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Nella tana del Bianconiglio

C’era una volta un’epoca nella quale, nel mondo delle aziende, vigeva la regola del “bene o male purché se ne parli”.Era il tempo della vendita ad ogni costo, delle gonne a ruota e delle prime grandi agenzie di comunicazione, che basavano le proprie strategie sul modello Press Agentry: le teorie di Grunig, ben interpretate in Italia dal modello Gorel di Toni Muzi Falconi, erano tutte da venire.

Era l’epoca dei “blocchi” contrapposti e della propaganda, e a quei tempi il mantra dominante era “Dollars drive opinions”: le aziende si ritenevano avulse dalle influenze esterne, e i pubblicitari costruivano ad arte l’immagine delle organizzazioni per le quali lavoravano, immagine che di volta in volta mutava in modo strettamente correlato alle diverse esigenze di mercato. Le campagne si facevano sfarzose e monumentali, con lo scopo di vendere una promessa pre-confezionata e impacchettata con cura in base a ciò che “i consumatori”, a loro avviso, volevano sentirsi dire. La comunicazione del marchio strizzava l’occhio al cliente, e si faceva incalzante.

Quelli erano anche gli anni degli scontri tra le grandi fazioni politiche, della speranza del dopo guerra e del boom economico. La destra e la sinistra erano i pilastri riconoscibili su cui si reggeva la politica di Stato, e gli attori istituzionali del tempo erano personalità di alto profilo, permeate da valori solidi e chiaramente declinati al pubblico. La visione dell’epoca, la missione politica, era quella di creare qualcosa di duraturo e stabile, di resistente al tempo e nel contempo moderno; la comunicazione del governo era coerente, formale, “solida”, e i politici godevano di stima e di buona reputazione da parte dei cittadini.

Ma come in tutte le storie che si rispettino, accade sempre qualcosa che cambia le carte in tavola: i sistemi di comunicazione politica si sono evoluti, passando attraverso l’epoca dei modelli “a due vie” basati sui continui sondaggi, utili per capire come parlare alla pancia dei cittadini e tipici, in Italia, dell’era Berlusconi, fino a risultare in buona parte ulteriormente stravolti in seguito all’avvento del digitale: un mondo nel quale le regole si sono capovolte.

La sensazione è quindi di smarrimento, simile a quella che provò la piccola Alice, cadendo nella tana del Bianconiglio: l’immediatezza dei flussi di comunicazione, la mole d’informazioni messa a disposizione dal web, la possibilità per ognuno di fruire delle stesse notizie e la sensazione di poter contribuire attivamente alla vita del grande archivio informativo costruito online, sono fattori che hanno profondamente cambiato gli scenari nei quali viviamo, lavoriamo e comunichiamo.

È opportuno però addentrarci un poco nella storia, per comprendere come, in questo mondo del “sottosopra”, le cose siano cambiate, e tentare di capirne il perché.
 

L’importanza della reputazione per le aziende

Prima di analizzare le dinamiche che hanno portato i politici italiani alla crisi reputazionale che da tempo stanno vivendo, occorre riflettere sull’altro protagonista della nostra storia: le aziende, un mondo, quella della comunicazione corporate, che pare aver compreso da tempo l’importanza della reputazione.

Grazie ad una buona reputazione infatti, un’azienda può godere di vari vantaggi: ottenere maggiori stanziamenti da parte delle istituzioni pubbliche, aumentare i prezzi dei propri prodotti, attrarre capitali a minor costo, ampliare la propria rete di clienti e fidelizzare quelli esistenti, migliorare il proprio employer branding, godere di una positiva copertura mediatica, o, ancora, vedersi concedere una seconda possibilità da parte degli stakeholder nel caso in cui si verificasse una crisi reputazionale.

Se prima bastava investire in campagne pubblicitarie, meglio se colossali e ad alta penetrazione, per imporre a clienti attuali o potenziali l’immagine che si intendeva comunicare di sé, oggi, nell’era dell’informazione, l’imperativo della trasparenza, scelta obbligata a causa della grande mole di dati potenzialmente a disposizione di tutti, rendono l’azienda un organismo vulnerabile. Oggi i clienti possono permettersi il lusso di scegliere in completa libertà il brand che più soddisfa le proprie aspettative tra un’ampia gamma di opportunità, perciò̀ investire non solo nella propria immagine ma sulla costruzione di una reputazione solida basata sulla fiducia – che come è noto orienta i comportamenti di acquisto – genera un vantaggio competitivo non indifferente: quello di essere scelti.

Occuparsi della propria reputazione significa anche prevenire possibili scenari futuri di crisi. Una buona reputazione agisce da cuscinetto protettivo quando una crisi colpisce l’organizzazione, attraverso i meccanismi del ricordo rafforzativo. In una certa misura, più la reputazione è forte, meno impattante sarà la crisi e più veloce sarà, molto probabilmente, il processo di recupero. Come detto in precedenza una buona reputazione concede spesso il lusso di vedersi concessa una seconda possibilità da parte degli attori socio-economici: in un momento di crisi, gli stakeholder di un’azienda ben reputata sono disposti a concedere maggiormente fiducia e tempo, rispetto a quelli di aziende con capitale reputazionale inferiore.

Scegliere di investire nella gestione della reputazione significa quindi anche essere in grado di prevedere scenari futuri, individuare le aree di crisi potenziale, monitorarle e prepararsi a fronteggiarle in modo efficace, invece che intervenire solo a posteriori per risolvere le emergenze, perché quando la crisi colpisce, grazie alle tecnologie e ai potenti mezzi della rete, lo fa in modo immediato, rumoroso e plateale.

Ora più che mai, lo sviluppo di una cultura di prevenzione delle crisi reputazionale appare necessaria poiché con l’avvento delle nuove tecnologie, ciò che prima avveniva localmente oggi ha un impatto globale: un errore o una crisi può avere una risonanza mediatica ad ampissimo spettro. I nuovi ambienti Social consentono di produrre e diffondere informazioni a una velocità solo pochi decenni fa inimmaginabile. Inoltre, chiunque può creare contenuti e diffonderli, con la stessa apparente autorevolezza che in passato caratterizzava i media tradizionali.

Mettere a terra i valori

Il mondo delle imprese, oggi, riconosce l’importanza di testimoniare dei valori. Le stesse aziende che anni fa volevano “vendere a tutti i costi”, oggi declinano la propria narrativa costruendo messaggi a partire dalla propria identità, fatta di un universo di valori in cui il cittadino può identificarsi: un modo di vedere il mondo e di percepire il proprio ruolo sociale che le imprese cercano di comunicare attraverso efficaci operazioni di storytelling.

Questa scelta di esporsi, di raccontare i propri valori e di “prendere posizione” rispetto a questioni delicate, abbatte i muri e gioca la carta sempre vincente della trasparenza e della comunione di intenti tra brand e follower. Citando la tesi n° 23 del celebre Clue Train Manifesto, “Companies attempting to “position” themselves need to take a position. Optimally, it should relate to something their market actually cares about.”

