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Sicurezza e Sistema Paese: non solo cybercrime

Sicurezza e Sistema Paese: non solo cybercrime

Sempre più spesso si dibatte di sicurezza informatica e cybercrime, finendo con il non considerare gli attacchi fisici. È la cosiddetta strategia della lumaca, in riferimento al caso accaduto in Giappone nel maggio scorso, quando una lumaca, dopo essersi infilata in una centralina elettrica di una stazione, ha causato un cortocircuito e la sospensione del traffico ferroviario. L’analisi a cura di Secursat.


Mentre i media e gli addetti delle grandi aziende si concentrano su sicurezza informatica, cybercrime, minacce e  attacchi hacker e ci si interroga sulla vulnerabilità dei sistemi di controllo industriali definendoli estremamente attaccabili, anche alla luce di alcuni significativi attacchi hacker (ad esempio WannaCry, che ha colpito nel 2017 i PC delle strutture ospedaliere britanniche) volgendo così lo sguardo alla sicurezza informatica come al principale asset da salvaguardare, in Italia, nel 2019, per paralizzare il traffico ferroviario dell’alta velocità, e quindi il paese, è sufficiente appiccare un incendio nell’area dove si trovano i cavi di trasmissione dati degli apparati di sicurezza dei treni, come è successo il 23 luglio.
I media e gli esperti della security si prodigano in scuse ma forse, l’unica vero aspetto su cui riflettere è che la convinzione che il cybercrime sia il nuovo e unico nemico, ha causato un generale abbassamento della guardia di fronte alle minacce che arrivano nel più classico dei modi, quello fisico. Abbiamo forse perso tutti la consapevolezza, (o possiamo pensare che in taluni casi la consapevolezza non ci sia mai stata?) che i rischi e le minacce possono ancora interessare la sicurezza in senso fisico?
Riprendendo, infatti, le parole usate a rivendicazione dell’attacco che sostengono come «sia sufficiente accendersi una sigaretta all’aria aperta […] per mandare in tilt questo gigante chiamato Potere che ha sempre e comunque i piedi di argilla. Come tutta la sua esaltata magnificenza, tutta la sua invincibilità, dipendano da fragili cavi disseminati un po’ dovunque. Talmente vulnerabili da poter essere neutralizzati persino da una lumaca».
Tralasciando – e dissociandosi – dai toni usati dal sito su cui la rivendicazione è apparsa, è importante riportare il concetto di fallibilità e vulnerabilità di fronte ad una “semplice” azione come può essere quella di appiccare un incendio. In questo senso si è parlato di “strategia della lumaca”, in riferimento al caso accaduto in Giappone nel maggio scorso, quando una lumaca, dopo essersi infilata in una centralina elettrica di una stazione, aveva causato con la propria bava un cortocircuito e la sospensione del traffico a rotaie nel sud del paese.
In realtà il coinvolgimento del movimento anarco-insurrezionalista in azioni o tentativi di sabotaggio era già stato documentato in passato: solo nel novembre 2015 nei pressi di Bologna erano stati incendiati i cavi elettrici dell’alta velocità. Tuttavia, nonostante le precedenti minacce nessuna contromisura era stata presa allo scopo di prevenire altri attacchi simili. Si ricordi come tra gli obiettivi sensibili per i gruppi di anarchici da tempo c’è la tratta dell’Alta Velocità, contro cui sono state dirette “azioni delittuose” (La Notizia – Giornale.it) eppure uno snodo cruciale come quello di Firenze non era protetto, né controllato, e molti altri sono nelle stesse condizioni. È lo stesso direttore Moretti ad ammettere come il nodo di Firenze, nonostante fosse un punto fondamentale e strategico per la gestione della circolazione dei treni, non era adeguatamente sorvegliato.
L’attenzione generale della comunicazione nazionale è, dunque, sempre più orientata al pericolo degli attacchi informatici,  al 5G, alla cyberguerra, all’intelligenza artificiale, e verso tutte le nuove tecnologie con le quali è giusto e fondamentale cercare di tenere il passo e rimanere aggiornati, mentre, però, il paese si ferma perché neppure il dysaster recovery e la business continuity sono di fatto concretizzati nei modelli di security dei grandi player che condizionano il sistema paese.
In virtù di queste considerazioni è imprescindibile ricordarsi che non possiamo smettere di fare analisi e assessment che ci possano dare un quadro completo e concreto dei possibili rischi e “banalmente” intraprendere misure fisiche, mutuate dalla sicurezza tradizionale, come sensori e telecamere, che se parte di un piano strategico di security complessivo e se installate, programmate, monitorate e mantenute secondo logiche innovative, ed in luoghi chiave e strategici, possano aiutarci a difendere e proteggere in maniera reale, seppur mai assoluta, gli asset pubblici di questo paese come quelli privati di aziende ed organizzazioni.




