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TESI DI LAUREA: LE CRISI D’AZIENDA: IL CASO DEL PONTE MORANDI

Università Commerciale Luigi Bocconi, Milano – Facoltà di Economia
Corso di Laurea in Economia Aziendale e Management, Anno Accademico 2018 – 2019

LE CRISI D’AZIENDA: IL CASO DEL PONTE MORANDI

Tesi di Laurea di Federica Damonte Prioli – Relatore Prof. Andrea RURALE

A questo link, il testo integrale della Tesi (41 pagine), qui di seguito, il testo dell’Introduzione della tesi:


INTRODUZIONE

Secondo Paul A. Argenti una crisi è “una rilevante calamità che può verificarsi sia in modo naturale sia come risultato di un errore o di un intervento umano, anche maligno. Ciò può includere danni materiali come ad esempio la perdita di vite umane o di beni, o danni immateriali, come ad esempio la perdita di credibilità dell’organizzazione o di altri danni alla reputazione”.

Al giorno d’oggi gestire una crisi aziendale è diventata una priorità per ogni realtà aziendale; ancora più importante è il saperla prevenire. Questo è dovuto al fatto che le notizie vengono divulgate molto velocemente tramite i media sia tradizionali che digitali. Saper comunicare alla propria audience in modo efficace e tempestivo è una necessità per le aziende che si trovano all’interno di una crisi, anche per il fenomeno che va sempre più sviluppandosi delle fake news.

Una crisi è come una tempesta per un’azienda, da cui può uscirne più forte o nettamente indebolita. Per creare una forte immagine aziendale possono essere necessari molti anni e in pochi minuti la stessa può essere rovinata.

Questo è quello che è successo ad Autostrade per l’Italia, nell’agosto 2018, dopo il crollo del ponte Morandi. Una cattiva gestione della comunicazione immediatamente dopo i fatti ha impattato negativamente sull’immagine aziendale con forti conseguenze.

Secondo un’attenta analisi, nel primo capitolo verrà presentata l’azienda Autostrade per l’Italia, e l’importante azionista di riferimento, la famiglia Benetton.

Nel secondo capitolo seguirà una presentazione del ponte e i tragici fatti accaduti il 14 agosto 2018.

Nel terzo capitolo verranno illustrate le principali conseguenze per tutti gli enti coinvolti, sia dal punto di vista economico che commerciale e turistico.

La parte fondamentale sarà illustrata nel capitolo 4, in cui, secondo l’analisi svolta da Luca Poma e Giampietro Vecchiato nella loro guida al Crisis Management, verrà analizzato il comportamento dell’azienda secondo le tre fasi di research, response e recovery.

Infine, si cercherà di capire nel quinto capitolo quali sono stati gli errori commessi dall’azienda e dunque la situazione attuale per la città e per l’azienda coinvolta.




L’estate del cambiamento.

L’estate del cambiamento.

Niente a che fare con la crisi dell’ormai famigerato “Governo del Cambiamento”. Quella che sta per concludersi potrebbbe essere ricordata come un’estate memorabile per la quantità di campagne e iniziative che sembrano segnare una svolta definitiva negli approcci al marketing e alla comunicazione.

Da tempo nel nostro lavoro si fa un gran parlare della necessità di comunicare in maniera nuova ai nostri interlocutori. Spesso, nella rincorsa al consenso dei Millennial, si rende pressoché obbligatorio uno sguardo nuovo sulle tematiche a cui sembrano essere più affezionati. Ecco quindi che i temi ambientali, quelli della diversità di genere e dell’inclusione diventano requisiti fondamentali per guadagnare i loro favori. C’è chi è riuscito a farlo in maniera magistrale e gli ultimi mesi sono stati particolarmente interessanti da questo punto di vista.

Ho attraversato i miei feed e ho provato mettere in fila le iniziative che mi sono piaciute di più, partendo dalla bellissima operazione con cui Diesel ha salutato su Instragram i 14.000 follower persi dopo la sua adesione al Pride e alla comunità LGBT.

