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TESI DI LAUREA: METAMORFOSI DELLA COMUNICAZIONE NELL’INDUSTRIA DISCOGRAFICA: LE STRATEGIE DELLE LABELS E I NUOVI STRUMENTI DIGITALI PER A FRUIZIONE MUSICALE.

Libera Università Maria Assunta, Roma – Dipartimento di scienze umane
Corso di Laurea in Marketing & Digital Communication, Anno Accademico 2018 – 2019

METAMORFOSI DELLA COMUNICAZIONE NELL’INDUSTRIA DISCOGRAFICA: LE STRATEGIE DELLE LABELS E I NUOVI STRUMENTI DIGITALI PER A FRUIZIONE MUSICALE.

Tesi di Rossella Iacovelli – Relatore Prof. Luca Poma

A questo link, il testo integrale della Tesi (91 pagine), qui di seguito, il testo dell’Introduzione della tesi:


INTRODUZIONE: la comunicazione multicanale e non convenzionale come
driver per il rilancio della fruizione musicale

Nel 2007 il mercato discografico viveva una forte crisi legata alla vendita fisica dei CD ritenuti troppo cari. Proprio in quell’anno, per la prima volta nella storia, i Radiohead (band inglese guidata dal frontman Thom Yorke) hanno deciso che fossero proprio i consumatori stessi a stabilire se e quanto pagare il loro settimo album In Rainbows in download, prima che venisse distribuito fisicamente. Questa strategia ha portato chi non avrebbe pagato il prezzo di listino stabilito, a effettuare un esborso anche significativo dettato dall’entusiasmo legato all’alto coinvolgimento in una decisione che fino a quel momento non spettava a nessun’utente. In più la band ha evitato il rischio di leaking a cui avrebbe corso lanciando l’album sul mercato a prezzo di listino.

Nell’agosto del 2013 città come Roma, Parigi e New York sono state invase da manifesti e graffiti raffiguranti tutti un rombo inserito in un cerchio il quale conteneva nove quadrati e formava la parola Reflektor. Questo evento ha scaturito un crescendo di interesse e curiosità solamente invadendo le strade di tre grandi città con dei loghi di difficile attribuzione. Poco tempo dopo gli Arcade Fire, band canadese, hanno annunciato che il titolo del loro nuovo album, in uscita l’ottobre seguente, sarebbe stato proprio Reflektor. Agosto 2014: un piccolo dirigibile sorvola Londra e sulla sua fiancata riporta disegnato il logo dell’artista britannico Aphex Twin. Contemporaneamente sui muri di New York appaiono gli stessi loghi. L’evento provoca un forte passaparola tra i fan che ipotizzano, dopo tredici anni di silenzio, la pubblicazione di un nuovo album. Poco dopo sul profilo Twitter dell’artista viene pubblicato il link a un URL raggiungibile solo ed esclusivamente tramite l’utilizzo del browser Tor, proprio quello che dà l’accesso al Deep Web. Il punto di arrivo è una pagina con il titolo e l’elenco dei brani contenuti nell’album Syro, pubblicato a settembre dello stesso anno.

Nell’estate 2014 lo stesso logo in versione tridimensionale è apparso sul muro della stazione di Elephant & Castle di Londra, poi a Hollywood e a seguire Torino e New York. Poco dopo l’apparizione di questi loghi, l’etichetta Warp, di cui fa parte l’artista, ha annunciato la pubblicazione di un nuovo EP dal nome Collapse. Sempre durante la stessa estate su YouTube viene pubblicato un video sul canale di Aphex Twin dal nome T69 Collapse realizzato da Wierdcore e risulta essere un lavoro completamente caotico e disturbante che ha chiuso questa serie di azioni di Guerrilla Marketing.

Sempre nel 2014 i Coldplay decidono di promuovere il loro sesto album Ghost Stories tramite una caccia al tesoro, nascondendo nove fogli contenenti ciascuno il testo di una delle canzoni contenute nell’album, in nove diversi libri di fantasmi. Questi libri sono stati distribuiti in nove diverse biblioteche in tutto il mondo e in uno di questi c’era anche un biglietto per assistere a uno dei concerti della band.

Tutti questi aneddoti hanno una caratteristica comune: hanno creato un effetto virale tra i consumatori tramite strategie di marketing non convenzionale a basso budget e capaci di raggiungere una considerevole parte di target.

Ma come si è giunti a questo? Qual è stata l’evoluzione del mercato discografico che ha portato a questi risultati?

Questo elaborato si propone di tracciare il percorso che la fruizione musicale, sia per quanto riguarda l’accesso e l’ascolto del prodotto ma soprattutto riguardo la sua metodologia di comunicazione verso l’utente, ha svolto dagli albori fino ad arrivare ad oggi tramite le sue principali attrici: le labels.

Il primo capitolo ha quindi il ruolo di porre le basi della ricerca tramite un excursus storico riguardo il mercato discografico, dalla nascita dei primi supporti di registrazione, passando per la distribuzione dei primi nastri registrati, passando per vinili e Cd, fino a giungere alla nascita di internet, del download e delle piattaforme di streaming. Il capitolo prosegue con una descrizione che riguarda l’organizzazione e l’attività della filiera discografica, degli stekaholder coinvolti e classificati in piccolo e grande mercato, e dei canali di distribuzione.

Conclusa la parte descrittiva riguardo il mercato discografico, il secondo capitolo ha la funzione di creare un tracciato più approfondito riguardo il ruolo delle piattaforme di streaming oggi e del rapporto che hanno con queste gli artisti a seconda che facciano parte di piccole o grandi case discografiche.

Il terzo capitolo descrive le indies e le major sotto il punto di vista storico e organizzativo e studia la loro evoluzione anche e soprattutto per quanto riguarda la comunicazione. In questa sede viene fatta un’analisi di dati statistici riguardati le loro vendite e la loro presenza nel mercato, la loro capacità comunicativa evoluta nel tempo e le strategie che invece vengono utilizzate oggi. Guerrilla Marketing, Ambient e Street Marketing, Ambush Marketing e Product Placement sono la base del marketing non convenzionale da cui partire se si vuole parlare di nuove frontiere della fruizione musicale nella comunicazione con gli odierni consumatori di musica.

Questo filo conduttore si conclude nel quarto e ultimo capitolo in cui operatori del settore musicale rilasciano pareri tecnici e testimonianze riguardo il ruolo che ricoprono le case discografiche in rapporto alle piattaforme di streaming e alla comunicazione dei nostri giorni.




