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Disabilità e moda: quando l’abbigliamento è adaptive ed accessibile

E’ primavera e molti stanno facendo il cambio dell’armadio senza rinunciare allo shopping per avere un guardaroba da urlo con un occhio ai trend e ai canoni estetici dettati dal fashion system.
Spesso però i modelli che sfilano in passerella non rispecchiano le esigenze delle persone comuni, tantomeno quelle delle persone disabili.
Nella società in cui viviamo qualcosa si sta muovendo in questo senso: c’è più attenzione alla disabilità e all’imperfezione e anche la moda si è accorta che può essere un importante veicolo di integrazione.
Tra gli stilisti sensibili a questa tematica c’è Tommy Hilfiger, pioniere nell’abbigliamento adaptive che nel 2017 ha ideato una linea dedicata a chi vive con difficoltà motorie.
La collezione è stata concepita per offrire abiti che garantiscano praticità senza rinunciare all’aspetto cool, tipico della moda: cerniere facili da aprire e chiudere, ganci, magneti e velcro nascosti che consentono di vestirsi anche con una mano sola.
Oltre a questo, navigando nella sezione sostenibilità del sito di Hilfiger ho scoperto altri importanti progetti che l’azienda porta avanti per le pari opportunità ed il rispetto dell’ambiente. Tutto ciò rientra a pieno titolo nella Corporate Social Responsibility e le scelte etiche piacciono ai consumatori che apprezzano i prodotti realizzati da imprese sostenibili tanto che io stessa, colpita da quanto ho letto, sono andata a sbirciare gli abiti del brand.
I capi d abbigliamento di Tommy Hilfiger sono disponibili su vari marketplace, in particolare Stileo, che oltre a questo marchio presenta anche altre linee di brand come Calvin Klein e Arrow. Si possono trovare vestiti e scarpe sia per uomo che per donna, ideali per ogni stagione, che arricchiscono il guardaroba e donano outfit casual ma con stile.
In particolare ho fatto un giro nella sezione dedicata alle donne e mi sono piaciuti i sandali con zeppa, disponibili in diverse versioni, sempre molto chic e comodi. Si tratta di un passepartout per ogni occasione, perfetti in primavera ed in estate.
Inoltre ci sono camice alla coreana, trench trendy, jeans, felpe e sneakers a volontà per un look informale. Nella foto un esempio di outfit semplice e raffinato.

Tornando al discorso di prima, fa piacere che un marchio del genere si impegni per la disabilità e ci auguriamo che altri brand ne seguano l’esempio perché è giunto il momento che la moda lasci il mondo patinato per vestire la gente comune, nessuno escluso.
Tutti hanno il diritto di indossare un abito che valorizza la sua persona, indipendentemente dalla taglia, dalla carrozzina e dalla protesi.
Ultimamente la moda sembra finalmente premiare l’unicità e, a dispetto del modello unico, si fa strada una nuova tendenza che lancia messaggi positivi sull’accettazione del proprio corpo e sulla bellezza autentica, concetti che prescindono dalle forme perfette.
Infatti sono molto richieste modelle curvy come Ashley Graham o affette da vitiligine come Winnie Harlow che dimostrano come la diversità possa essere un punto di forza. La Graham e la Harlow sono due testimonial di una rivoluzione che è in atto e chiede che i prodotti di moda e di lusso siano accessibili a tutti: la moda deve essere democratica ed inclusiva.




Ora è ufficiale: Victoria's Secret cancella lo show natalizio. ''Vogliamo che il nostro messaggio si evolva''

Ora è ufficiale: Victoria's Secret cancella lo show natalizio. ''Vogliamo che il nostro messaggio si evolva''
Dopo le voci circolate questa estate arriva anche la conferma da parte del CFO di L Brands (azienda proprietaria di Victoria’s Secret) Stuart Burgdoerfer: lo show natalizio del 2019 del marchio di intimo statunitense è stato cancellato. Una decisione figlia di un nuovo concetto di bellezza inclusiva, del calo delle vendite e delle critiche sempre più numerose


