMMENTA LA COMUNICAZIONE DEL GOVERNO SU RADIOUNO

TUTTI GLI ERRORI DELL'ESECUTIVO SULLA GESTIONE DEL CORONAVIRUS

26 Febbraio 2020: a “Tra poco in edicola”, su RadioUno, Claudio Vigolo intervista Luca Poma su come il Governo italiano ha gestito la comunicazione di emergenza in occasione dell’epidemia di Corona Virus, oltre ad altri temi legati alla Corporate Social Responsibility – responsabilità sociale d’impresa




Eni, sanzione di 5 milioni dall’Antitrust per pubblicità ingannevole: definisce il suo diesel “green” ma “è altamente inquinante”

Eni, sanzione di 5 milioni dall’Antitrust per pubblicità ingannevole: definisce il suo diesel “green” ma “è altamente inquinante”

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato spiega che la multinazionale ha attribuito al suo carburante Eni Diesel+ “vanti ambientali che non sono risultati fondati”. La società si è impegnata a non utilizzare più la parola “green”. L’azienda: “Sorpresi della decisione, presenteremo ricorso al Tar”

Ha attribuito al suo carburante Eni Diesel+ “vanti ambientali che non sono risultati fondati“. Per questo l’Antitrust ha sanzionato l’Eni con 5 milioni di euro per la diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato spiega infatti che nella campagna promozionale è stata usata la denominazione “Green Diesel“, le qualifiche “componente green” e “componente rinnovabile”, e altri claim di tutela dell’ambiente, quali “aiuta a proteggere l’ambiente. E usandolo lo fai anche tu, grazie a una significativa riduzione delle emissioni”, sebbene, si legge nella nota dell’Antitrust, “il prodotto sia un gasolio per autotrazione che per sua natura è altamente inquinante e non può essere considerato green”.

Secondo l’Autorità, l’ingannevolezza dei messaggi derivava “dalla confusione fra il prodotto pubblicizzato EniDiesel+ e la sua componente biodiesel HVO (Hydrotreated Vegetable Oil), chiamata appunto da Eni “Green Diesel”. Inoltre, scrive ancora l’Antitrust, alcune delle vantate caratteristiche del prodotto, relative alla riduzione delle emissioni gassose “fino al 40%“, delle emissioni di CO2 del 5% in media, e dei consumi “fino al 4%“, non sono risultate confermate dalle risultanze istruttorie, in quanto parziali. Ad esempio, non per tutte le emissioni gassose e non in tutti i casi la riduzione risultava raggiungere il 40% e, per i consumi, la riduzione era solo in minima parte imputabile alla componente HVO denominata da Eni “Green Diesel”.

E ancora, le caratteristiche del carburante Eni Diesel+ non erano adeguatamente contestualizzate, perché per esempio non veniva chiarito che il vanto di una riduzione delle emissioni di CO2 era riferito all’intero ciclo del prodotto. Infine, nei messaggi si lasciava intendere che le vantate caratteristiche migliorative del prodotto – da cui erroneamente si lasciava intendere discendesse la natura di prodotto orientato alla protezione dell’ambiente – fossero da attribuire in maniera significativa alla sua componente definita da Eni “Green Diesel”, aspetto anch’esso che non è risultato veritiero. Nel corso del procedimento, precisa comunque l’Autorità, la società Eni ha avviato l’interruzione della campagna stampa e si è impegnata a non utilizzare più, con riferimento a carburanti per autotrazione, la parola “green”.

Eni si dice “sorpresa” della decisione perché ritiene “di aver illustrato nel corso del procedimento le ragioni” per cui le contestazioni mosse “devono considerarsi infondate” e “di aver presentato alcune decisive evidenze” che a suo avviso “confermano la correttezza metodologica e informativa della propria comunicazione commerciale”. Nello spiegare le caratteristiche del prodotto, l’azienda annuncia di voler impugnare la sanzione al Tar e aggiunge: “È di intuitiva evidenza come la possibilità di sostituire la componente fossile con una maggiore percentuale di componente rinnovabile sia di per sé una soluzione in grado di abbattere l’impatto ambientale del carburante”.




Quando usciremo dalla peste comunicativa

Quando usciremo dalla peste comunicativa

Pubblichiamo in esclusiva un articolo scritto nei primi giorni del 2030, quando una legge sancirà drastiche misure contro la deriva della comunicazione.

Qualche giorno fa (il 1 gennaio di questo 2030) è entrato in vigore il decreto 323/29. Esso impone a ogni organizzazione privata, pubblica o sociale operativa sul territorio nazionale, l’adozione di modalità narrative e di rendicontazione delle proprie attività ispirate al principio che la comunicazione, analogica e digitale (compresa la pubblicità!), è sì un importante strumento di formazione e orientamento della conoscenza e delle opinioni, ma non è fine a se stessa: va sempre e comunque orientata a far nascere, crescere o chiudere una o più relazioni con uno o più segmenti di stakeholder (“aventi titolo”), che siano questi interni (dipendenti), esterni (clienti) o di confine (azionisti, fornitori).