IL PRE-GIUDIZIO: IL PIÙ ANTI-SCIENTIFICO DEGLI ATTEGGIAMENTI…

IL PRE-GIUDIZIO: IL PIÙ ANTI-SCIENTIFICO DEGLI ATTEGGIAMENTI…

Ho letto con attenzione e interesse l’articolo sul corso moderato dalla giornalista del Corriere della Sera Barbara Dietrich, tenuto all’Ordine dei Giornalisti del Lazio sul tema non già dell’omeopatia, come riportato nell’articolo stesso e in chiassosi post polemici pubblicati da qualcuno su Facebook, bensì (come peraltro confermato dal titolo del corso) sulla comunicazione nel settore delle medicine complementari, che è cosa ben diversa.
Specie considerando che nell’articolo si fa riferimento alla “confusione culturale della quale saremmo tutti vittima”, confusione alimentata a mio avviso invece da chi – con un atteggiamento quanto mai superficiale – scrive un articolo su un corso senza neppure avervi partecipato (anche criticamente), e senza neppure aver esaminato le dispense e i materiali del corso stesso, essendo uno degli specialisti chiamati a tenere una relazione a suddetto evento formativo, ritengo opportuno fare alcune precisazioni:

  1. i relatori principali non sono affatto “un medico omeopata e il Presidente di Omeoimprese”. Il Presidente di Omeoimprese si è limitato – nelle conclusioni – a precisare qual è la situazione dell’omeopatia dal punto di vista legislativo nel nostro paese, ricordando che si tratta di “atto medico”, e che la produzione e vendita dei farmaci omeopatici è autorizzata in forza di legge da una Direttiva Europea recepita anche dall’Italia. Precisazioni quanto mai opportune, appunto, per evitare confusione: che ciò piaccia o no a qualcuno, questa è la situazione, e occorrerà farsene una ragione. Gli altri relatori al corso, oltre al sottoscritto (definito erroneamente con un’altra imprecisione “giornalista economico”, lavoro invece da anni come docente in scienze della comunicazione, con specializzazione – tra le altre – in comunicazione socio-sanitaria), sono stati i ben più autorevoli Sergio Bernasconi, Professore Ordinario di Pediatria, già Direttore delle Cliniche Pediatriche dell’Università di Modena-Reggio Emilia e di Parma e già Presidente della Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica, Specialista in Endocrinologia nonchè Membro del Direttivo della European Society for Pediatric Endocrinology, da cui ha ricevuto l’Oustanding Clinician Award (forse plagiato anche Lui dagli stregoni omeopati…) e il Prof. Francesco Negro, anche lui con un bel curriculum universitario e clinico, in quanto la famiglia Negro, padre e figlio, ha curato – come confermano le cronache dell’epoca e i manoscritti originali custoditi nel museo di Piazza Navona a Roma, personaggi del calibro di Papa Pio XII, Papa Paolo VI, Oscar Luigi Scalfaro e Sandro Pertini, e molti altri dal quoziente intellettuale evidentemente ridotto e facilmente suggestionabili. Antifrasi a parte, mi duole riscontrare sempre nella grammatica dei talebani anti-omeopatia la tecnica, invero un poco squallida, della sistematica “diminutio” della professionalità altrui al solo fine di sostenere le proprie tesi. Anche perché trattasi di atteggiamento anti-scientifico, come illustrerò tra poco;
  2. l’atteggiamento manifestato da chi ha criticato il corso, senza neppure sforzarsi di comprenderne i contenuti, è il medesimo di chi qualche tempo fa ha pubblicizzato l’“eclatante” (sedicente) nuovo studio australiano che avrebbe detto, per l’ennesima volta, “la parola fine sull’omeopatia”: una metanalisi di una serie di studi che inequivocabilmente dimostravano che etc. etc. Ebbene, una banalissima azione di fact checking ha dimostrato che non si trattava di uno studio scientifico, in quanto non è mai stato pubblicato da nessuna rivista scientifica indicizzata (oh, questa EBM a corrente alternata…); si trattava di un’analisi già ampiamente pubblicizzata in passato, che non ha apportato alcun elemento innovativo o prova significativa nel panorama della letteratura scientifica, e – come vari esperti hanno denunciato – che parrebbe gravata da pregiudizio editoriale, tanto che vi è una denuncia per frode a carico degli autori attualmente pendente in Australia; inoltre, l’articolo del British Medical Journal, che riprendeva la ricerca Australiana, semplicemente non era un articolo del BMJ, bensì un post su un Blog che il BMJ ospita, blog gestito da chi? Dall’autore della ricerca australiana, che evidentemente – per citare un modo di dire tipicamente italiano – “se le canta e se le suona da solo”. Il sedicente studio Australiano fa il paio con l’altrettanto “eclatante” articolo pubblicato su The Lancet che 12 anni fa “metteva la parola fine all’omeopatia” (che scarsa originalità…): uno studio così zeppo di inesattezze nell’interpretazione iniziale dei dati, di errori nel disegno di indagine, di contraddizioni nell’impostazione del lavoro e di forzature nella selezione dei lavori esaminati, da far impallidire qualunque serio revisore degno di questo nome. Il lavoro di The Lancet è stato messo in discussione a più riprese, anche se ovviamente nessun giornalista italiano ne ha dato notizia in modo adeguato: il problema della necessità di un’equilibrata e precisa rappresentazione dei fatti in un ambito delicato come quello della salute, conferma l’assoluta utilità di corsi come quello organizzato presso l’Ordine dei Giornalisti di Roma;§
  3. che piaccia o no ai soliti noti (e lo preciso per amor di verità e correttezza, senza prendere posizione o meno circa l’eventuale efficacia dell’omeopatia, dal momento che non sono ne un medico ne un “tifoso” a priori di questa disciplina), l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha emanato nel 2008 la Dichiarazione di Pechino sulla Medicina Tradizionale in cui si raccomanda “la necessità di azione e cooperazione da parte della comunità internazionale, dei governi e degli operatori sanitari al fine di assicurare un utilizzo corretto della Medicina Tradizionale come componente significativa per la salute di tutti i popoli”. Sempre l’OMS ha attivato fin dal 1972 il Dipartimento per le Medicine Tradizionali, ha emanato un primo piano strategico pluriennale 2002-2005 e nel 2013 il secondo Traditional Medicine Strategy 2014-2023e ha autorizzato l’attivazione di “Collaborating Centers for Traditional Medicine” in tutti i continenti: Il Parlamento Europeo (Risoluzione n. 75/97)  e il Consiglio d’Europa (Risoluzione n. 1206/99)  hanno chiesto di “assicurare ai cittadini la più ampia libertà di scelta terapeutica e il più alto livello di informazione sull’innocuità, qualità ed efficacia di tali Medicine, invitando gli Stati membri a regolarizzare lo status delle Medicine Complementari in modo da garantirne a pieno titolo l’inserimento nei Servizi Sanitari Nazionali”. La Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici (FNOMCeO) all’Art. 15 del Codice di Deontologia Medica riconosce le Medicine Complementari e Non Convenzionali, come atto medico. L’Unione Europea ha finanziato nell’ambito del Settimo Programma Quadro per la Ricerca e lo Sviluppo, il Consorzio “CAMbrella – a Pan-European Research Network for Complementary and Alternative Medicine”, che ha riunito ricercatori di 12 paesi europei – tra cui l’Italia, rappresentata  per l’occasione dal Dott. Paolo Roberti di Sarsina – per sviluppare una rete europea di centri di eccellenza nelle Medicine Complementari e facilitare la comprensione dei bisogni dei cittadini europei nei confronti di questi sistemi di salute; la NATO Science and Technological Organization ha costituito un gruppo di ricerca, il NATO Integrative Medicine Interventions for Military Personnel, al quale ha partecipato l’Italia, con il compito di valutare l’adozione per il personale militare di varie tipologie d’intervento basate sulle Medicine Complementari, in quanto i dati dimostrano che una percentuale superiore al 50% della popolazione militare utilizza questo paradigma di cura; in Italia dall’anno 2000 a oggi gli utilizzatori delle Medicine Complementari sono raddoppiati, passando da 6 a 12 milioni; gli studi su PubMed che dimostrano l’efficacia delle Medicine Tradizionali, Complementari e Non Convenzionali sono pubblicati in numero significativo, anche su riviste scientifiche a medio e alto impatto, al punto che anche la prestigiosa Cochrane Collaboration dedica un sito specifico a queste discipline. Si potrà allora dire che gli studi non sono abbastanza numerosi, o non sono convincenti, ma dire che “non esistono” è semplicemente una frode, e chi lo sostiene è o un incompetente, o un bugiardo, o più facilmente entrambe le cose, ricordando poi che coloro che criticano il mondo delle Medicine Complementari per “carenza di ricerche scientifiche”, sono gli stessi che  si scagliano contraddittoriamente contro chiunque proponga di stanziare fondi per la ricerca in questo campo. Ebbene fate pace almeno con voi stessi…; il Governo Federale della Svizzera, 6 anni dopo l’approvazione dell’articolo Costituzionale sulla Medicina Complementare, comunica  che la sua attuazione è in corso a vari livelli, e queste terapie sono integrate nel Sistema Sanitario pubblico elvetico; negli USA – il cui Governo Federale ha istituito già nel 1992 il National Center for Complementary and Integrative Medicine – la crescita del numero di Scuole di Medicina che offrono percorsi di studio sulle Medicine Complementari, negli ultimi 10 anni è passato – secondo uno studio dell’University of Arizona Health Sciences – dal 68% al 95%. E potrei continuare a lungo, nel fornire elementi utili a meglio inquadrare lo scenario, ma mi fermo per non abusare troppo dello spazio concessomi, sottolineando ancora che questi rilievi devono essere intesi non già come un’analisi circa l’efficacia o meno dei farmaci omeopatici, bensì del “rilievo sociale” di questo sistema di salute, che – in quanto appunto socialmente rilevante – entra nel perimetro dello sguardo del giornalista, come è evidente a chiunque non sia meno che obnubilato da ottusi pregiudizi;
  4. ho detto sopra che l’atteggiamento di chi critica ossessivamente le medicine complementari è antiscientifico nei suoi fondamentali, e ci tengo a spiegare il perché. Il modello dettato dall’ormai datatissimo The Public Understanding of Science, ovvero diffondere informazioni scientifiche mediante un flusso unidirezionale dagli uomini di scienza ai cittadini, è del tutto anacronistico, vecchio di oltre 30 anni, ed è utilizzato ancora solo da giornalisti poco preparati, in un paese per certe cose provincialotto come l’Italia, e l’approccio dialetticamente “violento” – alla Burioni, per capirci – è antiscientifico in quanto del tutto inefficace. Dire Non è così, io sono uno specialista e ho ragione, e tu non capisci niente e hai torto”, è sbagliato, rischia di creare i presupposti per uno scontro di identità che altro non fa se non radicalizzare sterilmente le posizioni. Questa consapevolezza è data per scontata ovunque in Europa (e oltre), tanto che è stata anche codificata (da tempo) in un memorandum, il Public Engagement with Science and Technology, che dimostra che la comunicazione della scienza è un compito complesso, non riducibile a una dinamica improntata al “Se la pensi diversamente da me, che sono un esperto, sei solo un ignorante”. Inoltre (sempre per richiamare Burioni) la scienza è eccome “democratica”, intrinsecamente, ci spiega il giornalista scientifico Pietro Greco: “Fin dalla rivoluzione del Seicento, i membri della comunità scientifica raggiungono un consenso razionale di opinione intorno ai fatti osservati(e aggiungo io: non è comunque certo che il consenso raggiunto oggi su un’evidenza scientifica regga con il passare del tempo). Jane Gregory, della London University, ha dichiarato: “Il pubblico ci ha insegnato una lezione utile rifiutando di cooperare con scienziati che li trattavano come idioti”. Ne deriva che un atteggiamento meno talebano e orientato solo al “qui e ora” possa essere assai consigliato: anche di queste appassionanti questioni epistemologiche si è discusso al corso, con pare – grande interesse e soddisfazione dei giornalisti presenti.