Sarà un Natale senza angeli quello del 2019. Nessun sacrilegio: stiamo parlando degli angeli di Victori’a Secret, brand di intimo statunitense tra i più amati al mondo che per il 2019 ha decisio di cancellare il fashion show faraonico con il quale ogni anno dal 1995 presenta nel periodo natalizio le sue collezioni. La notizia era trapelata già la scorsa estate e a farsela sfuggire era stata proprio una delle modelle di VS, Shanina Shaik, durante un’intervista nella quale aveva dichiarato: “Sfortunatamente lo show di Victoria’s Secret non ci sarà quest’anno. È qualcosa a cui non sono abituata perché ogni anno in questo periodo mi alleno per essere pronta a fare ‘l’angelo'”.
Ebbene, quest’anno niente angeli e niente show. La conferma arriva direttamente da Stuart Burgdoerfer, CFO di L Brands, l’azienda proprietaria di Victoria’s Secret: “Comunicheremo con i nostri clienti, ma nulla di simile, come magnificenza, al fashion show”.

Uno spettacolo trasmesso in TV in tutto il mondo che ogni anno colleziona centinaia di milioni di telespettatori e che ha contribuito a lanciare la carriera di modelle come Adriana Lima e Alessandra Ambrosio o come le più recenti Gigi e Bella Hadid e Kendall Jenner forgiando contemporaneamente un’idea di bellezza così esclusiva che le modelle che vi partecipano vengono chiamate, appunto, “angeli di Victoria’s Secret”.
Perché dunque cancellarlo? Perché è tempo di “evolvere il messaggio della compagnia”. Un messaggio che era stato riassunto in tutta la sua cruda intransigenza dall’ex Chief Marketing Officer, Ed Razek, in un’intervista per Vogue dell’anno scorso nella quale, interrogato sulla possibilità di avere modelle transgender e plus size nello show, aveva risposto: “No, non credo dovremmo perché lo show è una fantasia. È uno spettacolo di intrattenimento di 42 minuti. Questo è quello che è. È l’unico nel suo genere e qualsiasi altro marchio di moda lo farebbe suo in un minuto, compresi quelli che ci criticano”.

Parole che nel 2019, in una società che ha imparato a rifiutare canoni estetici rigidi e che sta definendo una nuova idea di bellezza inclusiva, hanno avuto un effetto boomerang devastante. Nel giro di 12 mesi Victoria’s Secret ha ingaggiato una modella transuna con la taglia 46 (che non sarà plus size ma è lontana dalla forma fisica generalmente esatta ai casting di VS), ha accompagnato alla pensione Ed Razek e ora ha cancellato anche lo show simbolo del suo successo commerciale.
Un successo commerciale che ha cominciato a venire meno negli ultimi due anni (nonostante il marchio americano resti leader indiscusso dell’intimo) e che rappresenta la vera motivazione di un cambiamento di rotta così veloce e radicale: quando la curva delle vendite comincia a guardare verso il basso, un buon management corre ai ripari prima che la situazione precipiti. Soprattutto in un mondo che corre velocissimo e nel quale indignazione e boicottaggi rimbalzano senza possibilità di scampo sui social network.
Se si aggiunge che le critiche a Victoria’s Secret stavano cominciando ad arrivare anche dalle stesse modelle come Karlie Kloss (che ha abbandonato il marchio per protesta verso il messaggio che trasmette) o Doutzen Kroes (che ha firmato una lettera aperta per invitare il brand a difendere le sue modelle dalle molestie sessuali sul set) era inevitabile aspettarsi dei cambiamenti.




Chi sta attaccando il turismo della Repubblica Dominicana?

Chi sta attaccando il turismo della Repubblica Dominicana?

FBI impegnata ad investigare in una specie di ‘crime story’


Se non fosse che in gioco ci sono tanti posti di lavoro, importanti investimenti e soprattutto la credibilità di un Paese, la Repubblica Dominicana, quello che sta accadendo in una parte dell’isola caraibica parrebbe quasi una ‘crime story’ scritta da un abile regista.ù
urtroppo ci sono state anche sei morti per cause naturali di altrettanti cittadini americani in alberghi top sulle mitiche spiagge di Punta Cana.

L’attacco al turismo dominicano. Forse una regia?

