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Dalla crisi del coronavirus si esce in tre modi: digitale, digitale, digitale

Dalla crisi del coronavirus si esce in tre modi: digitale, digitale, digitale

Siamo giustamente concentrati sull’immediato, perché sconfiggere il virus oggi è fondamentale. Ma potrebbe tornare, e quindi bisogna attrezzarsi fin da ora. Con una serie di modelli da copiare, che hanno puntato tutto sulla tecnologia: Corea, Singapore e Taiwan

Per quanto durerà il tempo del contenimento contro il Coronavirus? Inutile girarci intorno: durerà a lungo. Secondo le previsioni, la curva dei contagiati non potrà decrescere seriamente prima della fine di aprile. Ovviamente, ciò non esclude che molti positivi al virus saranno ancora presenti sul territorio nazionale, con il rischio di riattivare focolai di contagio. Senza contare il passaggio possibile, salvo chiusura delle frontiere, di nuovi infetti provenienti da altri paesi europei, dove il virus comincia a circolare con qualche settimana di ritardo rispetto all’Italia. Non sappiamo se il caldo della bella stagione sarà in grado di sospendere la circolazione del virus. Che, in ogni caso, tornerà con l’arrivo del freddo, riprendendo vigore in autunno e in inverno. Anche i tempi per l’individuazione e uso del vaccino – studio, sperimentazione, produzione, distribuzione – saranno lunghi (si parla di almeno un anno, più probabilmente 18 mesi). Se è vero tutto ciò che abbiamo qui elencato, significa che le misure di contenimento e di isolamento, non si sa con quale grado di intensità, non potranno essere completamente superate per diversi mesi.

Ci vuole tempo. Ma servono soluzioni

Che cosa succederà nel frattempo? Difficile immaginare di tenere impegnati gli italiani a cantare da finestre e balconi l’inno d’Italia o Azzurro o Poo-poroppo-popo-poo, a un’ora indicata, ogni giorno per molte settimane. Così come sembra improbabile tenere chiuse tanto a lungo le attività economiche senza impedire la distruzione di lavoro e l’impoverimento generalizzato fino al tracollo totale del paese. Senza dimenticare l’impatto psicosociale della restrizione in casa con la possibile esplosione di conflitti, depressione, attacchi di panico, abuso di sostanze, omicidi e suicidi.

C’è da chiedersi se non sia questo il momento di cercare altre soluzioni, ispirandosi non tanto o non soltanto alle misure costrittive cinesi – impedire la libertà di movimento e la libertà d’impresa, certamente più ‘facili’ in un regime autoritario – quanto, piuttosto, alle misure ‘tecnologiche’ – basate sull’intelligenza artificiale e sui big data – applicate in Corea del Sud, Singapore, Taiwan. La risposta a questa domanda è certamente: «sì».

Come ha risposto l’Italia

Ma prima di capire quali sono queste misure tecnologiche, ricordiamo quali sono i capisaldi della nostra reazione all’arrivo dell’epidemia. Com’è normale che sia, l’Italia ha messo in campo le attitudini che meglio la caratterizzano. La risposta medico-sanitaria, fondata sul Servizio sanitario nazionale, considerato uno dei migliori nel mondo (è così almeno al Nord, dove si trova l’epicentro della crisi). L’attenzione ai più vulnerabili, anziani, portatori di patologie e malati cronici, che, purtroppo, in molti casi, non riescono a sopravvivere al contagio. La vocazione all’emergenza nata e gestita dalla Protezione civile nella gestione dei terremoti e fondata sull’apporto dei volontari. La capacità di sacrificio morale e di partecipazione civica dei cittadini che, dopo una breve fase di sorpresa, sembrano rispondere bene alle misure contribuendo attivamente alla realizzazione di una politica pubblica nazionale. Infine, la promessa di intervento statale, forzando definitivamente i vincoli europei, per fornire aiuto a quei lavoratori e a quelle imprese che subiranno tutto il peso della chiusura forzata delle attività.

Tuttavia, ognuna di queste positive attitudini nazionali ha dei risvolti preoccupanti. Il Servizio sanitario nazionale non è così forte come si pensa: il numero di posti di terapia intensiva al Nord non è adeguato alla quantità di contagiati che necessitano di cure e molte regioni del Sud rischiano il collasso se i numeri degli infetti fossero gli stessi della Lombardia. La stessa Protezione civile non sembra più la stessa di qualche anno fa e non è ancora stata utilizzata per realizzare quelle zone di assistenza intermedia tra l’isolamento in casa e l’acuzie in ospedale che la Cina ha messo in piedi nelle palestre e nei capannoni. In più, essere bravi ad agire in stato di emergenza potrebbe significare che non lo siamo nel governo ordinario dei processi. Dei cittadini abbiamo già detto che potranno sopportare restrizioni pesanti soltanto per un tempo definito oltre il quale le cose, soprattutto sul piano economico, potrebbero diventare disastrose. Non parliamo poi dello stato del debito pubblico italiano, la cui situazione è nota, e che non potrà che peggiorare quando bisognerà ulteriormente indebitarsi – al quel punto sarà giusto farlo, ovvio – per affrontare la recessione da virus.

Che significa “governare” nel corso di un’epidemia?

Tutto questo può bastare? Al netto della enorme riconoscenza per tutti coloro i quali, ogni giorno, fanno il massimo per salvare le vite dei cittadini, la risposta probabilmente è: «no».

L’Italia non può limitarsi all’approccio clinico-sanitario suggerito da medici e scienziati benemeriti. Né consegnarsi alle strategie repressive di un regime totalitario come la Cina. Il governo del paese non può ridursi alla resistenza al virus. La tutela della salute e della vita ha la precedenza, ma non può ammalare l’Italia di povertà. Stiamo salvando i più vulnerabili ma rischiamo alla fine di ritrovarci in un paese di zombi. La prudenza – splendida virtù cardinale – che ci ha fatto chiudere l’Italia a marzo dovrebbe dirci che l’harakiri non può essere lo strumento ideale per fronteggiare Covid-19. Insomma, il problema del governo è un po’ più complesso dell’impedire il sovraccarico degli ospedali. La scelta fatta dal nostro governo, dopo tanti tentennamenti, è radicalmente diversa rispetto a quella – a dir poco temeraria – che farà il Regno Unito, ma potrebbe rivelarsi comunque un azzardo. Sempre che l’azione emergenziale contro l’epidemia non si trasformi presto in una strategia di governo capace di convivere con un’epidemia ancora presente (con il rischio che i contagi possano comunque riprendere), di prevenirne le possibili conseguenze future e garantire l’esercizio di una normale vita lavorativa ed economica.

Quali sono gli altri strumenti di governo? Certamente gli investimenti specializzati in sanità per aumentare il personale medico-sanitario e creare strutture sanitarie ad hoc. La realizzazione di strutture di assistenza intermedia o di quarantena utilizzando quartieri fieristici, palestre e fabbricati. La trasformazione (o l’ampliamento) delle catene produttive (per esempio, al fine di fabbricare la quantità necessaria di mascherine o di tamponi). Potrebbe essere necessario perfino un controllo ferreo delle frontiere per impedire il contagio “di ritorno”. Ma soprattutto bisogna fare una cosa: usare la tecnologia. Come è successo in Corea del Sud, a Singapore, a Hong Kong e a Taiwan (dove il numero di decessi e di contagi è proporzionalmente inferiore rispetto a quello del nostro paese).