Marcel Bich, il torinese che cambiò il modo di scrivere (e di accendere) del mondo

Marcel Bich, il torinese che cambiò il modo di scrivere (e di accendere) del mondo

Molti credono che il barone Marcel Bich, fondatore della dinastia industriale Bic, sia stato un personaggio francese.
In realtà non è così, egli fu torinese e nacque in corso Re Umberto 60, nel cuore dell’elegante quartiere della Crocetta; diventò poi francese in seguito, come vedremo.
Il suo nome, che suona effettivamente come d’oltralpe, ha origine da una famiglia della nobiltà savoiarda e precisamente di Châtillon, in Val d’Aosta.
Fino a sedici anni rimase nella nostra meravigliosa città per poi venir naturalizzato francese quando con i genitori emigrò a Parigi ed e lì che completò gli studi universitari.
Gli inizi per il giovane Marcel nel mondo del lavoro erano ancora lontanissimi dai grandi successi futuri. Si dedicava difatti alla vendita porta a porta, come rappresentante d’inchiostri e commerciante di lampadine.
Poi, nel 1953, ci fu la svolta. Quell’anno per il barone fu il momento cruciale.
Fu come per il petroliere americano che scopre il suo primo giacimento, come per l’inventore che sa di aver per le mani un prototipo dalle uova d’oro, come per il cacciatore di diamanti di fronte ad una pietra grande come una palla da biliardo.
Incontrò László József Bíró, un inventore e giornalista ungherese che portava con sé la soluzione al problema delle macchie d’inchiostro lasciate dalle penne stilografiche, ancora in quei tempi le regine indiscusse del mercato della scrittura a mano. Nel suo prototipo, osservando che l’inchiostro era poco fluido, inserì una piccola pallina metallica che permetteva così di far nascere lettere e parole su carta in maniera omogenea, pulita e veloce.
L’idea all’ungherese gli si accese in testa come una lampadina quando osservò dei bambini giocare a biglie sulla strada. Ipnotizzandosi su una biglia che uscita da una pozzanghera lasciava una scia d’acqua sul marciapiede, ecco scoccare il lampo di genio.
Perché dunque non inventare una pallina che scrivesse?
Le intuizioni pionieristiche di Bíró, purtroppo per lui, non ebbero subito una felice evoluzione industriale e commerciale poi.
Negli anni’40, epoca degli sforzi dell’inventore per produrre in serie la sua penna a sfera, non era ancora disponibile una tecnologia adeguata per rendere il prodotto perfetto, semplice e soprattutto economico per sfondare nel mercato di largo consumo che in occidente dopo la seconda guerra mondiale era ripartito con una crescita apparentemente senza fine.
E fu qua, in un momento di difficoltà per lo scoraggiato Bíró che Bich acquistò il brevetto della penna e riprese il lavoro incompiuto, ovvero perfezionare quello che era ancora grezzo e gettarsi nell’arena. Va detto che lo sfortunato Bíró morirà poi a Buenos Aires, povero, senza aver nemmeno annusato quelle immense ricchezze accumulate da chi aveva comprato le sue fatiche, Marcel per l’appunto.
Il barone nato a Torino iniziò dunque l’avventura delle penne Bic (come il suo cognome ma mozzato dell’h) facendo costruire della macchine di precisione da svizzeri e risolvendo definitivamente il problema di inchiostri poco adatti. L’idea di realizzare un prodotto di plastica trasparente fu vincente; ora chi scriveva sapeva esattamente quanto poteva ancora lavorare.
I bassissimi prezzi di vendita garantirono un successo planetario che ogni anno raggiungeva nuovi picche di cifre ed utili. Il design esagonale fu studiato non tanto per estetica ma perché allora i banchi erano inclinati e in questa maniera le biro non scivolavano giù.
Che diffusione! Che guadagni! Che vittorie!
Era ed è un oggetto d’uso quotidiano, diffusissimo a livello globale e “democratico” perché chiunque poteva permettersi di acquistarlo. Ci fu un tempo in cui in Brasile si usava come moneta di scambio, i ragazzini di Bombay ne elemosinavano e durante la Guerra Fredda al di là della Cortina di Ferro la penna a sfera era considerata come un dono prezioso e passepartout per avventure erotiche al pari delle calze di nylon.
Fu un prodotto industriale che diventò uno di quei beni di consumo che si radicò nella storia dell’umanità recente, contribuendo e modificando gli usi e costumi del mondo, al pari della Coca Cola o dei jeans.
Era la rivoluzione dell’usa e getta, del consumo perpetuo.
Dalle penne a sfera la multinazionale Bic, sempre saldamente governata dal padre-barone, si allargò ad altre genialità: l’accendino usa e getta, che sconvolgeva l’idea dell’accendino classico, costoso al pari d’un orologio, e i rasoi di plastica, comodi, pratici e reperibili ovunque (un duro colpo per le sedie dei barbieri).
Era la nuova way of life che avanzava imperante.
Era l’era della plastica che dettava le nuove regole industriali, commerciali e sociali.
Marcel Bich morì nel 1994 a Parigi all’età di 79 anni. Lasciò un impero titanico, con filiali ovunque sul pianeta. Ebbe sempre orrore di finanzieri, tecnocrati e giornalisti.
Quando qualcuno tentava di strappargli un intervista, la sua fedele segretaria giapponese lo freddava con: “Il barone lavora, non ha tempo da perdere”.
Non fece mai ricorso a finanziamenti esterni per gli investimenti che la sua gigantesca società richiedevano di anno in anno, ma ricorse sempre a risorse aziendali, interne. Di temperamento riservato e schivo, dedicò le rimanenti energie alla vela agonistica, sua grande passione nonché croce e delizia, perché con la sua barca “France” non riuscì mai a vincere la Coppa America, pallino su cui si era impuntato.
L’impronta che Marcel Bich, torinese naturalizzato francese, ha lasciato nella storia della grande industria recente è indelebile. Non si tratta solo di leggere su un industriale fortunato e abile commerciante, si tratta di capire qualcosa di più profondo, che ha influenzato masse e comportamenti.
A tal fine basterebbe porsi le domande: Ma quanti miliardi di sigarette sono state accese con gli accendini di plastica colorata? Ma quante guance sono state rasate dalle lame Bic? Ma quanti milioni di chilometri di inchiostro sono stati sputati dalle biro?
Mentre scrivo queste righe, muovo la sguardo sul caos della mia scrivania e conto tre penne sue e due accendini con il suo marchio.
La sua rivoluzione di plastica è ancora ovunque.