I contenuti  della ‘storia’ ci sono tutti : sei decessi, ufficialmente per cause naturali ma tutti di cittadini americani che avrebbero bevuto alcool in particolare nelle camere d’albergo e si sarebbero sentiti male fino a morire, il Presidente americano che minaccia di boicottare il paese a livello turistico, se non vengono risolte certe situazioni e l’FBI pronta ad investigare.
Nel frattempo trasmissioni televisive negli Stati Uniti allertano i cittadini americani sui potenziali rischi di vacanze sull’isola.
E  il risultato di questo can can mediatico è una pioggia di disdette di americani spaventati da questa che è una vera e propria ‘crisis communication’.
Una crisi mediatica che ha sorpreso un po’ tutti nel paese, punta di diamante dei Caraibi per la qualità della sua accoglienza, dei suoi resort, delle sue spiagge , della sua gente , dei suoi famosi ‘all inclusive’e dei suoi pochi hotel super lusso non ‘all inclusive’.
E proprio dall’alto livello degli ‘all inclusive’ vale la pena di partire.
Molto spesso i turisti americani, e non solo quelli, vengono proprio per il piacere di godere appieno di mangiate e soprattutto di bevute 24 ore su 24. Insomma un ciclo continuo che, se non gestito con consapevole attenzione, può stroncare anche un elefante in buona salute.
Figuriamoci questo mix di alcool, cibo e magari di qualche medicina di vario tipo di cui non è necessaria la ricetta .
Quanti danni potrebbe fare un cocktail di questo genere su soggetti di mezza età magari non sostenuti da una salute da perfetto atleta?
Certo le eventuali autopsie delle povere persone decedute potranno fare chiarezza sulle cause che, al momento, sono indicate solo come naturali.

L’attacco al turismo dominicano. oltre 7 milioni di turisti ogni anno

Ma come mai tutti americani?
Magari si potrebbe pensare a qualche strategia terroristica (improbabile da queste parti), dietro questi fatti.
Una semplice considerazione che fa riflettere: i due alberghi sono visitati tutto l’anno da numeri impressionanti di turisti per la maggior parte americani. Di italiani, a 400 dollari a notte (più o meno), se ne trovano proprio pochi.
E poi il tema assicurazioni. Qualcosa da non sottovalutare.
Nessuno mette in dubbio il dolore vero e la correttezza delle famiglie toccate da questi tristi casi ma, in altre occasioni, fortunatamente di più lieve entità, i professionisti del reclamo/rimborso hanno lavorato spesso contro gli alberghi con considerevoli vantaggi.
Come diceva il nostro monumento politico Giulio Andreotti ‘ a pensar male si fa peccato ma, qualche volta ci si azzecca’.
Quest’anno sono previsti 7 milioni di turisti nell’isola caraibica.
Ogni anno sono sempre in crescita, arrivano, si divertono e tornano con il solo sogno di ritornare l’anno successivo.
Ed allora come non pensare ad un freddo regista dell’attacco mediatico. Chi potrebbe avere interesse a screditare un paese conosciuto nel mondo per le sue bellezze e per la sua accoglienza?
E qui la fantasia non si ferma.
Nessuno incolpa nessuno ma, ad esempio un malpensante potrebbe arrivare alle belle spiagge messicane che in questi anni hanno dovuto difendersi dalle accuse di pericolosità. O magari a qualche grosso tour operator che avrebbe più interesse a direzionare il florido mercato americano su altre destinazioni più redditizie. O ancora a qualcuno che vuol far pagare al Governo dominicano i recenti accordi con il ricco mercato cinese. E perché no in questo ventaglio allargato anche la meravigliosa e politicamente complicata Cuba. A questo proposito vale la pena ricordare che da poco l’isola di Castro deve sopportare oltre al ‘bloqueo’ economico pure un blocco delle navi da crociera americane. Causa l’aiuto al Venezuela di Maduro.

Tutto e di più.

