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Quando usciremo dalla peste comunicativa

Quando usciremo dalla peste comunicativa

Pubblichiamo in esclusiva un articolo scritto nei primi giorni del 2030, quando una legge sancirà drastiche misure contro la deriva della comunicazione.

Qualche giorno fa (il 1 gennaio di questo 2030) è entrato in vigore il decreto 323/29. Esso impone a ogni organizzazione privata, pubblica o sociale operativa sul territorio nazionale, l’adozione di modalità narrative e di rendicontazione delle proprie attività ispirate al principio che la comunicazione, analogica e digitale (compresa la pubblicità!), è sì un importante strumento di formazione e orientamento della conoscenza e delle opinioni, ma non è fine a se stessa: va sempre e comunque orientata a far nascere, crescere o chiudere una o più relazioni con uno o più segmenti di stakeholder (“aventi titolo”), che siano questi interni (dipendenti), esterni (clienti) o di confine (azionisti, fornitori).

Relazioni comunque e sempre finalizzate al raggiungimento di obbiettivi espliciti e condivisi. In caso contrario, sia l’organizzazione che il titolare del supporto distributivo (analogico o digitale) sono soggetti a sanzioni amministrative.

Il nuovo orientamento (obbligatorio!) della comunicazione

Diverse decine di migliaia di operatori (programmatori, influencer, storyteller, blogger, giornalisti, decisori pubblici, relatori pubblici, lobbisti e tessitori sociali sul territorio) con aspettative diverse, spesso opposte e col fiato sospeso, sono ansiose di verificare se il drastico dettato del 323/29 riuscirà davvero a orientare le organizzazioni e i loro operatori verso pratiche comunicative più discorsive e dialoganti, meno invasive, prepotenti e insistenti, non opinabili e soprattutto più con-vincenti (dal latino vincere-cum).

Dopo un decennio 2020-2029 che ha visto la rappresentazione delle organizzazioni letteralmente “divorare” il valore della loro rappresentanza, spingendole a transitare da un già deleterio shortermismo al ben noto e frenetico nowtermismo, per i proponenti del decreto è fondamentale che le attività comunicative si orientino verso un governo delle relazioni con gli stakeholder. E, ora che sappiamo per certo che la velocità dell’algoritmo è calibrabile in funzione di regole, spazi e obiettivi negoziati e condivisi, che rallentino la velocità.

Ricordiamo qui alcuni momenti del passato focalizzando anche sulle organizzazioni non politiche. Troppo facile sparare solo sui politici e le loro rispettive “bestie”.

I peggiori casi di cattiva rappresentazione dal 2020 in poi

Per esempio la vicenda del ponte Morandi, la cui rappresentazione ha largamente distrutto lo spirito e il capitale sociale di una delle più importanti città italiane: un danno davvero irreparabile partito con la grottesca ripresa sui social del “grandefratello” Casalino del funerale delle vittime del crollo, poi passato per il perlomeno insolito doppio incarico a Comin e Barabino per la tutela della reputazione di Autostrade (a Roma il primo, a Genova il secondo); fino a una conferma “temporanea” (eternamente, “salvo intese”…) di una concessione che ha fortemente diminuito patrimonio e mito di una famiglia identificata per decenni con il successo dell’Italia nel mondo (altro ingente danno al nostro capitale sociale).

Più recentemente, con il governo giallorosso già in coma, un reputato comunicatore già responsabile digitale della Federazione Relazioni Pubbliche Italiana e che orgogliosamente sottolineava la propria appartenenza ai comunicatori duri e puri, da cinque giorni dirigente della comunicazione del Ministro della Innovazione (dopo avere transitato fra Eni e Agi con l’incarico di rappresentare tutto il rappresentabile), scaraventa sull’arena della rappresentazione un (si fa per dire) piano dell’innovazione in cui l’imbarazzo degli osservatori si è alternato fra pochezza e banalità del contenuto e l’ispirazione dichiaratamente casaleggiana in pieno conflitto di interesse. Di tutto e di più, purché se ne parli.