Concludendo questa mia lettera: le società moderne si evolvono solo a condizione che si dia per assodato che i fatti (A) devono essere descritti con equilibrio (B) devono essere documentati pubblicamente, e (C) devono tendere alla verità; il concetto di “Verità dell’informazione” è infatti la base indispensabile dello Stato di diritto. Nel corso organizzato presso l’Ordine dei Giornalisti di Roma si è terminato quindi richiamando alcune regole che sarebbero di buon senso, se non fossero prima ancora, in buona parte, deontologiche: tenere un atteggiamento non ostile quando si comunica ai “non addetti ai lavori” e avere disponibilità e pazienza nell’illustrare le ragioni della scienza senza arroganza, costruendo ponti, non muri; consapevolezza che l’equazione “certezza = scienza” versus “dubbio = pseudoscienza” è una frode, perché la scienza da quando esiste procede per interrogativi, e quel che è incerto oggi (anche spesso perché incerti sono gli strumenti di analisi e di ricerca), potrebbe diventare certo domani, o viceversa; la verità di cui al punto precedente non deve allontanarci da un approccio basato sul metodo scientifico, ma deve piuttosto suggerirci un atteggiamento (anche in comunicazione) più umile e saggio; e – in ultimo – che in questo scenario fluido, il suggerimento – lo ribadisco – è di rispettare sempre le regole deontologiche della professione e dare spazio anche alle voci, magari in parte dissonanti rispetto al mainstream, degli specialisti in medicine complementari, con l’invito a non essere mai “giudici” a priori, ma a favorire il dibattito e il confronto, aumentando la consapevolezza dei cittadini, cosa che è tra gli scopi principali di una straordinaria professione qual è quella giornalistica.
Che l’omeopatia piaccia o meno, che venga utilizzata a meno, che qualche ricerca ne decreti o meno prima o poi “la fine”, come tante volte – al lupo, al lupo – si è frettolosamente affermato, quello che mi pare “stoni” davvero è l’atteggiamento anti-scientifico e la pochezza disarmante degli scientisti (con la “s” di scienza scritta minuscola, in questo caso), che fanno del pre-giudizio (giudizio formato a priori) una bandiera. Atteggiamento che diventa poi gravissimo quando è fatto proprio da dipendenti del Servizio Radiotelevisivo Pubblico, il cui stipendio a fine mese è pagato con i soldi di tutti noi, e che dovrebbero rispettare i principi che ho illustrato anche in ossequio alle regole dettate dallo stesso contratto di assunzione che hanno firmato.
È bene ricordare che gli errori in sanità provocano ogni anno 134 milioni di eventi avversi negli ospedali, contribuendo a 2,6 milioni di decessi ogni anno. Non lo affermo certo io, o qualche “complottista anti-scientifico”; lo rileva in questi giorni l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in occasione della Giornata Mondiale della Sicurezza dei Pazienti, che si celebrerà ogni anno il 17 settembre. Ogni minuto 5 persone muoiono per cure non sicure”, dice l’OMS. Forse su questi aspetti dovrebbero soffermarsi certe persone, riuscendo a passare oltre a quei processi cognitivi che vorrebbero una Verità soggettiva, prestata a questo o quell’interesse, deformata, alterata per le più diverse convenienze, e impegnandosi a cercare, costruire, narrare, una Verità che in quanto oggettiva è lapalissiana, chiara, cristallina: ovvero che l’Uomo è al centro dei processi di salute, e la Medicina o è centrata sulla Persona, o semplicemente non è Medicina; è vendita di prestazioni, è mercato, è un’altra cosa, non ci interessa più, e dovrebbe uscire dal perimetro dello sguardo del Medico come anche del Giornalista.
Anche di questo si è discusso nell’intensa e stimolante mattinata all’Ordine dei Giornalisti, e si, il quadro emerso durante il corso è stato veritiero e corretto, riguardo l’omeopatia, checché ne abbiano scritto alcuni, che si sono pronunciati su relazioni che neppure hanno ascoltato, perché le medicine complementari sono sistemi di salute con i quali solo un imbecille impreparato e pericoloso pretenderebbe di curare un tumore, ma che – a detta dei 20.000 medici italiani che le prescrivono ogni giorno – possono probabilmente essere una risorsa di cura preziosa in altri casi.
In tal senso, penso che l’iniziativa dell’Ordine dei Giornalisti di Roma, laddove ha approvato un momento di formazione utile per garantire gli iscritti all’Ordine stesso preziosi strumenti di valutazione e interpretazione di un fenomeno che incrocia il delicato e importante tema della salute, ma anche spesso la cronaca, costituisca una “buona pratica” che andrebbe adottata anche in altre Regioni. In tal caso, a qualcuno scoppierà forse un’allergia, ma ce ne faremo una ragione; esiste probabilmente un rimedio, “a piccole dosi”, anche per quello.
 