Se la lotta alla plastica è folklore ambientalista*

Se la lotta alla plastica è folklore ambientalista*

La direttiva europea 2019/904 mette al bando alcuni oggetti di plastica monouso. È apprezzabile, ma sembra un provvedimento preso sull’onda delle emozioni più che basato sui dati. La plastica è infatti lo 0,7 per cento dei rifiuti prodotti in Europa.

La direttiva contro la plastica

Il Parlamento europeo ha di recente approvato la direttiva 2019/904 sulla “riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente”. La riforma contiene, tra l’altro, il bando di alcuni oggetti di plastica monouso: posate e piatti di plastica, cannucce, bastoncini cotonati, sacchetti di plastica osso-degradabili e contenitori per alimenti in polistirolo espanso.
La decisione ha avuto molto risalto sui mezzi di comunicazione, mentre sono passate sotto silenzio altre disposizioni importanti della stessa direttiva, per esempio sui target di raccolta e riciclo delle bottiglie di plastica.
La risonanza ottenuta dal provvedimento si deve probabilmente a quello che molti definiscono “folklore ambientalista”: si tratta di una sorta di distorsione cognitiva per cui molti dei nostri comportamenti sono guidati da false percezioni su ciò che è bene o male per l’ambiente.
Siamo però davvero sicuri di sapere cosa sia sostenibile e cosa no? Per esempio, quando in un negozio ci chiedono se preferiamo un sacchetto di carta o di plastica, siamo istintivamente orientati a scegliere la carta, perché, più o meno inconsapevolmente, associamo la plastica a immagini di tartarughe marine imprigionate nei sacchetti. Ma è veramente possibile definire un materiale amico o nemico dell’ambiente? Non dovremmo invece considerare il ciclo di vita di un prodotto, come viene disegnato, prodotto, consumato e smaltito? Uno studio del ministero dell’Ambiente danese lo ha fatto per diverse tipologie di sacchetti disponibili nei supermercati, arrivando alla conclusione che quelli in polietilene a bassa densità hanno un minore impatto ambientale rispetto ai sacchetti di carta o di stoffa.
La disposizione della direttiva europea arriva di fatto in risposta a un flusso di informazioni legate agli effetti deleteri della plastica dispersa nell’oceano, che rafforzano l’associazione mentale “plastica=male”. Contribuirà però a migliorare il sistema di gestione dei rifiuti e ridurre il problema della plastica negli oceani? Oppure siamo vittima di folklore ambientalista? Per rispondere, la strategia migliore è fare riferimento ai dati.