Servirebbe un fine investigatore del calibro di Sherlock Holmes.
Per il momento si aspettano i risultati degli esami e del lavoro dell’FBI con il sincero dispiacere di tutti i domenicani che, è vero vivono di turismo, ma è anche vero che adorano chi sa apprezzare luoghi e costumi della loro terra.
Mentre invece quello che il Governo Dominicano di Danilo Medina dovrebbe fare, ma da subito, è cercare e lavorare con esperti di comunicazione che indichino una strategia per modificare i danni di immagine di questi accadimenti.
Le leggi della comunicazione sono semplici: per avere una bella immagine occorrono molti anni, per rovinarla bastano pochi mesi.




BURIONI, UN BRAND DI SUCCESSO. MA È ANCHE UNA COMUNICAZIONE EFFICACE?

L’interessante e centrato articolo scritto da Francesco Sordi sul “brand Burioni” non può non stimolarci anche alcune riflessioni sull’efficacia dello stile di comunicazione del noto “medico Social” e sulla sua capacità di raggiungere l’ampio pubblico dei cittadini e orientarne la consapevolezza, nonché più in generale sul ruolo della comunicazione in scienza, e sul corretto atteggiamento da tenere per chi ha l’ambizione di rivestire il ruolo del “divulgatore”.

Colmare il gap tra esperti e gente comune

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Per farlo, torniamo per un attimo all’Inghilterra della Thatcher, anni caratterizzati da crisi economica, marcate problematiche sociali, malcontento popolare e rifiuto delle “elites”, incluse ovviamente quelle scientifiche: già allora il luogo comune dei “poteri forti” aleggiava sulla cittadinanza, utile pretesto per tentare di legittimare qualsiasi autorità costituita.

In quel contesto, gli scienziati capirono quanto poteva essere importante uscire dai loro laboratori ed entrare in contatto con la società, e lo fecero nel modo per loro più ovvio, “ovvero mettendosi in cattedra”, come ci ricorda un bell’articolo del medico e pubblicista Roberta Villa pubblicato sull’edizione italiana di Wired. Nel 1985, la Royal Society, che riunisce appunto l’elite del mondo scientifico di Oltremanica, produsse un documento intitolato The Public Understanding of Science (1) (da cui l’acronimo PUS). Una cinquantina di pagine di analisi e proposte concrete, che riflettevano le basi dell’approccio che per i successivi vent’anni avrebbe dominato la comunicazione della scienza, il cosiddetto “deficit model”: secondo questa datata teoria, che oggi dopo decenni qualcuno in Italia vorrebbe riportare in auge, l’ostilità di parte del pubblico nei confronti di alcuni avanzamenti della scienza dipenderebbe dalla mancanza delle informazioni necessarie per capirla e apprezzarla; se i ricercatori, la scuola, i media, gliele fornissero, la gente imparerebbe ad apprezzare il valore culturale della scienza, dell’arte o della letteratura, e tutti acquisirebbero una conoscenza sufficiente per condividere e sostenere le richieste dei ricercatori, anche a livello politico ed istituzionale, con il risultato che i finanziamenti alla ricerca aumenterebbero. Nei campi in cui queste nozioni hanno poi un impatto sulla vita concreta delle persone, dalla salute all’agricoltura, dalla chimica all’ambiente, colmare il gap tra esperti e gente comune dovrebbe bastare – scrive Villa – a far cambiare “anche i comportamenti, sulla base delle nuove nozioni acquisite”. Con il passare del tempo però, è apparso evidente che le cose sono un ben più complicate di come allora poteva apparire.

Ognuno elabora le informazioni in modo diverso

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Le informazioni che riceviamo sono infatti accolte ed elaborate in maniera diffrente anche in relazione al nostro background culturale e socialeal nostro sistema di valori e credenze, alle esperienze che ciascuno di noi ha avuto direttamente, di cui è stato testimone, o che gli sono state raccontate. Ogni comunicatore – in particolare se si occupa di scienza – sa bene che di tutte queste cose deve tenere conto, adeguando il messaggio e il suo tono al target che desidera raggiungere e al canale che sta utilizzando. “Mettersi in cattedra”, quindi, può andar bene in un’aula universitaria, dinnanzi a studenti che per il semplice fatto di essere lì riconoscono al professore un’autorità e un potere, ovvero questo approccio dall’alto al basso può essere rassicurante per persone confuse e con pochi strumenti culturali, che trovano un punto di riferimento forte a cui affidarsi; ma per contro può diventare invece controproducente se si ha a che fare con un pubblico più colto e mediamente preparato, come molti dei genitori che, proprio per aver cercato di informarsi il più possibile per valutare le scelte sanitarie più opportune per i propri figli, “sono incappati in fonti inattendibili che hanno instillato in loro dubbi o paure”, come ci ricorda sempre Villa nel suo articolo.

