Pfizer denunciata per aver venduto dei farmaci per bambini sapendo della loro inefficacia. Le accuse negli Usa
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Guai legali in vista per Pfizer. La multinazionale farmaceutica statunitense è stata denunciata, insieme al fornitore Tris Pharma, dal procuratore generale del Texas, Ken Paxtron. L’accusa, resa nota lunedì 20 novembre, è di aver venduto dei farmaci per bambini sapendo della loro inefficacia.
I farmaci incriminati
Secondo il procuratore del Texas, Pfizer ha venduto al programma assicurativo statale Medicaid, che sosteneva le persone a basso reddito, dei medicinali per bambini affetti da ADHD (disturbo da deficit di attenzione iperattività) pur sapendo che il trattamento non era efficace. In particolare, Pfizer e Tris Pharma avrebbero manipolato i risultati di alcuni test obbligatori, relativi al farmaco Quillivant XR, nel periodo 2012-2018. Paxtron sostiene che il trattamento avesse fallito i test di controllo qualità a causa di pratiche di produzione errate, ma che Pfizer e Tris abbiano fatto in modo di farlo risultare a norma.
Pfizer ha dichiarato in una nota di aver esaminato le accuse più volte e di «non aver riscontrato alcun impatto sulla sicurezza del prodotto». L’azienda, dunque, sostiene che il caso non abbia fondamento e ne chiederà l’archiviazione. Anche Tris ha rimandato al mittente le accuse.
Tris ha prodotto Quillivant Xr per Pfizer fino al 2018, prima di acquistarlo.Già nel 2017 la Food and Drug Administration aveva messo in guardia dai difetti di produzione del farmaco, che non ha mai raggiunto un’ampia quota di mercato (riproduzione riservata)
Musica in streaming, se a cantare è l’intelligenza artificiale: l’allarme degli artisti
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Sembrava uno scherzo, ma in pochi mesi il fenomeno è esploso: sui social e nelle piattaforme streaming dilagano brani musicali generati dall’intelligenza artificiale (Ai) con le voci clonate di cantanti famosi o di artisti scomparsi, come David Bowie, Freddy Mercury, Michael Jackson. Il primo hit a suscitare clamore è stato «Heart On My Sleeve»: sembrava un nuovo titolo del rapper canadese Drake, ma si è rivelato una fake song. Il brano generato dall’Ai, con la voce di Drake, era stato lanciato in aprile su TikTok dall’utente Ghostwriter977 ed è diventato virale con 230 mila ascolti su YouTube e 625 mila su Spotify. Finché l’artista ha minacciato azioni legali e la sua casa discografica, in maggio, è intervenuta per far sparire la canzone da Spotify, YouTube, Apple Music. Un mese dopo però la stessa canzone più una decina di altri brani creati da algoritmi con la voce di Drake erano in testa alla classifica Ai Hits. È un sito creato da Michael Sayman, informatico di 26 anni, che recensisce le 100 canzoni generate dall’Ai più ascoltate sul web, tra cui quelle con le voci clonate di star come Travis Scott o Rihanna. «Dobbiamo ingaggiare una battaglia per difendere il nostro capitale umano di fronte all’intelligenza artificiale», ha detto Sting ai microfoni della Bbc.
Tra condanna e curiosità
Ma i pareri nel mondo musicale sono contrastanti. Diversi artisti stanno sperimentando gli strumenti di intelligenza artificiale per creare nuove liriche o comporre più facilmente testi. «La rivoluzione portata dall’Ai generativa nella musica è paragonabile a quella di Napster, è la più importante dall’inizio del file sharing e del download — dice Enzo Mazza, ceo di Fimi (Federazione dell’industria musicale italiana) —. Oggi l’industria musicale non intende opporsi, sta cercando di governare e integrare questa svolta tecnologica. Anche perché l’Ai generativa è ormai parte della produzione musicale. Chi usa un’app come Boomy può generare una base strumentale in pochi secondi sulla quale registrare una voce. Gli utenti hanno creato così 14,5 milioni di canzoni». BoomyAi ha generato già 14,5 milioni di canzoni. E Google Music ML da gennaio compone musiche sulla base di testi e imita voci di artisti; OpenAi Jukebo, l’equivalente di ChatGpt per la musica, introdotto il 30 aprile, genera su domanda brani musicali di tutti gli stili; SongStarter di BandLab permette di generare uno strumentale basandosi su testi ed emoji. E Reactional Music, nata per le musiche dei videogame, genera composizioni dal data set di un artista.