Incrociamo poi il sistema bancario, dimentico delle mai chiarite vicende MPS che hanno anche portato alla misteriosa e tragica fine del bravo comunicatore Davide Rossi, prontamente dimenticato dai colleghi; e immemore delle devastazioni del vignaiolo Zonin e dei dirigenti delle altre banche venete e popolari. Un sistema che si trova in parallelo di fronte a una robusta rappresentazione dei principi di responsabilità sociale, di rendicontazione integrata, di valorizzazione del ruolo delle donne… e il giorno dopo (Unicredit) annuncia tranquillamente, come se niente fosse e scontando le reazioni “forzatamente” smorzate dei sindacati, una riduzione di migliaia di posti di lavoro.

Una mossa che peraltro passa quasi inosservata, perché a sua volta incalzata dal crollo, previsto e scontato da almeno un decennio, della Banca Popolare di Bari, con tanto di indagini di corruzione (destinate sicuramente a perdersi nelle nuvole di dati) per il padre padrone nonché presidente ella Banca. Naturalmente solo dopo diversi mesi si capisce che tutta la kermesse era frutto di un disegno comunicativo che “rappresentasse” agli italiani l’opportunità di una ennesima commissione parlamentare di indagine che, vivaddio, è riuscita per un soffio a evitare un’“inverosimile” presidenza esplicitamente antisemita, ma che ha comunque dirottato per mesi e mesi l’attenzione dalle questioni vere che hanno poi portato al crollo economico e finanziario del 21/22.

Il forsennato utilizzo a senso unico della rappresentazione è visibile anche dalla decisione di 180 grandi imprese multinazionali americane di annunciare inopinatamente che andava riscritta del tutto la “ragione esistenziale” (in inglese purpose) dell’impresa, retrocedendo i sempre favoriti azionisti a un ruolo paritario con altri interlocutori come i dipendenti, i fornitori, i clienti e la società civile. Belle parole, nessun impegno, nessuna scadenza.

Al contrario, non più tardi di qualche giorno dopo l’uscita pubblica, il responsabile della stesura di quella revisione (CEO della Johnson&Johnson, che aveva appena “confessato” al New York Times l’emozione di essersi sentito, durante la stesura, “come Jefferson”), è stato condannato da un tribunale a un’elevatissima multa per avere ecceduto nella quantità di oppioidi nei suoi prodotti. E così una rappresentazione immotivata e fine a se stessa ha avuto l’effetto di accelerare la fine dell’infatuazione verso la cosiddetta CSR (un obiettivo sensato, a cavallo fra Greta e la catastrofe ambientale).

La rappresentazione oltre il marketing e il sogno americano. Finalmente.

Ci sono tanti altri recenti episodi di rappresentazione immotivata e controproducente, dalla Boeing alla Wells Fargo, dalla Monsanto alla Via della Seta alla TAV (da entrambe le parti).

Fin da piccolo – padre diplomatico italiano e madre figlia di diplomatico britannico – ho avuto innato il senso della “rappresentanza”, e ho sempre pensato che la “rappresentatività” fosse una valutazione di merito del suo esercizio. Quella che oggi chiamiamo la “rappresentazione”, la narrazione erga omnes della rappresentanza, veniva interamente assorbita nelle prime due accezioni.

Oggi non è più così, ma è bene sapere che fino al 1960 la funzione del governo delle relazioni nelle organizzazioni operava alla grande, e alle dirette dipendenze dei vertici organizzativi. Furono l’esportazione nel mondo del sogno americano e dei consumi di massa che resero il marketing più rilevante. L’esplosione digitale ha solo rafforzato questa linea, perché ci si era erroneamente convinti che la comunicazione fosse la finalità dell’esercizio rappresentativo e non il suo strumento.

