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Da employer branding a employer reputation

Perché -oggi più che mai- la reputazione è una leva determinante anche per le “Human Resources” delle Aziende


Reputation Institute ha battezzato il 2019 come “Reputation Judgement Year” per enfatizzare l’urgenza imposta alle aziende di incontrare le crescenti aspettative degli stakeholder in uno scenario che sta cambiando e che impone una rinnovata centralità di un racconto “Corporate”.
Globalizzazione e media digitali hanno drammaticamente accelerato la domanda di partecipazione degli stakeholder non solo rispetto alle grandi questioni sociali ma anche nelle relazioni con le aziende: la reputazione delle imprese, oggi, è continuamente sottoposta al giudizio dei suoi pubblici grazie alle straordinarie possibilità di accesso alle informazioni. Questo oggi non vale solo nelle scelte di acquisto dei consumatori (dove il prodotto/servizio è sempre meno importante di “chi c’è dietro” quel prodotto/servizio), ma anche nella scelta dell’azienda in cui lavorare: oggi la reputazione è uno delle leve di talent attraction & retention. Ed è un giudizio che va oltre il tradizionale concetto di “datore di lavoro” e si arricchisce di nuove e crescenti aspettative legate soprattutto a credibilità e leadership dell’impresa anche al di fuori del contesto aziendale interno.
La Comunità HR oggi si trova, quindi, costretta ad aggiornare strategie e leve per vincere le due sfide principali che la Reputation Economy impone con forza: (1) trasformare i dipendenti in ambasciatori della reputazione verso l’esterno dell’azienda; (2) attrarre (e trattenere) i talenti migliori, soprattutto in un mercato alla ricerca di nuove competenze, dove la crescente competizione per i talenti tra “agili” start up e “grandi” aziende, annulla,  di fatto, ogni differenza dimensionale e di capacità di investimenti.
In questo contesto, partendo dal presupposto che la reputazione è un legame emotivo che spinge le persone a voler lavorare per un’azienda, Reputation Institute ha analizzato la reputazione di 100 aziende operanti in Italia nella loro veste di datore di lavoro presso un campione selezionato di job seeker.
Che cosa influenza la scelta di una persona di lavorare per un’azienda (“work for”)? Secondo lo studio di Reputation Institute non è sufficiente la capacità dell’azienda di farsi riconoscere come un datore di lavoro “attraente” (Employer Brand Stregth Index). La leva dell’Employer Branding – oggi utilizzata da molte Direzioni HR per riuscire ad attrarre talenti – è sicuramente utile, ma non spiega esaustivamente le ragioni alla base della scelta delle persone. Esiste, infatti, secondo i dati analizzati da Reputation Institute, una correlazione ancora più forte tra “work for” e reputazione dell’azienda, perché – a differenza dell’Employer Branding – quest’ultima rappresenta un asset capace di costruire equity in maniera molto più durevole. Non basta essere riconosciuti, quindi, occorre saper costruire un legame emotivo molto più forte e duraturo.
“Le tematiche legate alle persone, dipendenti e potenziali candidati, diventano quindi una priorità che non coinvolge più soltanto il mondo HR, ma la totalità dell’organizzazione. I confini dei ruoli della comunicazione esterna e quella interna si sono fusi e stanno dando origine a una nuova sinergia e partnership organizzativa.” – ha affermato Michele Tesoro-Tess. “La comunità HR oggi deve munirsi di nuove metriche di monitoraggio e di valutazione per prendere delle scelte riconosciute strategiche anche dai CEO, oggi sempre più attenti ad accaparrarsi nuove competenze coerenti con le strategie necessarie ad affrontare un mercato sempre più competitivo”.
Come si può integrare Employer Branding ed Employer Reputation? Esiste una “equazione di valore” da sviluppare per accelerare la capacità dell’azienda di attrarre nuovi lavoratori: all’aumentare della capacità dell’azienda di farsi riconoscere, cresce più che proporzionalmente la sua reputazione con impatti significativi sulla propensione delle persone a voler lavorare per quella stessa azienda.