Le tendenze dei giovani
La Generazione Z, che aveva fatto esplodere il consumo di musica in streaming (cresciuto in Italia ancora del 16 % nei primi sei mesi di quest’anno), ama non solo condividere, ma anche inventare nuovi mix musicali. Da un sondaggio condotto quest’estate da Fimi con Giffoni Innovation hub e Città della Musica di Napoli, su quasi 3 mila utenti di cui il 70% sotto i 34 anni, emergono nuove attitudini. Alla domanda «Utilizzeresti l’Ai per creare musica?», il 10% degli under 34 risponde di averlo già fatto. Il 37% pensa che in futuro gli artisti saranno sostituiti dall’intelligenza artificiale, benché a discapito della creatività. E un altro 20% segue abitualmente i concerti nel metaverso. «Per i giovani la musica è un’esperienza dinamica, i concerti virtuali offrono più partecipazione e interazione con gli artisti — dice Matteo Camarada, 21 anni, reporter nel metaverso per SecondStar —. E l’Ai è un’opportunità per democratizzare l’accesso alla creazione musicale». Una minaccia per il business? Universal Music ha chiesto a Spotify di rimuovere migliaia di canzoni generate da Boomy e introdotte dagli utenti, perchè usavano campionature di brani musicali coperti da diritto d’autore.
I possibili scenari
Il fenomeno però è difficile da arginare di fronte all’ondata di brani prodotti dai tool di Ai generativa introdotti quest’anno. «Il problema è a monte, perché gli sviluppatori di Ai per addestrare gli algoritmi usano illecitamente un vastissimo repertorio di musica coperta da diritti d’autore», dice Luca Vespignani, ceo di Dcp (Digital content protection) che controlla le violazioni di copyright online. Soluzioni? «Prima di tutto la trasparenza: i consumatori devono poter distinguere i contenuti originati dall’Ai, che vanno segnalati come tali— dice Mazza —. E le opere che non vengono dall’intelletto umano non devono avere copyright né sfruttamento commerciale. Poi bisogna usare i metadati, i codici che indicano l’origine e i diritti di ogni creazione musicale». Da agosto, scrive il Financial Times, Universal Music e Warner hanno avviato trattative con Google e OpenAi. Dice Vespignani: «L’obiettivo è concedere in licenza l’uso dei repertori coperti dai diritti per l’addestramento dei sistemi di Ai. Ma serve la collaborazione delle piattaforme streaming per rimuovere brani non autorizzati e impedire ai sistemi di Ai di sfruttare la musica online». Un primo accordo c’è: è del 6 settembre, tra Universal Music e Deezer. Lo streaming service premierà gli artisti professionisti: chi ha oltre mille ascolti al mese sarà pagato il doppio.
Ma quanto ha perso Chiara Ferragni con il caso pandoro Balocco? Il pubblicitario Guastini: “Danno attorno ai 20 milioni di euro. E altri brand come Coca Cola la abbandoneranno”
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La storia di Chiara Ferragni sembra non esaurirsi mai perché, non appena tenta di darci uno scorcio di normalità, ecco che si apre un nuovo caso. Solo due giorni fa l’influencer era riapparsa quasi come se nulla fosse, e oggi veniamo a sapere che Coca Cola si è defilata da un contratto che prevedeva uno spot conla moglie di Fedez, a causa di presunte violazioni di accordi contrattuali. Abbiamo intervistato il pubblicitario Massimo Guastini per chiedergli delle previsioni sul futuro (e delle stime di perdita del recente passato e del presente) della donna più chiacchierata d’Italia.
Due giorni fa Chiara Ferragni è tornata sui social, questa volta truccata e sistemata. Ha capito che lo stile “desperate housewive” non funzionava?
È riapparsa dopo un silenzio durato oltre due settimane. È un errore gravissimo per una simile crisi reputazionale e il non fare nulla è la cosa peggiore. Evidentemente è stata mal consigliata. Lo stesso messaggio di “scuse in gramaglie” era risultato del tutto inadeguato. Non solo per il registro esageratamente contrito, ma anche per le argomentazioni debolissime e poco credibili delle sue scuse. Non sono sembrate vere scuse le sue. Poi, come se niente fosse, il 3 gennaio torna e posta una story Instagram, con un inopportuno stile da adolescente appena rientrata dalle vacanze trascorse a Courmayeur: “mi siete mancati, con un cuoricino. Come state?”.
