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L’avvento dell’equity crowdfunding in Italia

L’avvento dell’equity crowdfunding in Italia

Il 2019 è stato l’anno da record
per il crowdfunding in Italia. A sostenerlo è l’osservatorio
enterpreneurship&finance del politecnico di Milano, il quale, dopo aver
analizzato i dati sul crowdfunding nel periodo 2014-2019 ha osservato come ci
sia stata un’impennata nella raccolta nel primo trimestre del 2019. Se infatti
alla fine del primo semestre dello scorso anno risultavano circa 82 milioni di
euro raccolti attraverso le piattaforme internet abilitate a partire dal 2014,
ben 27 milioni sono stati raccolti a partire da gennaio 2019.

Secondo lo studio, a partire
dall’introduzione della normativa sul crowdfunding, avvenuta nel 2012, al 30
giugno 2019, sulle piattaforme autorizzate sono stati presentati 401
collocamenti di cui 261 chiusi positivamente 103, senza raggiungere il target
minimo previsto e 37 ancora in corso nella data dell’analisi. Di queste ben 170
sono state presentate tra il primo luglio 2018 e il 30 giugno 2019, al ritmo di
una ogni due giorni. Anche il tasso di successo delle operazioni è aumentato
nel primo semestre del 2019, passando dal 71% (valore medio del campione a
partire dal 2014) al 75%. Nel dettaglio la maggior parte di queste richieste
sono avvenute da parte di start up innovative.

Cosa ha causato un aumento del crowdfunding nel 2019?

Ad attirare più investitori è stata
la modifica dell’assetto regolamentare. Sin dal 2018 sono stati introdotte
dalla consob  importanti novità come la
definizione dei requisiti per la copertura assicurativa minima da offrire agli
investitori sia a livello di singolo investimento sia a livello complessivo per
la piattaforma e a partire dal 2019 l’alzamento al 40% (dal 30%) delle aliquote
per le detrazioni fiscali (per le persone fisiche) e delle deduzioni (per le
persone giuridiche) a favore di chi investe nel capitale di rischio di startup
e PMI innovative.

Nonostante la maggior attrattività
dell’equity crowdfunding in Italia, i numeri sono ancora di molto inferiori
rispetto gli altri paesi europei. Uno studio condotto dal Cambridge Centre for
Alternative Finance sul crowdinvesting, con riferimento il 2017, ha evidenziato
come, a fronte di 581 milioni di euro investiti in Europa nel crowdfunding, 333
milioni fossero stati investiti nel Regno Unito, 48 milioni in Francia, 20 in Germania
e solo 11,5 in Italia. 

Le prospettive per il futuro

La sfida per il futuro è in mano
alle piattaforme le quali dovranno scegliere attentamente il target di aziende
da accompagnare alla raccolta e quali tipologie di investitori coinvolgere. Di
fatto nel mercato del crowdfunding non c’è spazio per tutte le aziende e la
crescita della raccolta oltre che qualitativa dovrebbe essere anche qualitativa.




Corporate social responsibility, il nuovo focus della travel industry

Corporate social responsibility, il nuovo focus della travel industry

Alcuni player del settore si confrontano sul tema della sostenibilità sempre più importante all’interno delle dinamiche aziendali

La corporate social responsibility è la nuova sfida del turismo. Tutti i player, grandi e piccoli, se ne occupano attivamente. Dall’offerta di viaggi sostenibili e rispettosi, all’adozione di processi che limitano e compensano l’impatto ambientale, alla realizzazione di iniziative volte a favorire modelli di consumo sostenibili, la travel industry è in prima linea nella tutela del pianeta nella sua totalità.

“Oggi i turisti sono disposti a pagare anche un 10% in più per un prodotto turistico sostenibile – afferma Francesco Palumbo, direttore Toscana Promozione -. La nostra regione ha sposato a pieno questa causa con un progetto che incentiverà l’utilizzo di mezzi pubblici ed elettrici per spostarsi nelle zone sia della costa che dell’entroterra, promuovendo anche l’installazione di colonnine di ricarica elettrica sia nelle strutture ricettive che negli stabilimenti balneari. Inoltre invitiamo tutti i turisti a segnalarci disagi e rifiuti lungo i cammini sparsi nei nostri territori. In questo modo il viaggiatore non diventa fonte di impatto ambientale, ma prezioso partner”.