Sosteniamo con orgoglio i nostri valori da oltre 40 anni e crediamo nel Pride. Per coloro che non lo fanno, inclusi i 14.000 followers che ci hanno lasciati nell’ultima settimana… addio! Per coloro che condividono le nostre opinioni e i nostri valori, celebriamo il fatto che l’amore è amore. Sempre

Bella anche l’iniziativa della compagnia aerea KLM che all’inizio di luglio, alla vigilia dei suoi picchi stagionali, ha avuto il coraggio di lanciare l’iniziativa Fly Responsibly, per invitare i suoi passeggeri a considerare altre forme di trasporto su alcune destinazioni o a compensare l’emissione di C02 con uno speciale biglietto di viaggio che permette di partecipare a un importante progetto di riforestazione

E ancora, spostandoci su altri temi, bellissima l’iniziativa della multinazionale Pampers che si è attivata per installare in USA e Canada, oltre cinquemila fasciatoi nei bagni degli uomini. #lovethechange è il tema che hanno dato a questa iniziativa e che stabilisce pari opportunità tra uomini e donne, anche nel cambio dei pannolini.

Di tutt’altro genere la geniale provocazione di PornHub, il celebre sito di video pornografici. I creativi dell’agenzia Officer & Gentleman hanno preso a prestito l’istanza ambientale per lanciare il film pornografico più “sporco” di tutti i tempi. Hanno coinvolto una celebre pornostar in un film girato su un’isola letteralmente coperta di spazzatura. La visione è possibile solamente sulla loro piattaforma e ad ogni clic corrisponde un incentivo importante a tutela dell’ambiente.

YouTube ha rimosso il trailer, ma potete divertirvi su PornHub e fare qualcosa di utile per il pianeta.

https://it.pornhub.com/cares/dirtiest-porn

E a proposito di ambiente, sempre quest’estate, c’è da registrare la notizia di Lego che ha reso nota l’intenzione di utilizzare bioplastiche ecologiche e di origine naturale per fabbricare i suoi mattoncini da costruzione. Mentre fa discutere la scelta di IKEA che ha recentemente comunicato di non distribuire più il proprio catalogo nelle case dei consumatori. In realtà alcuni lo stanno ricevendo, ma la gran parte dei clienti IKEA dovrà recarsi presso un punto vendita per poter sfogliare il catalogo cartaceo.

Un oggetto cult non sarà più disponibile presso le nostre case e gli addetti ai lavori si sono divisi tra chi plaude la scelta ambientale della multinazionale svedese e chi reclama la propria dose di carta e colla nella propria casella di posta, accusando IKEA di guardare solo al risparmio dei costi di produzione.

Sul filo di lana arriva Cadbury, la celebre tavoletta di cioccolato, che in India ha voluto celebrare il giorno dell’indipendenza con un’edizione davvero speciale fatta di 4 gusti in una sola barretta che prende i colori delle diverse etnie locali.

Infine, questa è stata l’estate in cui su questi temi ci sono state importanti prese di posizione da parte delle aziende.

Negli Stati Uniti i 200 CEO appartenenti alla Business Roundtable presieduta da Jamie Dimon di JpMorgan Chase che vanta al suo interno aziende come Apple, Accenture e AT&T, per oltre 15 milioni di dipendenti hanno dichiarato che “accanto alla massimizzazione dei profitti ogni compagnia deve avere come scopo l’arricchire la vita dei propri dipendenti, dei consumatori, dei fornitori e delle comunità, servendo gli azionisti in modo etico e rispettando l’ambiente”.

L’affermazione è coraggiosa, pensando ai nomi che fanno parte di quest’associazione e infatti non si è fatta attendere una severa risposta delle BCorporation che in ultima istanza invita a lavorare insieme per il benessere di tutti.

Lo so è stata anche l’estate delle critiche a Greta Thunberg per la sua traversata principesca, ma c’è stato anche un momento a margine del G7 in cui le più importanti maison della moda si sono impegnate nel #fashionpact. L’accordo siglato davanti al Presidente Macron vuole che l’intero comparto della moda si adoperi per promuovere, migliorare e rafforzare la cooperazione tra società private e stati nazionali, al fine di arrestare il riscaldamento globale; ripristinare la biodiversità e proteggere gli oceani.

Staremo a vedere.

Per chiudere, e a proposito di inclusione, una notizia di pochissimi giorni fa a dirci quanto in futuro i temi più sensibili debbano riguardare qualsiasi ambito di lavoro. E per ovviare all’annosa questione di genere sulla sessualità delle intelligenze artificiali, ecco arrivare in nostro soccorso la prima genderless voice.