Prof. Luca Poma – Corso in Scienza della Comunicazione e Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino – Socio UNAMSI – Unione Nazionale Medico-scientifica d’Informazione
 
Aggiornamento del 20/09/19:  da quanto mi viene riferito, in data 19/09 vi è stata una riunione tra l’Ordine Giornalisti Lazio e l’Ordine Nazionale Giornalisti. Tra le varie questioni esaminate all’ordine del giorno, anche il corso in questione. Ebbene, non solo non sono emersi rilievi negativi a carico degli organizzatori, dei relatori, del corso o di qualche contenuto dello stesso, ma gli organi preposti hanno confermato l’utilità di momenti di formazione come questo. E’ incredibile questa “lobby pro-omeopatia”: capace di plagiare anche i Consiglieri nazionali dell’Ordine… Battute a parte, penso che questa conclusione sia il miglior commento della faziosa e inconsistente polemica sollevata da qualcuno, nonché un successo in termini di affermazione della libertà di pensiero e di analisi critica che è alla base della professione giornalistica.
 
Oltre alle fonti dirette evidenziate dai link multimediali nel testo, ritengo opportuno segnalare la seguente breve Bibliografia:

  • Bauer, M., et al. Science and Technology in the British Press, 1946-1990 (London: Science Museum, 1995).
  • Bonney, J.L. Shirk, T.B. Phillips, A. Wiggins, H.L. Ballard, A.J. Miller-Rushing, J.K. Parrish (2014), «Citizen Science. Next Steps for Citizen Science. Strategic investments and coordination are needed for citizen science to reach its full potential», Scien- ce, vol. 343, AAS, 28 march 2014.
  • Participating in a Citizen Science Monitoring Program: Implications for Environmental Education Simone Branchini , Marta Meschini , Claudia Covi , Corrado Piccinetti, Francesco Zaccanti, Stefano Goffredo. University of Bologna. PLOS ONE DOI:10.1371/journal.pone.0131812 July 22,
  • Citizen Science Projects. http://www.socientize.eu/
  • Durant, J.R., et al. The Public Understanding of Science. Nature 340, pp.11-14.
  • Evans, G.A. and J. Durant, J. The Relationship Between Knowledge and Attitudes in the Public Understanding of Science in Britain. Public Understanding of Science Vol. 4, pp.57-74, 1995.
  • Hegyi G., Petri R.P. Jr, Roberti di Sarsina P., Niemtzow R.C. – Overview of Integrative Medicine Practices and Policies in NATO Participant Countries. Med Acupunct. 2015 Oct 1;27(5):318-327
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  • Lewenstein B.V. (2003), «Models of Public Communication of Science & Technology», Public Understan- ding of Science, 16 June 2003.
  • Lewenstein B.V. (2004), «What does citizen science accomplish?», prepared for meeting on citizen science, Draft, 27 May 2004, Paris.
  • Sara Magnani LA SCIENZA DI TUTTI. INIZIATIVE DI CITIZEN SCIENCE NEL MONDO Università degli Studi di Milano-Bicocca Centro Interuniversitario MaCSIS http://www.macsis.unimib.it/wp-content/uploads/2015/02/CitizenScience_WP_4_2014.pdf
  • “Effective Messages in Vaccine Promotion:A Randomized Trial” di Brendan Nyhan, PhD,aJason Reifler, PhD,bSeanRichey, PhD,cand Gary L. Freed, MD, MPHd,e – Università del Missouri Columbia – http://web.missouri.edu/~segerti/3830/Pediatrics-2014-Nyhan-e835-42.pdf
  • Oxford English Dictionary List of New Words, in Oxford English Dictionary, 13 September 2014.
  • Poma L. – In-fallibile scienza. Advanced Therapies Vol 4, anno IV, n° 8, Palermo; dicembre 2015.
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  • Roberti di Sarsina P., Iseppato I. – Traditional and non-conventional medicines: the socio-anthropological and bioethical paradigms for person-centred medicine, the Italian context.  EPMA J. 2011 Dec; 2(4):439-49. doi: 10.1007/s13167-011-0104-z. Epub 2011 Aug 11.
  • See Gregory, J. and Miller, S. Science in Public: Communication, Culture and Credibility (New York: Plenum, 1998).
  • H.O. – Traditional Medicine Strategy 2014-2013. World Health Organization, 20 Avenue Appia, 1211 Geneva 27, Switzerland. ISBN 9789241506090; 2013.
  • H.O. – Congress on Traditional Medicine, 7-9 November 2008, Beijing, China. The “Beijing Declaration on Traditional Medicine”.
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  • Zhongliang Zhang and Jiansheng Zhang, A Survey of Public Scientific Literacy in China, Public Understanding of Science, Vol. 2 , pp. 21-38, 1993.