Le aziende sanno che, per attivare processi distintivi tra loro e la moltitudine di competitor che offrono gli stessi sevizi o prodotti, non è più possibile apparire indifferenti rispetto alle grandi tematiche etiche: il pubblico si aspetta una presa di posizione chiara, coerente e sincera.

Questo non significa certamente dover prendere posizione su ogni fatto di cronaca, ma vuol dire avere ben chiara l’utilità di enfatizzare alcuni valori fondamentali alla base della mission del brand, e declinare di conseguenza la comunicazione, ponendo anche la propria creatività al servizio di un messaggio “di valore” culturale e sociale che detta comunicazione andrà ad esprimere, come ha fatto ad esempio – tra i tanti – Diesel. Il celebre brand di abbigliamento, che lo scorso luglio è stato uno dei marchi sostenitori del “Pride” di New York, ha dimostrato attraverso una strategia di comunicazione inequivoca le proprie intenzioni e la coerenza con i suoi valori. Diesel, infatti, a seguito di un calo dei follower causato molto probabilmente dal suo appoggio al Pride Month, ha affermato: “Siamo orgogliosi delle nostre convinzioni da oltre 40 anni e crediamo nel #pride. Per coloro che non lo fanno, compresi i 14.000 followers che ci hanno lasciato nell’ultima settimana… bye bye! Per chi crede e condivide i nostri ideali e valori, celebriamo il fatto che #loveislove. Sempre.”


Prendendo atto della perdita dei follower in modo così platealmente provocatorio e dimostrando che dietro le proprie azioni non c’è solamente lo stimolo del marketing o motivi puramente economici, bensì – anche – la scelta di credere in determinati valori e di difenderli, l’azienda si posiziona come coerente e fedele nei confronti della propria comunità di marca, guadagnando la stima dei propri follower e molto probabilmente accrescendo il proprio indice reputazionale, o perlomeno definendone meglio il perimetro.

Metterci la faccia, parlare autenticamente, rimanendo sempre sé stessi, distinguerà l’organizzazione dalle altre e quindi finirà per generare valore. Il risultato non sarà quindi solo un mero “copia e incolla” dell’insieme di pratiche e valori che si suppone possano piacere agli utenti, ma la declinazione e la messa a terra di un impianto valoriale in grado di saldare il brand con la propria community di marca.

Questi aspetti importanti, oggi riconosciuti come vitali per la sopravvivenza dei brand, sembrano invece del tutto ignorati dal mondo della politica, che pare spesso addirittura agire in senso esattamente contrario alle best practice del reputation management e della crisis communication.

La domanda è: come possono, i politici, sopravvivere comunque, violando sistematicamente tutte le buone prassi in materia?

La reputazione nella sfera politica: l’antimateria del Crisis management

Negli ultimi mesi, l’Italia ha assistito a un carosello di scelte contraddittorie, colpi di scena ed eventi inaspettati nel mondo della politica e delle istituzioni: le giravolte, nella politica italiana, paiono ormai un’abitudine consolidata. La fede nel partito che esisteva anni fa, lo schieramento in base ai suoi valori, e la coerenza nell’azione politica, sembrano oggi più lontani che mai. Oggi il consenso degli italiani segue il ritmo dei cambi di posizionamento messi in scena dai protagonisti politici, facendosi appunto ancor più labile ed effimero.

Un esempio di quanto scritto è rappresentato dalle recenti dinamiche riguardanti le vicende che hanno visto protagonista il leader della Lega Matteo Salvini. L’ex Vicepremier e Ministro degli Interni, fino a prima dell’estate non aveva rivali riguardo al consenso sulla Rete, forte anche della sua efficiente macchina digitale di propaganda, chiamata dagli addetti ai lavori “La Bestia”, in grado di intercettare in tempo reale il sentiment degli elettori su specifiche tematiche, e produrre quindi contenuti funzionali ad aggregare facilmente seguaci tra persone di ogni genere ed età. Il più commentato online, Matteo Salvini aveva saputo costruire il proprio consenso sulle piattaforme dei Social network, raggiungendo una percentuale di commenti positivi da parte della propria fan-base dell’83%, il doppio rispetto alle testate giornalistiche, dove è apprezzato solo nel 43% dei commenti, con (dati a luglio 2018) 2.927.657 follower sulla sua pagina Facebook, con – solo tra fine maggio e inizio luglio – ben 439.397 post e commenti da parte dei suoi fan, un numero quattro volte superiore rispetto ai commenti pubblicati nello stesso periodo sulla fan page di Luigi Di Maio (97.998) e addirittura quaranta volte dei rispetto al profilo del Premier Giuseppe Conte (10.923).

Un anno dopo l’insediamento, la crisi di governo, e il re dei consensi sul web vede scricchiolare la propria leadeship, vittima dell’instabilità che lui stesso ha generato: sui Social, e persino sulla sua stessa pagina Facebook, da sempre emblema della sua potente forza comunicativa, viene bombardato dai commenti critici di coloro che si sono sentiti “traditi” dalle sue recenti scelte politiche.

La crisi di governo di agosto 2019 ha dato il via a un’altalena di cambi di opinione, incongruenze e colpi di scena tra i leader politici, a un ritmo così elevato da riuscire a stupire la maggior parte degli italiani, pur normalmente “assuefatti” ai cambi repentini di posizioni e alleanze dei protagonisti della politica.

Ancor più della Lega, che sulle questioni di fondo ha sempre mantenuto una cerca uniformità, patisce la mancanza di coerenza la strategia di comunicazione politica del Movimento 5 Stelle.

Il 24 giugno scorso l’Italia intera ha accolto la notizia che il nostro paese ospiterà le Olimpiadi Invernali 2026 che si svolgeranno a Milano-Cortina; l’annuncio è stato commentato con gioia da diversi membri del Movimento 5 Stelle, in primis dall’attuale Sindaca di Roma Virginia Raggi e da Luigi DI Maio; proprio dagli stessi che, avevano condotto una durissima battaglia contro le Olimpiadi nel nostro paese, lottando contro l’idea di candidare Roma per le Olimpiadi del 2024, senza considerare la scelta – condivisa con i vertici – della Sindaca Pentastellata di Torino, Chiara Appendino, di sfilarsi, pochi mesi prima, proprio dal bando olimpico. Sui social è quindi scattata subito la polemica, con tweet al vetriolo da parte di cittadini che si sono scagliati contro i vertici del Movimento, segnalando l’apparente incoerenza dei Grillini.

Anche l’alleanza tra il M5S e PD ha sconcertato l’Italia del web: a diventare virale, in questo caso, è stato un video di Luigi Di Maio che il 18 luglio scorso (poco più di un mese prima dell’alleanza) smentiva perentoriamente ogni tipo di coalizione col PD: “Io col partito di Bibbiano non voglio avere nulla a che fare”, affermava il Vicepremier dell’allora governo gialloverde. E ancora: “Col partito che in Emilia Romagna toglieva alle famiglie i bambini con l’elettroshock per venderseli, io non voglio avere nulla a che fare e sono stato quello che in quest’anno ha attaccato di più il PD di quanto lo abbiano fatto tutti gli altri partiti”.