Il tema della sostenibilità sta diventando sempre più importante nel settore turistico e questa evoluzione viene testimoniata da Karin Fischer, founder di Connecting Stories. “Me ne occupo dal 2001 e, da allora, ho notato uno sviluppo di consapevolezza. Se prima questo argomento veniva percepito quasi come un orpello all’interno delle dinamiche aziendali, oggi invece è visto in maniera strategica passando da una voce di spesa a una forma di investimento“.

Paladina dell’ecosostenibilita’ anche Best Western che da 10 anni promuove con le sue strutture associate il progetto Stay for the planet insieme a Lifegate. “Grazie alla formazione e alle partnership con alcuni fornitori abbiamo diminuito del 20% l’impatto di consumi idrici, energetici e di rifiuti all’interno dei nostri hotel – spiega Sara Digiesi, chief marketing officer di Best Western -. Con la campagna Stay plastic less, poi, abbiamo ridotto l’uso della plastica legato agli amenity kit e al food & beverage. A volte può esserci difficoltà a far passare questo messaggio all’interno dei nostri hotel ma ogni giorno facciamo qualche passo e, in questa direzione, riusciamo a sensibilizzare anche i 5 milioni di ospiti delle nostre strutture italiane”.

Anche la Val Trompia e la Val Sabbia sono state oggetto di un importante progetto di sostenibilità sostenuto, dal 2016, da Fondazione Cariplo. “Un investimento di 10 milioni di euro per far rinascere queste aree puntando sia sullo sviluppo turistico, grazie ai 3500 km di pista ciclabile Green Way, sia creando nuovi posti di lavoro collegati all’ospitalità lungo questa tratta favorendo anche il ritorno in zona delle nuove generazioni”.

La social responsibility passa anche dagli eventi e dall’ambito f&b ad esso collegato. “I nostri interlocutori sono sia i viaggiatori sia le aziende. In entrambi i casi cerchiamo di lavorare con fornitori con un codice etico e con garanzie di sostenibilità – afferma Isabella Maggi,direttore marketing e comunicazione di Gattinoni -. Ad esempio doniamo a comunità e associazioni il cibo in esubero agli eventi, o ancora collaboriamo con la Fondazione Rava e con il Wwf per far sì che il semplice viaggio si trasformi in un’esperienza arricchente. La sostenibilità sta diventando sempre più un driver di viaggio per i Millennials e il nuovo prodotto MatePacker sposa proprio la sostenibilità anche delle comunità e delle destinazioni che si visitano. Noi cerchiamo di trasmettere questo tipo di sensibilità anche alle nostre adv che speriamo possano seguirci in questo cammino”.

In prima linea su questo percorso anche Federcongressi & eventi. “Abbiamo dato vita al programma Food for good, in collaborazione con Banco Alimentare ed Eco Evento, per dare una seconda vita a tutti gli alimenti in eccesso negli eventi – spiega Gabriella Ghigi -. Tutti coloro che vorranno aderire al progetto potranno contattare la nostra segreteria e noi metteremo in moto i volontari più vicini per andare a raccogliere il cibo e portarlo alle mense caritatevoli. Abbiamo già recuperato oltre 144mila pasti e 6700 kg di pane e frutta, ma c’è ancora tanto da fare”. 




Dnf, gli standard dei commercialisti Ue

Dnf, gli standard dei commercialisti Ue

La federazione dei commercialisti europei auspica una razionalizzazione globale degli standard di reporting non finanziario, e propone un organismo internazionale da affiancare allo Iasb. L’obiettivo è combattere il greenwashing e integrare non financial e financial.

International non-reporting standards board: un coordinamento globale per armonizzare gli standard di rendicontazione non finanziaria (dal Gri a Sasb) e connetterli con quelli finanziari. È questa la proposta, ambiziosa, formulata da Accountancy Europe nel suo ultimo rapporto “Interconnected standard setting for corporate reporting”, pubblicato lo scorso dicembre. La federazione dei commercialisti europei, che riunisce 51 organizzazioni professionali nazionali (fra le quali il Consiglio nazionale dei commercialisti italiani), si posiziona in maniera netta nel dibattito sulla standardizzazione della disclosure: «Cambiamenti climatici, degrado ambientale, diritti umani e squilibri sociali» sono al centro dell’attenzione di aziende, investitori, policy maker e società civile. «Centinaia di framework e standard di rendicontazione, oltre che regolamenti legislativi», mirano a rendere pubblicamente disponibili le informazioni relative a questi problemi. Tuttavia, prosegue il report, il proliferare di iniziative eterogenee sulla disclosure non finanziaria, non coordinate fra loro, «sta generando confusione e aumentando le potenzialità di greenwashing».