Difficile dirlo oggi nel 2030, ma sia Bernays, che Ivy Lee nei primi decenni del Novecento, e poi Grunig negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, avevano non solo praticato, ma sostenuto e argomentato questa verità, travolti però dall’ondata globale del sogno americano. Quel sogno che, con l’accelerazione incontrollata della velocità ha prodotto tutte le ineguaglianze che ancora oggi, nel 2030, affliggono miliardi di persone, costrette a migrare da una terra all’altra in condizioni di vita disperate.

Concludendo, per i suoi proponenti l’applicazione del decreto 323/29 rappresenta un piccolo, ma significativo passo, meno accidentato e più civile, verso un territorio relazionale fra individui, gruppi, organizzazioni, robot e algoritmi.




Burger King e l’advisoring alternativo

Burger King e l’advisoring alternativo

Se pensiamo al cibo genuino ci vengono in mente prodotti
freschi, magari un frutto mangiato sotto l’albero o del latte appena munto.
Quest’idea non è quella che abbiamo del cibo dei fast food, spesso considerato
pieno di conservanti, aromi artificiali e coloranti. In questo contesto si
inserisce lo spot ‘’the moldy whopper’’ di Burger King il quale, durante un
video, mostra come i panini della nota catena ammuffiscono col passare dei
giorni, proprio come farebbe un cibo ‘’vero’’ e ‘’sano’’, come farebbe un frutto
colto dall’albero e lasciato su di una mensola.

Il video, diventato presto virale, mostra un hamburger su di
un piedistallo con uno sfondo nero che fa risaltare il panino e come, col
passare dei giorni, il cibo si riempia di muffe fino a diventare irriconoscibile.
Questo spot sarebbe la prova che gli ingredienti utilizzati per realizzare i
panini sono naturali e sembra un attacco diretto al principale competitor della
catena, mc Donald, accusato da sempre di usare talmente tanti conservanti che
il cibo, anche a distanza di mesi, non si rovina.

Riguardo l’immediato successo avuto dalla campagna
pubblicitaria, Fernando Machado, CEO della holding che controlla Burger King,
ha dichiarato ‘’ Penso che
funzioni così bene perché è come se stessi mostrando qualcosa che in teoria
dovrebbe essere negativo, ma lo stai mostrando in un modo davvero meraviglioso.
La realizzazione, la fotografia e il timelapse non sono stati facili da
realizzare per ottenere i 
risultati desiderati in termini di elevati standard di esecuzione. Quindi il tempo di 34 giorni
è sembrato quello giusto in base a tutti gli esercizi empirici che abbiamo
fatto per assicurarci che il risultato fosse sbalorditivo’’.




In Italia manca un protocollo sulla comunicazione dell’emergenza

In Italia manca un protocollo sulla comunicazione dell'emergenza

Poche ore fa il premier Conte ha affermato che in questi casi serve anche una buona comunicazione. È stato scritto in un post sulla sua pagina Facebook e lo ha ribadito in un collegamento nella trasmissione condotta da Mara Venier. È vero, in questi “casi” è importante una corretta comunicazione, fondamentale consiglierei al presidente Conte. Intanto vorrei sottolineare che stiamo vivendo un “fatto”, nello specifico un’emergenza, non un’urgenza, ma un’emergenza e l’Italia è il Paese delle emergenze.

Pensiamo ai rischi idrogeologici, agli sbarchi e ora al coronavirus.

Nonostante i continui alert però non siamo ancora dotati di un protocollo per la gestione della crisi per quel che concerne la comunicazione. Palazzo Chigi dovrebbe occuparsene, ma non è stata mai avanzata alcuna proposta. Una timida volontà risale al 2016 quando i Vigili del Fuoco provarono a riunire, intorno a un tavolo, tecnici ed esperti di comunicazione e gestione delle emergenze per parlare di Smem. È stato l’unico momento in cui si è parlato di un documento necessario nel nostro Paese. La gestione dell’emergenza coronavirus ha infatti trovato impreparati molti amministratori locali, sindaci e commissari che hanno fatto fatica a reperire informazioni necessarie per le rispettive comunità. Un altro aspetto importante, emerso in questa emergenza, è stato quello dei tanti protagonisti che hanno voluto dire la loro distogliendo l’attenzione dei lettori dalle fonti ufficiali.