Interessante anche citare il caso della vicenda legata ai limiti dei mandati per i cittadini impegnati in politica: “Il mandato zero è un mandato, il primo, che non si conta nella regola dei due mandati, cioè un mandato che non vale”, asserisce Luigi Di Maio, capo politico del Movimento 5 Stelle, durante il video tutorial postato sul Blog delle Stelle. Un vero e proprio parossismo, quello del “mandato zero”, che ha suscitato naturalmente una moltitudine di sentimenti e reazioni composite, comprese all’interno del vasto spettro emozionale che va dallo sconcerto all’ilarità. Anche il co-fondatore del partito Beppe Grillo commenta sarcastico su Twitter: “Il mandato ora in corso è il primo di un lungo viaggio…ma di andarmene a casa non ho proprio il coraggio…”, scrive Beppe Grillo su Twitter, parafrasando «Se mi lasci non vale» di Julio Iglesias.

Il Leader del M5S Luigi Di Maio nel 2013 su Facebook scriveva: “L’F35 non è nient’altro che un costosissimo e ipocrita Reddito di Cittadinanza: compriamo aerei inutili perché una parte dei componenti venga prodotto negli stabilimenti italiani per dare lavoro a fabbriche sull’orlo del baratro?” Qualche anno dopo, 26 ottobre 2018, Angelo Tofalo afferma: “M5S è da sempre contrario ai caccia F35, ma si tratta di un programma partito nel 1998 e sarebbe irresponsabile interromperlo ora”. E aggiunge: “Questo governo non ha ancora cacciato un solo euro, tutti gli ordini sono stati fatti dai governi precedenti”, a dimostrazione che i Pentastellati paiono ora non avere intenzione di rinunciare all’acquisto dei nuovi velivoli che farebbero parte della difesa aerea di stato; ma la colpa è sempre “di qualcun altro”. E nonostante sia impazzata la solita bufera sui social in cui gli elettori e diversi utenti hanno commentato aspramente le affermazioni del Sottosegretario alla Difesa sulla sua pagina Facebook: “Ho votato M5S anche per il taglio alle spese militari, se diventate favorevoli agli F35 siete solo dei voltagabbana”, mentre il 6 ottobre scorso il Premier Conte ha confermato l’acquisto degli F35 dichiarando: “Saremo fedeli ai patti” e impegnandosi di rispettare gli accordi presi sull’acquisto dei novanta jet da guerra dagli USA.

Al di la di ogni valutazione di tipo politico, che esula dalla nostra analisi, tecnicamente, sotto il profilo della gestione della reputazione, tutto ciò non può che generare un’inevitabile crisi sistemica del mondo della politica: infatti, al di la delle legittime preferenze partitiche di ognuno,  l’appeal dei brand politici sull’elettore medio è oggi più basso che mai.

Quali le cause? Mentre le aziende corrono velocemente sul sentiero da tempo tracciato dell’enfatizzazione virtuosa dei valori, il mondo della politica pare sgretolarsi sotto la pressione dei risultati a breve termine; i leader politici, e le loro strategie, sembrano poggiarsi su valori che cambiano a ritmo giornaliero, che mutano continuamente in base a specifiche convenienze.

La verità – che in parte risponde alla domanda iniziale – è che i politici italiani non godono di una buona reputazione: una realtà non solo riscontrabile da un’analisi empirica, ma assodata, in quanto documentata e misurabile. Secondo l’Osservatorio permanente sulla reputazione digitale dei Ministri di Reputation Science, società che si occupa dell’analisi e della gestione della reputazione sul web, e che nell’ultimo anno ha monitorato costantemente la percezione online degli utenti nei confronti dei protagonisti della nostra storia, ovvero i politici del governo gialloverde, la reputazione dell’ex Ministro Salvini è significativamente in calo; al contrario la reputazione “dell’avvocato degli italiani”, il Premier Conte, pur più paludato e meno polarizzante, sembra rafforzarsi lentamente, compiendo un “sorpasso reputazionale” su Salvini, ex star della rete.


Sono passate poche settimane da quando la Corte Costituzionale ha sentenziato un’apertura storica al suicidio assistito, con la sentenza del caso di Marco Cappato e Fabiano Antoniani, sentenza che è stata commentata a caldo da Salvini con parole critiche verso la decisione presa dai giudici: “Sono e rimango contrario al suicidio di Stato imposto per legge”.

A prescindere dal fatto che – come risulta chiaro a qualunque persona di buon senso – aprire a un diritto, che resta comunque un opzione, non significa in alcun modo vincolare tutti “imponendo” una soluzione in modo indistinto, l’ex Ministro dell’Interno pare voler affermare inequivocabilmente con questa frase che la sua posizione sia sempre stata la stessa; ma il mondo del web ci offre un archivio permanente nel tempo, costellato dai cinguettii e post di tutti, compresi i politici, che a volte però paiono dimenticare le loro stesse affermazioni.

Salvini infatti sembra aver cambiato idea dal febbraio 2017, quando dj Fabo morì in una clinica in Svizzera, e l’ex VicePremier invocava il diritto di scelta per ogni cittadino, affermando in un post di Facebook: “Dolore, rispetto e una preghiera per la morte, e per la nuova vita, di Dj Fabo. Garantire la libera scelta di ogni cittadino, ma soprattutto assicurare una vita dignitosa a chi invece vuole continuare a combattere e ai suoi familiari: questo dovrebbe fare un Paese serio, cosa che oggi l’Italia non è”.


Cambiare idea è legittimo, ma possibile non ricordare ciò in cui si credeva e che si affermava appena due anni prima? La violazione di uno dei tre pilastri del Reputation management, la già citata coerenza, appare più che evidente.
Stessa cosa si potrebbe dire per determinate scelte del PD, alle prese con delicati equilibrismi valoriali pur di scendere a patti con il Movimento 5 Stelle su varie tematiche nell’agenda del nuovo governo Giallorosso.

In quella che appare sempre più come una campagna elettorale permanente nella quale i nostri politici paiono coinvolti, lo switch sui valori, declinati in modo sempre più aleatorio, disillude il pubblico e, naturalmente, compromette la reputazione dei decisori, impegnati in equilibrismi tra alleanze improbabili e la scelta di abbracciare oggi ciò che solo ieri si criticava aspramente o viceversa.

E ad aiutarci a ricordare ciò che i nostri politici hanno affermato nel corso della loro carriera sono, ancora una volta, i Social ed il mondo del web: il trasformismo pare essere una caratteristica irrinunciabile nella politica italiana di oggi, incapace di costruire un Lovemark degno di questo nome.

Coerenza versus opportunismo: la tomba della reputazione politica

Le aziende scelgono la strada dell’impegno nella costruzione di una narrazione funzionale a generare buona reputazione nel medio-lungo termine; la politica si muove in modo opposto, probabilmente nel tentativo di accaparrarsi facili consensi, e il sintomo più allarmante di questa malattia sistemica, che in un’intervista l’economista Stefano Zamagni definì “shortermismo”, lo riscontriamo nel pericoloso calo di adesione e di protagonismo dei cittadini alla vita pubblica: la percentuale di astensionismo alle ultime elezioni ha infatti raggiunto nuovi record, con il 43,7% degli italiani – oltre 21,5 milioni di persone – che nelle ultime elezioni europee 2019 hanno scelto di non esercitare il proprio diritto al voto. Tra chi non si reca alle urne per protesta, e chi perché non si sente rappresentato adeguatamente dalle varie proposte politiche, il gap tra cittadini e gli uomini politici si fa più ampio che mai.