I dati dell’inquinamento marino

Iniziamo dalla plastica nei mari. L’analisi condotta da alcuni ricercatori tedeschi mostra che il 90 per cento della plastica negli oceani proviene dai dieci fiumi più grandi al mondo, 8 in Asia e 2 in Africa. Ne intuiamo il motivo: milioni di persone, che fino a pochi anni fa vivevano in completa povertà, oggi possono indossare vestiti di fibre sintetiche, usare detergenti, mangiare cibo conservato, bere acqua in bottiglia; in altre parole, possono godere di uno stile di vita simile al nostro. Ma sulle sponde di questi fiumi non esistono ancora sistemi di raccolta e di gestione dei rifiuti, perciò buona parte delle materie plastiche finisce dispersa nell’ambiente, nei corsi d’acqua e, infine, in mare. Ben poco potrà fare la decisione europea per ridurre questo fenomeno.
Quanto al mar Mediterraneo, lo studio di Arcadis ha rilevato che la spazzatura dominante è la plastica (63 per cento), seguita da carta, cartone e mozziconi di sigaretta (22 per cento), rifiuti sanitari (7 per cento) e vetro (4 per cento). Il dato più interessante, però, è che solamente il 13 per cento arriva da lontano: la maggior parte dei rifiuti è abbandonata direttamente sulla spiaggia da bagnanti e turisti. E, dunque, forse non esistono materiali buoni o cattivi, ma comportamenti giusti o sbagliati. La dispersione dei rifiuti, in molti casi, è un problema di scarso senso civico e va affrontato educando i cittadini e migliorando i sistemi di raccolta. Certo non basta autodefinirsi “plastic free” come hanno iniziato a fare molte località balneari e molte istituzioni, contribuendo così indirettamente all’idea che la plastica sia da rifuggire come male assoluto. Per esempio, la Sicilia è una delle regioni più arretrate sul fronte della gestione dei rifiuti: con il 21,7 per cento ha il coefficiente regionale più basso d’Italia per la raccolta differenziata. Eppure, studia una normativa che le permetta di darsi la patente di prima regione “plastic free”.
Ma qual è l’incidenza della plastica sul totale dei rifiuti generati in Europa? Nel 2016 nell’Unione sono stati prodotti oltre 2,5 miliardi di tonnellate di rifiuti (fonte Eurostat). Di questi, la plastica rappresenta lo 0,7 per cento, poco più di 17,5 milioni di tonnellate. Eppure, si moltiplicano le misure rivolte a questa categoria mentre poco si fa, per esempio, per migliorare gestione dei rifiuti definiti “minerari”, derivanti principalmente dal settore edilizia e costruzioni, una categoria che da sola costituisce in Europa il 70 per cento del totale.
Qualsiasi iniziativa volta a ridurre l’inquinamento, nelle sue varie forme, è sicuramente da apprezzare. Dovremmo però riflettere sulle priorità. Tanto più che l’industria italiana di stoviglie monouso in plastica è la più importante in Europa, con una quota di export superiore al 30 per cento, 1 miliardo di fatturato per circa 30 aziende e 3 mila addetti diretti.