Dalla Bestia di Salvini a Giorgia Meloni: il setaccio di Report sulla comunicazione social della destra italiana

Dalla Bestia di Salvini a Giorgia Meloni: il setaccio di Report sulla comunicazione social della destra italiana
Durante il programma di Rai3 sono stati analizzati i profili social dei leader della Lega e di Fratelli d’Italia, tra campagne social a pagamento e amplificazione del messaggio attraverso bot


Dopo l’inchiesta sui presunti fondi russi alla Lega e la rete di finanziamenti delle organizzazioni ultracristianeReport ha posto la propria lente di ingrandimento sul mondo social della destra italiana.
Dall’inchiesta è emerso un quadro fortemente articolato e complesso, che vede attivi diversi attori, ed è caratterizzato da più fattori che si intrecciano in modo quasi impercettibile a un occhio non esperto.

La diffusione delle fake news attraverso pagine modificate

Ma a chiunque frequenti i social network da diversi anni (in particolare Facebook) sarà capitato almeno una volta nella propria “vita digitale” di vedere pagine a cui aveva espresso la propria preferenza cambiare radicalmente nome, passando da temi leggeri come il calcio, la moda, il gossip, a seguire delle pagine o a far parte di gruppi dai connotati chiaramente politici, ma non ufficiali, e che dispensano spesso fake news.
Ed è nel tentativo di risalire agli account che diffondono tali contenuti falsi in modo sistemico e coordinato che Report ha intercettato alcuni gruppi e pagine che, dopo aver fatto incetta di membri e/o follower, hanno cambiato la propria denominazione, diventando pagine di amplificazione di contenuti filo leghisti o filo M5s.

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Gruppi che condividono sui migranti nascono come pagine di sport e di agricoltura. E, dopo aver fatto incetta di membri e followers, cambiano la propria denominazione, diventando gruppi a supporto della Lega e dei Cinquestelle.

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Tuttavia, a ridosso del voto delle Europee 2019, molte pagine che diffondevano contenuti falsi sono state rimosse dalla piattaforma di Zuckerberg. Nessuna delle pagine chiuse presentava collegamenti ufficiali o diretti con la Lega che, così come altri partiti, ufficialmente usa il sistema delle sponsorizzazioni.

Il costo delle sponsorizzazioni politiche su Facebook

Tutti i politici, infatti, per raggiungere un maggior numero di persone, pagano Facebook per creare dei contenuti sponsorizzati. Renzi, per esempio, nell’ultimo anno ha speso 56.632 euro e sponsorizza quasi ogni giorno tutti i post che pubblica sulla piattaforma social, scegliendo la fascia d’età degli utenti target del messaggio e la loro regione di residenza.
E se Di Maio quest’anno ha speso 0 euro in inserzioni, il Movimento Cinque Stelle ha investito quasi 50mila euro, anche se la maggior parte delle sponsorizzazioni si sono concentrate nel periodo antecedente alle elezioni Europee.
Ma il più attivo è Matteo Salvini che, dall’inizio del 2019, ha speso 140.000 euro in inserzioni. Tuttavia il leader della Lega, a differenza di tutti gli altri politici, è l’unico a scegliere di amplificare e utilizzare come target anche gli utenti con meno di 18 anni.
Inoltre Salvini investe spesso in inserzioni per accrescere la diffusione di notizie di cronaca relative a migranti, indirizzando – anche in questi casi – il target verso i giovani tra i 13 e i 17 anni.

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Per trasmettere la propria propaganda, i profili ufficiali dei partiti ricorrono alle sponsorizzazioni su Facebook. Quasi tutti indirizzano i loro messaggi a utenti dai 18 anni in su, è l’unico che indirizza i suoi messaggi anche ai minorenni.

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I “sock puppets” e l’amplificazione dei contenuti

Tra gli strumenti utili a oliare al meglio la diffusione dei contenuti sui social (indipendentemente dalla loro veridicità e fondatezza o meno), vi sono poi i cosiddetti sock puppets, ossia degli account che sembrano reali ma non lo sono, e vengono gestiti contemporaneamente attraverso software specifici che con un semplice click permettono di diffondere contenuti affinché questi – ingannando gli algoritmi delle piattaforme – risultino avere maggiore rilevanza e, di conseguenza, visibilità.
In questo modo si alimenta quindi l’attenzione del pubblico, che incrocia inconsapevolmente un determinato tipo di contenuto ritenendolo pubblicato da un utente reale, ma così non è.