La politica ha tutti gli strumenti per identificare, monitorare, comprendere quali sono le aspettative e le esigenze dei cittadini, qui ed ora, grazie alle nuove tecnologie in grado di monitorare il sentiment del pubblico sulle diverse piattaforme Social, ed usa questi strumenti per raccogliere una miriade d’informazioni e di dati sulle aspettative ed i desideri degli elettori, informazioni spesso inquinate da bias potenzialmente distorsivi; questi dati vengono poi utilizzati per “adattare” costantemente la propria comunicazione ai desiderata del pubblico e per apparire in sintonia con gli umori prevalenti.

Occupare velocemente lo spazio mediatico, intervenendo per primi sulla notizia del giorno, polarizzare tutta la discussione, lanciare messaggi forti, estraendo dall’opinione pubblica sentimenti come rabbia paura e aggressività, i cosiddetti “sentimenti negativi”, funzionali a catturare il consenso di coloro che ascoltano: queste sono le caratteristiche di una strategia di comunicazione politica che brucia il proprio capitale reputazionale, quel poco che ne resta, sull’altare del consenso immediato.

La reputazione è un asset che si costruisce nel tempo assieme ai propri pubblici, per durare nel tempo, ed essere “scambiata” con una più ampia licenza di operare.
Le imprese in questi anni si sono evolute e sono cresciute anche sfruttando con intelligenza le opportunità offerte dal mondo della Rete: la scelta dei politici di ignorare sistematicamente queste best practices sta scavando all’interno del sistema politico italiano, danneggiandolo, e riducendone potenzialità ed efficacia.

Autenticità, coerenza, comunicazione di valori conformi alla propria identità, creazione di strategie di brand reputation a medio-lungo termine, capacità di saper prevenire scenari futuri di crisi reputazionale e propensione ad assumersi le proprie responsabilità. Queste sono sei tra tra principali best practices da seguire per tutelare al meglio la propria reputazione, e questo è ciò che la politica italiana può imparare dal moderno contesto aziendale.

Il pubblico, assuefatto dall’altissima dose di populismo politico, che ogni giorno si fa più intensa, sta però forse iniziando, lentamente, a svegliarsi dal più che ventennale torpore nel quale era piombato, e a osservare la realtà con più giudizio critico, sempre meno disponibile a “firmare un assegno in bianco al politico di turno”.
Così come la nostra piccola Alice scelse di tornare nel mondo reale, sfuggendo all’incoerente e stralunato Paese delle meraviglie, cosa accadrà al mondo della politica professionistica quando i cittadini apriranno definitivamente gli occhi?

MOSE: un caso esemplare

Infine, come non citare la grande opera per eccellenza degli ultimi anni, il MOSE? Insieme alle case, con l’acqua alta nella città di Venezia ad “affogare” è anche la coerenza comunicativa del Movimento pentastellato.

Il giorno seguente all’ultima alluvione che ha messo a rischio la bellissima città di Venezia, il Ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, ospite a Coffee Break su La 7 ha dichiarato che «il Governo vuole terminare quest’opera il prima possibile, io l’ho visitata più volte, è un’opera fondamentale per salvare Venezia ed occorre togliere qualsiasi tipo di alibi sul funzionamento o meno». Il ministro ha svelato inoltre le intenzioni del governo che «vuole dare un segnale velocissimo» sul MOSE per occuparsi nell’immediato delle necessità della città attraverso il sistema di dighe mobili che potrebbe salvare Venezia da eventi come quelli delle scorse settimane.

L’intervento di D’Incà, è però totalmente contraddittorio con ciò che lui stesso – in accordo con la linea sostenuta dal M5S – dichiarava nel 2015. Il ministro D’Incà infatti figurava tra coloro che negli anni scorsi hanno combattuto e si sono espressi negativamente contro il progetto MOSE. Ancora una volta è il Social Network Facebook a ricordarci le parole dell’allora deputato del M5S che definiva il progetto MOSE come di «totale inutilità».


Non occorre scorrere molto indietro nel feed di Facebook per ritrovare i post in cui il movimento pentastellato definiva l’opera MOSE «”un progetto tecnicamente e complessivamente sbagliato”, andato avanti senza confronti con altri modelli» proponendo diverse soluzioni alternative al problema veneziano (nonostante il progetto fosse già al 86% del suo completamento).


Oggi, solo quattro anni dopo queste affermazioni, il M5S capovolge la sua linea di pensiero dichiarando che il MOSE è un progetto che va terminato al più presto possibile. Che cosa ne è stato delle motivazioni che spingevano il Movimento di Beppe Grillo a lottare contro il progetto per la salvaguardia della città veneziana, etichettandolo addirittura come “inutile”? Che siano finite sotto l’acqua?

Lesson not learned, per il Movimento Cinque Stelle, che persevera nel terribile errore di non far proprio il valore imprescindibile della coerenza.

Aggiornamento: dopo i tragici risultati delle ultime Europee (il Movimento Cinque Stelle in maggio passò dal 32% al 17%, con un consenso dimezzato in termini relativi, 6 milioni di voti persi su 10 in assoluto), e la disfatta delle elezioni amministrative in Umbria, con il consenso attestato al 7%, questo articolo torna di forte attualità. Quando la direzione comunicazione del Movimento farà proprio il valore assoluto della coerenza, che è uno dei pilastri fondamentali di ogni strategia finalizzata a costruire buona reputazione…?

 Bibliografia/sitografia

Edit 28/10/2019 h 11:23




Perché Diesel festeggia la perdita di 14mila follower su Instagram

Perché Diesel festeggia la perdita di 14mila follower su Instagram

L’account Instagram del marchio d’abbigliamento Diesel perde 14mila follower per alcune immagini a sostegno del Pride e della comunità lgbt+. Ma ha guadagnato il supporto di altro


Diesel perde 14mila follower su Instagram e li ringrazia con un post. Normalmente, le regole dei social media marketing insegnano che sia buona norma ringraziare i nuovi follower e celebrare traguardi come i 100, 1.000 o 10mila iscritti. Il marchio d’abbigliamento ha però stravolto queste regole festeggiando la fuga di massa dopo che, sul proprio account Instagram, ha pubblicato una serie d’immagini per celebrare il mese del Pride e la comunità lgbt+ con una collezione ispirata ai colori dell’arcobaleno.
 

Sosteniamo con orgoglio i nostri valori da oltre 40 anni e crediamo nel Pride. Per coloro che non lo fanno, inclusi i 14.000 followers che ci hanno lasciati nell’ultima settimana… addio! Per coloro che condividono le nostre opinioni e i nostri valori, celebriamo il fatto che l’amore è amore. Sempre”. Così recita il post di ringraziamento per i 14mila utenti che hanno deciso di non seguire più il profilo della Diesel.