Relazioni comunque e sempre finalizzate al raggiungimento di obbiettivi espliciti e condivisi. In caso contrario, sia l’organizzazione che il titolare del supporto distributivo (analogico o digitale) sono soggetti a sanzioni amministrative.

Il nuovo orientamento (obbligatorio!) della comunicazione

Diverse decine di migliaia di operatori (programmatori, influencer, storyteller, blogger, giornalisti, decisori pubblici, relatori pubblici, lobbisti e tessitori sociali sul territorio) con aspettative diverse, spesso opposte e col fiato sospeso, sono ansiose di verificare se il drastico dettato del 323/29 riuscirà davvero a orientare le organizzazioni e i loro operatori verso pratiche comunicative più discorsive e dialoganti, meno invasive, prepotenti e insistenti, non opinabili e soprattutto più con-vincenti (dal latino vincere-cum).

Dopo un decennio 2020-2029 che ha visto la rappresentazione delle organizzazioni letteralmente “divorare” il valore della loro rappresentanza, spingendole a transitare da un già deleterio shortermismo al ben noto e frenetico nowtermismo, per i proponenti del decreto è fondamentale che le attività comunicative si orientino verso un governo delle relazioni con gli stakeholder. E, ora che sappiamo per certo che la velocità dell’algoritmo è calibrabile in funzione di regole, spazi e obiettivi negoziati e condivisi, che rallentino la velocità.

Ricordiamo qui alcuni momenti del passato focalizzando anche sulle organizzazioni non politiche. Troppo facile sparare solo sui politici e le loro rispettive “bestie”.

I peggiori casi di cattiva rappresentazione dal 2020 in poi

Per esempio la vicenda del ponte Morandi, la cui rappresentazione ha largamente distrutto lo spirito e il capitale sociale di una delle più importanti città italiane: un danno davvero irreparabile partito con la grottesca ripresa sui social del “grandefratello” Casalino del funerale delle vittime del crollo, poi passato per il perlomeno insolito doppio incarico a Comin e Barabino per la tutela della reputazione di Autostrade (a Roma il primo, a Genova il secondo); fino a una conferma “temporanea” (eternamente, “salvo intese”…) di una concessione che ha fortemente diminuito patrimonio e mito di una famiglia identificata per decenni con il successo dell’Italia nel mondo (altro ingente danno al nostro capitale sociale).

Più recentemente, con il governo giallorosso già in coma, un reputato comunicatore già responsabile digitale della Federazione Relazioni Pubbliche Italiana e che orgogliosamente sottolineava la propria appartenenza ai comunicatori duri e puri, da cinque giorni dirigente della comunicazione del Ministro della Innovazione (dopo avere transitato fra Eni e Agi con l’incarico di rappresentare tutto il rappresentabile), scaraventa sull’arena della rappresentazione un (si fa per dire) piano dell’innovazione in cui l’imbarazzo degli osservatori si è alternato fra pochezza e banalità del contenuto e l’ispirazione dichiaratamente casaleggiana in pieno conflitto di interesse. Di tutto e di più, purché se ne parli.

Incrociamo poi il sistema bancario, dimentico delle mai chiarite vicende MPS che hanno anche portato alla misteriosa e tragica fine del bravo comunicatore Davide Rossi, prontamente dimenticato dai colleghi; e immemore delle devastazioni del vignaiolo Zonin e dei dirigenti delle altre banche venete e popolari. Un sistema che si trova in parallelo di fronte a una robusta rappresentazione dei principi di responsabilità sociale, di rendicontazione integrata, di valorizzazione del ruolo delle donne… e il giorno dopo (Unicredit) annuncia tranquillamente, come se niente fosse e scontando le reazioni “forzatamente” smorzate dei sindacati, una riduzione di migliaia di posti di lavoro.

Una mossa che peraltro passa quasi inosservata, perché a sua volta incalzata dal crollo, previsto e scontato da almeno un decennio, della Banca Popolare di Bari, con tanto di indagini di corruzione (destinate sicuramente a perdersi nelle nuvole di dati) per il padre padrone nonché presidente ella Banca. Naturalmente solo dopo diversi mesi si capisce che tutta la kermesse era frutto di un disegno comunicativo che “rappresentasse” agli italiani l’opportunità di una ennesima commissione parlamentare di indagine che, vivaddio, è riuscita per un soffio a evitare un’“inverosimile” presidenza esplicitamente antisemita, ma che ha comunque dirottato per mesi e mesi l’attenzione dalle questioni vere che hanno poi portato al crollo economico e finanziario del 21/22.