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Si chiamano “sock puppets”, in italiano “account marionetta”. Sono profili che sembrano reali, ma in realtà vengono gestiti contemporaneamente, a gruppi di 10 o anche di cento, da un’unica persona.

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Tra i casi riportati vi è quello di Francesca Totolo, collaboratrice de Il Primato Nazionale, e che spesso si è resa protagonista di diffusione di notizie false e contro i migranti, che risulta possedere un “account trigger” (grilletto, ndr).
Ogni volta che pubblica un contenuto su Twitter, infatti, le ricondivisioni sono immediate e i messaggi che veicola si diffondono a grande velocità, come se si attivasse un meccanismo di ricondivisione del contenuto in modo forzato attraverso bot o account fake.

I bot e l’automatizzazione dei contenuti

Un ulteriore strumento utile all’amplificazione di taluni contenuti sarebbero poi i bot, dei profili falsi programmati per scrivere contenuti con un determinato taglio e/o per diffondere questi contenuti.
Spesso, come conferma Andrea Bruno, programmatore informatico e creatore di bot, la creazione di contenuti falsi che polarizzino il pubblico è molto più semplice del previsto.
In alcuni casi è sufficiente un fotomontaggio con un’affermazione falsa e fuorviante per riuscire a inserire nel circuito vere e proprie fake news, che polarizzano ulteriormente gli utenti della rete.

Chi paga tutti questi strumenti social?

Nell’inchiesta Report si è principalmente focalizzata sulla cosiddetta “Bestia” di Luca Morisi, il creatore della “perfetta” macchina social di Matteo Salvini.

Morisi infatti gestisce uno staff di 35 esperti di digitale che monitorano Salvini 24 ore su 24 7 giorni su 7. Attraverso il monitoraggio delle conversazioni, tuttavia, lo staff di Morisi è in grado di intercettare le conversazioni che hanno maggiore rilevanza, a prescindere dal fatto che riguardino prettamente Salvini o la Lega.
Inoltre, grazie al monitoraggio in tempo reale sul sentiment della rete, lo staff di Morisi può adeguare o rettificare il messaggio condiviso a seconda delle opinioni prevalenti nelle conversazioni online.
Un caso eclatante è stato quello relativo al commento della vittoria di Mahmood al festival di Sanremo, inizialmente osteggiata da Salvini e poi, dopo l’analisi delle conversazioni sul tema, trasformatasi in favorevole all’artista milanese.
Ma da chi provengono i soldi che la Lega investe nei contenuti sponsorizzati? Già nel 2017 Report si era occupata del caso, e aveva scoperto che dal 2009 aveva incassato all’incirca un milione di euro da parte delle Asl in amministrazione leghista della Lombardia.
Sempre Report, nel giugno scorso, aveva ricostruito alcuni movimenti sospetti di denaro nelle casse della Lega. Dall’inchiesta era emerso che il Carroccio aveva versato 480mila euro di fondi pubblici alla cognata di Alberto Di Rubba, direttore amministrativo della Lega alla Camera, destinate ufficialmente alle attività del gruppo sui social network.
Tuttavia, la donna ufficialmente è una barista con un’attività nella provincia di Bergamo, e pochi giorni prima del versamento aveva aperto una società di comodo in cui far confluire la cifra.
Il contratto con la società di comodo è stato sospeso dopo alcuni mesi, ma una parte del versamento – secondo una fonte anonima intervistata da Report – è rientrato nelle casse della Lega, per essere destinato ad alcuni membri dello staff di Salvini, tra cui proprio lo stesso Morisi.

Lo strano caso degli stessi account di Giorgia Meloni, Trash Italiano e Francesca Michelin

Spostandosi invece all’analisi dei follower di Giorgia Meloni, nell’inchiesta di Report sono emersi alcuni dati curiosi, che farebbero intendere che molti dei “seguaci” della leader di Fratelli d’Italia siano profili falsi e, ipoteticamente, acquistati per alimentare il seguito digitale. Questi profili anomali risultano essere stati tutti creati nello stesso periodo e hanno la caratteristica comune di avere meno di 10 follower.
Ma la vera curiosità è che più di 237mila di account che seguivano Meloni, secondo il data analyst Alex Orlowsk, a maggio, erano gli stessi che seguivano l’account di Trash Italiano, un blog che crea e condivide gif e meme di spettacolo.