Dal relatore pubblico ai correlatori sociali

Dal relatore pubblico ai correlatori sociali

A poche settimane da BledCom, le riflessioni di Biagio Carrano a margine del simposio.

Dopo le note di Francesco RotoloBiagio OppiLetizia Ciancio e Toni Muzi Falconi, ecco quanto scrive Biagio Carrano, co-autore del paper presentato.
La ventiseiesima edizione del simposio di Bled si è focalizzata sul tema “Trust and Reputation”, che è un po’ come se un amministratore delegato di una banca parlasse di merito di credito dopo averne sfasciato i bilanci elargendo prestiti inesigibili ad amici e compari. Perché se ci sono due parole che descrivono la crisi di una professione e, in generale, delle società in cui oggi viviamo, esse sono proprio fiducia e reputazione. Non starò qui ad elencare cause e dinamiche che hanno portato a questo, però possiamo tratteggiare un orizzonte presente, in cui tutti i riferimenti entro cui tradizionalmente si muovono comunicatori e relatori pubblici, quali istituzioni, media, esperti, vivono un declino nella loro capacità di essere ancora autorevoli e rilevanti. A Bled abbiamo provato a presentare una prospettiva complementare dell’essere relatore pubblico, il cui ruolo sia capace di estendersi oltre i confini dell’organizzazione, per proporsi come “tessitore sociale”, “relatore di comunità”, “social capital officer”, ”social capital booster”: definizioni ancora parziali e instabili perché frutto di un’elaborazione in itinere.

Chi era il relatore pubblico?


Con una forte semplificazione potremmo affermare che finora il ruolo del professionista delle relazioni pubbliche è stato, e resta, per lo più, quello di convogliare il capitale intellettuale, umano e sociale esistente (inteso sia come attributi del marchio del committente, sia come reputazione verso gli stakeholder, sia come caratteristiche sociali dei territori in cui si opera, sia, infine, come il suo proprio capitale sociale inteso come reputazione, credibilità e capacità di persuasione) al fine di raggiungere gli obiettivi di comunicazione, intesi come advocacy o in termini di cambiamento degli atteggiamenti e dei comportamenti.
In questa declinazione, alla committenza vengono di regola proposte e sviluppate campagne per lo più di breve durata, al di sotto dei dodici mesi di orizzonte, con un approccio tattico legato spesso a necessità contingenti. Inoltre l’orientamento è per lo più dall’interno dell’organizzazione verso l’esterno: abbiamo un messaggio, un’idea, una qualità e vogliamo che alcuni soggetti all’esterno dell’organizzazione ne vengano a conoscenza.
Questa rapsodicità delle attività di comunicazione e di relazioni sociali si evidenzia anche nella durata degli incarichi dei dirigenti responsabili: l’incarico di un direttore finanza o un direttore di produzione dura per molto più tempo rispetto a un pari grado che si occupa di comunicazione. Spesso il direttore della comunicazione è più legato a un rapporto di fiducia con l’amministratore delegato che ai valori e alla cultura dell’impresa per cui lavora. Così la continuità di indirizzo nell’ambito della comunicazione viene meno e spesso non è considerata essenziale per il successo dell’impresa. Aspetto paradossale questo, in un’economia dove le imprese a maggior tasso di crescita sono quelle con forti elementi di valore intangibili.