Buone pratiche dai paesi asiatici (no, non parliamo della Cina)

«Ciascuno a suo modo, Singapore, Taiwan e Hong Kong – tre posti con caratteristiche socioeconomiche e politiche notevolmente diverse – sono stati in grado di interrompere la catena della trasmissione della malattia. E lo hanno fatto senza abbracciare le misure drastiche e altamente dirompenti adottate dalla Cina. Il loro successo suggerisce che anche altri governi possono fare progressi». Così scrive sul New York Times Benjamin J. Cowling, professore di epidemiologia delle malattie infettive all’Università di Hong Kong.

A Hong Kong, per esempio, città che condivide un confine con la Cina continentale ed è formalmente parte della Cina, spiega Cowling, «subito dopo il primo caso dichiarato a Wuhan, sono state ampliate le stazioni di screening della temperatura esistenti nei luoghi di ingresso e ai medici locali è stato chiesto di segnalare alle autorità sanitarie della città qualsiasi paziente con febbre o sintomi respiratori acuti risalendo alla “storia” del recente viaggio a Wuhan». Dopo i primi cinque giorni di controlli, prosegue Cowling, «chiunque attraversava il confine – specie se proveniente dalla Cina continentale – doveva sottoporsi a un periodo obbligatorio di auto-quarantena di 14 giorni. Allo stesso modo sono stati rintracciati e messi in quarantena quanti hanno avuto stretti contatti con i positivi registrati. E siccome la trasmissione poteva verificarsi prima che una persona infetta mostrasse i sintomi, la tracciatura ha incluso tutte le persone che erano entrate in contatto con il paziente a partire da due giorni prima dell’inizio della sua malattia».

Tra le buone pratiche segnalate dalla Technology Review del MIT di Boston c’è il monitoraggio che la Corea del Sud sta realizzando sui cittadini in quarantena tramite una app per smartphone – sia Android che iPhone – sviluppata dal Ministero degli Interni e della Sicurezza. In sostanza, come ricorda Max S. Kim nell’articolo, «migliaia di persone nel lockdown del coronavirus saranno monitorate per rilevare i sintomi, per assicurarsi che restino a casa e che non diventino dei “super-diffusori” del virus; per tenere traccia della loro posizione e per assicurarsi che non stiano rompendo la quarantena sarà utilizzato anche il GPS». L’adozione di queste misure di monitoraggio tecnologico ha considerevolmente limitato l’esplosione dei contagi e, di conseguenza, dei decessi.

«C’è un limite alle risorse umane disponibili per i governi locali per monitorare le persone in quarantena», afferma Jung Chang-hyun, funzionario del ministero che ha supervisionato lo sviluppo dell’app. «L’app è un servizio di supporto volto a rendere più efficiente l’attività di osservazione».

Aggiunge Jung: «Le persone possono uscire dalle aree di quarantena sia intenzionalmente che per errore: ma poiché esiste il rischio di infezione secondaria in entrambi i casi, speriamo che l’app, con una maggiore organizzazione, possa aiutare a bloccare questi incidenti». L’app si unisce a un elenco di altre misure lanciate per combattere l’ondata di nuovi casi in Corea del Sud, tra cui: le stazioni di test «drive-through» per verificare la positività al coronavirus (circa 15 mila al giorno in più), una serie di servizi cartografici sviluppati da privati che monitorano gli spostamenti dei positivi, gli avvisi di emergenza che i governi municipali e distrettuali inviano regolarmente ai telefoni delle persone per informarli di nuovi casi di coronavirus. Ricordiamo che in Corea del Sud, dopo l’esplosione iniziale la curva dei contagi ha già iniziato a flettere: mentre scriviamo, sono morti circa 70 pazienti su circa 8 mila contagi (numeri assai modesti rispetto al caso dell’Italia). Importante la disponibilità del governo sudcoreano a condividere la sua tecnologia con altre nazioni: «Non abbiamo ancora avuto richieste da altri paesi, ma se arrivassero, saremmo pronti a condividere assolutamente queste esperienze», assicura Jung.

Qualcosa del genere è accaduto a Singapore. «Colpita in anticipo, per il fatto di essere uno dei principali partner commerciali della Cina, ma forte dell’esperienza con il virus SARS del 2002-3, Singapore ha iniziato a monitorare attentamente i casi per trovare i punti in comune che li collegavano. Nel giro di un giorno o due, successivi alla scoperta di un nuovo caso, le autorità sono state in grado di mettere insieme la complessa catena di trasmissione da una persona all’altra, come un moderno Sherlock Holmes in possesso di un database. A partire da febbraio, tutti coloro che sono entrati in un edificio governativo o aziendale a Singapore hanno dovuto fornire i dettagli di contatto per accelerare il processo». A raccontare la vicenda di Singapore, ancora una volta sulla Technology Review del Mit, è Spencer Wells, genetista, antropologo, già collaboratore della National Geographic Society. Secondo Walls, «non è semplicemente la capacità di rilevare i casi e spiegare perché sono successi che rendono Singapore un modello di riferimento in questa epidemia: kit di test per acido nucleico sono stati rapidamente sviluppati e distribuiti nei luoghi di entrata al paese. Entro tre ore, mentre gli individui vengono messi in quarantena sul posto, i funzionari possono confermare se sono stati infettati o meno dal virus prima di consentire loro di entrare».

Il caso di Taiwan – a un passo dall’epicentro dell’epidemia, quasi 24 milioni di abitanti, più del doppio della Lombardia, concentrati in poco più di 36 mila km quadrati – lo racconta bene sul suo profilo Twitter Fabio Sabatini, docente di politica economica dell’Università La Sapienza. «Data la frequenza dei voli dalla Cina, si prevedeva che Covid-19 avrebbe travolto l’isola, invece ha registrato soltanto 50 contagi e 1 decesso: come hanno fatto?», si chiede l’economista.

Ecco la sua ricostruzione: «Grazie all’esperienza della SARS, Taiwan ha riconosciuto subito l’emergenza. Il 31 dicembre 2019, tutti i passeggeri provenienti da Wuhan sono stati sottoposti a screening a bordo, prima di scendere dall’aereo. I passeggeri sbarcati da Wuhan nei 14 giorni precedenti sono stati rintracciati e visitati. Quelli con sintomi sospetti sono stati messi in quarantena e accuratamente monitorati. Pochi giorni dopo, le autorità hanno integrato il database delle informazioni sanitarie di tutti i cittadini con i dati dell’agenzia dell’immigrazione. Sono state rintracciate tutte le persone a rischio, che avevano recentemente manifestato sintomi e avevano storie di viaggio sospette. Inoltre, il sistema integrato genera un allarme ogni volta che un paziente a rischio chiede assistenza medica, consentendo ai sanitari di identificare immediatamente i potenziali casi di Coronavirus».