L’organizzazione riconosce in primis come gli aspetti non finanziari, non rilevati dalla contabilità “classica”, rappresentino una componente importante del valore di mercato delle aziende. La natura dei rischi e i driver di valore rendono necessaria per investitori, stakeholder e per le stesse aziende una gamma più ampia di informazioni. Le imprese stanno rispondendo a queste esigenze, ma, secondo Accountancy Europe, in maniera «incoerente e non coordinata». Data la varietà delle opzioni disponibili per comunicare i dati non finanziari, chi redige i bilanci è in grado di «fare acquisti», scegliendo fra i diversi standard. Una possibilità che può spingere a una rendicontazione «selettiva e sbilanciata». L’altro lato del problema, secondo l’associazione, riguarda chi utilizza l’informazione: gli analisti devono spesso affrontare un sovraccarico di informazioni, a cui peraltro contribuiscono direttamente «richiedendo dati basati su framework e standard differenti». Una situazione che genera «mancanza di trasparenza sul mercato e danneggia la fiducia», oltre ad ostacolare la definizione di politiche efficaci per affrontare le grandi sfide della sostenibilità.

Per questo motivo, Accountancy Europe propone l’istituzione di uno standard setter globale, l’International non-reporting standards board (Insb), che vada ad affiancare l’International accounting standards board (Iasb) in un sistema di governance complessivo per il reporting aziendale. L’obiettivo è quello di armonizzare i vari standard di disclosure non finanziaria e connetterli con quelli finanziari: «È necessaria un’impostazione standard e interconnessa per il reporting aziendale, in grado di coordinare, razionalizzare e consolidare le numerose iniziative di rendicontazione non financial esistenti e creare un set di metriche globali». Standard coerenti a livello internazionale (che, specifica il report, dovranno includere anche le raccomandazioni Tcfd), oltre a limitare il greenwashing, ridurrebbero i costi e la complessità della rendicontazione, faciliterebbero le comunicazioni in un sistema economico integrato a livello globale, e consentirebbero una risposta più efficacie a problemi epocali come il cambiamento climatico.

Il nuovo quadro di governance globale degli standard di reporting, da implementare con un processo graduale, rafforzerebbe «la collaborazione fra settore pubblico e privato» e sarebbe basato su un sistema a tre livelli: Iasb e Insb (incaricata di emanare i nuovi standard) farebbero riferimento a un comune organismo di governace, la Corporate reporting foundation, a sua volta supervisionata da un organo di monitoraggio. Nel rapporto, Accounancy fornisce inoltre anche tre versioni alternative della struttura di governance proposta, ed elenca per ognuna i punti di forza e le debolezze.

L’organizzazione ha aperto una consultazione pubblica per raccogliere pareri e suggerimenti sulla proposta, da inviare all’indirizzo jona@accountancyeurope.eu entro il 31 marzo 2020. La proposta di Accountancy Europe è stata anche ripresa dal World Economic Forum che a Davos ha proposto una razionalizzazione delle metriche, ossia una proposta di integrazione delle metriche non finanziarie, con un framework «sistemico» realizzato insieme alle big four della consulenza (Sul tema si legga l’articolo “Davos, presentati standard Esg globali”)




GESTORI TELEFONICI E SCHIZOFRENIE AZIENDALI

ESTORI TELEFONICI E SCHIZOFRENIE AZIENDALI

Ho già scritto a più riprese circa le aziende con disturbi d’identità. In un mio precedente articolo citavo Giano bifronte, un’antica divinità romana, rappresentata con una testa bicefala: era il protettore di tutto ciò che concerne “una fine e un nuovo inizio”, ma – sicuramente a causa delle sue “due facce” – nella cultura popolare iniziò presto a essere simbolo di doppiezza, “di una cosa del suo opposto”; citai anche Pinocchio: il personaggio di legno inventato da Collodi, protagonista del poetico film di Matteo Garrone con Roberto Benigni, uscito a Natale scorso, sa essere buono, ma cade spesso nella tentazione di farsi trascinare da brutte compagnie, e nell’immaginario popolare è anche simbolo di bugia, con il suo naso che si allunga a dismisura quando mente, fino puntualmente a cacciarsi nei guai.