Diesel conta oltre i 2,1 milioni su Instagram. Dopo aver letto il post di ringraziamento ai follower che hanno abbandonato la pagina, sui social network molti utenti hanno espresso solidarietà e sostenuto la campagna di Diesel.




Csr: le imprese italiane investono, ma servono marchio e incentivi

Rapporto Csr in Italia, migliorano la reputazione aziendale e il clima interno


Investire sulla Responsabilità sociale conviene, soprattutto se le buone pratiche vengono condivise con i dipendenti, mettono radici all’interno dell’impresa e viaggiano parallelamente al business. In questi ultimi due anni quasi tutte le aziende italiane che hanno fatto Csr (Corporate Social Responsibility), investendo complessivamente circa 1 miliardo e mezzo di euro solo negli ultimi 12 mesi, si dichiarano molto soddisfatte dei risultati raggiunti (97%). E l’85% ritiene che le politiche di Csr rendono l’impresa “più attrattiva e affidabile in termini di accesso al credito e come possibile oggetto di investimenti”.
Lo rileva l’ottavo Rapporto sulla Csr in Italia dell’Osservatorio Socialis, presentato all’Università di Milano-Bicocca. Delle 400 aziende campione, l’85% dichiara di impegnarsi in Csr (era il 42% nel 2001) e tra queste il 52% lo farebbe con maggiore costanza se avesse un marchio ad attestarlo, come pure l’emanazione di una norma che dia la possibilità di ottenere detrazioni fiscali sarebbe un incentivo alla stabilizzazione degli investimenti, auspicata dal 50% del campione.
Il primo vantaggio riconosciuto alla Csr è sul fronte del mercato: oltre il 50% delle imprese che ha investito in Csr ha rilevato un miglioramento del posizionamento, della reputazione e anche un aumento della notorietà; in quasi 4 casi su 10 si è riscontrato un aumento della fidelizzazione dei clienti. Tra i terreni di maggiore investimento, dichiarati dalle aziende impegnate in Csr, rientrano il coinvolgimento dei dipendenti, l’attenzione all’ambiente, la lotta agli sprechi, l’ottimizzazione dei consumi energetici e il ciclo dei rifiuti.
Il 49% delle imprese riconosce l’efficacia della Csr nell’agevolare i rapporti con le comunità locali e, in seconda battuta, con le pubbliche amministrazioni. Aumentano, pure solo in linea tendenziale, anche le ricadute positive sul clima interno all’azienda: il 44% registra un miglioramento del clima ed un maggior coinvolgimento del personale.

Ormai l’85% delle imprese italiane (con più di 80 dipendenti) si è dotata di un codice etico. L’87% ne ha almeno sentito parlare. I valori fondanti di un buon comportamento sociale dell’impresa riguardano essenzialmente la trasparenza (63%), la salvaguardia dell’ambiente (61%) e, con qualche distanza, il tema dell’uguaglianza e della tutela delle diversità (42%) della protezione della salute (40%) e la tutela dei dipendenti (38%). Il 54% delle imprese redige un bilancio sociale e il 65% predispone un bilancio di sostenibilità aziendale (il 34% fa entrambi i documenti).




Benetton: l’incompetenza che distrugge valore (e crea dolore)

Benetton Autostrade

Non serve spendere molte parole, per richiamare alla memoria la tragedia di Genova: basta dire “Ponte Morandi”,e il dolore e lo sgomento – a poco più di un anno dal disastro – si riacutizzano immediatamente. Per chi volesse comunque rinfrescarsi la memoria sulle varie fasi della pessima gestione di quella crisi da parte dei Benetton e di Autostrade Per l’Italia, ne ho scritto in questo articolo.
 

Le reazioni dei manager di Autostrade e della famiglia Benetton

Il silenzio della famiglia Benetton in occasione del disastro – peraltro contrario a qualunque buona prassi di crisis management – non è stato d’aiuto, né ha generato empatia nei confronti della ricca famiglia di imprenditori Veneti: il confine tra (presunta) riservatezza e disinteresse è infatti assai labile. “Il silenzio delle prime ore? Un segno di rispetto”, secondo l’intervista rilasciata a tutta pagina al Corriere della Sera, quando probabilmente più del rispetto poterono gli interessi degli azionisti, e la famiglia decise di rompere, appunto, il silenzio.
A peggiorare lo scenario, la festa tenuta dai Benetton a Cortina il 14 e 15 agosto, a poche ore dalla tragedia, e giustificata maldestramente da un’amica di famiglia invitata quella sera: “Mettetevi nei loro panni, c’erano ospiti che arrivavano dall’estero, come potevano annullare tutto?”
Poi, agli inizi del mese di ottobre 2018, un ulteriore incredibile aggiornamento, che riportavo così sul mio Blog “C’è un limite alla mediocrità del management dei grandi gruppi italiani? L’indagine della Guardia di Finanza successiva al disastro di Genova sta dipingendo uno scenario a tinte più fosche del previsto: passando al setaccio una trentina di cellulari di utenze intestate sia ad Autostrade per l’Italia che al Ministero delle Infrastrutture, è risultato evidente come vari scambi di comunicazioni – sia email che WhatsApp – fossero presenti solo da una parte, laddove avrebbero dovuto essere esattamente speculari tra mittente e ricevente. Uno speciale software ha confermato sia la cancellazione dei messaggi, che la data di originale invio (mesi e mesi fa), che il fatto che l’intervento doloso di “auto-censura” risale a dopo il disastro. Cosa si è voluto nascondere? E cosa è andato perduto, oltre alla dignità di questi manager?
Successivamente, i giornali hanno portato l’attenzione su come nessuna delle figure maggiormente coinvolte nell’inchiesta abbia risposto alle domande dei Magistrati: tutti i principali indagati si sono infatti avvalsi della facoltà di non rispondere, inclusi i dirigenti tecnici di Autostrade responsabili del tronco oggetto del disastro. Certamente, una facoltà garantita dal nostro Codice Penale, ma nel contempo un intralcio deliberato sulla strada della definizione di un quadro di verità, intralcio che suona ingiurioso verso le 43 vittime della tragedia e le loro famiglie.
 