Ovviamente non è mancata la fase del contenimento anche a Taiwan. Ma anche questo è stato realizzato con strumenti digitali. «I pazienti a rischio – perché con sintomi, per aver transitato in aree a rischio nei 14 giorni precedenti o per eventuali contatti con dei contagiati – sono messi in quarantena e testati. Inoltre – avverte Sabatini – devono installare sullo smartphone una app per il monitoraggio di sintomi e spostamenti. Grazie al sistema di tracciamento mediante lo smartphone, è possibile ricostruire la rete di contatti di tutti i contagiati, al fine di testarli, curarli in isolamento e interrompere la catena di contagio».

Come si legge nell’editoriale di Jason Wang, della Stanford University, pubblicato sul Journal of The American Medical Association, il governo ha informato i cittadini con conferenze stampa e comunicati estremamente dettagliati: «un po’ diversi dai bollettini della nostra Protezione Civile, purtroppo», chiosa Sabatini. È stato spiegato pubblicamente che, a causa dell’emergenza, gli ospedali e le farmacie avrebbero temporaneamente avuto accesso alle informazioni sui viaggi dei pazienti. Secondo i sondaggi il pubblico ha reagito molto bene. Nel frattempo scuole, università, palestre e ristoranti sono rimasti aperti. Se e quando il virus si diffonderà, le autorità potranno così contare su un sistema di contrasto già ben rodato.

Tracce digitali per impedire il contagio (e salvare l’economia)

Ovviamente, ricorda Sabatini, «per noi è tardi e il lockdown è necessario. Tuttavia, c’è il rischio che, se non si tracciano i contagiati e la loro rete di contatti al fine di isolarli e curarli, al primo allentamento del lockdown l’epidemia riprenderà a galoppare».

Una deduzione confermata dal paper appena pubblicato su Lancet per il quale bastano pochi casi isolati in circolazione per rilanciare il contagio. In conclusione, avverte Sabatini: «in Italia abbiamo bisogno di un sistema di tracciamento simile a quelli dei paesi orientali che stanno riuscendo, per ora, a contenere l’epidemia. Che cosa aspettiamo?».

Nelle scorse settimane due studiosi come Alfonso Fuggetta, professore di Informatica del Politecnico di Milano, e Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente di Strategia dell’Università Bocconi, hanno proposto alle istituzioni italiane un progetto per l’uso di big data per il governo strategico dell’epidemia. Ma sono rimasti inascoltati. «La Corea del Sud sta sconfiggendo l’epidemia anche grazie a semplici tecnologie di contact tracing del contagio su smartphone. In Italia, è stato proposto alle autorità l’uso delle stesse tecnologie, settimane fa, ma hanno preferito il modulo cartaceo con l’autodichiarazione», ha scritto Carnevale Maffè su Twitter. «In Corea del Sud – aggiunge Carnevale Maffè in un altro tweet – il fattore di riproduzione (R0) è già stimato sotto 1, grazie alla georeferenziazione dei casi di contagio e alla identificazione dei singoli focolai su mappe molto precise. Le tecnologie salvano la vita, nel rispetto della privacy». Questo perché la proposta si basa su un processo di raccolta dei dati in forma anonima e quindi nel pieno rispetto della privacy delle persone. Verrebbe da dire che, di fronte ai limiti della libertà di movimento e di impresa, alla distruzione del lavoro, all’impoverimento generalizzato e al suicidio dell’economia di un intero paese, una piccola rinuncia alla privacy non sarebbe poi così grave. Qualcuno potrebbe pure obiettare che non ci sono risorse sufficienti per un’operazione del genere. Ma ne servirebbero infinitamente di meno rispetto a quelle che saranno necessarie per resuscitare l’economia.




I due stili strategici di gestione dell’epidemia a confronto

I due stili strategici di gestione dell’epidemia a confronto

Propongo una ipotesi in merito ai diversi stili strategici di gestione dell’epidemia adottati in Europa e altrove. Sottolineo che si tratta di una pura ipotesi, perché per sostanziarla ci vogliono competenze e informazioni statistiche, epidemiologiche, economiche che non possiedo e non si improvvisano. Sono benvenute le critiche e le obiezioni anche radicali.

L’ipotesi è la seguente: lo stile strategico di gestione dell’epidemia rispecchia fedelmente l’etica e il modo di intendere interesse nazionale e priorità politiche degli Stati e, in misura minore, anche  delle nazioni e dei popoliLa scelta dello stile strategico di gestione è squisitamente politica.

Gli stili strategici di gestione sono essenzialmente due:

  1. Non si contrasta il contagio, si punta tutto sulla cura dei malati (modello tedesco, britannico, parzialmente francese)
  2. Si contrasta il contagio contenendolo il più possibile con provvedimenti emergenziali di isolamento della popolazione (modello cinese, italiano, sudcoreano).

Chi sceglie il modello 1 fa un calcolo costi/benefici, e sceglie consapevolmente di sacrificare una quota della propria popolazione. Questa quota è più o meno ampia a seconda delle capacità di risposta del servizio sanitario nazionale, in particolare del numero di posti disponibili in terapia intensiva. A quanto riesco a capire, infatti, il Coronavirus presenta le seguenti caratteristiche: alta contagiosità, percentuale limitata di esiti fatali (diretti o per complicanze), ma percentuale relativamente alta (intorno al 10%, mi pare) di malati che abbisognano di cure nei reparti di terapia intensiva. Se così stanno le cose, in caso di contagio massiccio della popolazione – in Germania, ad esempio, Angela Merkel prevede un 60-70% di contagiati – nessun servizio sanitario nazionale sarà in grado di prestare le cure necessarie a tutta la percentuale di malati da ricoverarsi in T.I., una quota dei quali viene così condannata a morte in anticipo. La quota di pre-condannati a morte sarà più o meno ampia a seconda delle capacità del sistema sanitario, della composizione demografica della popolazione (rischiano di più i vecchi), e di altri fattori imprevedibili quali eventuali mutazioni del virus.

La ratio di questa decisione sembra la seguente:

  1. L’adozione del modello 2 (contenimento dell’infezione) ha costi economici devastanti
  2. La quota di popolazione che viene pre-condannata a morte è in larga misura composta di persone anziane e/o già malate, e pertanto la sua scomparsa non soltanto non compromette la funzionalità del sistema economico ma semmai la favorisce, alleviando i costi del sistema pensionistico e dell’assistenza sanitaria e sociale nel medio periodo, per di più innescando un processo economicamente espansivo grazie alle eredità che, come già avvenuto nelle grandi epidemie del passato, accresceranno liquidità e patrimonio di giovani con più alta propensione al consumo e all’investimento rispetto ai loro maggiori.
  3. Soprattutto, la scelta del modello 1 accresce la potenza economico-politica relativa dei paesi che lo adottano rispetto ai loro concorrenti che adottano il modello 2, e devono scontare il danno economico devastante che comporta. Approfittando delle difficoltà dei loro concorrenti 2, le imprese dei paesi 1 potranno rapidamente sostituirsi ad essi, conquistando significative quote di mercato e imponendo loro, nel medio periodo, la propria egemonia economica e politica.