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Tra Giorgia Meloni, la cantante Francesca Michielin e la pagina “Trash Italiano” i follower a maggio del 2019 sono praticamente gli stessi. Sono anomaili perché hanno meno di 10 follower e sono stati creati tutti quanti nello stesso periodo.

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Migliaia di questi follower, inoltre, combaciavano con gli utenti che seguono il profilo della cantante Francesca Michielin che, lo scorso maggio, risultava avere il 34% dei follower in comune con la leader di Fratelli d’Italia.
E la domanda, in questo caso, sorge spontanea: com’è possibile che un numero così consistente di utenti, tutti creati nello steso periodo di tempo e tutti con meno di 10 follower, possano seguire account così distanti?
Giorgia Meloni ha negato di aver acquistato follower, Trash Italiano – in una mail inviata alla redazione di Report – ha negato di averne acquistati per alimentare il proprio seguito social, così come la cantante Francesca Michielin. Ma i dubbi persistono e, al momento, la risposta sembra essere ancora lontana.

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“Trash Italiano” ci ha scritto oggi in relazione a quanto mostrato dall’inchiesta

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La risposta di Giorgia Meloni al servizio di Report

La leader di Fratelli d’Italia, dopo la messa in onda del servizio di Report, ha rigettato tutte le presunte che emergerebbero dall’inchiesta. «#Report mi dedica un bambinesco servizio degno di un circolo terrapiattista: GOMBLOTTO sovranista, hacker cosacchi, bot e robot. Zero fatti, solo fango. Raccolgo i dati e faccio una conferenza per deridere questi “giornalisti di inchiesta, ci sarà da ridere», scrive Meloni su Twitter.

https://twitter.com/GiorgiaMeloni/status/1188936488135860233



I Canali TV per Bambini NON li Guarda, Quasi, Nessuno

Se avete figli sino all’età pre-adolescenziale, o se, in alternativa, per lavoro vi rivolgete a tale cluster di individui, certamente saprete dell’esistenza di diversi canali televisivi verticali dedicati, appunto ai bambini.
Per capire quale sia l’appeal, l’interesse di questa importante fascia di pubblico verso questi canali a loro dedicati abbiamo estrapolato dai dati Auditel di Settembre 2019, non ancora disponibili pubblicamente, quelli relativi specificatamente agli ascolti nel minuto medio di tali canali TV.
Prima di entrare nel merito di tali dati, va segnalato che sono prodotti nel quadro di un processo di transizione che condurrà a una integrale sostituzione del panel di rilevazione e che, nel corso di tale periodo, i dati medesimi sono soggetti ad apposito monitoraggio volto a individuare eventuali anomalie, e dunque diamo per affidabili comunque i dati forniti da Auditel.