Secondo lei c’è stata una gestione corretta della crisi?
Non erano preparati e questo un po’ mi sorprende. Chiara Ferragni non è solo un essere umano, è un brand. E da ormai oltre dieci anni i brand hanno imparato che la questione non è se dovranno affrontare una crisi reputazionale ma quando e quindi prendono le adeguate contromisure. In genere si sceglie un esperto di Crisis Management, si individuano i potenziali scenari di crisi e le strategie di gestione. Prima che la crisi si verifichi. Il team di comunicazione che gestisce la crisi non dovrebbe essere lo stesso che l’ha determinata. Non per una questione di “colpe”. Sono due attitudini e ruoli diversi. Se mi perdoni il paragone è come accade nel football americano: i giocatori offensivi della squadra che ha perso la palla lasciano il campo di gioco e sono sostituiti dai giocatori difensivi.
La Ferragni ha fatto un box domande senza poi però rispondere pubblicamente a nessuno, che senso aveva?
Nessuno. È evidente che non erano preparati e che non si sono ancora organizzati. Nella gestione delle crisi reputazionali non si pongono domande puerili. Si “ascolta” e si danno risposte concrete.
La scelta di fare una storia e non un post è stato dettato dal fatto che non appena lei o Fedez postano vengono ricoperti di insulti?
Ritengo di sì. E il modo in cui si è mosso il “brand Fedez” nel suo profilo Instagram mi ha rafforzato la sensazione che non fossero preparati alla gestione di una crisi reputazionale. Di conseguenza i tre post da festività natalizie, pubblicati durante il silenzio della moglie Chiara, sono stati più dannosi che utili. Non avrebbe dovuto postare immagini dei suoi figli, per esempio.
Perché? Lo pensano in molti
Perché è inopportuno. Sono belli, ricchi e sani fortunatamente. Ma i loro genitori sono in questo momento percepiti come quelli che si sono intascati un milione di euro, raccontando che i soldi sarebbero serviti a “esplorare nuove strade per le cure terapeutiche dei bambini affetti da Osteosarcoma e Sarcoma di Ewing”. Tra l’altro, la storia è venuta fuori a ridosso del Natale e si lega a un dolce che è simbolo di questa festività: il pandoro. Non sorprende che uno dei commenti meno aggressivi sia stato questo: “Nel momento peggiore di massacro mediatico, il primo post è una serie di foto dei figli. Praticamente usati come scudo umano mediatico”.
Come dovrà muoversi ora Chiara Ferragni?
Io non sono un esperto di Crisis Management e non mi posso vendere come tale perché sarebbe come vendere fuffa. Se fossi stato a capo della comunicazione avrei suggerito di chiamare immediatamente il Professor Luca Poma, probabilmente il professionista più valido nel gestire questo tipo di situazioni e con grande umiltà mi sarei messo a sua disposizione.
C’è chi dice che deve sparire e chi invece che dovrebbe continuare come se nulla fosse. Lei di che partito è?
Entrambe le posizioni sono sbagliate, secondo me. Si tratta di gestire, senza perdere altro tempo, senza sbagliare le prossime mosse. Tenendo presente che i “marchi” sono in realtà potenzialmente tre: “Chiara Ferragni”, “Fedez” e i “Ferragnez”. E questo a mio avviso offre delle buone opportunità di uscire dalla crisi, se inizieranno a gestirla correttamente. Chiara Ferragni è riapparsa per parlare solo alla sua community, come se si fosse chiusa in una bolla. Quando in realtà quanto accaduto interessa l’opinione pubblica, non solo nazionale. Non può pensare di continuare a parlare solo con chi “la ama a prescindere”. Lasci perdere gli hater ma tenga ben presente tutta l’area dei “moderatamente a favore e moderatamente a sfavore”. È lì che si gioca la partita.
La sua immagine verrà mai veramente riabilitata?
Non ho la sfera di cristallo. Posso però dirti cosa può giocare a suo favore: Chiara Ferragni è un “love brand” e i love brand si tende a perdonarli, perché noi esseri umani odiamo la “dissonanza cognitiva”: ci comporta un dispendio energetico. In passato love brand come Nutella e Volkswagen hanno attraversato forti turbolenze reputazionali, rispettivamente per la questione olio di palma e per il “dieselgate”. Su Instagram Nutella ha 1.7 milioni di follower. Chiara Ferragni ne ha 29.5 e Fedez 14.7 milioni. A chi venderà questa sua community ora? Quali marchi italiani e internazionali compreranno la sua community? Le sfilate di moda imminenti saranno la cartina di tornasole, il primo banco di prova. Quale stilista la inviterà? Ma in ogni caso ci saranno altri banchi di prova. Sarà una partita lunga, purché inizino a giocare sul serio.