L’epica dell’errore nella nuova campagna di brand dell’Inter

L’epica dell’errore nella nuova campagna di brand dell’Inter
Le aziende oggi si trovano ad affrontare un nuovo marketing narrativo. Non più la rappresentazione dell’eroe e della soluzione di un problema, ma la condivisione di ferite reciproche che uniscono il pubblico, rendendolo parte del brand. L’esempio di “Not For Everyone” targata Inter


Ditemi la verità. Non vi piacciono più i brand che si rappresentano sempre vincenti, giusto? I “leader di mercato” trionfanti. C’è un motivo? Può darsi.
Siamo cresciuti – soprattutto in Italia – con l’idea che una marca debba sempre portare delle soluzioni ai problemi. Nella convinzione che ciò che un’organizzazione dichiara attraverso le sue attività di branding debba essere per forza positivo, solare, cristallino.
Il motto più o meno di ogni marketer e comunicatore finora era: “Il mio mondo è bellissimo: entraci”. Al centro sempre lei: l’azienda, la marca, l’organizzazione. In mostra a discapito dei suoi pubblici o fan. Ma oggi tutto questo lo disapproviamo. Ci fa un po’ tristezza vedere il “wow” a tutti i costi.
Così da alcuni anni assistiamo al movimento contrario. Siamo noi pubblici questo movimento.
Se prima era la soluzione ad attrarci, con l’eroe vittorioso, ora è il problema a motivarci, con l’eroe o l’eroina che sbagliano, indugiano, provano dolore. È il racconto che condivide con noi il “mostro”, il nuovo motivo che ci appassiona.

L’EPICA DELL’ERRORE

Così, in tempi iper-emotivi, il coinvolgimento e l’attivazione cognitiva: mente, cuore, anima, passa (anche) attraverso l’esaltazione dell’errore e la condivisione di temi esistenziali problematici; per creare una connessione sentimentale profonda tra marche e pubblici.
Ne è un esempio interessante, la recentissima campagna dell’Inter – per la diffusione del brand – “Not For Everyone” più o meno “Non è da tutti” o “Non è per tutti”.
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Una campagna che ricorda quella di Under Armour del 2017 “Unlike Any” o anche altre sulla scia del marketing narrativo contemporaneo.
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In “Non è da tutti”, infatti, non è la marca ad essere protagonista, ma cinque personaggi “arrivati a realizzare se stessi grazie all’audacia, al sacrificio e al coraggio di sbagliare:
• Airton Cozzolino, kite surfer – campione del mondo a 17 anni;
• Duan Jin Ting ballerina cinese – e fondatrice di un collettivo di danza contemporanea;
• Alessandro Avallone, detto “Stermy”, esponente nel settore dell’e-sport;
• Omer – street writers milanese;
• Jessica Kahawaty, modella di origine libanese – molto attiva e riconosciuta per le sue battaglie sui diritti umanitari;
Non solo recordman o superwoman, ma umanità messa in scena con le sue debolezze. Vizi e virtù.

NOT FOR EVERYONE

Il testo della campagna, ripreso anche in diversi modi sui social, mi pare poi degno di nota:
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Non importa cosa dicano.
Provarci non basta.
Chi prova può mollare.
Io, invece, volo.
Ho fallito, non ero in guardia.
Sono crollata, è stata dura.
Ho avuto torto troppe volte.
Questo mi ha reso più forte.
Una partita dopo l’altra.
Per la fama, questa è la via.
Se il dolore porta alla gloria
Non scorderete il mio nome
La mia anima è selvaggia.
Di alibi non ne ho.
I miei fratelli troverò.
Nessun muro è troppo alto.
La strada è lunga, coraggioso amico.
E non basterà camminare.
Dovrai correre.
Ma tutto questo non è da tutti.
Not For Everyone
L’insegnamento che possiamo trarre da una campagna simile? Una cosa semplice ma allo stesso tempo difficilissima da fare. È vitale comprendere le ferite dei pubblici e rappresentarle, mettendole in comune nel proprio racconto di marca, prodotto o vita.

LA CONDIVISIONE DELLE FERITE RECIPROCHE

Sono le grandi paure e i grandi drammi che ci connettono e ci portano a un risultato collettivo. Sono l’abbandono, il tradimento, la solitudine, la vergogna, la privazione, ecc. che ci coinvolgono più che mai nel nuovo marketing narrativo. Non serve a niente strillarsi “leader di mercato” se non si sono messi in comune – con le proprie audience – i buchi dell’anima. Che ci piaccia o no questo è uno dei nuovi processi di engagement.
Così, in Not For Everyone le frasi “ho fallito”, “non ero pronta”, “avevo torto” diventano echi profondi che fanno risuonare le nostre biografie – quella volta che anche noi avevamo torto o non eravamo pronti – e le polarizzano nel bene e nel male.
Chi amerà e chi odierà questo modo di mostrarsi.
E chi lo celebrerà con forza riconoscendosi ancora di più nella nuova immagine eroica del caduto che si rialza.