Ebbene, ventiquattrore al giorno di cartoni e serie televisive dedicate a bambini e pre-adolescenti non sembrano avere il successo che ci si potrebbe attendere. Infatti il canale leader per ascolti, Super, ceduto in questi giorni da De Agostini Editore a Viacom, si attesta a poco meno di 55mila telespettatori – inclusi eventuali ospiti – nel minuto medio, seguito da K2, di Discovery,  appena sopra i 54mila telespettatori, e Boing, di Mediaset, sotto i 50mila telespettatori.
Nel complesso, sommando la visione di tutti i canali specializzati, e dunque al lordo delle duplicazioni, si arriva appena sopra i 311mila telespettatori. Se si considera che  l’universo bambini, costituito secondo Auditel da individui di età compresa tra 4 e 14 anni, è di oltre 6.2 milioni di individui si capisce ancora meglio quanto marginale sia la visione di questi canali. In pratica, stando ai dati, i media solamente il 5% degli individui nella fascia di età definita guarda questi canali TV. Non esattamente un successo, per usare un eufemismo.
La situazione migliora, ma non poi di tanto, analizzando i dati relativi ai contatti medi. In  questo caso la leadership è di K2, a poco più di un milione di contatti medi. Nel complesso il totale dei contatti medi si attesta appena sopra i 2,5 milioni, pari al 41.2% dell’universo di riferimento. Questo significa che, a Settembre 2019, più di un bambino su due non ha mai guardato uno dei canali a lui dedicati.
Con questi dati non sorprende che proprio a fine Settembre SKY abbia “spento” i canali Disney XD e Disney in English del pacchetto Sky Famiglia.
Cosa guardino i bambini è spiegato, con tutti i dettagli del caso, nel rapporto Auditel – Censis presentato all’inizio di questo mese. Le famiglie Auditel sono 24.3 milioni circa. In sei milioni e 396mila nuclei famigliari, pari al 26.3% del totale, è presente almeno un minore.
Stando al report, cinque milioni e 700mila italiani, pari al 9.7% della popolazione di età superiore ai quattro anni, guardano programmi televisivi live o on demand su schermi diversi dalla televisione, collegandosi a device fissi o mobili. È un valore che cresce negli anni, e che vede come protagonisti soprattutto, giustappunto, i minori e i millennials.
Il problema di fondo non è tanto la bontà, o meno, dei programmi bensì la progressiva “morte” del palinsesto televisivo. Perchè mai nell’era degli smartphone un individuo, bambini compresi, dovrebbe guardare quello che c’è in quel momento in televisione quando può accedere on demand al contenuto da lui preferito? Domanda retorica, che naturalmente contiene già la risposta al riguardo.