C’è anche un’altra novità: Coca Cola ha sospeso lo spot che aveva previsto con Chiara Ferragni. Cosa comporterà questo anche in termini economici sul lungo periodo?
Coca Cola non ha inventato il Babbo Natale di colore rosso come si legge spesso online, ma già a partire dagli anni ‘30 del novecento ha diffuso attraverso le sue campagne pubblicitarie l’immagine di Santa Klaus per come la conosciamo oggi. Inevitabile, quindi, che Coca Cola abbia cancellato la collaborazione prevista con Chiara Ferragni: uno spot che sarebbe dovuto uscire a fine gennaio in vista del Festival di Sanremo. Se Coca Cola viene associato a Babbo Natale, Chiara Ferragni in questo momento è percepita da una parte dell’opinione pubblica come una sorta di “Signora Scrooge” che ha intascato un milione di euro “sottraendolo” ai bambini malati di un raro tumore. Non sto dicendo che l’abbia fatto, sto descrivendo una percezione. Ed è inevitabile che nelle prossime settimane e mesi, saltino altri contratti e vengano “congelate” delle collaborazioni previste per il 2024. Parliamo di un danno di diversi milioni di euro che credo che si aggiri intorno ai 20 milioni, facendo un ragionamento sui danni preventivabili, anche se è difficile fare una stima esatta, ma stiamo sicuramente parlando di tanti milioni di euro.
C’era modo di evitare l’abbandono da parte di Coca Cola?
No, era un abbandono inevitabile e questo brand è il primo di una lunga lista. Non so quali siano esattamente i contratti tra Chiara Ferragni e altri marchi, ma è più che presumibile che nei prossimi mesi verranno cancellati. I prossimi 12 mesi sono quelli in cui lei dovrà lavorare sulla ricostruzione della propria affidabilità e credibilità reputazionale e credo che sia inopportuno farlo utilizzando i figli. È sempre inopportuno utilizzarli, ma a maggior ragione, in questo momento, c’è bisogno di cautela, la stessa che sto utilizzando io nell’analizzare non solo un’azienda, ma anche una madre con due bambini. Vorrei però concludere con una riflessione più ampia, che vada al di là del caso Ferragni, che mi interessa molto di più perché riguarda il futuro dei nostri bambini.
Ovvero?
Anni fa mettevo in guardia i miei colleghi e l’opinione pubblica dall’inquinamento cognitivo che la pubblicità poteva determinare. La situazione con il decollo dei social media si è aggravata. L’inquinamento cognitivo che noi pubblicitari produciamo è infinitamente più piccolo rispetto a quello generato oggi dai mega influencer. È più semplice per l’essere umano individuare la “finzione” pubblicitaria, anche perché confinata in riconoscibili spazi tabellari. L’esistenza degli influencer, invece, sembra vera anche se non lo è, e propone come veri dei modelli di vita irraggiungibili. L’incremento dei disturbi mentali, specie nelle generazioni più giovani, è imputabile in gran parte agli stili di vita inarrivabili rappresentati sui social network. È questa la vera partita che dobbiamo affrontare tutti. E se fossi nei panni dei “Ferragnez” ne terrei conto.
Continua in tribunale la guerra delle acque
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Se l’Inghilterra ha avuto la sua Guerra delle Due Rose, noi qui adesso possiamo vantarci di avere la Guerra delle Due Acque. Questo perché continua l’iter giudiziario in tribunale che vede contrapposte da una parte Acqua Eva, la quale ha denunciato per diffamazione e turbativa dell’industria e del commercio la rivale Acqua Sant’Anna. Imputati in questa vicenda sono il presidente e l’amministratore delegato Alberto Bertone e il direttore commerciale Luca Chieri di Acqua Sant’Anna, accusati da Acqua Eva di essere i mandanti della pubblicazione di un articolo in cui veniva insinuato il fatto che Acqua Eva fosse controllata dalla catena di supermercati tedesca Lidl.
Da lì è partito il processo per diffamazione, con l’azienda di Paesana che sostiene che il danno cagionatole da tale articolo fosse di più di 13 milioni di euro. E il processo, presso il tribunale di Cuneo, va ancora avanti: adesso si è tenuta una nuova udienza.