Naturalmente, per l’adozione del modello 1 sono indispensabili due requisiti: un centro direzionale politico statale coerentemente e tradizionalmente orientato su una accezione particolarmente radicale e spietata dell’interesse nazionale (tipici i casi britannico e tedesco); una forte disciplina sociale (ecco perché l’adozione del modello 1 da parte della Francia sarà problematica, e probabilmente si assisterà a una riconversione della scelta strategica verso il modello 2).

L’adozione del modello 1, insomma, corrisponde a uno stile strategico squisitamente bellico. La scelta di sacrificare consapevolmente una parte della popolazione economicamente e politicamente poco utile a vantaggio della potenza che può sviluppare il sistema economico-politico, in soldoni la scelta di liberarsi dalla zavorra per combattere più efficacemente, è infatti una tipica scelta necessitata in tempo di guerra, quando è normale perché indispensabile, ad esempio, privilegiare cure mediche e rifornimenti alimentari dei combattenti su cura e vitto di tutti gli altri, donne, vecchi e bambini compresi, nei soli limiti imposti dalla tenuta del morale della popolazione, che è altrettanto indispensabile sostenere.

Gli Stati che adottano il modello 1, dunque, non agiscono come se i loro concorrenti fossero avversari, ma come se fossero nemici, e come se la competizione economica fosse una vera e propria guerra, che si differenzia dalla guerra guerreggiata per il solo fatto che non scendono in campo gli eserciti. La condotta di questo tipo di guerra, proprio perché è una guerra coperta, sarà particolarmente dura e spietata, perché non vi ha luogo alcuno né il diritto bellico, né l’onore militare che ad esempio vieta il maltrattamento o peggio l’uccisione di prigionieri e civili, l’impiego di armi di distruzione di massa, etc. Per concludere, la scelta del modello 1 privilegia, nella valutazione strategica, la finestra di opportunità immediata (conquistare con un’azione rapida e violenta un vantaggio strategico sul nemico)  sulla finestra di opportunità strategica di medio-lungo periodo (rinsaldare la coesione nazionale, diminuire la dipendenza e vulnerabilità  della propria economia dalle altrui accrescendo investimenti statali e domanda interna).

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Alla luce di quanto delineato a proposito degli Stati che adottano il modello 1, è più facile descrivere lo stile etico-politico degli Stati che adottano il modello 2.

Nel caso della Cina, è indubbio che il centro direttivo politico cinese sappia molto bene che la competizione economica è componente decisiva della “guerra ibrida”.  Furono anzi proprio due colonnelli dello Stato Maggiore cinese,  Liang Qiao e Xiangsui Wang, che negli anni Ottanta elaborarono il testo seminale sulla “guerra asimmetrica”[1]. Credo che il centro direzionale politico cinese abbia scelto, pare con successo, di adottare il modello 2 per tre ragioni di fondo: a) il carattere spiccatamente comunitario della tradizione culturale cinese, nella quale il concetto liberale di individuo e il concetto cristiano di persona hanno rilievo scarso o nullo b) il profondo rispetto per i vecchi e gli antenati, cardine del confucianesimo c) una valutazione strategica di lungo periodo, riassumibile in queste due massime di Sun Tzu, il pensatore che più ispira lo stile strategico cinese: “La vittoria si ottiene quando i superiori e gli inferiori sono animati dallo stesso spirito”  e  “Una guida coerente permette agli uomini di sviluppare la fiducia che il loro ambiente sia onesto e affidabile, e che valga la pena combattere per esso.” In altri termini, penso che la direzione cinese abbia valutato che il vantaggio strategico di lungo periodo di preservare e anzi rafforzare la coesione sociale e culturale della propria popolazione superasse il costo di breve-medio periodo del danno economico, e della rinuncia a profittare nell’immediato delle difficoltà degli avversari. Perché “le vie che portano a conoscere il successo” sono tre: 1. Sapere quando si può o non si può combattere 2. Sapersi avvalere sia di forze numerose che di forze esigue 3. Saper infondere uguali propositi nei superiori e negli inferiori.”

Nel caso dell’Italia, la scelta – per quanto incerta e mal eseguita – del modello 2 credo dipenda dalle seguenti ragioni. 1) Sul piano culturale, dall’influsso della civiltà italiana ed europea premoderna, infusa com’è di sensibilità precristiana, contadina e mediterranea per la famiglia e la creaturalità, poi parzialmente assorbita dal cattolicesimo controriformato e dal barocco: un influsso  di lunghissima durata che continua ad operare nonostante la protestantizzazione della Chiesa cattolica odierna, e nonostante l’egemonia culturale, almeno di superficie, di liberalismo ideologico e liberismo economico 2) Sempre sul piano culturale, dal pacifismo instaurato dopo la sconfitta nella IIGM e perpetuato prima dalle sinistre comuniste e dal mondo cattolico, poi dalle dirigenze liberal-progressiste UE; un pacifismo che genera espressioni buffe come “soldati di pace”, e la negazione metodica della dimensione tragica della storia 3) Sul piano politico, sia dal grave disordine istituzionale, ove i livelli decisionali si sovrappongono e ostacolano reciprocamente, come s’è palesato nel conflitto tra Stato e Regioni all’apertura della crisi epidemiologica; sia dalle preoccupazioni elettorali di tutti i partiti; sia dalla fragile legittimazione dello Stato, antico problema italiano 4) sul piano politico-operativo, dalla sbalorditiva incapacità delle classi dirigenti, nelle quali decenni di selezione alla rovescia e abitudine a scaricare responsabilità, scelte e relative motivazioni sulle spalle dell’Unione Europea hanno indotto una forma mentis che induce sempre a imboccare la linea di minor resistenza: che in questo caso è proprio la scelta di contenere il contagio, perché per scegliere la via del triage bellico di massa (comunque la si giudichi, e io la giudico molto negativamente) ci vuole una notevolissima capacità di decisione politica.

In altre parole, la scelta italiana del modello 2 ha ragioni superficiali e consapevoli nei nostri difetti politici e istituzionali, e ragioni profonde e semiconsapevoli nei pregi della civiltà e della cultura a cui, quasi senza più saperlo, l’Italia continua ad ispirarsi, specie nei momenti difficili: siamo stati senz’altro umani e civili,  e forse anche strategicamente lungimiranti, senza sapere bene perché. Però lo siamo stati, e di questo dobbiamo ringraziare i nostri antenati defunti, i Lari[2] il cui culto, sotto diversi nomi, si perde nei secoli e millenni; e che senza saperlo, oggi onoriamo e veneriamo facendo tutto il possibile per curare i nostri padri, madri, nonni, anche se non servono più a niente.

Farebbe sorridere Sun Tzu e forse anche Hegel constatare che i due modelli impongono metodi operativi di implementazione esattamente opposti rispetto allo stile strategico.

L’implementazione del modello 1 (non conteniamo il contagio, sacrifichiamo consapevolmente una quota di popolazione) non richiede alcuna misura di restrizione della libertà: la vita quotidiana prosegue esattamente come prima, tranne che molti si ammalano e una percentuale non esattamente prevedibile ma non trascurabile di essi, non potendo ottenere le cure necessarie per ragioni di capienza del servizio sanitario, muore.