Brand in piazza

Brand in piazza

Cè Nike, che ha scelto Colin Kaepernick – giocatore di football americano e attivista contro l’ingiustizia razziale – come volto di una sua campagna pubblicitaria, e poi il brand di abbigliamento tecnico Patagonia, che ha avviato un’iniziativa per salvaguardare il fiume Snake, habitat principale dei salmoni negli Stati Uniti. Ma sono molte altre le aziende che hanno scelto di schierarsi. Di seguito due grandi pensatori del marketing raccontano come stanno cambiando le cose e quali sono i vantaggi per chi decide di imboccare la strada dell’impegno sociale.

L’ascesa del brand activism
Di Sean Pillot de Chenecey, consulente di strategia e marketing

Colin Kaepernick è un giocatore di football americano, ma non trova un ingaggio da due anni. Nel 2016 aveva deciso di inginocchiarsi durante l’inno nazionale pre-partita in segno di protesta contro la violenza della polizia nei confronti delle minoranze etiche. Nike lo ha scelto per la sua recente campagna pubblicitaria dal messaggio molto chiaro: “Believe in something, even if it means sacrificing everything. [Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto.]”
È un esempio di quello che si definisce “brand activism” e ha scatenato un fortissimo coinvolgimento mediatico nonostante il rischio di un calo delle vendite tra quei consumatori che non condividono il pensiero di Kaepernick.
Secondo una relazione del 2017, Meaningful Brands, del gruppo di marketing e comunicazione Havas, il settantacinque per cento dei consumatori in tutto il mondo si aspetta un maggior contributo da parte dei brand per migliorare la qualità della vita, eppure solo il quaranta per cento crede che le imprese siano davvero impegnate.
Lo scetticismo dei consumatori è alimentato dal clima diffidente nei confronti di colossi tecnologici come Facebook, dal maggiore accesso alle informazioni online e dalle tensioni della politica moderna, in cui i fatti sembrano sfuggire e le emozioni prendono il sopravvento.
In questo mondo della post-verità, per le aziende è cruciale esaminare il proprio comportamento e ottenere la fiducia delle persone, la base di tutti i valori di un brand. Ogni tentativo di brand activism deve riflettere le convinzioni genuine del brand nei confronti di un tema rilevante per il brand stesso, altrimenti i consumatori riusciranno a smascherare presto l’associazione incoerente. Avrebbe poco senso che un marchio di latticini si impegnasse contro la violenza della polizia, ad esempio, ma funzionerebbe se promuovesse il benessere animale, purché la questione faccia già parte della buone pratiche. Può sembrare impegnativo, ma se si sceglie la strada giusta il brand activism permette di creare un legame emotivo con i consumatori che migliora la retention.
La campagna Nike è un esempio di alto profilo che illustra il modo in cui i brand stanno cercando di differenziarsi attraverso un messaggio chiaro. Parla di credere in se stessi, un concetto associato allo sport che si ritrova spesso nella storia del marchio americano. Per altri può essere la sostenibilità, magari legata all’impegno di limitare la propria impronta ecologica.
Qualunque sia la causa da sposare, è necessario un approccio, per così dire, olistico perché, credetemi, le organizzazioni che vogliono guadagnarsi la nostra fiducia devono dimostrarlo con i fatti. Creare una campagna che comunichi in maniera efficace “questo brand ha un’anima” non è abbastanza. Non è solo una questione di marketing, ma dell’intera azienda.
TOMS è un esempio eccezionale. Blake Mycoskie ha fondato la sua azienda di calzature nel 2006 con una missione: migliorare la vita delle persone. Per ogni paio di scarpe venduto, TOMS si è impegnato a donarne un paio a una persona in difficoltà.
Questo modello “one for one” ha avuto un grandissimo successo ed è stato seguito da molti altri. Dal 2006 a oggi TOMS Shoes ha distribuito più di 60 milioni di scarpe ai bambini. Nel 2011 il modello “one for one” è stato esteso al marchio di occhiali, TOMS Eyewear, che da allora è riuscito a correggere i difetti della vista di oltre 400.000 persone.
Tutto questo successo a un certo punto lo ha disilluso, e così Mycoskie ha deciso di prendersi una pausa di riflessione. Ha capito che TOMS aveva cominciato a ruotare intorno ai processi piuttosto che a un obiettivo ed è tornato con l’impegno di trasformarla di nuovo in un movimento.
In breve, i pilastri di un brand devono essere autenticità, trasparenza, credibilità, rispetto per la privacy ed empatia. I brand dovranno essere sempre più coraggiosi nel loro tentativo di coinvolgere co3nsumatori sempre più esigenti. Non si può più rimanere neutrali. Come ha fatto Nike con la sua campagna audace e rivoluzionaria, sono sicuro che altri seguiranno l’esempio di dare voce a persone e cause rilevanti per i consumatori e in questo modo a migliorare il loro senso di benessere.