Negli Stati Uniti il fenomeno è descritto nel principio dello Stealing Thunder che descrive perfettamente gli effetti generati da una cattiva comunicazione nelle emergenze. Proprio lo studio dello Stealing Thunder ha permesso di correggere molti errori di comunicazione che nascono nelle crisi. Ad oggi dunque, il presidente del Consiglio, Autorità preposta, non ha promosso alcuna iniziativa per sviluppare un documento da attivare in caso di emergenza. Intanto nelle tv e sui social si è generato un flusso di informazioni che hanno confuso e procurato allarme contribuendo a favorire scelte che hanno condizionato il quadro sociale nelle ultime ore.

Qualcuno sosteneva che la comunicazione non fosse una scienza esatta, purtroppo non è più cosi e le analisi sui pubblici, sui media e sui processi che ne derivano dicono esattamente il contrario e per questo va garantito al Paese un modulo empirico sulla comunicazione che deve coinvolgere le università, il Dipartimento di Protezione Civile, lo Stato Maggiore della Difesa, il Servizio pubblico televisivo, i maggiori media e gli stakeholders chiamati ad affrontare le emergenze. Le linee guida mettono al centro la Presidenza del Consiglio dei Ministri che deve coordinare il lavoro e garantire l’attivazione del protocollo in caso vi sia una emergenza in atto. Alcuni punti sono stati già studiati in sede accademica ma vanno condivisi e ufficializzati altrimenti, anche dopo questa crisi, ne usciremo col risultato di aver imparato a lavare bene le mani ma ancora senza strumenti utili ad affrontare una qualsiasi futura evenienza. Tutt’ora, a distanza di giorni dall’inizio dell’emergenza, le notizie sono tante e riempiono l’ecosistema mediatico e informativo lasciando confusi gli amministratori locali e i cittadini che, purtroppo, nell’era della post verità, vengono influenzati da reclame che fanno leva sul sentimento per ottenere qualche click o creare “l’esca elettorale”. Un protocollo sulla comunicazione dell’emergenza è dunque fondamentale per il nostro Paese e la politica ha il dovere di fornire questo strumento per non rischiare di trovarsi impreparata davanti a futuri scenari di crisi.




L’evoluzione della ristorazione e il food delivery

L’evoluzione della ristorazione e il food delivery

In Italia il settore dei consumi alimentari fuori casa ha
continuato a crescere e oggi, secondo Fipe, rappresenta il 36% della spesa
alimentare totale con un valore aggiunto di 43,2 miliardi di euro, mentre i
consumi alimentari in casa presentano, da diversi anni, un costante trend
negativo. Il mercato della ristorazione italiana è il secondo più grande in
Europa (dopo quello spagnolo) e nell’ambito dei consumi domestici di cibi e
bevande cresce il food delivery: nell’ultimo anno il 30,2% degli italiani ha ordinato
almeno una volta online un pranzo o una cena, ricevendoli direttamente a casa.
Il comparto è ancora agli inizi in Italia (genera al momento un fatturato di
circa 1 miliardo di euro) ma è in continua crescita.

Secondo i dati pubblicati dalla Fipe a gennaio 2020, oggi in
Italia ci sono in totale 333.640 ristoranti in attività. La ristorazione
impiega 1,25 milioni lavoratori, di cui 864mila lavoratori dipendenti e 388
mila lavoratori autonomi. Il comparto della ristorazione traina la filiera
agroalimentare ed è parte integrante della filiera turistico-alberghiera. Pertanto
quello della ristorazione è un settore cruciale dell’economia italiana, con un
fatturato annuo (dato Fipe relativo all’anno 2018) di 85,3 miliardi di euro.
Tuttavia, il tasso di mortalità imprenditoriale nel mercato della ristorazione
è molto alto: dopo un anno di attività chiude il 25% dei ristoranti; dopo 3
anni quasi un locale su due, mentre dopo 5 anni le chiusure interessano il 57%
di bar e ristoranti.