Una nuova idea di capitale

Fino a trent’anni fa parlare di capitale non consentiva ambiguità: o avevi i capitali (in termini finanziari o di macchinari) per intraprendere un’attività o non partivi. Il capitale si riduce a soldi e mezzi di produzione e non vi erano dubbi: quello che facevi o accresceva o diminuiva il conto in banca o il patrimonio.
Teorici e analisti hanno gradualmente dimostrato che di capitali ce ne possono essere tanti. Si possono avere scarsi capitali ma un’artigianalità unica che ti consente di realizzare prodotti di eccellenza, grazie a un tornio o a un forno. E da quel forno e da quel tornio hanno avuto inizio tante storie di successo italiane. Puoi essere un neolaureato con le scarpe bucate ma hai una preparazione di eccellenza che presto (forse non in Italia) ti verrà riconosciuta con stipendi adeguati. All’opposto, non sei una cima e non hai mani di fata, ma hai savoir faire e una capacità empatica uniche che ti rendono credibile e ben accetto da tante persone, pronte a darti, appunto, credito. La consapevolezza che le risorse naturali non sono infinite spinge poi a considerare un loro uso efficiente e parco come un ulteriore fonte di valore per un’impresa.
L’approccio dell’International Integrated Reporting Council (fondato nel 2010 dal Principe Carlo insieme ai grandi operatori globali della revisione contabile e divenuto il principale centro di analisi intorno al valore e alla rendicontazione delle organizzazioni) ha individuato sei fonti del valore per le organizzazioni: il capitale finanziario (Financial), il capitale produttivo (Manufacturing), il capitale umano (HR), il capitale naturale (Natural), il capitale intellettuale (Intellectual), il capitale sociale e relazionale (Social). Ma ancora più importante è l’idea che il valore creato da un’organizzazione non può essere scisso dal valore creato al  proprio esterno: non è un vero valore se finisce per essere un gioco a somma zero, dove l’incremento di valore contabilizzato da un’impresa è frutto del depauperamento dei capitali utilizzati, interni o esterni, ad esempio attraverso lo sfruttamento di risorse naturali non rinnovabili, l’abuso del personale, indebolimento della fiducia a seguito di condotte scorrette, lo spreco di risorse economiche per spese o benefit ingiustificati.
Di questi sei asset, quattro sono interni all’azienda/organizzazione (Manufacturing, Financial, HR, Intellectual) e due esterni (Natural e Social). Inoltre cinque di questi asset sono prevalentemente degli stock, mentre solo il capitale sociale e relazionale può essere interpretato prevalentemente come un flusso perché esso si misura solo in rapporto a un determinato intervallo di tempo.
Dunque possiamo affermare che il capitale sociale e relazionale di un’organizzazione ha due specifici attributi: è un flusso ed è prevalentemente originato attivando risorse esterne ai confini organizzativi. Per ciascuno dei sei capitali vi sono figure professionali e manageriali specifiche ma con obiettivi diversi. Un direttore finanza o del personale ha come obiettivo quello di portare all’interno dell’organizzazione le risorse di miglior qualità, mentre il capitale sociale non può essere trasferito dall’esterno all’interno dell’organizzazione, proprio perché non è uno stock ma un flusso. Può essere attivato e accresciuto nella sua capacità di produrre esternalità positive per l’organizzazione, ma non può essere “trasportato” al suo interno come se fosse un barile di petrolio o un bonifico bancario.
Il capitale sociale e relazionale è contendibile ma, a differenza della conoscenza o dei beni digitalizzati, non è replicabile a costo zero. Al contrario richiede investimenti di lungo periodo e ogni organizzazione opera già in un contesto più o meno sviluppato dal punto di vista del capitale sociale, frutto di stratificazioni successive, in cui il capitale sociale non sempre è accresciuto ma può  aver registrato un decremento a seguito di particolari eventi o anche di una generazione meno propensa a investire in esso.
Il capitale sociale è stato per troppo tempo visto come uno stock, di natura personale o legato a uno specifico territorio, di cui l’organizzazione fruiva tatticamente in base alle sue esigenze del momento. Gli esempi più tipici sono quelli del personaggio autorevole o dell’esperto, di cui si attiva la reputazione o la fiducia che infonde nel pubblico, o l’apertura di canali di collaborazione con organizzazioni radicate sul territorio al fine di rendere più persuasiva una campagna di comunicazione o di accreditamento. Se invece interpretiamo il rapporto tra organizzazione e ambiente in cui opera in termini di costante dinamica di feedback, attraverso attività, relazioni e interazioni continuamente attivate, comprendiamo come questi due elementi non possono essere più pensati come separati, e questo non in base a un’astratto approccio olistico, ma semplicemente perché l’organizzazione è anche il suo ambiente, e dunque subisce o fruisce il degradarsi o lo svilupparsi del capitale sociale che la circonda così come subisce o fruisce i trend economici generali.