È una fedele descrizione anche delle più note compagnie telefoniche presenti nel nostro Paese, ovvero Vodafone, TIMsponsor unico del Festival di SanremoWind-Tre e Fastweb (e chissà se le newentry come Iliad sono fuori da questa bufera solo perché essendo entrate dopo sul mercato italiano non hanno ancora avuto il tempo di turlupinare gli utenti): colossi sempre pronti a magnificare il proprio impegno sociale, l’attenzione al Cliente e la riduzione dell’impatto ambientale, salvo poi manipolare il mercato ai danni dei cittadini, senza alcuna remora etico-morale.

Ecco i fatti in sintesi: l’Antitrust aveva sanzionato per complessivi 228 milioni di euro i quattro colossi della telefonia “accertando un’intesa anticoncorrenziale dolosa relativa al cosiddetto “repricing”, ovvero il passaggio dalla fatturazione a corpo, ogni mese, a quella per settimane. Fatturando ogni 4 settimane, invece che una volta al mese, i gestori emettevano fatture ogni 28 giorni, e non solo l’ultimo giorno del mese, guadagnando un bel po’ di giorni di fatturazione all’anno (per essere precisi, 13 fatture emesse in un anno in luogo di 12), che si traducevano in un aumento medio degli oneri a carico degli utenti tra l’8 e il 9%, giudicato fraudolento dalle autorità di controllo. Ma non era bastata la decisione dell’AgiCom, perché le 4 aziende avevano resistito e fatto ricorso, stabilendo possibilità di rimborso parziali, solo per quei cittadini che ne facessero richiesta, e comunque mediante farraginose procedure burocratiche: alla faccia dei principi di trasparenza e vicinanza agli utenti declamati nei rispettivi Bilanci sociali.

La più ferma nel “resistere” tramite i propri avvocati, e quindi nel penalizzare gli utenti, si è rivelata essere Vodafone: l’azienda è sempre in grande spolvero quando si parla di CSR, al punto che il Presidente di Vodafone Italia, Pietro Guindani, sottolinea nel bilancio di rendicontazione “L’attenzione che Vodafone porta ai temi della responsabilità imprenditoriale, sociale e ambientale”, salvo poi assumere comportamenti ai limiti della truffa – come nel caso della fatturazione sanzionata dal Consiglio di Stato – o comunque non certo in linea con un’azienda attenta alle reali esigenze degli utenti.

Ora è arrivata – impietosa – la sentenza del Consiglio di Stato: illegittimo il comportamento, giudicato “sleale” ed “eversivo”, e quindi rimborsi automatici per tutti i cittadini, senza inoltre bisogno di farne esplicita richiesta al proprio gestore.

Come scrivevo in un mio precedente articolo la teoria della Responsabilità Sociale d’Impresa prevede un approccio “caldo” al mercato e agli stakeholder: la capacità di applicare un modello di business “dal volto umano”, irrobustendo le relazioni con i pubblici dell’azienda così da creare nel tempo valore duraturo per gli azionisti.

C’è un settore però dove la sostenibilità pare trovare più alte barriere all’ingresso, ed è proprio la telefonia: il contesto competitivo tipico di quel mercato – per certi versi più simile a quello delle commodities che a quello industriale in senso stretto –  comporta altissimi investimenti infrastrutturali a fronte di una bassa marginalità di profitto, unita al fatto che una volta superato il break-even in un’area o mercato ogni utente in più è utile a costo zero, o quasi. Il settore della telefonia è quindi il tipico caso di “commoditizzazione” di un’azienda: agli occhi dell’utente finale, un operatore telefonico vale l’altro, essi vengono scelti quasi esclusivamente sulla base del prezzo e delle offerte speciali di volta in volta disponibili, cartina di tornasole della bassa fidelizzazione al brand, causata però in buona parte proprio dal – consapevole – mancato inserimento di preoccupazioni etiche nel business da parte degli operatori telefonici stessi, ben lontani dal concetto di Lovemark come inteso nel reputation management.