Come finirà la Guerra delle Due Acque?
Difficile a dirsi visto che il processo è ancora in corso. Il danno finanziario di cui parla Acqua Eva riguarda delle presunte perdite subite fra il 2019 e il 2023 e anche su una trattativa non andata in porto con la Red Circle Investments, in seguito alla pubblicazione dell’articolo incriminato. Se tale trattativa fosse andata a buon fine, infatti, Acqua Eva avrebbe potuto espandersi negli Stati Uniti e nel Giappone.
A questo bisogna poi aggiungere il danno aggiuntivo inerente la reputazione che, da solo, è stato stimato per più di 3 milioni di euro. Tali cifre sono frutto delle analisi e delle perizie realizzate da due consulenti di Acqua Eva: Davide Vannoni, professore di Economia applicata dell’Università di Torino e Luca Poma, professore di Reputation managemente all’Università LUMSA di Roma.
Ovviamente ci sono consulenti anche da parte di Acqua Sant’Anna, cioè Luigi Forgione e Stefano Ambrosoli, buyer esperti nel settore della GDO (ma secondo l’avvocato Nicola Menardo di Acqua Eva, non esperti per la Coop). Secondo Acqua Sant’Anna l’articolo non potrebbe in nessun modo aver fatto decidere un potenziale fornitore di sospende eventuali contratti di alta marginalità.
Secondo i due buyer, infatti, la marginalità non è collegata solamente ai volumi di vendita, ma anche ad altri fattori, fra cui i contributi promozionali e la richiesta di un determinato posizionamento sugli scaffali. E questi due fattori, sempre secondo i buyer, incidono per un 75%. Il che per loro vuol dire che la decisione di Unicoop Firenze di sospendere la fornitura di Acqua Eva dal 2019 al 2021 e di Coop Alleanza 3.0 di togliere le bottiglie di Acqua Eva dagli scaffali sarebbero state frutto solamente di strategie commerciali e non di quell’articolo che è stato da più parti considerato come gossip.
Anche Alberto Bertone classifica quell’articolo come puro gossip. Il presidente e AD di Acqua Sant’Anna, infatti, ha ribadito che quell’articolo era stato scritto con l’intento di creare del semplice imbarazzo, non certo di cagionare un danno economico. E ricorda che anche su Sant’Anna ci sono spesso stati gossip del genere. Per esempio, in passato, circolavano voci che Acqua Sant’Anna appartenesse a Coca Cola o Esselunga.
Successivamente, poi, si erano anche diffuse voci secondo la quale la loro acqua puzzasse. Alla luce di tali considerazioni, per Bertone è “assurdo” poter pensare o sostenere che un gossip possa indurre un buyer a non voler più quel prodotto.
E ribalta la situazione sostenendo di essere lui quello ad aver subito torti. Bertone ha rivelato che in tale operazione Acqua Eva lo aveva coinvolto durante le prime fasi del progetto. Infatti era andato sul posto insieme ai suoi geologi e fontanieri, accompagnato anche da Paolo Nocera, il suo direttore commerciale. Qui aveva spiegato come funzionasse il mercato, con particolare riferimento alle linee di imbottigliamento.
Solo che, dopo, quasi per caso, aveva scoperto di essere stato estromesso dal progetto. Ma non solo: oltre ad avergli preso le sue conoscenze, Bertone ha riferito che gli avevano soffiato il direttore commerciale Nocera e i distributori di diverse regioni d’Italia. Per un pelo era riuscito a trattenere Cheri, offrendogli il triplo dello stipendio. E ricorda a tutti che all’epoca dei fatti erano un’azienda piccola, di 30 persone e gli avevano sottratto il direttore e tutto il reparto commerciale.
Nonostante tutto ciò, però, Bertone non ha mai fatto causa ai rivali. Tuttavia questi trascorsi sono poi sfociati nell’articolo in questione che Bertone ammette essere stato commissionato per fare “un dispetto”. Bertone ha asserito di non aver letto né l’articolo né la bozza. E adesso si attende la prossima udienza, quella del 7 marzo, quando verrà ascoltata la difesa. E la guerra continua.
Per Acqua Eva un danno stimato in 13 milioni. Per Bertone di Sant’Anna “un dispetto per i torti che avevo subito”
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Nuova udienza, presso il tribunale di Cuneo, del processo in cui Sant’Anna, colosso dell’acqua minerale, è chiamata a difendersi dalle accuse di diffamazione e turbativa dell’industria e del commercio. Imputati, il presidente e amministratore delegato Alberto Bertone e il direttore commerciale Luca Chieri, accusati di essere i mandanti della pubblicazione di un articolo in cui si insinuava che Acqua Eva fosse controllata dalla catena di supermercati tedesca Lidl.