I comportamenti di consumo nel mercato della ristorazione
sono fortemente influenzati dalla trasformazione digitale. In base a una
ricerca FIPE emerge che per scegliere un ristorante il 65,5% dei consumatori ha
dichiarato di leggere le recensioni online. Tra coloro che leggono le recensioni
online il 66,6% le ritiene «molto o abbastanza importanti». La ricerca si è
concentrata anche sugli elementi più apprezzati dai consumatori quando scelgono
il ristorante che sono innanzitutto la qualità dei piatti, i prezzi e il menù. L’atmosfera
del locale e il servizio, invece, per il consumatore risultano avere minor
importanza.

Seguendo le preferenze del consumatore, è facile comprendere
come mai il food delivery stia aggredendo quote di mercato dei ristoranti
tradizionali (soprattutto di fascia medio-bassa). Ordinare a casa il cibo
infatti ha bassi costi di consegna, comporta un importante risparmio in termini
di tempo e, poiché i consumatori sono più attenti alla qualità e al prezzo che
al servizio, questo nuovo modello di business si adatta perfettamente ai loro bisogni.
Se da una parte sono gli stessi ristoratori che si affidano a piattaforme
esterne per la logistica delle consegne stanno prendendo sempre più piede i
modelli di delivery nella forma full-integrated. Il full-integrated è un modello
adottato da imprese che associano la capacità di preparare i piatti e di
consegnarli a domicilio. Si tratta di ristoranti online che puntano a
contendersi un numero di coperti potenziali non più limitato dallo spazio
fisico del ristorante tradizionale. Gestendo una porzione molto ampia del
sistema del valore, controllando tutte le fasi della meal experience, le
imprese che hanno optato per questo modello di delivery possono conseguire
margini superiori sia ai ristoratori tradizionali che alle piattaforme di sola
logistica e offrire prodotti di alta qualità a prezzi ragionevoli, rendendo il
business della ristorazione tradizionale meno competitivo sul mercato.




Coronavirus, governo bocciato in comunicazione. Social, numeri verdi, crisis plan…

TUTTI GLI ERRORI DELL'ESECUTIVO SULLA GESTIONE DEL CORONAVIRUS

TUTTI GLI ERRORI DELL’ESECUTIVO SULLA GESTIONE DEL CORONAVIRUS

*Luca Poma è professore incaricato di Reputation Management e Crisis Communication all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino ed è co-autore del libro La Guida del Sole 24 Ore al Crisis Management: come comunicare le Crisi

Dopo settimane di scaramantica prudenza, l’emergenza Coronavirus impazza anche in Italia, in sole 48 ore salita sul podio come nazione Europea più colpita dalla pandemia, e come sempre le opinioni si sprecano: come sta gestendo la situazione il Governo Conte, e soprattutto cosa si sarebbe potuto fare prima, e meglio.

E l’analisi è utile non tanto e solo per “dare un voto al Governo”, quanto per comprendere – e ove possibile – correggere in corsa eventuali errori e criticità che rischiano di impattare negativamente non solo sulla vita dei cittadini ma, pesantemente, sul PIL dell’intera nazione.

Volendo uscire dal perimetro dei pareri soggettivi, è certamente utile riferirsi a quel significativo affidabile corpus di conoscenze – ben noto agli addetti ai lavori – che rientra sotto la dicitura di “crisis management & crisis communication”, ovvero la corretta gestione (e contemporanea comunicazione al pubblico) in caso di crisi: una materia sulla quale sono stati pubblicati centinaia di volumi, e che stupisce ancor oggi sia in parte fuori dall’orizzonte dei portavoce dei politici e di parte delle istituzioni pubbliche.