Non basta: un nuovo scandalo per Autostrade per l’Italia, e una tragedia sfiorata

Ora, incredibile a dirsi, nuovi sconcertanti sviluppi: in un anno, nulla pare essere cambiato nelle male pratiche di questo importante gruppo imprenditoriale italiano, nonostante la tragedia, nonostante i morti. Come riportato dai mass-media, infatti, la Procura di Genova ha disposto 9 misure cautelari in relazione a presunti report di sicurezza falsificati dai funzionari della concessionaria SPEA (gruppo Atlantia), su due distinti viadotti. “Non è possibile una superficialità così spinta dopo il 14 agosto” (data della tragedia del ponte Morandi, ndr). A parlare è Andrea Indovino, addetto all’ufficio Controlli Strutturali di Spea Engineering, controllata dai Benetton. Indovino ha dubbi sulla stabilità del viadotto Pecetti sulla autostrada A26 (Genova – Gravellona Toce), in relazione al passaggio di un trasporto eccezionale previsto per il 21-22 ottobre 2018, e quando si trova a redigere la relazione esprime tutte le sue perplessità alla responsabile della sorveglianza dell’Ufficio Tecnico Sorveglianza Autostradale di Genova. “Vuol dire che la gente coinvolta non ha capito veramente un cazzo”. Il falso report – da quanto riportano le cronache – doveva servire a garantire il passaggio di un trasporto eccezionale da 141 tonnellate su un viadotto potenzialmente a rischio. “Più andiamo oltre, più rosicchiamo margini di sicurezza – aggiunge Indovino – e quello è un viadotto che ha delle problematiche”. Ma “il mittente che c’è dietro è pesante” (Autostrade per l’Italia, ndr) e quindi si decide di procedere. A quel punto, secondo l’indagine, Maurizio Ceneri, responsabile dei controlli di Spea Engineering, ha compilato un documento che attestava falsamente la perdita di sicurezza del viadotto al 18%, a fronte di quella reale del 33%, permettendo così il passaggio del trasporto eccezionale. Passaggio che molto probabilmente ha fatto vivere una notte assai agitata alle persone coinvolte, ma che poi è andato a buon fine, evitando così un nuovo disastro, a pochi mesi da quello, tragico, di Genova.
A seguito di questi fatti, Atlantia, la holding dei Benetton, ha sospeso i dipendenti coinvolti nel nuovo scandalo, e ha diramato uno scarno comunicato nel quale annuncia che “Prenderà senza esitazione e nell’immediato tutte le iniziative doverose e necessarie, anche a salvaguardia della credibilità, reputazione e buon nome dei suoi azionisti e delle aziende controllate e partecipate”. Che è – evidentemente – la cosa che più interessa al top management del gruppo.
 

Cambio al vertice in API: ma tardi, e con paracadute d’oro

Inoltre, nel Consiglio di Amministrazione del 17 settembre 2019, gli azionisti e l’Amministratore Delegato Giovanni Castellucci hanno raggiunto un accordo per le dimissioni di quest’ultimo, liquidato con oltre 13 milioni di euro. Inoltre, confermano le cronache “…per qualsiasi giudizio civile, penale o amministrativo che dovesse coinvolgere Castellucci, anche dopo la cessazione dei rapporti, in relazione all’attività resa in esecuzione dei medesimi, ogni onere relativo, anche per indennizzi e risarcimenti e per spese legali e peritali, sarà a carico della Società”. In considerazione del valore distrutto dall’inettitudine del management del gruppo, incapace di vincere la sfida costituita dalla gestione di queste tragiche e delicate vicende, avrei francamente – più appropriatamente – proposto un’azione di responsabilità: ma si sa, come per i nostri amici a 4 zampe, vale il detto “tale manager, tale padrone”; tutti d’amore e d’accordo nel creare pregiudizio all’azienda a causa della loro imperizia.
Da ricordare che per le famiglie rimaste senza casa per il crollo del Ponte Morandi Atlantia stanziò inizialmente una media di 10.000 Euro a testa, cifra risibile se paragonata all’oltre 1 miliardo di utile annuale della società. Franco Ravera, presidente dell’associazione ‘Quelli del ponte Morandi’, ha commentato: “Potevano agire diversamente, leggere quelle cifre fa tanta rabbia. Andava fatta una valutazione morale, non si può fare finta che il 14 agosto 2018 non sia successo nulla. La cosa che fa più male è ripensare agli incontri con Autostrade avvenuti subito dopo il 14 agosto, alle scuse mancate, e all’indisponibilità a dialogare con noi”, ha concluso Ravera.
Una storia peraltro già vista in occasione dei Dieselgate Volkswagen, dove l’AD – che secondo molti qualificati osservatori non poteva non sapere delle truffe legate alla manomissione dei report sulle emissioni nocive in atmosfera – venne dimissionato con una liquidazione monstre da quasi 60 milioni di Euro: il top management delle grandi corporation non paga quasi mai, quale sia il disastro, e a prescindere dal numero di morti.
 

Gestione della comunicazione… o etica?

Un collega che stimo, riflettendo sulla gestione di Autostrade, ha scritto: “A ben guardare le decisioni prese da Edizione ed Atlantia nel corso delle ultime 72 ore giungono 400 giorni in ritardo. La discontinuità auspicata oggi dalla famiglia Benetton e l’audit interno affidato a consulenti esterni da parte di Atlantia avrebbero dovuto essere la naturale conseguenza del drammatico crollo del Ponte, e una delle prime azioni di crisis management adottate da Atlantia. La riorganizzazione delle società operative con la nomina di nuovi dirigenti e l’avvio di una fase rigorosa di audit interno di tutte le società controllate avrebbero probabilmente evitato che le società del Gruppo finissero nuovamente nell’occhio del ciclone. Difficile infatti difendersi dall’accusa mossa dalla Procura di Genova che ‘dopo la tragedia di Genova i tecnici di Autostrade e Spea hanno continuato a ammorbidire i risultati delle misurazioni sullo stato di salute dei tratti in questione’, senza poter dimostrare di aver intrapreso azioni di governance che lo potessero evitare”.
Tutto corretto. Ma alla luce di questa carrellata di atteggiamenti e comportamenti irresponsabili, irriguardosi verso la sicurezza dei cittadini, e soprattutto pervicacemente reiterati, occorre interrogarsi nel profondo, a mio avviso, non solo sotto il profilo tecnico, ovvero circa il mancato rispetto delle più elementari norme di crisis management, quanto piuttosto sulle cause remote alla base del problema: a mio avviso, la cultura aziendale propria di questo colosso delle concessioni pubbliche.
 

Benetton e Autostrade: persistere nel distruggere valore

L’Università di Harvard ha – già da anni, inascoltata – messo la pietra tombale sulla presunta alternativa “etica versus profitto”, spiegando e documentando scientificamente che l’introduzione di preoccupazioni etiche nel business a livello strategico incrementa il valore medio della capitalizzazione di borsa delle aziende del 25 per cento. É sconcertante come una famiglia d’imprenditori dallo straordinario pedigree come i Benetton non abbia ancora fatto propri questi concetti, e soprattutto non si sia posta concretamente – negli ultimi lunghi 12 mesi, con tutto ciò che è successo – il problema di indagare nel profondo e con urgenza il tema della cultura d’impresa all’interno della propria azienda. Perché la mancanza di etica ha un prezzo, per le aziende, eccome: ne scrivevo proprio di recente.
A conferma di ciò, è bene ricordare che già la vicenda del crollo del viadotto Polcevera fu un bagno di sangue per gli azionisti dell’azienda, e ora la nuova inchiesta giudiziaria ha causato altre perdite per quasi il 20% della capitalizzazione di borsa della società. Buonuscita dell’AD Castellucci a parte, i numeri ufficiali sulle spese sostenute finora dalla concessionaria autostradale sono scritte nero su bianco nella relazione annuale 2018 della “casa madre” Atlantia, e poi nella semestrale del 30 giugno 2019: “Nel corso del primo semestre 2019 sono stati effettuati ulteriori accantonamenti pari a 6 milioni di euro correlati essenzialmente ai risarcimenti agli eredi delle vittime e ai feriti, portando l’onere complessivo a 513 milioni di euro”. Soldi persi dai Benetton, certo, ma anche da tutti gli investitori, istituzionali, privati e piccoli azionisti, che nella loro gestione avevano riposto fiducia.
Ora, novelli Luigi XVI, apparentemente incuranti di tutto ciò che è accaduto e di quanto di vergognoso sta ulteriormente emergendo in queste settimane, la dinastia di imprenditori trevigiani continua a fare affari e contratta per preparare l’ingresso in Alitalia, così da soddisfare i politici che hanno volto lo sguardo a Treviso per pietire interesse (e soldi). Ma attenzione, perché la Torre del Tempio e Place de la Concorde potrebbero essere dietro l’angolo.
 