La conseguenza è stata, a detta dell’azienda di Paesana, un danno quantificato in oltre 13milioni di euro.
A tanto, infatti, ammonterebbe il danno finanziario, calcolato sulle presunte perdite patite tra il 2019 e il 2023 e sulla trattativa sfumata con la Red Circle Investments, che prevedeva un’espansione del marchio negli Stati Uniti e in Giappone. A questo si aggiungerebbe il danno reputazionale, che da solo è stato stimato in oltre tre milioni di euro. Le cifre sono la conclusione delle analisi e delle perizie effettuate dai due consulenti di Acqua Eva, il professore di Economia applicata dell’Università di Torino Davide Vannoni e il docente Luca Poma, professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma.
Dall’altro lato, i consulenti di Acqua Sant’Anna, Luigi Forgione e Stefano Ambrosoli, entrambi esperti buyer nel settore della grande distribuzione – ma non per la Coop, come ha rilevato l’avvocato di Acqua Eva Nicola Menardo – hanno spiegato come, stando alla loro pluriennale esperienza, in nessun modo un articolo, ancorché diffamatorio, possa avere un peso tale da far decidere di sospendere i contratti con un fornitore che garantisca alta marginalità.
Marginalità non legata solo ai volumi di vendita, come hanno sottolineato i due professionisti, ma ad altre voci, come i contributi promozionali o le richieste di un particolare posizionamento sugli scaffali. Queste, sulle scelte dei buyer, pesarebbero per un 75%.
Solo ed esclusivamente strategie commerciali, dunque, stando alla loro esperienza professionale, sarebbero alla base della decisione della Unicoop Firenze di sospendere la fornitura di Acqua Eva dal 2019 fino al 2021 e di Coop Alleanza 3.0 di togliere le bottiglie di Acqua Eva dagli scaffali dei propri punti vendita.
Certamente non quello che è stato più volte definito, se non derubricato, a chiacchiericcio o gossip.
E di gossip ha parlato anche l’imputato Alberto Bertone, oggi ascoltato in aula. Il patron della Sant’Anna ha dato la sua versione dei fatti, evidenziando come quell’articolo non sia stato scritto con lo scopo di creare un danno economico ma semplicemente per creare dell’imbarazzo.
“Anche su Sant’Anna i gossip ci sono sempre stati. Tra questi, che noi fossimo di Coca Cola o di Esselunga. Poi, si era diffusa la voce che la nostra acqua puzzasse. E’ assurdo pensare o sostenere che un gossip possa indurre i buyer a non volere più un prodotto. Questa è una barzelletta a cui può credere solo chi non è del nostro mestiere”, ha detto Bertone.
Lui, invece, quello che avrebbe subito i torti. “Acqua Eva la sento anche mia, perché nelle prime fasi ero stato coinvolto nell’operazione. Ero andato sul posto con i miei due fontanieri e geologi, oltre che con il mio direttore commerciale, Paolo Nocera. Avevo spiegato il funzionamento del mercato, le linee di imbottigliamento“, ricorda Bertone.
Poi, a distanza di tempo, la scoperta, quasi casuale, che “ero stato estromesso. Mi avevano preso il know-how, il direttore commerciale Nocera e i distributori di parecchie regioni d’Italia. Sono riuscito a trattenere Cheri dandogli tre volte lo stipendio. E’ la prima volta che qualcuno nasce distruggendo un altro – ha ancora detto Bertone visibilmente alterato. All’epoca eravamo un’azienda piccola, di 30 persone, e mi avevano tolto il direttore e tutto il reparto commerciale. Ero disperato”.
Ma, ha specificato Bertone, nonostante tutto “non ho mai fatto causa ai concorrenti”. Un’acredine, dunque, maturata negli anni, acuita dal “gossip” dell’acqua che puzzava e concretizzatasi con quell’articolo, commissionato per fare “un dispetto”, a detta di Bertone. “Io non lo avevo nemmeno letto, neppure la bozza”, ha rimarcato l’imprenditore. Ma che, secondo Acqua Eva, ha cagionato un danno di 13 milioni.
Nella prossima udienza, il prossimo 7 marzo, saranno ascoltati i testi della difesa.