L’implementazione del modello 2 (conteniamo il contagio per salvare tutti i salvabili) richiede invece l’applicazione di misure severissime di restrizione delle libertà personali, e anzi esigerebbe, per essere coerentemente effettuato, il dispiegamento di una vera e propria dittatura, per quanto morbida e temporanea, in modo da garantire l’unità del comando e la protezione della comunità dallo scatenamento delle passioni irrazionali, cioè da se stessa. Operativamente, la direzione esecutiva del modello 2 dovrebbe essere affidata proprio alle forze armate, che possiedono sia le competenze tecniche, sia la struttura rigidamente gerarchica adatte.

Concludo dicendo che sono contento che l’Italia abbia scelto di salvare tutti i salvabili. Lo sta facendo goffamente, e non sa bene perché lo fa: ma lo fa. Stavolta è facile dire: right or wrong, my country.

[1] Liang Qiao e Xiangsui Wang, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, LEG Edizioni 2011

[2] v. https://www.romanoimpero.com/2018/07/culto-dei-lari.html




Tutta colpa della comunicazione! Un paese così duale anche quando cerca spiegazioni trova conflitti

Tutta colpa della comunicazione! Un paese così duale anche quando cerca spiegazioni trova conflitti

La comunicazione e il “ben altro”

Quando le cose vanno storte, qualcuno se la cava dicendo che non si è stati capaci di comunicare. A volte è così, altre volte – quando sono in campo organizzazioni complesse con loro procedure e regole – la comunicazione è a valle di ben altro. E quel “ben altro” è fatto di cose che riguardano una lunga fila di requisiti per cui – tanto nelle aziende quanto nelle istituzioni – si esercita la difficile arte del comando. Competenza, controllo pieno dei dati reali, analisi comparative, staff professionale, vissuto esperienziale per pesare pensieri e parole, senso autocritico, autorevolezza, capacità di gerarchizzare i pericoli.

Giorno per giorno, da quando è stato proclamato l’allarme sul caso Coronavirus, si addita il deficit comunicativo. Ma come è spesso nelle cose del nostro Paese, sempre e su tutto “duale”, questa critica suona nel complesso ambigua.

C’è chi dice che si comunica poco, chi troppo. C’è chi dice che si comunica per spiegare le misure, chi  dice che si comunica per litigare con chi vuole misure diverse. C’è chi dice che la comunicazione deve essere in capo a chi comanda, chi dice che deve essere in capo a chi la sa fare.

In Italia non vige il pensiero unico.  Nella prima settimana la comunità scientifica si è spaccata attraverso vari conflitti.  Il sistema politico-istituzionale ha fatto lo stesso. E – terzo soggetto sempre in campo – il sistema dei media si è rivelato contraddittorio, perché ogni volta è andato dietro agli uni e agli altri riflettendo un quadro più conflittuale di ciò che è tollerabile in piena crisi ed emergenza. Ebbene, alla fine di questo primo round  è successa una cosa immaginabile.  Prima dell’intervallo del fine settimana, ha parlato il massimo arbitro, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con poche e severe parole: “attenzione a non sollevare paure, attenzione a non cedere a teorie antiscientifiche, attenzione a non prestarsi all’autolesionismo”. E’ lui, dunque, ad avere posto il problema di adeguare le narrazioni.

L’altro conflitto insorto, tra salute ed economia

Come si sa un quarto fronte si era formato nel frattempo, sollevato da chi ha cominciato a lanciare il tema dell’economia ferita che a poco a poco – anziché trovare forme di espressione convergenti con la priorità della salute –  è diventato un tema antagonista rispetto alle dinamiche sanitarie, nel frattempo con impennate di numeri e di territori uno dopo l’altro inclusi (alla sera di mercoledì 4 marzo parliamo di oltre 3 mila contagiati, 276 guariti e 107 decessi).

A questo punto – entrati nella seconda settimana – il senso della comunicazione scomposta, della litigiosità oltre l’asticella, della conflittualità rispetto a tutti i soggetti in campo, ha superato la percezione di un volto diverso della realtà che aveva pure la sua verità e la sua legittimità: gente normale e volonterosa che si prestava (e si presta) ad attuare le misure;  grande dedizione di medici e infermieri; impegno di amministratori e funzionari; governo all’opera per cercare di tenere salute pubblica e economia in equilibrio di prospettiva;  media in pressione per assicurare una soglia elevata e razionale di adeguate conoscenze.

Insomma, la conseguenza della settimana scomposta ha fatto prevalere l’avvio del secondo round con una percezione più influenzata dalla confusione (che c’è stata) rispetto al coraggio operoso (che c’è stato).

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La comunità scientifica a questo punto si è ricompattata. Ottenendo tra l’altro – probabilmente a spese della Protezione Civile (di cui è pure parte) – la sostanziale regia comunicativa pubblica. E si è ricompattata spostando chiaramente l’interpretazione generale dell’evento da un iniziale “tutto sotto controllo” a un definitivo “la situazione è grave”. Nessun altro dispone di dati salienti per mitigare questo giudizio. E quindi il sistema politico-istituzionale a questo punto ha accusato il netto passaggio, ha regolato le misure prese (secondo decreto) di conseguenza e ha cercato di attutire i conflitti inter-istituzionali, con un momento di cautela comunicativa.

Qualcuno parli al Paese

E qui è sbucato di nuovo il terzo soggetto a sparigliare. I media.  Due giorni di tuoni (ore di maratone tv) contro la comunicazione “confusa” e poi il titolo cubitale in prima pagina di Repubblica, a firma del direttore Carlo Verdelli, “Qualcuno parli al paese”. Magari dietro l’idea di spostare dai media stessi (accusati sempre di allarmismo) alla politica l’accusa vagante di far confusione. Anche nel caso di Repubblica una cosa va detta: titolo giusto come tema cornice di ogni crisi di queste dimensioni; ma anche titolo forzato rispetto al momento in cui una certa ricomposizione si andava producendo.

E questa nuova onda ha determinato, con video circolante in tutte le tv e in rete, il ritorno comunicativo del capo del Governo, Giuseppe Conte, per spiegare il decreto e le nuove misure severe.

Chi scrive osservava già da giorni l’anomalia italiana, rispetto ad altri paesi europei, della politica – non quella dei partiti che sono pressoché eclissati rispetto alla crisi,  ma quella che guida per mandato della maggioranza parlamentare le istituzioni – a volere usare tutti gli spazi possibili per spiegare ai cittadini passo passo gli eventi della crisi (in particolare nel sistema regionale, ma il via a questo walzer lo avevano dato all’inizio sia Salvini spingendo per l’estremizzazione sia lo stesso Conte per parare Salvini con la sua ubiquità rassicurante in tutto il sistema tv).

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E’ evidente che in momenti cruciali il leader – nazionale o regionale – deve dare un segnale, possibilmente sobrio e non retorico, di responsabilità in ordine alle misure assunte. In questo c’è anche una responsabile assunzione di possibili impopolarità. Ma poi è compito della comunicazione istituzionale – intesa come sistema delle responsabilità tecniche – di spiegare, contare, argomentare, indirizzare, proibire, sollecitare, eccetera. Mai con l’idea che si sta facendo battaglia politica, mai con l’idea che dietro a quella comunicazione c’è lucro di consenso.