Post scriptum

Al ridicolo non c’è mai fine: grazie alla magia degli algoritmi che posizionano automaticamente le ADV online, in calce a vari articoli sul nuovo scandalo che ha colpito Autostrade per l’Italia, trovate la pubblicità che vedete nello screenshot qui sotto. “Colorata e divertente”, dice Benetton: si riferisce forse alla propria gestione delle concessioni autostradali? Possibile che l’azienda sia incapace di “modulare” il proprio marketing sulla base della situazione ambientale? È il senso della prima lezione del corso universitario in Reputation management, lo capiscono anche i discenti, e hanno 18 anni…

Pubblicità Benetton
Il Fatto Quotidiano – articolo sullo scandalo del Viadotto Pecetti, 2019-09-22 alle 01.13

 

Aggiornamento (ottobre 2019)

I mass-media denunciano cosa sarebbe accaduto in Atlantia prima del crollo del Ponte Morandi: “Risparmiamo, ora arrivano i Cinesi”, ovvero manutenzioni al ribasso sulla rete autostradale per compiacere i nuovi soci in ingresso nel gruppo. Più della metà del pacchetto azionario del Benetton (6,97%) è acquistato da un consorzio guidato dai tedeschi di Allianz Group, l’altra metà è ceduto a Silk Road Fund, fondo sovrano cinese. L’iniezione di liquidità – che porta nelle casse del colosso controllato dai Benetton 1,48 miliardi – apre a un’altra mega-fusione, con l’avvio delle grandi manovre per l’acquisizione della società spagnola Abertis. “Devo spendere il meno possibile… sono entrati i tedeschi, a te non te ne frega un cazzo ma sono entrati anche i cinesi… devo ridurre al massimo i costi… e devo essere intelligente de portà alla fine della concessione… lo capisci o non lo capisci?”, dice un dirigente le cui esternazioni venivano registrate da un collega. Per i Giudici che nelle scorse settimane hanno firmato gli ordini di arresto per altri tecnici accusati di aver falsificato l’esito di varie ispezioni, “emergono con prepotenza le logiche commerciali sottese agli interventi manutentivi”. I dirigenti del gruppo Atlantia intervengono in modo esplicito sulla sicurezza delle infrastrutture pubbliche, chiedendo ai tecnici di rivedere al ribasso le valutazioni di rischio su alcuni viadotti: “Che sono tutti ’sti 50 (il numero indica un coefficiente di rischio, più alto è, e più urgenti sono le manutenzioni da eseguire, ndr)? Me li dovete toglie… Adesso riscrivete”. Atlantia – in risposta a questo nuovo vergognoso scandalo – dichiara “di aver avviato un audit interno”. Con calma: tanto le persone sono già morte, non c’è fretta. Armatevi di altrettanta calma e pazienza, Voi lettori, e scaricatevi il Codice etico di Atlantia (Gruppo Benetton): leggerete parole chiave importanti come “legalità, onestà e correttezza”, “integrità”, “lealtà e buona fede”, “trasparenza”, “rispetto delle persone”, “sicurezza, salvaguardia della salute e delle condizioni di lavoro”, “benessere economico e crescita della comunità”. Nel Codice etico si legge anche che esso “responsabilizza coloro che, a vario titolo, hanno rapporti con il Gruppo Benetton in ordine all’osservanza di detti principi, e che il gruppo nella gestione degli affari si impegna ad agire nel rispetto dei principi di correttezza, qualità e liceità ed operare con la diligenza professionale o del buon padre di famiglia”. Se non parlassimo, purtroppo, di un’incredibile tragedia, ci sarebbe da ridere…
 

Aggiornamento (dicembre 2019)

“Sulla sicurezza mi sembra che ci sia qualcosa che non funziona. Questa tabella avrebbe meritato un approfondimento”. Sono le parole di Alberto Selleri, responsabile della direzione realizzazione delle nuove opere di Autostrade, ingegnere di punta della società, che molti media riportano dal quotidiano La Stampa, che ha ottenuto copia di parte dei verbali delle audizioni alla Commissione di inchiesta del Ministero delle Infrastrutture sul Ponte Morandi, convocata dopo il disastro del Ponte Morandi a Genova. Quella di Selleri è una vera e propria voce fuori dal coro, afferma il giornale piemontese, che smentisce gli altri dirigenti di Autostrade. In Commissione, l’Ing. Selleri è infatti intervenuto in merito alla tabella di valutazione sismica e ai coefficenti di sicurezza del progetto Morandi, che gli sono stati mostrati dalla Commissione: la tabella, dice, è piena di “errori madornali che sarebbero accettabili forse su un ponticello su un ruscello”. “Mi sembra assurdo. Non so cosa dire. In effetti qui sembra qualcosa che riguarda un ponticello…”, dice commentando i coefficienti di sicurezza del progetto, che ritiene “ottimisticamente sovrastimati”. Giovanni Castellucci, all’epoca Amministratore delegato di Autostrade, liquidato come abbiamo scritto con una buonuscita pluvi-milionaria, dinnanzi alla stessa Commissione negò una particolare esigenza di sicurezza riguardo al Ponte Morandi, rimandando per approfondimenti e pareri tecnici a Paolo Berti, a quel tempo Direttore centrale operativo, numero tre dell’azienda, il quale però in audizione – evidenzia La Stampa – inanellò a sua volta una ventina di “non so” e “non ricordo”. 

Sorprendentemente, alcuni giorni fa Luciano Benetton (84 anni, patron del gruppo) è intervenuto con una lettera a pagina intera sul Corriere della Sera, nella quale si è lamentato per quella che ha definito “una campagna d’odio” ai danni della famiglia e delle società del gruppo, che a suo dire avrebbero “commesso degli errori”: “è inaccettabile la veemenza con la quale veniamo accusati”, lamenta l’imprenditore trevigiano, che dice di essere “colpito e sorpreso” dal comportamento del manager del gruppo. Ammette tuttavia – a margine, lei che del gruppo Atlantia è azionista di maggioranza – di aver “avvallato un management che si è rivelato non idoneo”. Ma non perde l’occasione per “sgridare” i mass-media, che dovrebbero, a suo dire, trovare un linguaggio “più adatto per trattare questo argomento”, e le istituzioni, che dovrebbero essere “più serie”.
E’ anche un po’ piccato, il Signor Benetton, capite? Al punto da tenere lezioni. Se non fosse vero, parrebbe una barzelletta.
 