 
Edit il 17/09 h. 11.15
Edit il 18/09 h. 19.20
Edit il 20/09 h 12:45




Ambiente, diversità, inclusione: brand sull’orlo di una crisi di scopo

Ambiente, diversità, inclusione: brand sull’orlo di una crisi di scopo

L’era del purpose. Sette consumatori su dieci fanno fatica a riconoscere concretamente le aziende virtuose.ma il disorientamento potrebbe diventare opportunità, anche se al momento manca una risposta adeguata

«Quali sono quei nostri prodotti che possono migliorare la condizione del pianeta?». Se l’è chiesto la nuova guida mondiale di Unilever Alan Jope, succeduto quest’anno a Paul Polman.
E ha fatto il giro del mondo l’interrogativo di questo top manager scozzese, che in trent’anni ha scalato le vette della multinazionale in parte olandese e in parte britannica (era entrato agli esordi della carriera come stagista neolaureato in marketing). Perché se non sostenibili alcuni business possono anche sciogliersi come gelati al sole. Letteralmente. Infatti sul banco degli imputati sono saliti alcuni prodotti, tra cui il Magnum. Unilever avverte che cederà marchi che danneggiano il pianeta o la comunità: così ha titolato il Guardian a fine luglio. «I consumatori vogliono acquistare da aziende che hanno uno scopo. Oggi non basta proporre uno shampoo per capelli ancora più lucenti, se quel prodotto non è sostenibile. E i principi sono tali soltanto se non scendi a compromessi», ha precisato Jope. Infondo tutto dipende da cosa si è disposti a perdere. E il nuovo Risiko è far quadrare il business con i valori non negoziabili e con una reputazione che incarna una nuova consapevolezza d’acquisto, quella che condiziona soprattutto i millennial: nel giro di qualche anno questo cluster costituirà il 40% degli acquirenti attivi soltanto nel mercato americano. Così il purpose, letteralmente la ragion d’essere o anche scopo, diventa la parola dell’anno.
Una missione che ha segnato anche le dichiarazioni dei 181 capi d’azienda americani della Businss Roundtable, che nel caldo d’agosto hanno ridefinito lo scopo di una impresa. Investimenti nei dipendenti, valore per i consumatori, gestione etica delle relazioni coi fornitori e sostegno alle comunità locali dove si opera. Con gli azionisti considerati alla pari rispetto a tutti gli altri. È questa la nuova definizione, una presa di posizione forte negli anni segnati dal “Ceo activism”, l’attivismo sociale e politico dei top manager. «Investire nel personale e nelle comunità è l’unico modo per avere successo nel lungo termine», ha commentato Jamie Dimon, Ceo di JPMorgan e presidente della Business Roundtable.

Alla ricerca del brand purpose

Pensare alla società, raccontando al meglio e in modo autentico ciò che si fa. Una priorità certificata anche da un recente studio promosso da Ipsos.Dalle interviste effettuate a 20mila consumatori in 28 Paesi emerge come il 62% oggi pretenda che le marche diano un contributo fattivo alla comunità. Un dato che scende al 50% per il mercato italiano. Ma c’è di più: tra le priorità svettano la riduzione di emissioni e il minor impatto ambientale (77%). A seguire il miglioramento delle condizioni dei lavoratori (50%), la qualità dei prodotti e servizi (37%), l’inserimento nel tessuto sociale con iniziative rivolte al territorio (24%).
«Crescono le aspettative dei cittadini nei confronti delle aziende. Si va alla ricerca di brand che permettono di fare la differenza nel mondo», afferma Nicola Neri, amministratore delegato di Ipsos in Italia. Sul purpose incombe il climate change. «Temi come il global warming sono ai vertici delle preoccupazioni delle società. Anche perché i cittadini dimostrano una diversa consapevolezza sullo stato di salute del pianeta: negli ultimi quattro anni abbiamo registrato un significativo aumento nel numero di persone che dichiarano di avere una conoscenza qualificata del tema ambientale», precisa Neri. Ma attenzione: quasi 7 su 10 fanno fatica a riconoscere – e quindi di fatto a scegliere in fase di acquisto – le aziende virtuose. Un disorientamento che potrebbe diventare opportunità, anche se al momento manca una risposta adeguata. Per 8 consumatori su 10 i brand non stanno facendo abbastanza quando si parla di ambiente. «Di contro l’aspettativa dei consumatori è che siano proprio le aziende, sostenute da comportamenti virtuosi di amministrazioni e consumatori, a doversi far carico di trovare una soluzione per ridurre la quantità di materiale utilizzato nelle confezioni dei prodotti venduti», conclude Neri.
 Oltre il business c’è di più
utenticità, coerenza, concretezza. Oltre gli slogan, oltre le campagne patinate, oltre i video emozionali. «Stiamo respirando una nuova sensibilità nelle marche, che sono costrette a prendere posizione su tematiche che non avevano fino ad oggi considerato e che sono entrate nel mindset delle generazioni più giovani. Diversità, inclusione, ambiente non sono più un’opzione. Questo comporta però un ripensamento del business e della comunicazione», afferma Paolo Iabichino, direttore creativo e autore di “Scripta Volant”, edito da Codice. Così il purpose oggi diventa scelta obbligata per chi vuole stare sul mercato in maniera contemporanea. «Quelle che riescono a fare meglio sono le realtà che non fanno del purpose un oggetto di comunicazione, ma lo portano nel proprio modello di business e lo integrano nel lungo periodo. Abbiamo vissuto un’estate memorabile per la quantità di campagne e iniziative che sembrano segnare una svolta», precisa Iabichino, che fa un viaggio in questa nuova sensibilità. Così Mattel ha messo in commercio due modelli di Barbie con disabilità, Lego ha reso nota l’intenzione di utilizzare bioplastiche ecologiche e di origine naturale per fabbricare i suoi mattoncini, la tavoletta di cioccolato Cadbury ha celebrato il giorno dell’indipendenza in India con un’edizione speciale di quattro gusti in una barretta, emblema dei colori delle diverse etnie locali. Campagne coraggiose, divisive, quasi in contrasto col proprio business.
Ha fatto il giro dei social l’orgoglioso saluto di Diesel ai quattordicimila follower persi dopo l’adesione al Pride. O la scelta controcorrente della compagnia aerea KLM, che ha avuto il coraggio di lanciare l’iniziativa “fly responsibly”. L’invito per i passeggeri è a considerare altre forme di trasporto rispetto all’aereo.
L’effetto Greta Thunberg va ben oltre le pratiche più spietate e consolidate di overbooking.




150 miliardi di dollari: è questo il “costo” dell’assenza di etica…?

assenza di etica nel business

Ci risiamo: avidità, arroganza, supponenza, incompetenza e tradimento delle aspettative di azionisti e cittadini.  Risultato: l’assenza di etica nel business ha causato un ennesimo disastro economico-finanziario.

Maxi multa per Johnson & Johnson

“Multa da 572 milioni per Johnson & Johnson: la casa farmaceutica è responsabile dell’epidemia di oppioidi”, titolano i principali quotidiani internazionali, dopo che pochi giorni fa Thad Balkman, un Magistrato del distretto Cleveland County, ha emesso la prima pesante sentenza contro la multinazionale del New Jersey, condannandola a oltre mezzo miliardo di dollari di risarcimenti.
In secondo piano, purtroppo, scivola il fatto che l’utilizzo spregiudicato di farmaci anti-dolorifici in USA – indotto dalle aggressive e scriteriate campagne di marketing del settore pharma, mercato che qualcuno sostiene debba essere lasciato libero di auto-regolarsi (!) – abbia ucciso negli ultimi 20 anni oltre 500.000 di americani e rovinato altrettante famiglie, creando dolore e disperazione in nome del profitto esasperato.
Il Procuratore Balkman ha definito l’abuso di oppioidi come “la più grande crisi sanitaria mai affrontata in USA, nonché la quinta causa di morte tra gli americani, addirittura più comune degli incidenti stradali”; J&J è la prima produttrice degli ingredienti alla base dei farmaci oppioidi, non solo per i due blockbuster che vende – il Duragesic e il Nucynta – ma perché rifornisce anche i suoi competitor di circa il 60 per cento degli ingredienti contenuti in quei potenti antidolorifici.
 