Una nuova prospettiva per i relatori pubblici

Il capitale sociale in cui e con cui si relaziona un’organizzazione è dunque un asset competitivo dell’organizzazione stessa, e come tale va tutelato, coltivato, promosso e accresciuto come tutti gli altri valori che l’organizzazione custodisce al proprio interno. Se si parte da questo assunto si trasforma e si dilata anche l’ambito e le responsabilità dei comunicatori e dei relatori pubblici.
La relazione con i portatori di interesse è stata finora sempre pensata come una relazione uno a molti, uno a pochi o uno a uno. In realtà questo nuovo ruolo del relatore pubblico prevede anche la capacità di promuovere relazioni molti a molti. Certo, è un truismo affermare con Robert Putnam “Working together is easier in a community blessed with a substantial stock of social capital” (Putnam 1993, pp. 35 and 36), ma quante organizzazioni si sono poste questo obiettivo, assumendo professionisti capaci di incrementare questo capitale?
A Bled abbiamo definito questa nuova relazione tra capitale sociale e relazioni pubbliche nei termini inglesi di “entanglement”, correlazione, concetto che richiama anche l’entanglement quantistico,  chiaramente un traslato per evidenziare la correlazione anche a distanza tra un’organizzazione e il suo capitale sociale, che in qualche modo diventa un “portato” della cultura organizzativa anche quando essa opera in contesti diversi da quello originario, come nel caso, ad esempio, di aperture di nuove sedi all’estero.
In questa nuova dimensione professionale gli orizzonti temporali di azione cambiano in maniera significativa. Da obiettivi a breve termine tramite iniziative occasionali si passa a risultati di lungo termine attraverso attività ricorrenti anche se meno eclatanti. Non si cerca tanto la visibilità occasionale quanto il rafforzamento dei legami esistenti, la creazione di nuove interlocuzioni e la promozione di un contesto sociale aperto di per sé alla relazione. Ci troviamo in una dimensione che oltrepassa i confini usuali della corporale social responsibility o della sussidiarietà: l’organizzazione non investe sul capitale sociale in base a principi risarcitori o di sana etica aziendale, quanto investe perché persuasa che sviluppare questa componente della sua configurazione di valore le consente di essere competitiva.
Se intende promuovere questo nuovo modello, il comunicatore o relatore pubblico deve darsi anche strumenti nuovi. Innanzitutto quantificare l’apporto al capitale sociale dato dai suoi interventi. Poi la capacità di uscire dall’ambito propagandistico e della advocacy per entrare in una dimensione alquanto inesplorata: una posizione più esterna che interna all’organizzazione, più dedicata a tessere legami che a instaurare relazioni strumentali, più focalizzata su una visione lunga di un contesto sociale che sulla imminente trimestrale (al di là delle imprese dove comunque è prevista una rendicontazione puntuale anche del capitale sociale). Una funzione siffatta può appunto trovare una sua legittimità solo se capace di quantificare con metodi condivisi l’impatto delle sue azioni.
All’interno del piano per accrescere il capitale sociale, che deve prevedere investimenti e risultati come tutti gli altri piani aziendali, il piano di comunicazione ed RP vedrà iniziative e attività dedicate a questi specifici obiettivi di correlazione con il capitale sociale.
Un passaggio conseguente sarà la mappatura del capitale sociale, da svilupparsi attraverso gli strumenti che le ricerche degli ultimi trent’anni hanno definito: non soltanto uno statico censimento dei soggetti che sul territorio tutelano e sviluppano il capitale sociale e non soltanto soltanto l’analisi di correlazione tra le attività di questi soggetti e determinati output sociali. Bisognerà integrare ad essi la sentiment analysis (non solo online, ma anche nei luoghi fisici) attraverso i metodi e i software oggi disponibili. Solo così si potrà capire quali sono i gap e i picchi e definire delle azioni capaci di aderire effettivamente alle caratteristiche della cultura sociale locale e dunque risultare efficaci.
Ma soprattutto si tratterà di uscire da una logica funzionale alla diffusione di alcuni messaggi di “buona volontà”: passare dalla promozione di buone pratiche alla diffusione di attitudini produttive del capitale sociale sarà la vera sfida, perché la pratica è il frutto di un’attitudine e spesso una campagna migliora solo temporaneamente gli effetti di una pratica se non si è lavorato sulle attitudini.
Quello di cui sopra è un elenco, parziale e finanche contraddittorio. Nessuna ambizione di dare indicazioni definitive, ma solo di suscitare una riflessione per esplorare collettivamente una dimensione che appare essere la sfida del presente per la professione del relatore pubblico e per le nostre stesse società.