Qui gli errori commessi sono di sistema. Sono di crisi diffusa di classe dirigente. E di evaporazione di una cultura di comunicazione istituzionale resistente e radicata. Anche se chi scrive deve dire che questa volta la comunicazione del premier Conte non va iscritta negli errori, nel senso che almeno questa volta a lui toccava assumersi la responsabilità delle misure.

Cosa serve ora?

Adesso, di nuovo, servirebbe un momento di bocce ferme per una regolata metodologica generale. Comunità scientifica, politica, imprese, amministrazioni e sistema mediatico, senza dover fare vistosi summit propagandistici, sanno come parlarsi per tentare di uscire dalla contorsione del giorno per giorno, del caso per caso, del marketing che insegue le paure.

Le comunità locali, stanno dando un buon esempio, cercando di trovare parole comprensibili e tollerabili per vivere il duro passaggio (per alcune di loro durissimo) e conservando tolleranza e solidarietà. Abbiamo in casa molte testimonianze di buonsenso collettivo che possono diventare paradigma di una cultura nazionale di governo della crisi.

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E in alcune di queste comunità territoriali le università – qui e là ci sono casi interessanti – diventano un luogo abbastanza neutrale e con public engagement per dare parole e pensieri al proprio territorio.

La dimensione nazionale dispone però di risorse, luoghi di eccellenza, competenze, relazioni internazionali per entrare nella fase tre, quella in cui anche la comunicazione può finire per diventare virtuosa. Non perché da essa dipenda tutto. Ma perché quando funziona la regia generale, funziona anche l’immagine e la reputazione. Che non è cipria, ma leva credibile per contrastare lo sciacallaggio che si segnala giorno per giorno in mezzo mondo (ieri l’indecente spot su Canal+ in Francia sulla Pizza Corona) e per il quale rischia di essere davvero cipria la pura irritazione della nostra Farnesina.




Il coronavirus ha svelato l’inganno: siamo prigionieri delle narrazioni (ma l’epidemia di panico forse ci salverà)

Il coronavirus ha svelato l’inganno: siamo prigionieri delle narrazioni (ma l’epidemia di panico forse ci salverà)

Il Covid-2019 ha provocato due contagi, uno fisico e uno mediatico. Il secondo ha prodotto molti più ripercussioni del primo. Tornare a un mondo gerarchico, con le informazioni maneggiate dagli specialisti e diffuse soltanto tra gli addetti ai lavori (Asl o operatori sanitari) è impensabile

Il coronavirus ha diviso l’opinione pubblica italiana secondo linee preesistenti e prevedibili. I sovranisti amplificano il pericolo e danno la caccia all’untore cinese, i populisti alimentano complottismi e sfiducia nelle autorità, i liberal dicono che l’influenza stagionale fa più vittime e vanno a pranzo al ristorante cinese. E poi ci sono le prese di posizione assunte per reagire ad altre prese di posizione, come quelli che deridono le mascherine perché se le mettono i parlamentari di destra. Finora non abbiamo quasi mai parlato della malattia, abbiamo parlato solo della sua percezione. Negli ultimi anni abbiamo usato il termine “virale” più nella sua accezione mediatica che medica, e il Covid-2019 ha di fatto provocato due epidemie, una fisica e una mediatica, con la seconda che ha prodotto molti più “contagi” e ripercussioni della prima. E come la prima verrà studiata, domata e iscritta nei protocolli sanitari, così la seconda dovrebbe venire analizzata scrupolosamente, per elaborare protocolli e vaccini per le prossime emergenze.

Il panico da COVID-2019 – da distinguersi dall’epidemia reale – ha mostrato quello che sappiamo già, ma non abbiamo ancora compreso e realizzato fino in fondo: nel mondo mediatico in cui viviamo i nostri comportamenti sono dettati dalle narrativeChi forgia le narrative governa (o insidia il governo). La polemica sui contagi al Nord non è solo un dibattito sulle tattiche di gestione dell’emergenza, ma uno scontro sulle rispettive narrative, e nulla lo mette più in chiaro degli attacchi di Salvini e dei media vicini alla Lega, che dopo l’esplosione del contagio in Italia accusano i “buonisti” di “aver combattuto il razzismo invece del virus” (la svolta verso la minimizzazione successiva del governatore Fontana non è un cambiamento di narrativa, cioè di una visione del mondo, ma soltanto la difesa della sanità lombarda).

In altre parole, il razzismo – una narrativa – era la tattica giusta, e combatterlo – con un’altra narrativa – è stato sbagliato. Fossimo rimasti razzisti, saremmo rimasti sani. Una narrativa che in Italia ha, se non prevalso, avuto largo spazio, con conseguenze fatali. L’associazione del virus all’”untore” asiatico ha portato alla tranquillizzante logica dell’isolamento: chiudiamo i voli con la Cina e il virus non atterrerà in Italia. Il “paziente 1” di Codogno mostrava sintomi associabili al coronavirus, ma era italiano, come probabilmente anche l’ignoto per ora “paziente 0”, ed è stato rimandato a casa, dopo aver infettato mezzo pronto soccorso. Probabilmente è stato un caso sfortunato, che poteva accadere a Cosenza o a Cortona quanto a Codogno, ma il fatto che sia successo proprio nella provincia del Nord, quella operosa, benestante, organizzata e tradizionalista, colpisce pesantemente la narrativa del sovranismo italiano che la vede come il cuore e il modello del Paese, un luogo dove rifugiarsi dalla depravazione della globalizzazione. E genera un’altra narrativa, quella del Sud che vuole proibire l’ingresso ai lombardi, in una gongolante ritorsione contro decenni di narrativa antimeridionale. Il corona-razzismo internazionale e interrazziale ha lasciato il posto al razzismo interregionale.

Ma intanto, siccome l’Italia sta sostituendo nel ruolo dell’”untore globale” la Cina (i primi contagiati in Algeria e in Brasile provengono dalla Lombardia), ecco che scatta un’altra narrativa tipica di chi si sente in imbarazzo: in realtà, gli italiani sono stati semplicemente più bravi e solerti a scovare i casi di contagio, mentre in Francia o in Germania lasciano gli ammalati a piede libero. Se fosse così, tra qualche giorno Francia e Germania dovrebbero mostrare numeri epidemiologici ben più alti dell’Italia, ma tanto tra qualche giorno parleremo d’altro.