Subdoli, disonesti e cinici, a fini di lucro

La condanna conferma che la multinazionale avrebbe “messo in piedi una macchina di marketing iper-aggressivo, divulgando notizie parziali e inducendo la filiera medico-paziente a utilizzare gli oppioidi, ignorando deliberatamente Il rischio dipendenza”. Hunter nell’ultima arringa di fine luglio ha aggiunto: “Quello che è veramente senza precedenti è notare come gli imputati si siano impegnati in uno schema subdolo, disonesto e cinico per creare surrettiziamente il bisogno di oppioidi tra la popolazione”. La difesa dell’azienda ha freddamente e squallidamente risposto che “in fin dei conti i medici stessi erano consapevoli dei rischi…”.
Per ironia, il titolo in borsa di J&J è salito, subito dopo la pubblicazione della notizia, perché la multa è stata assai più bassa di quella inizialmente richiesta dal Procuratore, che aveva richiesto una sanzione da 17 miliardi di dollari.
Tuttavia, pare non essere finita qui, e non solo perché sarebbero in arrivo 2.000 nuove cause legali contro J&J, ma perché – in uno scenario degno dell’avvincente romanzo “Il re dei torti” di John Grisham – molte nuove class-action si stanno attivando: il conto per “big-pharma” potrebbe presto salire, secondo le stime di Berenberg Capital Markets, fino a 100 miliardi di dollari, mentre per altri analisti finanziari di Wall Street le condanne potrebbero superare la cifra monstre di 150 miliardi, dal momento che 45 stati e migliaia di municipalità stanno intentando causa contro oltre 22 aziende farmaceutiche.
 

Il banco degli imputati si allarga

Secondo quanto riportato in queste ore dai quotidiani USA, i contenziosi oltre a J&J riguarderebbero Purdue Farma, Mallinckrodt, Teva Pharmaceutical – che ha già pagato oltre 80 milioni di risarcimenti – Endo International, Allergan e Insys Therapeutics; il fondatore di Insys è stato condannato con l’accusa di avere pagato tangenti ai medici per aumentare le vendite di oppioidi, e la società è stata multata con 225 milioni, mentre Purdue Farma, azienda che produce l’OxiContin, tra i farmaci sotto accusa per essere causa dei decessi, ha saggiamente offerto una somma tra 10 e 12 miliardi per chiudere tutti i contenziosi prima del processo, per poi ricorrere al “Chapter 11” della legge fallimentare USA, andando in bancarotta e avviando una successiva ristrutturazione per riuscire a pagare la somma miliardaria e cercare di riparare ai danni causati dalle proprie dissennate politiche di marketing.
In ogni caso, il prossimo processo, dopo quello di J&J, partirà in Ohio tra meno di 60 giorni, e vedrà sul banco degli imputati tutti i produttori USA di oppiacei: considerando che – secondo l’Agenzia federale per il controllo e la prevenzione delle malattie – il costo della crisi degli oppioidi per l’economia americana, calcolando il peso sul sistema sanitario, i costi sociali, la perdita di produttività e i costi per il sistema giudiziario, sfiora gli 80 miliardi all’anno, il contenzioso giudiziario non si preannuncia certo come una passeggiata per le multinazionali del farmaco. Nel mentre, a complicare le cose, anche la politica ha fatto il suo ingresso “con i mezzi pesanti” su questo già precario scenario: il Presidente Donald Trump che ha dichiarato l’abuso di farmaci oppiacei “un’emergenza sanitaria nazionale”, e ha raddoppiato il budget annuale per contrastarne la diffusione a oltre 7 miliardi di dollari l’anno.
 

Business is business

Ma non di soli oppiacei soffre la reputazione di Big Pharma: anche Novartis, Eli Llly, Glaxo, Shire, Gilead paiono anche loro in varia misura coinvolte in qualcosa di simile ai “disturbi dissociativi d’identità”, dal momento che sui loro bilanci sociali si fa un gran parlare di parole chiavi quali “solidarietà”, “salute”, “attenzione alle fasce deboli”, “mission al servizio della collettività”, keyword poi tradite dai loro quotidiani e concreti comportamenti.
Ad esempio, il redditizio business della produzione e vendita di psicofarmaci per bambini, genera profitti per oltre 20 miliardi di dollari di incassi all’anno, grazie a politiche di marketing aggressive e di disease mongering, tali da “stimolare il bisogno” della terapia, ovviamente a base di farmaci. Ma anche questa strategia di business è costata cara, come dimostra il caso Paxil, antidepressivo blockbuster della multinazionale pharma Glaxo: venne poi fuori a distanza di anni – con l’azienda tutt’altro che collaborativa con la Magistratura – che il famigerato “Studio 329”, sul quale era stata basato l’ottenimento dell’autorizzazione alla messa in commercio del farmaco, era stato manipolato nella sua essenza, non senza l’aiuto di “ghostwriter” pagati dalla multinazionale stessa, adattando lo studio ai risultati desiderati dall’azienda. Glaxo, dopo un estenuante battaglia legale – promossa forse dall’azienda per rivendicare il proprio diritto a stimolare idee suicidarie nei giovani pazienti, bambini e adolescenti, al fine di fare più soldi – pagò la più alta multa mai comminata a una farmaceutica, oltre 3 miliardi di dollari, con buona pace dei familiari dei malati poi deceduti che, sulla base delle evidenze scientifiche disponibili, avevano optato per una strategia terapeutica a base di Paroxetina.
In India, Medici Senza Frontiere denuncia che le più grandi aziende del comparto farmaceutico e le associazioni di medici e pazienti sono schierati da anni su fronti contrapposti – benché le multinazionali del pharma dichiarino sempre di essere “dalla parte di medici e pazienti” – in quanto la legge indiana permette di rifiutare alle grandi aziende le richieste di esclusive di brevetto per quei farmaci che non presentano “caratteristiche di forte innovazione e unicità”. Le aziende farmaceutiche amano infatti “manipolare” i brevetti cambiando appena due virgole per dare ulteriori 20 anni di vita a galline dalle uova d’oro che diversamente finirebbe sul mercato libere da brevetti e a disposizione di tutti. In India le piccole aziende locali fabbricanti di farmaci generici – medicinali i cui brevetti sono scaduti, e che quindi costa molto meno produrre, non dovendo pagare stratosferici diritti a nessuno – lavorano alacremente per mettere medicine a disposizione di pazienti di fasce povere della società a prezzi 10, 20 a volte 50 volte inferiori a quelli delle grandi case produttrici. Silvia Mancini, di Medici senza frontiere, ha denunciato: “Presto probabilmente non potremo più disporre di medicine a basso costo da distribuire nelle zone più povere del mondo”, con buona pace di chi verrà semplicemente condannato a morte da questa scelta di business, e le cui storie probabilmente non troveranno spazio sui patinati bilanci sociali delle grandi multinazionali farmaceutiche in questione, per altri versi molto attente allo Storytelling.
 