Andrea Grignolio, storico della medicina, nel suo libro “Chi ha paura dei vaccini?” (2) riflette poi sulle circostanze sociali e individuali e sui bias neurocognitivi che hanno favorito la diffusione di atteggiamenti esitanti nei confronti delle vaccinazioni: se un genitore ha paure legate a un’alterata percezione del rischio, ad esempio in seguito a scandali che hanno realmente coinvolto aziende farmaceutiche, oppure rappresentanti di istituzioni sanitarie che si sono rivelate corrotte, ha perso fiducia in queste autorità, o se è rimasto segnato dal racconto o dall’esperienza personale di una disabilità erroneamente attribuita – ad esempio – a una vaccinazione, “non sarà certo facendogli una lezione di immunologia su Facebook, deridendolo o insultandolo che gli si potrà fare cambiare idea”, sostiene Villa nel suo articolo. Come non essere d’accordo? tanto più che «le evidenze – aveva dichiarato sempre a Wired proprio Grignolio in un’intervista – ci dicono che sfidare le persone esitanti o contrarie ai vaccini non serve, come accennato sopra: il rischio è quello di radicalizzare le posizioni contrarie». Limitarsi a dire “Non è così, io ho ragione e tu torto”, è sbagliato, rischia di diventare uno scontro di identità in cui le nuove informazioni non fanno che aumentare le posizioni contrarie.

Empowerment del cittadino e del paziente

La sfida, molto più difficile, consiste quindi nel fornire a chiunque, in relazione alle sue possibilità, gli strumenti per fare scelte consapevoli e, possibilmente, scientificamente fondate: questo è l’empowerment del cittadino e del paziente, un nuovo modello, che prevede il coinvolgimento del pubblico non più visto come un “contraltare passivo” da riempire di informazioni, ma come un interlocutore attivo, con il quale interagire a vantaggio di entrambe le parti. Queste considerazioni sanciscono il passaggio dal vecchio modello PUS al nuovo modello PEST: Public Engagement with Science and Technology.

“Si tratta di un cambiamento totale di prospettiva”, sostiene giustamente Villa, che vede comuni cittadini collaborare con i ricercatori (potremmo definirli – in modo forse originale ma ben centrato – “citizen science”?) e i pazienti poter dire la loro negli indirizzi di ricerca degli scienziati, nient’altro, in fondo, che “un’estensione di quella multidisciplinarietà che ha portato fisici, ingegneri ma perfino filosofi nei laboratori di biologia molecolare, con la consapevolezza che chiunque può essere portatore di un piccolo pezzo del puzzle della conoscenza umana, di cui sarebbe un peccato privarsi”. A sancire questo cambio di rotta è arrivato nel 2017 il documento della National Academies of Sciences, Engineering (3) and Medicine statunitense, un’agenda, concordata da scienziati e comunicatori della scienza, che parte da un punto fermo: la comunicazione della scienza è un compito complesso, non riducibile alla dinamica «Se la pensi diversamente da me che sono un esperto sei solo un ignorante».

Queste analisi di carattere più generale, ben articolate grazie al contributo di colleghi, divulgatori e giornalisti, ci permettono di arrivare finalmente al punto, e di dimostrare la fallacia del metodo Burioni secondo cui

«La scienza non è democratica».

In questo caso si confonde la democrazia come processo elettorale, con la democrazia come partecipazione comunitaria. Come scrive il giornalista scientifico Pietro Greco,

«La società della conoscenza è caratterizzata dall’espansione della scienza e dall’espansione della democrazia, in un processo in cui le due dimensioni non sono più separate».

E aggiunge:

«La scienza, anche in termini epistemologici, ha valori intrinsecamente democratici. Fin dalla rivoluzione del Seicento, i membri della comunità scientifica raggiungono un consenso razionale di opinione intorno ai fatti osservati nel mondo».