Il brand activism che funziona
Di Gareth Kay, creative strategist

I brand sono sempre più un’idea che i consumatori decidono di fare propria – e non sono solo semplici produttori di un prodotto o di un servizio a disposizione dell’utente. Per questo i consumatori si aspettano che i brand abbiano un punto di vista chiaro sui propri valori e il proprio ruolo nel mondo.
I principi di un brand possono rappresentare un reale vantaggio competitivo perché quando rispecchiano la visione del consumatore creano un legame a livello emotivo, e quindi duraturo. Non deve sorprendere se il brand activism sta diventando una strategia aziendale importante.
In teoria, il brand activism è semplice. Serve a capire la propria anima, il proprio DNA e quindi a essere sinceri anziché comunicare la ragione della propria esistenza con rivendicazioni prive di contenuti. Scegliere semplicemente una causa da sostenere non funziona. Può essere vista come una decisione cinica e utilitaristica. Ogni brand può contare sulla storia del proprio fondatore, spesso dimenticata. Scoprite qual è e reinterpretatela.
David Hieatt è un fantastico esempio di imprenditore, convinto che le aziende debbano rappresentare qualcosa. Ha avviato Howies, marchio di abbigliamento creato per spronare i consumatori a riflettere sul mondo che li circonda, a partire dall’uso dei materiali fino alla riduzione della corrente elettrica. Howies aveva un punto vendita in Carnaby Street, a Londra, dove le luci dovevano restare accese 24 ore al giorno in base al regolamento comunale. Hieatt lo ha raggirato installando un interruttore fuori dal negozio e chiedendo ai clienti di usarlo qualora avessero avuto bisogno della luce per qualche minuto durante la notte.
Poi ha fondato Hiut Denim a Cardigan, una cittadina gallese sede della più grande fabbrica di jeans del Regno Unito, prima che la produzione venisse delocalizzata in Marocco per tagliare i costi. Ha assunto di nuovo alcuni degli operai specializzati – o “mastri artigiani”, come li chiama Hieatt – e vuole espandere la produzione. Grazie all’importanza dei social media e alla maggiore onestà e trasparenza richieste dai consumatori, i piccoli imprenditori oggi possono raccontare storie davvero coinvolgenti.
Un’esperienza simile è quella di Patagonia, fondata da Yvon Chouinard con una missione chiara: “realizzare il prodotto migliore, non provocare danni inutili, utilizzare il business per ispirare e implementare soluzioni per la crisi ambientale.” Oggi offre sostegno economico a oltre un migliaio di gruppi ambientalisti locali in tutto il mondo.
Quando Patagonia ha lanciato una campagna pubblicitaria con lo slogan “Non comprate questa giacca“, i consumatori hanno creduto che fosse un incoraggiamento onesto a riflettere sui propri bisogni materiali, e non solo una trovata per distinguersi. Patagonia sprona la comunità a sostenere la Common Threads Initiative, uno schema che consiglia di acquistare soltanto il necessario, riparare, riutilizzare e riciclare tutto il resto.
Patagonia si è guadagnata il diritto di dare voce alla causa ambientalista. A marzo il brand ha lanciato la campagna Save the Blue Heart, che si propone di salvaguardare la bellezza incontaminata dei fiumi balcanici. Questo brand non sta cercando di sfruttare un problema per far colpo sui consumatori. La difesa dell’ambiente è parte del DNA Patagonia.
Se un’azienda crede davvero in qualcosa, il brand activism è efficace perché esprime un punto di vista alla base dell’azienda stessa. Più i reparti marketing sono indipendenti dagli altri, più serve un dirigente impegnato nel brand activism e dallo spirito imprenditoriale che sappia davvero portare il cambiamento a tutti i livelli. Sotto la guida di Paul Porlman, ad esempio, Unilever è riuscita a trasformare la propria catena di fornitura per rendere i propri marchi più sostenibili.
Eppure il brand activism ha la capacità di ritorcersi contro l’azienda se non viene percepito come autentico e parte della mission. E purtroppo molte imprese mancano di umiltà e consapevolezza.
Prendiamo ad esempio Pepsi. Tempo fa ha lanciato una campagna pubblicitaria che aveva per protagonista Kendall Jenner, la più giovane della famiglia Kardashian-Jenner. Nel video, Kendall abbandona a metà un servizio fotografico per unirsi a una folla di manifestanti, che esultano quando lei porge una lattina di Pepsi a un poliziotto. I social sono insorti. Bernice King, figlia di Martin Luther King, ha twittato una foto del padre spinto indietro da un poliziotto durante una manifestazione. La campagna è stata ritirata.
La lezione: non fingete mai.




Brand Activism – il delicato rapporto tra Aziende e temi sociali

Brand Activism – il delicato rapporto tra Aziende e temi sociali

In un periodo storico in cui la politica sembra sempre più ripiegare verso una dimensione individuale e di breve periodo, il dibattito intorno ai temi sociali e alle prospettive future del pianeta entra in maniera evidente all’interno delle strategie di comunicazione delle aziende.
Un terreno scivoloso, dove per anni le aziende hanno scelto di non avventurarsi, temendo le reazioni negative di parte della clientela e puntando quindi ad un marketing basato esclusivamente sui prodotti e sulla visibilità del marchio.
Ma le cose cambiano.