Farmaci o vendite online, per me pari sono

Ma la malattia dello shortermismo, come il Prof. Stefano Zamagni ha definito l’incapacità dei manager di costruire valore nel medio-lungo termine, non colpisce solo il comparto farmaceutico. Tempo fa, un’eclatante inchiesta del New York Times mise a fuoco il tema degli impiegati usa e getta nel colosso delle vendite online, Amazon: ritmi di lavoro estenuanti, capi ufficio che penalizzano gli impiegati che non rispondono alle email di lavoro durante la notte o nei giorni di ferie, un sistema informatico che permette di fare delazioni anonime a danni dei colleghi, dipendenti malati di cancro a rischio licenziamento in quanto “le difficoltà della vita privata non devono interferire con le prestazioni lavorative”, o donne vittime di aborto spontaneo mandate in viaggio di lavoro il giorno dopo l’intervento con note del tipo “se hai tutta quest’intenzione di metter su famiglia, come sembra, sappi che questo non è il posto giusto per te”. L’elenco delle vessazioni in Amazon è lungo pagine e pagine, e tutto ciò fa a pugni con le roboanti dichiarazioni di intenti pubblicate online dall’azienda sui documenti di rendicontazione sociale, tanto che l’amministratore delegato Jeff Bezos – che ogni anno secondo la Harvard Business Review si contende con il CEO della Apple il primo posto come CEO più performante nel mondo – ha dichiarato al New York Times, “Questa non è l’Amazon che conosco”. Eppure le due realtà paiono convivere in perfetto stile Giano bifronte: un’azienda apparentemente attenta al rispetto dei diritti dei dipendenti e al clima di lavoro interno, e nel contempo la stessa azienda bulimicamente proiettata verso un modello di business che prevede guadagni, sempre più guadagni, a qualunque costo.
 

British Petroleum, Volkswagen, Deutsche Bank ed ENEL

Per non parlare di British Petroleum, la società petrolifera “green” i cui impianti hanno causato danni ambientali irreparabili nel Golfo del Messico, per i quali è stata condannata a 18,7 miliardi di dollari di multa; o della grande banca tedesca “attenta alle persone”, Deutsche Bank,  che poi vende obbligazioni tossiche e derivati per decine di miliardi di Euro, rovinando centinaia di migliaia di risparmiatori e lasciando a casa 20.000 dipendenti per tentare di sanare una crisi causata dalle scelte improvvide del suo stesso management; o ancora Volkswagen, costretta a rivedere bruscamente le sue policy di responsabilità sociale in occasione del Dieselgate, anche a seguito delle decine di miliardi di euro persi in borsa proprio a causa delle menzogne raccontate al mercato e ai propri clienti, truffati biecamente circa le emissioni nocive in atmosfera prodotte dalle autovetture del colosso tedesco dell’automotive, che per due anni ha taciuto consapevolmente i fatti, dei quali era al corrente, fino allo scoppio dello scandalo.
D’altra parte, anche un colosso nostrano come ENEL ha qualcosa da dire circa l’inserimento di preoccupazioni di carattere etico nel business, al fine di costruire valore nel medio-lungo termine. Ne troviamo conferma dalle parole di Francesco Starace, amministratore delegato della nostra azienda elettrica nazionale, che ha illustrato il suo pensiero durante un incontro tenuto a Roma qualche tempo fa con gli studenti dell’Università LUISS, dove ha spiegato come “generare cambiamento nelle aziende”. In risposta all’innocente domanda di uno studente, che chiedeva “quanto contano i propri collaboratori, e quali sono gli ingredienti di successo per un cambiamento”, Starace ha risposto: “È facile. Alla gente non piace soffrire. Per spingere all’obbedienza e al cambiamento i sottoposti è necessario distruggere chi ha idee diverse da quelle del leader. Per farlo ci sono alcune cose abbastanza semplici da fare: innanzitutto ci vuole un gruppo di persone fedeli all’idea del capo; successivamente, si devono distruggere fisicamente i centri di potere che all’interno di un’azienda si oppongono al volere del leader, inserendo persone fedeli all’interno dei gangli dell’organizzazione dove lavorano coloro che hanno idee diverse (…), e creando malessere. Appena questo malessere diventa sufficientemente manifesto, si colpiscono le persone opposte al cambiamento nel modo più plateale e manifesto possibile, in modo da ispirare paura agli altri”. Chissà da quale capitolo dei manuali sul rispetto della diversità e della dignità dei dipendenti l’illuminato manager ha tratto questi illuminanti principi ispiratori.
 

Coerenza vs. marketing

C’è da chiedersi allora quanto spazio separa la verità dalla finzione: quanto è sottile la patina di smalto verde che le aziende si danno compulsivamente per apparire più eco e trendy agli occhi del mondo, al solo fine di orientare in modo più profittevole i comportamenti di acquisto dei cittadini? Quanto è fragile e traballante l’impalcatura di bugie della quale si circondano? Quanto è ampio il solco tra l’unità interna che si occupa di politiche sociali, di sostenibilità e di rendicontazione ambientale, e il top management che poi prende realmente le decisioni strategiche? E ancora: che ruolo hanno i “complici” di questi “delitti”, ovvero i consulenti, i comunicatori e i relatori pubblici, i Mandrake dei nostri giorni, che truccano le carte “migliorando il percepito”, e aiutando le grandi aziende nella loro opera di lifting”, chiudendo tutti gli occhi possibili in nome della pubblicità, del marketing e del business?
“Solidarietà”, “salute”, “attenzione alle fasce deboli”, “mission al servizio della collettività”: a leggere cosa raccontano di sé sui propri siti web e nei bilanci di sostenibilità, tutte queste multinazionali – e molte altre – sono “straordinarie”, con un clima interno di lavoro piacevole e orientate al bene della comunità. A leggere di queste vicende, invece, viene da chiedersi quante di queste “parole chiave” hanno poi un concreto riscontro nelle loro attività quotidiane: e dire che il valore della coerenza è notoriamente uno dei pilastri della buona reputazione, capace da sola di orientare positivamente i comportamenti di acquisto, e aumentando quindi vendite ed utili.
Non sono passati neppure 15 giorni, mentre scrivo, da quando duecento tra le più grandi aziende americane hanno pubblicato un documento in cui sconfessano il mantra “prima gli azionisti” che per anni ha guidato le politiche societarie; per creare valore bisogna guardare anche all’impatto ecologico, al rispetto dei clienti e alle condizioni dignitose offerte ai dipendenti, dicono i CEO di tutte queste multinazionali USA. Le scelte spregiudicate non sono più un vantaggio, ma si stanno trasformando in elementi negativi e a lungo andare danneggiano il business, dicono le aziende, mentre il dibattito – iniziato a livello di fondi etici e finanza sostenibile – si allarga anche agli investitori più tradizionali: “le aziende devono proteggere l’ambiente e trattare i dipendenti con dignità e rispetto”, si legge nel documento per come lo ha riportato il Financial Times.
E dire che l’Università di Harvard ha – già da anni, inascoltata – messo la pietra tombale sulla presunta alternativa “etica versus profitto”, spiegando e documentando scientificamente che la sola introduzione di preoccupazioni etiche nel business a livello strategico incrementa il valore medio della capitalizzazione di borsa delle aziende del 25 per cento.
 