Il forsennato utilizzo a senso unico della rappresentazione è visibile anche dalla decisione di 180 grandi imprese multinazionali americane di annunciare inopinatamente che andava riscritta del tutto la “ragione esistenziale” (in inglese purpose) dell’impresa, retrocedendo i sempre favoriti azionisti a un ruolo paritario con altri interlocutori come i dipendenti, i fornitori, i clienti e la società civile. Belle parole, nessun impegno, nessuna scadenza.

Al contrario, non più tardi di qualche giorno dopo l’uscita pubblica, il responsabile della stesura di quella revisione (CEO della Johnson&Johnson, che aveva appena “confessato” al New York Times l’emozione di essersi sentito, durante la stesura, “come Jefferson”), è stato condannato da un tribunale a un’elevatissima multa per avere ecceduto nella quantità di oppioidi nei suoi prodotti. E così una rappresentazione immotivata e fine a se stessa ha avuto l’effetto di accelerare la fine dell’infatuazione verso la cosiddetta CSR (un obiettivo sensato, a cavallo fra Greta e la catastrofe ambientale).

La rappresentazione oltre il marketing e il sogno americano. Finalmente.

Ci sono tanti altri recenti episodi di rappresentazione immotivata e controproducente, dalla Boeing alla Wells Fargo, dalla Monsanto alla Via della Seta alla TAV (da entrambe le parti).

Fin da piccolo – padre diplomatico italiano e madre figlia di diplomatico britannico – ho avuto innato il senso della “rappresentanza”, e ho sempre pensato che la “rappresentatività” fosse una valutazione di merito del suo esercizio. Quella che oggi chiamiamo la “rappresentazione”, la narrazione erga omnes della rappresentanza, veniva interamente assorbita nelle prime due accezioni.

Oggi non è più così, ma è bene sapere che fino al 1960 la funzione del governo delle relazioni nelle organizzazioni operava alla grande, e alle dirette dipendenze dei vertici organizzativi. Furono l’esportazione nel mondo del sogno americano e dei consumi di massa che resero il marketing più rilevante. L’esplosione digitale ha solo rafforzato questa linea, perché ci si era erroneamente convinti che la comunicazione fosse la finalità dell’esercizio rappresentativo e non il suo strumento.

Difficile dirlo oggi nel 2030, ma sia Bernays, che Ivy Lee nei primi decenni del Novecento, e poi Grunig negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, avevano non solo praticato, ma sostenuto e argomentato questa verità, travolti però dall’ondata globale del sogno americano. Quel sogno che, con l’accelerazione incontrollata della velocità ha prodotto tutte le ineguaglianze che ancora oggi, nel 2030, affliggono miliardi di persone, costrette a migrare da una terra all’altra in condizioni di vita disperate.

Concludendo, per i suoi proponenti l’applicazione del decreto 323/29 rappresenta un piccolo, ma significativo passo, meno accidentato e più civile, verso un territorio relazionale fra individui, gruppi, organizzazioni, robot e algoritmi.




Burger King e l’advisoring alternativo

Burger King e l’advisoring alternativo

Se pensiamo al cibo genuino ci vengono in mente prodotti
freschi, magari un frutto mangiato sotto l’albero o del latte appena munto.
Quest’idea non è quella che abbiamo del cibo dei fast food, spesso considerato
pieno di conservanti, aromi artificiali e coloranti. In questo contesto si
inserisce lo spot ‘’the moldy whopper’’ di Burger King il quale, durante un
video, mostra come i panini della nota catena ammuffiscono col passare dei
giorni, proprio come farebbe un cibo ‘’vero’’ e ‘’sano’’, come farebbe un frutto
colto dall’albero e lasciato su di una mensola.

Il video, diventato presto virale, mostra un hamburger su di
un piedistallo con uno sfondo nero che fa risaltare il panino e come, col
passare dei giorni, il cibo si riempia di muffe fino a diventare irriconoscibile.
Questo spot sarebbe la prova che gli ingredienti utilizzati per realizzare i
panini sono naturali e sembra un attacco diretto al principale competitor della
catena, mc Donald, accusato da sempre di usare talmente tanti conservanti che
il cibo, anche a distanza di mesi, non si rovina.

Riguardo l’immediato successo avuto dalla campagna
pubblicitaria, Fernando Machado, CEO della holding che controlla Burger King,
ha dichiarato ‘’ Penso che
funzioni così bene perché è come se stessi mostrando qualcosa che in teoria
dovrebbe essere negativo, ma lo stai mostrando in un modo davvero meraviglioso.
La realizzazione, la fotografia e il timelapse non sono stati facili da
realizzare per ottenere i 
risultati desiderati in termini di elevati standard di esecuzione. Quindi il tempo di 34 giorni
è sembrato quello giusto in base a tutti gli esercizi empirici che abbiamo
fatto per assicurarci che il risultato fosse sbalorditivo’’.