Andiamo con ordine, precisando che l’analisi di riferisce al pomeriggio nel quale questo articolo è stato redatto.

  1. Qualità delle informazioni. Prendendo a riferimento le aree del sito ufficiale del Ministero della Salute dedicato specificatamente al Coronavirus http://www.salute.gov.it/nuovocoronavirus e quelle analoghe dell’Istituto Superiore di Sanità https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/, la qualità delle informazioni è elevata, merito anche delle indubbie professionalità che il nostro Paese può vantare in campo sanitario. La Protezione Civile invece non ha ritenuto di attivare una landing-page specifica per il Coronavirus, dove raccogliere tutte le informazioni a riguardo, ma ha “sparso” le notizie in varie sezioni del proprio sito (comunque con richiami in homepage); stesso dicasi per Lombardia e Veneto, le due Regioni più colpite. I siti sono ottimizzati per Mobile e facilmente navigabili, cosa banale ma purtroppo ancora non scontata nella Pubblica Amministrazione italiana nel 2020. Manca invece nei siti istituzionali (o perlomeno non se ne trova traccia) una sezione informativa specifica sulle “bufale” relative al Coronavirus (ne circolano di ogni tipo), utile per garantire una comunicazione il più possibile priva di contenuti confondenti per la popolazione.

    VOTO AL GOVERNO: 7/8

  2. Comunicazione delle informazioni. Un hub informativo è tanto più utile tanto più è ben pubblicizzato, ovvero se sa raggiungere i cittadini facilmente, nei “luoghi digitali” che sono per loro più abituali. L’indicizzazione sui principali motori di ricerca di entrambi i siti ufficiali nazionali risulta affidata al caso (è organica, ovvero sulla base delle ricerche degli utenti, e non “governata” dalle istituzioni), tanto che digitando su Google “Coronavirus + informazioni” (la più banale e frequente delle ricerche) al primo posto compare l’area FAQ (domande e risposte frequenti) del sito del Ministero della Salute ma non la homepage dell’hub Coronavirus del Ministero stesso, che compare (fortunatamente, pur dopo 3 box in lingua inglese dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) digitando solo Coronavirus. Sarebbe stato sufficiente accordarsi (possibilmente ben prima dello scoppio dell’epidemia) con Google Italia, prevedendo l’attivazione di un box apposito in testa alla prima pagina di qualunque ricerca online, per far trovare in evidenza il rimando all’hub informativo principale. Inoltre, le informazioni online non sono sempre aggiornate in tempo reale (ad esempio, nelle FAQ del Ministero Salute non è riportato l’elenco delle regioni interessate da decreti di restrizione dei servizi, ma parla solo delle delibere di Lombardia e Veneto). Infine, a parte i video informativi con protagonista il giornalista RAI Michele Mirabella, ben fatti e con alcuni consigli utili di comportamento e prevenzione, lanciati il 7 febbraio (ma che neppure riportano il numero verde del Ministero), non risultano programmati in questi giorni di picco di attenzione degli specifici spot informativi in TV, che peraltro potevano esser realizzati già tempo fa, in un’ottica di corretta previsione della crisi, con spesa anche assai contenuta.