Anche uno dei più importanti filosofi della scienza, Thomas Samuel Kuhn, nel suo lavoro “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, del 1962, afferma:

Allorché nel corso dello sviluppo di una scienza naturale un individuo, od un gruppo, costituiscono per la prima volta una sintesi capace di attrarre la maggior parte dei ricercatori della generazione successiva, le vecchie scuole gradualmente scompaiono.

Chiarito questo, è utile ricordare le parole di Jane Gregory (4), della London University:

«Il pubblico ci ha insegnato una lezione utile rifiutando di cooperare con scienziati che li trattavano come idioti. È un peccato che così tanti dei nostri scienziati di spicco abbiano causato così tanta irritazione tra persone precedentemente amichevoli verso la scienza. Molti di noi che lavorano in questo campo in Gran Bretagna sperano che il recente rapporto della Camera dei Lord renderà gli scienziati consapevoli del fatto che devono guadagnare il loro posto come una delle tante autorità della società. È tempo di riconoscere che la nostra prima enfasi sull’apprendimento pubblico da parte degli scienziati era fuori luogo e che ciò di cui abbiamo bisogno è che gli scienziati imparino dalle persone».

Di sicuro quindi atteggiamenti paternalistici che si leggono in questi mesi online, del tipo “Ora vi insegnamo a”, o peggio ancora aggressivi e impositivi, paiono del tutto fuori luogo in quanto limitano l’efficace circolazione delle idee e dei valori che gli stessi divulgatori scientifici vorrebbero in tutta buona fede trasferire alla cittadinanza.

Alla luce di ciò, al netto della spontanea “simpatia” che il Dott. Burioni stimola con le sue eccentriche esuberanze, non possiamo che concludere per la parziale inefficacia delle Sue strategie di comunicazione e di stakeholder engagement: ce lo conferma quella stessa scienza che Burioni definisce con superficialità un po’ tranchant come “non democratica”.


(1) Durant, J.R., et al. The Public Understanding of Science. Nature, Vol. 340, pp.11-14.
(2) Grignolio A., Chi ha paura dei vaccini?, Tempi Moderni, Codice, 2006
(3) Evans G.A. and J. Durant J.(1995), The Relationship Between Knowledge and Attitudes in the Public Understanding of Science in Britain. Public Understanding of Science Vol. 4, pp.57-74, 1995
(4) Gregory J. and Miller S., Science in Public: Communication, Culture and Credibility, New York: Plenum, 1998

Aggiornamento (novembre 2020): successivamente alla pubblicazione di questo articolo, ho appreso della messa a punto del “Manifesto della comunicazione non ostile per la scienza”, sottoscritto da celebri scienziati, divulgatori scientifici e cultori della materia (incluso, più marginalmente, il sottoscritto), e che invito tutti a leggere e applicare.

NOTA: questo articolo è stato per errore pubblicato in una prima versione non definitiva, priva dei necessari credit e link al lavoro dell’autrice di uno degli articoli originali citati nel testo, e poi – dopo una segnalazione – sollecitamente ripubblicato in questa versione definitiva, completa di tutti i riferimenti. Me ne scuso con l’interessata.

Edit 27/12/2019 h 17:08
Edit 23/11/2020 h 19:04




Comunicazione ambientale, i Fridays for Future hanno rovesciato il tavolo.

Comunicazione ambientale, i Fridays for Future hanno rovesciato il tavolo.

Comunicazione ambientale, cosa è cambiato dal ’68 a oggi?