I clienti in
certe fasi della catena del valore sono percepiti sempre più come un
“problema”: ad esempio, più clienti chiamano i call-center, più operatori è
necessario assumere, più aumenta il costo per contatto, più si riducono le
marginalità, esponendo le società alla mannaia dei “mercati”, con i titoli in
borsa sempre sotto l’occhio critico e cinico degli analisti, pronti a ridurre i
rating pregiudicando gli investimenti a breve termine e anche i bonus del
management, non appena un gestore telefonico perde uno “zero virgola” di quota
di mercato.

La “quota di
mercato” sembra appunto essere il giudice unico e ultimo di ogni azienda
quotata, e questa impostazione basata solo sulla shareholder value è
evidentissima, in particolare, nel mondo dei gestori telefonici: comunicazione marketing-oriented,
inconsistenza del servizio post-vendita e di assistenza tecnica, campagne
pubblicitarie martellanti, ossessive, invadenti e aggressive, con aziende che
si azzuffano per metterci in tasca una SIM in più, magari legandola all’omaggio
un nuovo telefonino, a una tariffa più conveniente o a una testimonial più
svestita di quella della concorrenza. Questo modello di business – che ha come
risultato una bassissima fidelizzazione del cliente – è, nella pratica, la vera
e propria negazione del principio “I care” tipico della CSR, ed è nel contempo
anche la negazione dei presupposti stessi per la creazione di una comunità di
marca stabile e duratura.

Concludo
ricordando che il guadagno netto a favore dei gestori telefonici, derivante
dall’astuta e ingannevole operazione fraudolenta della fatturazione ogni 4
settimane solari, si è rivelato essere in media tra i 20 e i 30 euro all’anno
ad utente: eccolo, in tutta la sua disarmante pochezza, il prezzo della
dignità.




“La pandemia passerà, l’infodemia resta”

"La pandemia passerà, l'infodemia resta"

Tutte le questioni che il coronavirus pone alla comunicazione di crisi. La proposta di Gianluca Comin all’HuffPost: un incontro tra i direttori dei grandi gruppi editoriali per fronteggiare e dare regole nell’emergenza, e non solo

“La pandemia passerà, come altri fenomeni del genere non dovrebbe durare a lungo, ma l’infodemia resta, e pone delle sfide nuove a tutti noi”. Il virus partito dal mercato di Wuhan oltre a produrre angoscia e attenzione, a porre un’infinità di problemi pratici, ha creato un’importante corto circuito nel delicato settore della comunicazione delle emergenze. Un unicum che pone delle questioni globali e inedite. Ne abbiamo parlato con Gianluca Comin, docente di strategie di comunicazione della Luiss e fondatore Comin and Partners.

Solo oggi, filtrano dalla Cina notizie di farmaci efficaci, smentite dall’Oms. Siamo di fronte a una vera e propria campagna mediatica. Sta funzionando la comunicazione della pandemia? 

C’è stata una prima fase in cui tutti hanno comunicato troppo, dalle istituzioni ai medici e ai media, ovviamente tutti con il duplice obiettivo di non creare panico e di “collocare” il rischio perché possa essere governato, ma si è prodotta una sensazione di poco coordinamento. Troppe voci. Poi si è cambiato registro, e la situazione è migliorata, dopo la confusione iniziale oggi c’è decisamente maggiore ordine nella comunicazione. E ho trovato interessante il coordinamento del ministero della Salute con twitter per difendersi dalle fake news.

Che tipo di emergenza è il coronavirus, che problemi pone alla comunicazione di crisi?

È una crisi globale, che pone diverse condizioni. La tua comunicazione si deve confrontare con quella di altri Paesi: è una crisi non localizzata, che tocca tutte le categorie di persone, con una diffusione più ampia possibile. Una crisi che riguarda la salute delle persone, e questo è il classico caso in cui spesso si dà più credito al barista che al medico. Queste condizioni rendono oggettivamente più complicata la gestione della comunicazione. Ma non è finita, una pandemia di questo tipo coinvolge più istituzioni, dal ministero agli ospedali ai porti, e riuscire a coordinare una comunicazione univoca è complicato. Poi c’è un’altra caratteristica: si tratta di un evento in divenire, a differenza di un sisma o di una catastrofe che ha un tempo limitato, una pandemia si sviluppa nel tempo e necessita di continui aggiornamenti: sui contagi, sulle guarigioni, sulle aree di crisi… Tutto questo esige una comunicazione dinamica, più complicata rispetto a una comunicazione che si definirebbe puntuale.

Un passo indietro: da esperto, come si comunica un’emergenza?