Il coronavirus è l’epidemia che ha messo il pianeta di fronte alla sua dimensione globalizzata, ma anche il panico che ha generato è stato un fenomeno globale, che si è propagato molto più rapidamente del virus stesso. È la prima epidemia ai tempi dei social e dei media globali. La prima epidemia ai tempi del populismo. E le misure per contenerla sono in buona parte dettate non tanto dalle esigenze sanitarie, quanto dall’ansia della politica rispetto alla psicosi dell’opinione pubblica, o perlomeno la seconda pesa nelle decisioni quanto la prima. Sarà curioso leggere, quando verrà scritta, una ricerca degli economisti sui danni provocati dal panico rispetto all’impatto sul Pil dell’epidemia reale, sempre che sia possibile separare nettamente le motivazioni nel caso di decisioni come la chiusura dei voli o del carnevale veneziano.Ma non può sfuggire la correlazione tra i numeri di contagi di alcuni dei Paesi più colpiti e il loro rapporto alterato con i media, censurati nel caso della Cina e dell’Iran, privi di qualunque freno nel caso dell’Italia. I ricercatori che studiano l’impatto delle malattie (non solo infettive), utilizzano vari indici che nascondono dietro sigle neutrali come SDI (social-demographic index) le voragini che separano i diversi Paesi per igiene, alimentazione, prevenzione, livello della sanità e possibilità di accesso alle sue strutture, e anche per cultura e disciplina della popolazione.

Non esiste – per ora, forse – un indice che misura il grado di virulenza dei media, social e non, né sono ancora state scritte linee guida che gettino un ponte in precario equilibrio tra il negazionismo e l’allarmismo. Ma se accettiamo la necessità, per il bene comune, di limitare la libertà di movimento e di assemblea, non possiamo difendere nello stesso tempo la libertà di dire idiozie. E’ una questione di igiene. Immaginatevi, per esempio, i notiziari sul coronavirus che mettono accanto al numero dei contagiati e dei morti quello dei guariti – in questo momento, rispettivamente 81288, 2770 e 30358 – e il panico fatica a nascere. Ma nei media vale la regola che una buona notizia non è una notizia, e se in più alcuni giornali italiani scambiano il numero dei guariti (recovered in inglese) con quello dei ricoverati, non c’è mascherina che tenga.

Tornare a un mondo gerarchico, con le informazioni maneggiate dagli specialisti e diffuse soltanto tra gli addetti ai lavori (Asl o operatori sanitari) è impensabile. Ma governare le narrative non significa usarle sempre per alimentare i peggiori istinti di panico e xenofobia. E il coronavirus lo sta mostrando, anche se il bias negativo dei media mette in risalto solo le conseguenze negative del corona-panico. Ma già adesso vediamo migliaia e forse milioni di persone indossare la mascherina, speriamo lavarsi le mani, e in generale reagire con compostezza e disciplina. La mascherina fece la sua comparsa nel nostro immaginario nel 2003, all’epoca della Sars, insieme alla misurazione della temperatura negli aeroporti. All’epoca, venne recepita come una misura esagerata e ridicola, dettata dalla paranoia. Oggi la consideriamo normale e la mettiamo di nostra volontà, senza aspettare richiami dalle autorità.

Una nuova narrativa – essere responsabili della propria salute e quindi di quella collettiva – ha preso piede con una rapidità impossibile prima dell’avvento della società mediatica. Anche quelli che avevano iniziato a lavarsi le mani prima di visitare i malati, venivano guardati come igienisti paranoici. L’arcivescovo Amvrosij, che durante la peste a Mosca cercò di impedire ai fedeli di baciare le icone taumaturgiche, venne dilaniato dalla folla inferocita; era il 1771, e l’imperatrice Caterina era in corrispondenza con Voltaire e Diderot. E quando, nel 1854, il dottor John Snow rimosse la maniglia sulla pompa d’acqua in Broadwick Street, fermando l’epidemia del colera a Londra, venne preso per pazzo (la maniglia viene tuttora rimossa e rimessa ogni anno, in una cerimonia che ricorda quanto sia difficoltoso il cammino della scienza). Era uno scontro di narrative, e sul lungo periodo vincono sempre quelle che permettono di sopravvivere.

Ovviamente, potremo tirare le somme delle due epidemie, quella del coronavirus e quella del corona-panico, soltanto quando si saranno concluse, e si potranno contare le vittime della prima e i danni e/o benefici della seconda. Ma se si scoprisse che grazie al panico globale – possibile soltanto in un mondo globalizzato – per la prima volta siamo riusciti ad arginare un’epidemia? Perché le epidemie erano globali anche prima di Facebook, e ogni anno si ammalano di influenza stagionale da 250 milioni a un miliardo di persone. Con una mortalità intorno allo 0,1-0,2%, significa 250 mila-1 milione di morti l’anno. Ogni anno. Se la mortalità del coronavirus è intorno al 2%, e la virulenza è più o meno quella di un virus stagionale “ordinario”, significa un rischio di 20 milioni di morti.

Se, come sembra, i grafici di diffusione del virus da verticali stanno diventando sempre più pianeggianti, anche grazie a misure draconiane come la segregazione di interi territori, da Wuhan al Lodigiano, il numero delle vittime (nonostante inevitabili esplosioni di contagio locali) potrebbe essere irrisorio su scala globale, poche migliaia. Questo significherebbe aver salvato circa 19 milioni 995 mila vite. Incluse quelle dei razzisti per prevenzione che picchiano quelli con gli occhi a mandorla negli autobus e nei supermercati (senza temere di prendere il contagio a toccarli), dei complottisti, degli apocalittici, dei paranoici, dei medici mediatici che si insultano sui social, dei giornalisti che pubblicano notizie non verificate e traducono male dall’inglese e perfino dei no-vax. Questo significherebbe aver fatto prevalere, perfino in sistemi politici non esattamente compassionevoli, la narrativa che la salvezza di una vita umana viene prima del profitto e della ragion di Stato.

Nel mondo animale, le epidemie eliminano gli esemplari più deboli e rafforzano con gli anticorpi quelli più resistenti. Vale anche per le epidemie di panico. E in un mondo sempre più globale e complesso, i più resistenti non sono quelli più robusti, ma quelli più capaci di adattarsi ai cambiamenti, di adottare comportamenti razionali, di mantenere la disciplina, di soppesare rischi e benefici invece di farsi prendere da emotività tribali, di cooperare con gli altri, di non soccombere al contagio. Ci sarà una selezione naturale. Stiamo già elaborando gli anticorpi: se nei primi giorni parlare di psicosi esagerata era più pericoloso che andare a Codogno, ora il mood che prevale (dopo tre giorni a casa con la famiglia) è quello di «la vita deve andare avanti». Inventeremo vaccini. Alzeremo le difese immunitarie contro il panico, ed elaboreremo protocolli per arginare le prossime epidemie rapidamente ed efficacemente, senza eccessi come quello di chiudere 3700 persone in una nave da crociera, trasformando il contagio da probabile in quasi certo.. Oppure, le tossine sedimentate da ondate di panico, una dopo l’altra (chi si ricorda dell’Isis?), finiranno per compromettere definitivamente il nostro genoma, portando a una mutazione o al risorgere di atavismi cavernicoli. In entrambi i casi, sarà merito (colpa) di un mondo globale dominato da narrative mediatiche.




Infodemia: il caso da manuale di come non si comunica

Infodemia: il caso da manuale di come non si comunica

Dai gesti eclatanti alle esternazioni contradditorie, passando per provvedimenti a macchia di leopardo: nella gestione dell’emergenza Coronavirus sono stati fatti troppi errori

Attorno alla notizia del primo contagiato italiano il 21 febbraio si è scatenato un progressivo caos comunicativo che ha generato nei cittadini una sensazione di inquietudine che in molti casi si è via via trasformata in panico.