Qualche anno fa, nel 2015, Naomi Klein – famosissima già da tempo per il libro “No Logo”, – scrisse un libro dal titolo “Una rivoluzione ci salverà (perché il capitalismo non è sostenibile)” e introdusse una tesi: “sarà la questione ambientale che unirà tutte le energie di cambiamento presenti nella società e ci porterà alla rivoluzione”.
Che abbia ragione o meno, sul tema capitalistico intendo, non sta a noi indagarlo in questa sede. Mentre per quanto riguarda la questione ambientale, se osserviamo il fenomeno dei Fridays for Future, pare che la Klein abbia avuto ragione.
Migliaia di persone in piazza, movimenti di ogni tipo, a cominciare dagli studenti, per arrivare alle associazioni consumeriste, ambientaliste, terzomondiste ecc., unite a manifestare per combattere la sempre più probabile catastrofe climatica, miscelando tra loro toni di protesta, azioni di responsabilità sociale, campagne tematiche come quella #plasticfree.
Eppure il tema ambientale non è mica nuovo. Nel 1968, assieme ai movimenti – innovativi e dirompenti – accomunati dalle parole “love&peace”, il tema ambientale era in primo piano tra quelli considerati dai giovani sessantottini. Così importante che di lì a poco molte organizzazioni internazionali dedicate al tema videro la luce.
Greenpeace, ad esempio, è stata fondata nel 1971.
Sono dunque oltre 50 anni che i temi ambientali sono nell’agenda della società e dei comunicatori, eppure sono gli stessi 50 anni durante i quali il mondo ha dato sfogo al peggio di sé in termini climatici.
Che cosa c’entra la comunicazione con questo? Molto, anzi moltissimo.

La comunicazione che funziona (e quella che anche no)

Fridays For Future
La comunicazione ambientale degli ultimi anni, almeno quella dalla quale la Thunberg (consapevole o meno) si è allontanata al punto da avviare i Fridays for Future, è stata una comunicazione catastrofica, spesso aggressiva e punitiva dei comportamenti dei cittadini, che ha offerto poche opportunità per consolidare comportamenti non solo “strettamente reattivi”, ma strutturali e culturali.
Basta pensare alle campagne in tutela dell’orso polare, dei mari o delle foreste. Nulla da dire sulla necessità e sull’importanza di creare consapevolezza sui temi, ma che tipo di esito possiamo aspettarci quando i messaggi sono catastrofici, punitivi e, soprattutto, lontani anni luce dalla nostra vita e da ciò che, concretamente, possiamo fare?
Quali azioni concrete può stimolare la visione del triste orso polare senza ghiaccio intorno a sè?
La comunicazione in generale – non solo quella ambientale! – che funziona è quella che parte dall’ascolto, è coerente con il comportamento del soggetto “emittente” e stimola la partecipazione e il coinvolgimento chiedendo un’azione fattibile, vera, vicina, possibile.
Mentre viviamo il nostro quotidiano, cosa possiamo fare per l’orso polare? Al massimo scegliere se destinare qualche decina di euro a qualche associazione che ce li ha chiesti, per poi risprofondare nelle nostre giornate. Questa è dunque una comunicazione che sicuramente non si prende in carico il destinatario, non è in grado di attivare, né ci consente di misurare la corrispondenza tra comportamenti e messaggi inviati.
Poi arriva Greta Thunberg che, impermeabile giallo e pennarello alla mano, sconvolge il paradigma comunicativo degli ultimi 50 anni. Thunberg compie un’opera magistrale: sposta l’attenzione dalla richiesta di un’azione improbabile (salva l’orso) alla richiesta di una presa di responsabilità collettiva del “padre di famiglia”, dell’adulto che si deve ritenere responsabile della catastrofe in corso e deve porvi rimedio. L’ambiente, in tutto questo, è quasi sullo sfondo, è la diretta conseguenza, ma non il centro. “Salva l’orso” ha fatto spazio a “rimedia, tu che mi hai rubato i sogni”, il tutto avvolto in un messaggio coerente con la giovane studentessa, replicabile e scalabile, come poi è avvenuto, in tutto il mondo con i Fridays for Futures.
Poi certo: senza aver scavato la roccia con orsi, foreste da salvare, appelli della scienza e dei personaggi famosi, non ci sarebbe stato un “clima favorevole” e predisposto alla nascita dei Fridays for Future. Resta, però, che questo fenomeno nasce da una comunicazione che ascolta e si adatta al destinatario (non chiede azioni impossibili, semmai sfidanti e responsabili), è coerente ai comportamenti di Greta stessa (tuttoggi a bordo di una barca a vela per portare impegno e messaggi per il mondo), è capace di avviare azioni semplici e ripetibili.
È la comunicazione, bellezza!