Dove Mettere gli Hashtag su Instagram

Dove Mettere gli Hashtag su Instagram

Instagram continua ad essere la piattaforma più “hot” del momento, e dunque la corsa di influencer, brand, enti, e organizzazioni, sul social di foto [e video], non ha sosta.
 In  tutto questo giocano un ruolo non trascurabile gli hashtag, il cui utilizzo, come noto, aiuta le persone a scoprire nuovi contenuti, e dunque può servire ad aumentare la propria platea di follower, e ad aumentare la portata dei post.
Sul tema, Socialinsider, in partnership con Quuu , una piattaforma di diffusione e promozione dei contenuti, ha esaminato 649.895 post di Instagram da oltre 6.700 account con diverse dimensioni di pubblico, di follower, per verificare cosa ci dicono i dati su come utilizzare gli hashtag per migliorare le prestazioni di Instagram.
Nel complesso, i dati, che sono stati presi da Agosto 2018 a Giugno 2019, mostrano una preferenza per la maggior parte dei brand, con una maggioranza schiacciante del 93.8%, di posizionare gli hashtag nella didascalia, rispetto al primo commento.


I brand usano meno hashtag quando li inseriscono nei commenti e più hashtag quando li usano nella didascalia. La maggior parte dei post ha 2 hashtag quando si guardano solo gli hashtag nel primo commento. Tuttavia, quando i marchi utilizzano hashtag nella didascalia, la maggior parte dei post ha 7 hashtag.
I dati rivelano anche in che modo il posizionamento dell’hashtag influisce sulla portata degli account Instagram di piccole e medie dimensioni per numero di follower.
I profili fino a 100.000 follower hanno un tasso di copertura migliore quando si utilizzano gli hashtag nella didascalia. I dati mostrano che l’uso di hashtag nella didascalia porta agli account Instagram di piccole e medie dimensioni una maggiore copertura per post.
I profili con meno di 5mila follower hanno un tasso di copertura medio del 36.85% per post con hashtag nella didascalia, quelli con tra 5mila e 10mila follower hanno un tasso di copertura medio del 20.98% per post con hashtag nella didascalia, quelli tra 10mila e 50mila follower si attestano ad un tasso di copertura medio del 21,47% per post con hashtag nella didascalia, e quelli con tra 50mila e 100mila follower registrano un tasso di copertura medio del 21.43% per post con hashtag nella didascalia.
I profili con oltre 100mila follower hanno un tasso di copertura migliore quando pubblicano i loro hashtag nei commenti [15.9%], a differenza di una percentuale di copertura del 14.8% dei post con hashtag nella didascalia.
La situazione cambia se invece della copertura dei post si analizza l’engagement. Iinfatti, il tasso di coinvolgimento per post è maggiore quando i post aggiungono hashtag mostrati nel primo commento o inseriscono hashtag nascosti nella didascalia. I brand, in generale, preferiscono non nascondere i loro hashtag, ma non è sempre la decisione migliore. In tal senso l’indicazione che pare emergere dalla desk research è quella di nascondere gli hashtag delle didascalie, ma non nascondere quelli nel primo commento.
Indicazioni preziose per chi deve gestire operativamente uno, o più, account su Instagram. Buon lavoro.




Democrazia in Europa: il mercato della verità online

Democrazia in Europa: il mercato della verità online

La rivoluzione digitale ha soddisfatto il bisogno di immediatezza della società democratica, che mal tollera l’incertezza nel processo decisionale, ma ha compresso eccessivamente i tempi di riflessione critica sull’informazione, distorcendo la distinzione tra vero e falso.