    VOTO AL GOVERNO: 5

  3. Gestione dei Social e dei Numeri verdi. I canali social Facebook, Twitter, Instagram e Youtube del Ministero della Salute risultano ingaggiati nella gestione dell’emergenza, perlomeno sotto il profilo della pubblicazione di informazioni e aggiornamenti, periodici “bollettini” con grafiche dedicate all’andamento del numero di contagi e decessi, video di consigli – di buona qualità, peraltro – per contenere e prevenire il contagio, buone prassi di igiene quotidiana etc. Tuttavia, soprattutto su Facebook, i cittadini pongono molte domande, alcune pertinenti ed interessanti sugli aspetti pratici e quotidiani della gestione dell’emergenza, ma – incredibile a dirsi – non ottengono alcuna risposta. Di fatto, i Social istituzionali vengono gestiti come un “clone” dei siti web: un flusso informativo a un’unica direzione, dalla istituzione al cittadino, mentre innumerevoli buone prassi (aziendali, ma anche di amministrazioni pubbliche di altre nazioni) dimostrano che l’uso corretto è tutt’altro, ovvero dare risposte puntuali agli utenti al fine di fugare dubbi e paure, evitando il panico dimostrando di avere pieno controllo della situazione. Niente da fare, in Italia i nostri politici (e chi si occupa di comunicazione per loro) proprio non riescono ad adeguarsi alle buone prassi in tema di comunicazione digitale, neppure in situazioni di emergenza. Per quanto riguarda i numeri verdi di informazione semplicemente sono in tilt mentre pubblichiamo questo articolo, sempre occupati, non rispondono, cade la linea. Questo è uno dei più eclatanti pessimi indicatori di scostamento dalle buone prassi internazionali in materia: non è fatta un’adeguata simulazione di scenario, e quindi i canali di comunicazione più immediati (le linee telefoniche, oltre ai Social) non sono presidiati con forze sufficienti per resistere alla (prevedibile da tempo) onda d’urto delle chiamate della popolazione

    VOTO AL GOVERNO: 4

  4. Un portavoce, un’unica voce. Il Covid 19 è letale; no, è poco più di una banale influenza; no, è peggio delle influenze stagionali… In questi giorni di comprensibile panico, di massima attenzione mediatica, e di vera e propria “bulimia da esperti” da parte dei mass-media, si sente di tutto e di più. Manca una “voce scientifica unica” che parli a nome delle istituzioni pubbliche, facilmente riconoscibile, e che sia ritenuta autorevole dalla cittadinanza: si passa dai “catastrofisti”, per i quali siamo dinnanzi alla pandemia del decennio, ai “minimizzatori” che paiono sottovalutare l’epidemia. A chi dovrebbe credere un cittadino? La mancanza di coordinamento nel merito dei messaggi evidenzia nuovamente una gestione della crisi per certi versi improvvisata, fortemente mancante di quella “programmazione preventiva in tempo di pace” che contraddistingue tutte le buone prassi di crisis management e crisis communication. E passando dal livello dei contenuti di tipo scientifico al livello della “voce” vera e propria delle Istituzioni, non pare andare meglio: Presidente del Consiglio, Ministro della Salute, Commissario all’emergenza Borrelli, Presidenti delle Regioni coinvolte, Protezione Civile… tutti parlano, con il risultato di ridurre l’efficacia del messaggio e aumentare i fattori confondenti. Certo, una vera e propria “unica voce” è utopia pura, ma così si esagera in senso opposto.

    VOTO AL GOVERNO: 4

  5. Coerenza dei provvedimenti. Spettacoli annullati e discoteche chiuse, ma cinema aperti; sospesi gli spettacoli al Teatro alla Scala, ma le prove dei ballerini oggi si sono svolte regolarmente (centinaia di persone in un unico ambiente); le scuole sono chiuse, ma le scuole guida no, perché sono registrate come attività di “pratiche auto” e non di “formazione”; alcuni comuni del Sud Italia impongono quarantena ai cittadini – italiani e non – provenienti dalle regioni settentrionali, eccetera. Anche queste incoerenze ottengono un effetto critico, disorientante, e possono portare alcuni cittadini – paradossalmente – a sottostimare il problema (“stanno esagerando, non si capisce più niente, è una bufala, etc.), senza parlare dei disagi economici. La tutela della salute chiaramente viene al primo posto: ma occorre anche qui non improvvisare, ed avere un “crisis plan” (un piano di gestione della crisi) preparato con cura in precedenza, così da prevedere accuratamente ogni scenario e gli adeguati strumenti di risposta e di gestione.