Lo scenario

Secondo una recente ricerca di Shelton Group, l’86% dei consumatori americani ritiene che le aziende debbano impegnarsi sui temi sociali: ambiente, lavoro, inclusione, parità dei diritti. Secondo la stessa ricerca, il miglioramento dell’immagine del marchio presso i consumatori è dovuto all’introduzione di nuovi prodotti o servizi (53%), alla qualità del servizio clienti (34%), all’impegno su temi di rilevanza sociale (30%)
L’avvento dei Social Media ha consentito l’interazione diretta tra i clienti e i marchi su larga scala, un fenomeno del tutto nuovo nel rapporto tra produttore e consumatore, ma i consumatori digitali scelgono il dialogo diretto con le aziende, quando ritengono che queste siano autentiche e trasparenti e le aziende devono agire di conseguenza, ben sapendo che una volta instaurata la conversazione è estremamente più semplice coinvolgere il cliente nel processo di acquisto.
Si crea così un meccanismo di continua retroazione in cui le aziende, attraverso gli strumenti di Social listening, analizzano le tendenze del momento, valutano quali temi possono essere in linea coi valori del marchio e coi prodotti ed i servizi offerti e mettono in atto una strategia di comunicazione in linea con le aspettative degli utenti, questo attirerà l’attenzione di tutti coloro che ritengono giusta quella causa, anche se non conoscono il marchio o i prodotti venduti; i post relativi ai temi sociali saranno oggetto di commenti, condivisioni, apprezzamenti, ottenendo una visibilità decisamente superiore a quella che potrebbero avere i contenuti relativi al singolo prodotto.
Il risultato netto è che la conversazione, non sarà più legata al prodotto, che di per sé spesso non è poi molto differente dagli altri, ma sul marchio e sulla sua capacità – o meno – di costruire il consenso, oggi facilmente quantificabile attraverso il numero dei follower, dei like e dei commenti positivi ad ogni singolo post.
Questo non significa che l’impegno sociale delle aziende sia puramente opportunistico, anche perché le aziende che scelgono di esporsi, prendendo posizione su temi sociali anche controversi, rischiano di perdere una fetta di clienti che, pur apprezzando il prodotto, non condividono l’indirizzo “politico” delle imprese. Molti sono i casi in cui i marchi hanno una reale consapevolezza della loro responsabilità sociale e vogliono usarla per guidare il cambiamento verso un ideale “mondo migliore”. Detta così, suona banale, ma è certo che una volta che la strada viene tracciata, altri brand saranno spinti a seguirla e sempre più consumatori avranno la percezione di un cambiamento possibile.

Alcuni esempi


Se prendiamo ad esempio il tema dell’impatto ambientale, grazie a una sempre maggiore attenzione mediatica e ad una risposta positiva, seppure lenta, di molte aziende, oggi, secondo una recente ricerca di GWI, il 57% dei consumatori si dice disposto a spendere di più per un prodotto “ecologico”, rispetto al 48% del 2011.
Su questo tema, sono sempre più numerose le aziende come Pepsico, Barilla, Colgate, Gillette e molte altre, che hanno siglato un accordo con @Terracycle, azienda che opera nei processi di riciclaggio dei rifiuti in maniera eco-responsabile.
 
Sempre @Gillette ha recentemente presentato una campagna di sensibilizzazione sui comportamenti degli uomini nei confronti delle donne. Partendo da “Il meglio di un uomo“, lo slogan che da anni contraddistingue il marchio, Gillette ha promosso una su cosa davvero rende un uomo migliore, stigmatizzando ogni comportamento violento, molesto o anche solo machista e creando un fondo per supportare gli uomini a dare davvero il meglio di loro stessi, Molti i commenti positivi, ma numerose anche le reazioni negative, a dimostrazione del fatto che i temi sociali richiedono una certa dose di coraggio per essere affrontati.

Sul tema della non discriminazione si è espressa @IKEA con #fateloacasavostra, campagna e video virali, dove il brand si inserisce sul tema del sentirsi a casa, in linea con il suo core business, ma ovviamente dotato di un valore molto più ampio, legato all’accoglienza, all’inclusione e alla libertà di scelta.

 

Altro caso di studio è @Starbucks. Nel 2017, in aperta polemica con la legislazione Trump, dichiarò che avrebbe assunto 10.000 immigrati. La popolarità del marchio crebbe di conseguenza, fino all’aprile 2018, quando due clienti di colore vennero allontanati da un negozio Starbucks di Philadelphia apparentemente senza alcun motivo se non il colore della loro pelle. La notizia causò numerose proteste, e fu lo stesso Amministratore Delegato del gruppo a chiedere pubblicamente scusa. Il 29 Maggio 2018 Starbucks chiuse 8.000 negozi negli Stati Uniti per 24 ore in modo da offrire formazione antirazzista ai suoi 175.000 dipendenti. L’azienda investì quindi molto sulla diffusione di contenuti che dimostrassero quanto il marchio fosse estraneo ad ogni tipo di discriminazione recuperando così il favore del pubblico.
 
Al di là dei singoli casi, la tendenza è chiara: le grandi aziende sono sempre più sui temi sociali, prendono posizione, avvicinandosi in maniera “autentica” ai consumatori e questo premia in termini di immagine, ma anche di fatturato.