Ciò ha permesso che i social media si strutturassero come luoghi di veridizione, di formazione della verità, con logiche di mercato. Come il vero prezzo è legato naturalmente a domanda e offerta, così sui social l’informazione acquista il crisma della verità secondo il numero di condivisioni o like che ottiene. La mera diffusione funge da autopoiesi delle fonti, avulsa da ogni analisi critica sulla effettiva veridicità della notizia.
Si è così agevolata la diffusione di fake news, specie se per guadagno pubblicitario o per influenzare processi e decisioni politiche di uno Stato.
Democrazia rappresentativa e democrazia liquida
I social hanno aperto alla democrazia liquida, nella quale l’elettore ha il potere di controllare come il suo voto viene speso dal rappresentante in relazione ad ogni proposta legislativa, ed eventualmente riassegnarlo.
Si coniugano così i principi della democrazia rappresentativa e le istanze di partecipazione di quella diretta, specie nei sistemi di e-voting, la cui immediatezza permette votazioni, dal carattere referendario, su un numero potenzialmente infinito di proposte legislative.
Ciò comporta un rischio specifico: in assenza di tempi funzionali ad un’analisi critica, tali votazioni diverrebbero dei plebisciti, legati al sentiment dell’elettorato e ai rapidi tempi di reazione propri del web, impedendo all’elettore di testare la veridicità dell’informazione. Così, nel meccanismo di veridizione summenzionato, anche delle fake news verrebbero assunte come vere, e come base di decisioni politiche. Ciò influirebbe sulla governabilità e sulla stabilità della democrazia, precludendo alla minoranza un effettivo potere di opposizione in tali decisioni-lampo, e aprendo ad un totalitarismo della maggioranza di turno.
Il meccanismo di veridizione dei social viene sfruttato da opinion leader che canalizzano gli orientamenti politici, grazie all’azione di software informatici.
Esempio ne è il software ‘la Bestia’, utilizzato dallo staff comunicativo del leader della Lega Matteo Salvini per analizzare le interazioni degli utenti e consigliare post o tweet, al fine di polarizzare il sentiment degli utenti. Così si riesce a far leva su emozioni basilari e argomenti conflittuali, con cui dividere l’opinione pubblica in ‘buona e vera’, se conforme alla notizia veicolata, oppure ‘cattiva e falsa’, delegittimando le opinioni divergenti.
Tuttavia, al di là della dubbia etica pubblica che la ispira, e del rischio di esasperare le divisioni sociali, tale strategia politica può ritenersi espressione di democrazia. Una deriva autoritaria, fuori e contro il sistema democratico, pare, seppur non impossibile, allo stato attuale quanto meno improbabile, data l’alta burocratizzazione ed interdipendenza delle società europee.

Cyberwarfare e Digital Authoritarianism

L’odierno scenario di cyberwarfare, legato alla disinformazione, costituisce, invece, un attuale rischio per la democrazia e la libertà d’espressione.
Emblematici sono l’elezione di Donald Trump e il referendum sulla Brexit: eventi in cui la Russia avrebbe etero-diretto l’opinione pubblica dei due Paesi mediante diffusione di fake news.
Ciò sarebbe avvenuto anche grazie all’attività di Cambridge Analytica di microtargeting comportamentale, alla policy di scarsa trasparenza di Facebook sulla fonte e sul finanziamento dei contenuti politici sul sito, nonché al filter bubble, meccanismo per cui ogni utente visualizza contenuti altamente omogenei, basati sulle proprie interazioni sul social, con effetto di restringerne l’orizzonte informativo.
A tale intrusione nella libertà d’espressione degli utenti e nella sicurezza nazionale, gli Stati hanno risposto censurando la disinformazione sui social, nella pretesa impossibile di definire normativamente il falso, e assumendo un ruolo di guida nella verità, che deve rimanergli estraneo in un’ottica democratica.
Normative di digital authoritarianism, restrittive della libertà online, si sono diffuse negli stati europei. È, però, soprattutto in Russia e Cina, che il diritto di espressione è abolito da una capillare censura in rete, e si impone uno spazio online isolato dal resto del mondo.

Alcune possibili soluzioni democratiche

L’unica soluzione possibile sembra quella per cui “i mali della democrazia si curano con più democrazia”.
In tal senso, si dovrebbero sfruttare le potenzialità dei social, cercando di ridurne la funzione di veridizione, attraverso un sistema integrato di private and public enforcement, in cui:

  1. i gestori dei social predispongono meccanismi di segnalazione della disinformazione e compiono una verifica ponderata delle segnalazioni, per scongiurarne un uso distorto. Inoltre, essi dovrebbero consentire che l’utente possa graduare l’effetto del filter bubble, per ampliare il proprio orizzonte informativo.
  2. agli utenti deve essere lasciato il controllo interno, senza potere di censura, attraverso l’opera indipendente di debunking e fact-checking. Tale meccanismo dovrebbe essere potenziato, per evitare errori, mediante l’azione integrata dei media tradizionali, sia quale supporto informativo nell’indagine sulla falsità dell’informazione, sia quale cassa di risonanza dell’esito dell’indagine, per minimizzare l’effetto distorsivo della disinformazione.