    VOTO AL GOVERNO: 5

Concludendo, le regole internazionalmente riconosciute valide nella gestione degli scenari di crisi, specie sotto il profilo della comunicazione, sono – ribadisco – note. In sintesi: autorevolezza, rapidità, trasparenza, coerenza, affidabilità, frequenza di aggiornamento, robustezza delle infrastrutture dedicate ad erogare le informazioni; c’è poco o nulla da “inventare”. Pur con molta buona volontà da parte delle istituzioni, e ferma restando la dedizione e abnegazione assoluta dei nostri operatori sanitari, che sta realmente facendo la differenza, l’impressione è che il Governo – nonostante i molti “segnali deboli di crisi” – sia arrivato ampiamente impreparato al grave appuntamento con questa epidemia, sottostimando la più importante delle regole auree della crisis communication, che è un po’ il minimo comun denominatore di tutti i punti elencati nella nostra “pagella”: è umanamente impossibile reagire con efficacia a crisi di ampia portata se il sistema di comunicazione e di relazione con il grande pubblico non è costruito (e testato con appositi stress-test) ben prima dell’evento critico.

Un caso virtuoso nella gestione della crisi è rappresentato – ad esempio – dalla Nuova Zelanda, che a seguito della consapevolezza del rischio sismico del suo territorio ha messo in moto un lungo e complesso lavoro di organizzazione preventiva nel quale alla base vi è la cooperazione attiva dei cittadini ed il coinvolgimento sinergico delle diverse componenti delle comunità locali; ha istituito il sito web “Get Ready” https://getready.govt.nz/ su cui vengono date istruzioni dettagliate in casi di emergenza e dove sono presenti indicazioni specifiche per essere preparati in casa, sul luogo del lavoro o a scuola, offrendo anche la possibilità di organizzare iniziative off-line come il reclutamento di volontari in caso di allarme, e disporre vere e proprie esercitazioni per le emergenze, come “ShakeOut”, l’esercitazione antisismica collettiva che si tiene ogni anno, così da valorizzare un lavoro preventivo letteralmente vitale in caso di emergenza, che include l’impegnativo, ambizioso ma indispensabile processo di informazione ed educazione dei cittadini. Certamente, la Nuova Zelanda può non presentare tutte le complessità proprie del sistema Italia; ma il sistema Italia, di spazi di miglioramento, pare averne ancora parecchi.

Aggiornamento (edit 25/05/2020 h 23:21): nella conferenza stampa di oggi pomeriggio, martedì, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha dichiarato, tra le altre cose: “Daremo indicazioni a tutte le regioni assicurando la massima uniformità di comportamenti su tutto il territorio nazionale. In sostanza avremo tre livelli: uno già adottato per quelle aree molto circoscritte individuate come epicentri del coronavirus, ossia i dieci Comuni del lodigiano ed il Comune di Vò; poi abbiamo un secondo livello riguardante le aree circostanti che presentano alcuni episodi di contagio; infine c’è tutta la restante parte del territorio nazionale dove non c’è motivo di adottare misure severe, ma restano valide solo misure di cautela. Non hanno motivo di sussistere in zone non colpite le sospensioni di attività produttive e scolastiche, ma, al massimo, verranno sospese le gite d’istruzione (…) E sui tamponi negli ultimi giorni abbiamo esagerato”. Proseguiamo quindi con la gestione emergenziale “day-by-day”: Circolari scritte per l’occasione (ieri è stata redatta quella per i Comuni non colpiti dall’epidemia), prima massimo allarme adesso prudenza, scuole chiuse che ora riapriranno, fino a ieri tamponi a tutti i sospetti infetti, adesso ‘non esageriamo’; in definitiva, nessuna simulazione di scenario in fase di pre-crisis, e strategie di modulazione della risposta al rischio e relativi strumenti di gestione messi a punto per l’occasione, ora dopo ora. Dilettanti allo sbaraglio, che stanno vivendo questo momento difficile per il Paese come fossero ingaggiati in una specie di gioco di ruolo…?