Innanzitutto si parte dai pilastri: trasparenza e tempestività, i cittadini vogliono essere aggiornati correttamente e costantemente – più bollettini più volte al giorno, per esempio -; in gioco c’è l’emotività delle persone, di qui la necessità di usare un linguaggio che siamo abituati a sentire. Un uso esagerato del linguaggio scientifico e di termini tecnici possono disorientare. Un altro fattore è la concretezza, ossia dare istruzioni precise su prassi reali: come comportarsi, che tipo di attrezzature usare, come affrontare ambienti di potenziale contagio o come affrontare un viaggio. Infine, ma è molto importante, c’è la capacità di reagire in maniera tempestiva rispetto a comunicazioni false.

E qui entriamo nel tormentato mondo digitale, dei social, delle fake news. Croce e delizia di chi lavora nell’informazione, figuriamoci in un momento di crisi come quella del coronavirus.

Purtroppo le fake news sono ormai prassi in qualsiasi ambito, il punto è come contrastare questo tipo di comunicazione falsa, nata per disorientare o creare panico. Certo, i social media sono fondamentali, veloci. Serve però anche l’autorevolezza dei media tradizionali. L’obiettivo deve essere equilibrare la comunicazione sociale e digitale con comunicazione offline e televisiva. In questo senso, è importante coinvolgere comunità di persone credibili, esperti, professori, giornalisti di fama che rendono autorevole il messaggio, in un momento in cui le istituzioni in generale non godono di grande reputazione pubblica. Ovviamente non puoi arginare le fake news, ma cercare di costruire una comunicazione credibile, trasparente e continua. 

Qual è il confine tra corretta informazione ed eccessivo controllo? Dopo un proliferare di informazioni dei primi giorni oggi filtra poco.

In un mondo come il nostro è velleitario pensare di censurare qualcosa, ci sono talmente fonti che è difficile persino per Pechino bloccare i canali. Figuriamoci in Italia, ma non è questo il punto, piuttosto quello che devi attivare è un senso di responsabilità diffusa. Penso a iniziative inedite, come a un riunione dei direttori dei grandi gruppi editoriali che garantiscano autorevolezza, linee guida, senza però impedire al giornalista di fare il proprio mestiere.

Una pandemia, e una comunicazione sbagliata dei rischi e degli eventi, può mettere in ginocchio intere economie.

Il rischio maggiore è che il panico provochi la chiusura delle frontiere e delle merci, c’è il caso del Salone del lusso di Milano, a cui si sta provando a rispondere organizzando collegamenti online. Come stiamo vedendo, un’epidemia di tali dimensioni crea danni ai movimenti delle persone, all’economia legata ai viaggi, alla ristorazione. La buona notizia è che non dura a lungo. Da questo punto di vista anche le imprese possono fare molto, affiancandosi alle istituzioni, possono aiutare a distinguere i rischi reali da quelli emotivi.

Non sono mancati i casi di speculazione politica.

Sì, ma la speculazione politica di fatti come questi ha le gambe corte. Creare storytelling negativi lo posso capire per fattori come immigrazione e terrorismo, ma speculare su salute e paure può ritorcersi contro, ecco, a un politico non consiglierei di cavalcare un’emergenza pandemia in maniera aggressiva.

Aspettando la reale portata della pandemia, un effetto immediato il coronavirus l’ha provocato. A fronte delle eccessive fughe di notizie – vere o false – l’Organizzazione mondiale della sanità ha coniato una parola nuova: infodemia.

Sì, effettivamente è la prima volta che la sento. Trovo interessante questa crasi tra epidemia e informazione, che evoca un’epidemia di informazioni, o un’epidemia di fake news. E ho scoperto sul web che la Treccani online l’ha appena inserita tra le nuovi voci. C’è da dire che l’Oms ha risposto con grande prontezza a questo problema, per la prima volta il settore dell’informazione e la comunicazione si chiama in causa direttamente.

Infodemia come nuovo paradigma?

Di certo stabilisce un nuovo ambito con cui confrontarci, una nuova strada che può essere applicata ad altre cose, pensiamo all’infodemia politica, a certi prodotti commerciali, le applicazioni sono molteplici. Questo salto di qualità nella coscienza collettiva dell’informazione pone una grande sfida ai comunicatori, spinge a mettere in atto competenze, all’utilizzo di strumenti sofisticati e di linguaggi nuovi e interessanti.