Aggiornamento (dicembre 2019)

I sostegni degli stralli a sud che sembrano aver ceduto per primi sono gli stessi su cui un professore di ingegneria strutturale del Politecnico di Milano, Carmelo Gentile, aveva notato preoccupanti segni di corrosione o altri possibili danni durante dei test effettuati lo scorso ottobre.

Riporta il New York Times in un approfondito dossier sulla tragedia, di cui consigliamo la lettura.

 

Il professor Gentile avvisò il gestore del ponte, Autostrade per l’Italia, che secondo il professore non fece mai seguito alla sua raccomandazione di eseguire un accurato modello matematico e attrezzare il ponte con sensori permanenti.

“Probabilmente hanno sottovalutato l’importanza dell’informazione”, ha detto il professor Gentile in un’intervista.

Autostrade non ha mai negato le conclusioni del professor Gentile, ma ha ribadito che nessuno aveva ravvisato elementi di urgenza. In un comunicato, la società ha precisato che i suggerimenti del professor Gentile erano stati inclusi nel progetto di retrofitting del viadotto approvato a giugno, e ha accusato il Ministero delle Infrastrutture di mesi di ritardo nell’autorizzazione dei lavori.

 

Aggiornamento (novembre 2020)

Giovedì 12 novembre 2020 – finalmente – la giustizia ha fatto ben parlare di se con l’arresto dell’ex Amministratore delegato di Autostrade per l’Italia e Atlantia, Giovanni Castellucci, ed altri manager di vertice del gruppo italiano. Paola Faggioni, il giudice che si sta occupando del dossier, ha a tal proposito dichiarato in modo inequivoco: “Sono state accertate gravi condotte criminose legate a una politica imprenditoriale volta alla massimizzazione dei profitti derivanti dalla concessione dello Stato, mediante la riduzione e il ritardo delle spese necessarie per la manutenzione della rete autostradale, a discapito della sicurezza pubblica”. Prima del disastro del ponte Morandi, evento per certi versi tristemente annunciato, i manager si scambiavano messaggi su Whatsapp sull’evidente stato di irrimediabile corrosione dei cavi, messaggi poi infantilmente e criminalmente cancellati dalle chat. Ora all’AD Castellucci (del quale trovate un intrigante ritratto qui) si vede revocare la sontuosa liquidazione milionaria che senza esitazione l’azienda controllata dalla famiglia Benetton – che porta sulle spalle la responsabilità se non altro morale per quanto accaduto – gli aveva riconosciuto in occasione delle Sue dimissioni, dopo il disastro di Genova: se non ci fossero 43 morti, e non fosse una vicenda quantomeno tragica, parrebbe un romanzo di quart’ordine.. (to be continued)

 

Edit il 29/12/2019 h 17:38
Edit il 13/12/2019 h 16:38
Edit il 13/12/2019 h. 12.29
Edit il 08/12/2019 h 15:40
Edit il 13/10/2019 h 01:15
Edit il 06/10/2019 h 18:35
Edit il 22/09/2019 h 16:55
Edit il 22/09/2019 h. 11.49
Edit il 22/08/2019 h. 15.15
Edit il 19/11/2020 h. 11:57
 




TESI DI LAUREA: Il ruolo della comunicazione in occasione di crisi di livello nazionale e internazionale all’interno delle organizzazioni Statuali

Libera Università Maria Assunta, Roma – Dipartimento di scienze umane
Corso di Laurea in Marketing & Digital Communication, Anno Accademico 2018 – 2019

Il ruolo della comunicazione in occasione di crisi di livello nazionale e internazionale all’interno delle organizzazioni Statuali

Tesi di Gabriella Cartone – Relatore Prof. Luca Poma

A questo link, il testo integrale della Tesi (86 pagine), qui di seguito, il testo dell’Introduzione della tesi:


INTRODUZIONE

Il presente elaborato ha come scopo lo studio e la disamina del ruolo, sempre più preminente, che ha assunto la comunicazione in occasione di crisi di livello nazionale e internazionale all’interno delle organizzazioni Statuali.

Attraverso l’utilizzo di testi storici e di materiale didattico si è voluto mostrare come la comunicazione, durante una crisi, diviene elemento imprescindibile e come l’utilizzo di una puntuale e mirata strategia di comunicazione, durante i colpi di Stato, sia un elemento centrale. Questo ha permesso di poter effettuare una lettura non scontata di questi eventi che hanno condizionato e condizionano la storia dell’intera umanità.

Il presente lavoro è strutturato in tre capitoli.

Nel primo capitolo si è analizzato l’excursus sull’evoluzione della comunicazione: dalla sua nascita, che si può riscontrare nella venuta al mondo dell’uomo, sino ai giorni nostri caratterizzati da una comunicazione tutta nuova capace di abbattere ogni barriera spazio-temporale. Il nuovo modello di comunicazione permette di ripercorrere la storia del mondo facendo intuire come quest’ultima abbia ampiamente contribuito al grande progresso che ha rivoluzionato l’intera umanità, essendo il fondamento di ogni relazione umana.

Nel secondo capitolo vengono in rilievo le diverse situazioni di crisi che possono colpire non solo un organismo statuale ma anche una situazione privata (crisi di azienda). Si sottolinea come i fattori che generano una crisi possono essere di natura economica, demografica, sociale, culturale e politica. Si evidenziano i diversi aspetti della comunicazione di una crisi pubblica e come questi possono essere paragonati a quelli di una crisi aziendale con particolare attenzione anche alla comunicazione del rischio che permette di intuire e risolvere i momenti ostici.

La comunicazione è un’attività importante capace di dare un contributo al processo di organizzazione e di pianificazione. Questa non è solo una semplice diffusione di informazioni bensì è la chiave in grado di creare relazioni al fine di superare i momenti di conflitto che caratterizzano le situazioni di crisi. Appare, dunque, evidente come la pianificazione e la comunicazione viaggiano insieme al fine di affrontare al meglio le crisi in modo da uscirne vittoriosi e non rimanerne vittime.

Il terzo e ultimo capitolo si incentra su diversi colpi di Stato avvenuti nel corso della storia, concentrandosi sull’importante compito che ha avuto la comunicazione durante gli stessi.

Si è analizzato il colpo di Stato nel 1944 ad Adolf Hitler, in cui il mancato controllo della comunicazione ha contribuito alla fine del regime, e quello compiuto in Spagna nel 1981 a opera di alcuni militari guidati dal tenente colonnello Antonio Tejero.

Sono stati affrontati anche altri due casi, più recenti, che hanno visti come protagonisti la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan nel 2016 in cui la mancata occupazione della CNN Turkey è stata decisiva per definire il fallimento del golpe e le rivolte in Venezuela che hanno messo in discussione la leadership di Nicolás Maduro, promosse dal suo oppositore politico, Juan Guaidò.