I sociologi della comunicazione la chiamano infodemia: “la circolazione eccessiva di informazioni contraddittorie. Spesso non vagliate con precisione, non verificate, che rendono difficile orientarsi su un determinato tema, argomento, scelta per la difficoltà di individuare fonti non solo affidabili ma anche certe” ( David J. Rothkopf, «Washington Post», When the Buzz Bites Back (11 maggio 2003)

Ma in un Paese a democrazia evoluta, chi deve parlare in eventi potenzialmente catastrofici che possono generare un danno collettivo enorme? Qualcuno potrebbe risponderebbe “tutti, visto che è un diritto costituzionale” confondendo il diritto alla libera espressione con la responsabilità delle informazioni e delle decisioni. Che è anche la confusione che si è generata, complice anche le opportunità del web e dei social network, che ci hanno ormai abituato a una comunicazione “fra pari” e, in parte, “deresponsabilizzzante”.

Un’emergenza come quella del Covid19 si dovrebbe affrontare anche a livello comunicativo con gli stessi principi e le medesime procedure tipici del risk/crisis management. Vediamone alcuni e se e come sono stati rispettati.

1. Centralizzare le informazioni

Nei casi di crisi dovrebbe parlare una sola fonte. Ma, anche in virtù della devoluzione delle responsabilità in materia di tutela della salute, di fatto questo non è accaduto: ogni singola Regione ha adottato proprie strategie di contenimento del contagio (talora anche prive di ragioni scientifiche), con scarso coordinamento se non addirittura in contraddizione con quelle delle altre, e in qualche caso in aperto conflitto con quelle del Governo (tanto che l’Esecutivo ha addirittura fatto un ricorso al TAR). Tutto questo ha creato incertezza e la percezione di mancanza di una guida chiara ed univoca: un agente formidabile per scatenare paure incontrollate e reazioni irrazionali e antisociali come l’accaparramento di generi alimentari nei supermercati.

2. Evitare informazioni in eccesso.

Il ritmo di almeno due conferenze stampa al giorno (fra nazionale e regionale), insieme alla frequenza e monotematicità di aggiornamenti e commenti sulle principali emittenti radio e TV, con interviste a esperti di ogni genere, hanno creato un surplus informativo e confuso: istituzioni nazionali che smentivano istituzioni locali su dati ed interpretazioni e viceversa. Purtroppo, l’effetto domino creato da continui nuovi contagi hanno amplificato a dismisura le notizie e i toni.

3. Informazione sobria, se possibile fatta da un tecnico, evitando banalizzazioni e tecnicismi

In generale la comunicazione di una epidemia dovrebbe essere appannaggio di un tecnico, lasciando la politica e le istituzioni in secondo piano, e pertanto bene ha fatto il Governo a lasciare l’incombenza della conferenza stampa quotidiana al Commissario per l’emergenza Borrelli, capo della protezione civile. Molto meno bene hanno fatto Governatori e Assessori a improvvisarsi virologi, confondendo perfino i virus con batteri. Ma anche il mondo scientifico ci ha messo del suo: medici e scienziati di chiara fama si sono sentiti autorizzati a dare dati e previsioni polemizzando fra loro (chi non ricorda la polemica del prof. Burioni con la “signora del Sacco”? Sono episodi che hanno complicato una narrazione già di per sé complessa).

4. Trasparenza

Da subito si è deciso di dare il massimo della trasparenza a tutti i dati dei contagi, mentre prudenza avrebbe voluto che si comunicassero solo i casi “confermati” dalle controanalisi dell’ISS e non quelli delle persone sottoposte al test o risultate “positive” al primo tampone, anche se asintomatiche. Gli altri Paesi hanno da subito comunicato i soli contagiati certi e con condizioni di salute serie, scelta decisamente meno ansiogena. L’Italia in un batter d’occhio è diventata così il terzo Paese al mondo per contagiati dopo Cina e Corea del Sud. Solo dopo sei giorni, quando oramai il danno era fatto e le conseguenze economiche pesantissime e a lunga durata, l’Italia si è uniformata ai metodi di rilevazione degli altri Paesi.

5. In assenza di certezze, evitare ogni previsione

In una situazione in cui poco o nulla si conosce dell’agente infettante, sarebbe stato opportuno astenersi da previsioni, ma esperti, medici e politici, abbandonando ogni elementare prudenza, si sono lanciati in previsioni più o meno catastrofiste, per poi “cambiare idea” e ritornare su posizioni più possibiliste e meno apocalittiche solo negli ultimi giorni.

6. Evitare personalismi e gesti eclatanti

Personalismo e sensazionalismo sono forse i “mali” che più hanno generato quelli finora elencati: il personalismo ha portato politici (ma ahimè anche medici e ricercatori) di ogni ordine e grado a commentare dati e previsioni, a speculare sulla situazione per danneggiare la parte politica avversa (o screditare i colleghi), incuranti del danno sull’opinione pubblica. Anche i rappresentanti delle istituzioni non sono sfuggiti alla tentazione della ricerca della visibilità personale o sono caduti nella trappola di discorsi o gesti “ad effetto”, che in un contesto di crisi andrebbero assolutamente evitati. E’ il caso in cui è incorso il normalmente misurato presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, con l’annuncio dell’autoisolamento in diretta Facebook, indossando coram populo una mascherina sterile. Una scelta inutilmente ansiogena.

Che insegnamento trarre allora da quanto accaduto? Che nell’epoca della disintermediazione e della sovrainformazione, anche le istituzioni, come già fanno tante aziende, devono dotarsi di piani di gestione del rischio che prevedano procedure chiare e condivise di comunicazione, secondo i principi che abbiamo esposto, che raccordino e impegnino Governo centrale, Regioni, Comuni e autorità verticali (es. Istituto Superiore di Sanità). Tali procedure dovranno prevedere anche una formazione mirata per le persone che rivestono certi ruoli, affinché non solo ne diventino i garanti ma siano anche messe in grado di sostenere lo stress mediatico di situazioni ad alta complessità ed emotività (molti sono convinti che parlare con i media sia una cosa che possono e sanno fare tutti, ma non è affatto così). Solo così alla capacità di intervento sulle emergenze, spesso eccellente nel nostro Paese, si potrà affiancare anche un’adeguata responsabilità nella gestione della comunicazione e del flusso informativo. Certamente ci sono già competenze ed esperienze virtuose, ma occorre metterle a sistema e farne un patrimonio condiviso. Certo la responsabilità dei singoli non è mai sostituita dalle procedure, ma la presenza di linee guida chiare e un’adeguata formazione possono contribuire in modo decisivo a far crescere una cultura diffusa della corretta comunicazione.

L’autore, Gabriele Bertipaglia, è partner di SEC Newgate Spa e responsabile della divisione Reptutation & Crisis Management. L’agenzia italiana è a capo di un gruppo internazionale specializzato in Public Relations e Advocacy fra i primi 30 al mondo. Per l’emergenza coronavirus ha messo a disposizione di aziende ed enti un team di specialisti per accompagnare la comunicazione di crisi verso clienti, dipendenti, fornitori e sui diversi canali (media, social, etc.).