DAL BETTER LIFE INDEX DELL’OCSE IN GIÙ

DAL BETTER LIFE INDEX DELL’OCSE IN GIÙ

 i parametri per valutare la qualità della vita


Sono decenni che rincorriamo il benessere. Ma che cosa lo determina? Velocità e realizzazione economica erano le chiavi per la felicità in ogni spot pubblicitario. Negli anni ‘60 possedere una casa, la lavatrice, un’auto e poi i primi strumenti tecnologici era da molti descritto come successo. In quel periodo le classifiche sulla qualità della vita erano strettamente collegate con gli indicatori PIL delle nazioni. In pratica, in questa visione, più un paese produceva ricchezza, più era felice.
Come appare chiaro però questa equazione negli ultimi anni ha smesso di funzionare. Sindrome da burnout e ansia sono un problema per circa 84 milioni di europei. Se siete in una stanza con altre 5 persone una di voi soffre di un disturbo da stress.
Oggi la definizione di quello che è il vivere bene si è fatta più fluida ed è sempre meno legata a qualcosa di materiale. “Work less, live more!” è uno degli slogan adoperati spesso per descrivere il benessere contemporaneo. I fattori da considerare sono in costante aumento. Ma quali sono le chiavi della felicità? Il clima, il lavoro, i livelli di educazione, la sanità, la soddisfazione personale, la sicurezza, la casa, il reddito, le relazioni sociali, la governance e il life-work balance. Sono questi gli 11 parametri individuati dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) per misurare la ricchezza (sia materiale che relazionale e personale) attualmente.
Il Better life Index dell’Ocse in realtà non è una vera e propria classifica perché ciascuno può creare il proprio indicatore, la propria mappa del benessere. Ad esempio, se per voi la felicità si misura per relazioni umane, attenzione all’ambiente e soddisfazione, il paese ideale in cui vivere è l’Islanda, seguita da Norvegia e Finlandia. Basta però cambiare i fattori e il risultato sarà molto diverso. Se infatti come parametri del benessere sono selezionati abitazione, impegno civile e sicurezza, le tre nazioni migliori saranno Norvegia, Australia e Canada.
L’Italia ha registrato il punteggio più alto nella categoria life-work balance. Un aspetto considerato centrale in questa misurazione riguarda le ore trascorse a lavoro. Nel Bel Paese circa il 4% dei dipendenti ha orari di lavoro molto lunghi, una percentuale nettamente inferiore rispetto alla media OCSE dell’11%. Altro risultato oltre la media è stato quello del numero di ore dedicate alla cura della persona e al tempo libero: in Italia i lavoratori a tempo pieno dedicano in media più di 16 ore in attività di socializzazione con amici e famiglia o dedicandosi ad hobby, sport, rilassandosi, ecc. Questo non è che uno dei modi per leggere la qualità della vita.
L’Onu ha i suoi criteri per capire quale sia la nazione con il maggior benessere e sono 8: aspettativa di vita, Pil pro capite, supporto sociale, generosità, libertà di fare scelte, corruzione e i positive e negative affects. L’Average Happiness Across Countries Onu lo scorso anno ha incoronato la Finlandia come il paese più felice sui 156 paesi confrontati ma molti hanno criticato questa vittoria sottolineando come sia il terzo paese al mondo per possesso di armi e la nazione in cui la principale causa di morte tra gli uomini è l’alcool. L’Italia in questa classifica è risultata 36 esima, superata da paesi come Danimarca, Brasile, El Salvador, Repubblica Ceca e Messico.
Non sono state solo le valutazioni internazionali a essere cambiate profondamente, la stessa trasformazione di valori è avvenuta anche nella misurazione della vivibilità nelle città italiane. Dopo 29 anni Milano lo scorso anno è stata nominata dall’annuale ricerca sulla Qualità della vita del Sole 24 Ore come la città in cui si vive meglio in Italia. Ma attenzione: per l’indice del clima, che fotografa il benessere climatico nei 107 capoluoghi della Penisola, Milano è solo al 96° posto mentre le città del Sud e delle Isole sono in cima alla classifica.
Se, quindi, la qualità della vita ha tante chiavi di lettura, l’unico aspetto su cui sembrano concordare le nuove misurazioni è che non si può considerare solo il benessere materiale. Anzi, quelle che incidono maggiormente sulla nuova visione del vivere bene sono tutte le altre condizioni, a sottolineare come il lato umano stia riconquistando una centralità che negli ultimi 50 anni era progressivamente svanita.