Etica nel business: le aziende moderne come Giano Bifronte

Concludo con una riflessione: Giano bifronte era un’antica e importante divinità romana, rappresentata con una testa bicefala: era il protettore di tutto ciò che concerne “una fine e un nuovo inizio”, ma – sicuramente a causa delle sue “due facce” – nella cultura popolare iniziò presto a essere simbolo di doppiezza, “di una cosa del suo opposto”.
Ho citato i Disturbi dissociativi dell’identità, o disturbi da personalità multipla, fenomeni di forte disagio la cui caratteristica essenziale, seconda la psichiatria, è la presenza di due o più distinte identità o stati di personalità che in modo ricorrente assumono il controllo del comportamento dell’individuo, con incapacità di ricordare notizie importanti troppo estesa per essere spiegata con una banale tendenza alla dimenticanza, e con pensieri ed emozioni della cosiddetta “personalità secondaria” che risultano assai differenti da quelli da quelli della “personalità principale”.
Ebbene, le aziende sono gruppi umani organizzati per raggiungere uno scopo comune; probabilmente ne riflettono in qualche modo le patologie, il che riporterebbe di stringente attualità le straordinarie intuizioni di Adriano Olivetti, grande estimatore dello psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung, al punto da creare con lo psicologo Cesare Musatti già negli anni Sessanta uno dei primi e più importanti gruppi di ricerca di psicologia del lavoro in Italia, che aveva come centro di sperimentazione proprio la grande fabbrica Olivetti di allora.
Ma questi ragionamenti non toccano evidentemente i manager, lanzichenecchi del XXI secolo, pagati solo per generare profitti immediati “a qualunque costo”, con contratti di breve termine, e interessati a gonfiare quanto più possibile i numeri, dal momento che da essi dipendono i loro benefit; chiusa un’avventura aziendale, e incassato il “golden parachute”, ci si fa assumere da un’altra parte, e pazienza se ci si lascia dietro una scia di macerie.
Il problema nel prossimo futuro sarà quindi capire come mettere le multinazionali “sul lettino”: c’è da chiedersi quante accetteranno di farlo spontaneamente, prima che si renda necessario un “Trattamento sanitario obbligatorio” con camicia di forza, stante la distruzione – in termini di valore di borsa, e non solo – che i loro dissennati comportamenti continuano a causare all’intero Pianeta.
 
Edit, 04/09/2019 h. 17.02




ADHD: IL BUSINESS DEL FARMACO


Si discute da anni dell’esistenza o meno dell’”epidemia” ADHD, ovvero del numero – cresciuto esponenzialmente negli anni – di bambini “iperattivi” degni di attenzione medica, trattati quasi sempre, specie in USA, ma non solo, con psicofarmaci la cui somministrazione precoce non è considerata eticamente e clinicamente opportuna da parte della comunità scientifica. Bambini certamente non solo “ vivaci”, bensì impulsivi, iper-agitati e cronicamente disattenti. 

Autorevoli luminari e specialisti sono pronti a giurare circa l’esistenza di questa “malattia” dell’infanzia, e si stracciano le vesti se messi in discussione dagli “oscurantisti medioevali”, che poi sono tutti coloro che hanno un punto di vista differente dal loro. Altrettanto loro autorevoli colleghi storcono la bocca, e criticano severamente un approccio che finisce per banalizzare problematiche ben più complesse. Chi ha ragione? Ma – cosa ben più importante – cosa dovrebbe fare chi si trova al bivio, con un figlio forse malato di iperattività, o forse no? E soprattutto: come si dovrebbe regolare chi il problema l’ha già in casa? Perché è facile parlare, quando non si è toccati direttamente dal disagio.

In questo balletto di cifre, dati e pareri, è necessario fare un po’ di chiarezza: quello che è certo, è che non esiste alcuna prova dell’esistenza dell’Adhd, alcun marcatore biologico è mai stato individuato, e per tante ricerche scientifiche che tentano di dimostrare l’esistenza della sindrome, altrettante la smentiscono. Ciò non deve portarci ad abbracciare la scriteriata tesi opposta, ovvero che non esistono disagi dell’infanzia o problemi comportamentali degni di sollecita attenzione. Il problema è: qual è la causa? Ed ancora: che tipo di risposta noi adulti siamo disposti a dare a queste delicate problematiche? Per molti specialisti, l’Adhd è una “costellazione aspecifica di sintomi”, ovvero un insieme di campanelli d’allarme, che segnalano problemi ben più profondi. È chiaro a tutti a quali rischi esponga il persistere nel voler curare un sintomo trattandolo come una malattia a sé stante: si finisce per sedarlo, il sintomo, lasciando sotto di esso inalterata la malattia. Sono infatti oltre duecento le vere patologie, spesso appunto trascurate, che generano iperattività: classificarle tutte quante sotto la generica voce “Adhd” è perlomeno ingenuo, ma molto di moda in questi ultimi anni.

Quel che è certo, e scientificamente provato, è che lo psicofarmaco non è mai di per se la soluzione definitiva, dal momento che si limita ad intervenire sui sintomi, raramente li risolve(1), non migliora il rendimento scolastico (2), senza considerare il problema degli effetti collaterali e iatrogeni, come dimostra la letteratura scientifica, che conferma “una possibile associazione tra metilfenidato e una serie di eventi avversi gravi e anche un elevato numero di eventi avversi non gravi in bambini e adolescenti”(3), puntualmente ignorata da chi, ignorante o in cattiva fede, nega l’esistenza di un problema di eccessiva medicalizzazione dei minori.

L’Adhd com’è definita oggi è più che altro una moda, le diagnosi sono inconsistenti e vaghe, e per come vengono perfezionate non si possono e non si devono fare”,


dice Emilia Costa, già 1^ cattedra di Psichiatria dell’Università di Roma “La Sapienza”, incalzata dal Professore di Pediatria William Carey, uno dei massimi esperti di sviluppo comportamentale del bambini in USA, che afferma:

“I questionari che vengono utilizzati per diagnosticare questi disagi dell’infanzia sono altamente soggettivi ed impressionistici: nonostante il fatto che le scale di valutazione utilizzate non soddisfino i criteri psicometrici di base, i sostenitori di questo approccio pretendono che questi questionari forniscano una diagnosi accurata, ma così non è”.


Insomma, una storia che si spaccia per già scritta, mentre in realtà nella comunità scientifica la discussione è tutt’altro che chiusa. Ma mentre si discute, il marketing del farmaco si fa sempre più aggressivo, ed è forse questo il vero problema: l’infanzia rappresenta un nuovo e molto redditizio segmento di business per le multinazionali del farmaco, le quali finanziano circa l’80% della ricerca mondiale, e – se è vero che ci salvano la vita con molti prodotti utili – è altrettanto vero che tendono a non pubblicare mai le ricerche scientifiche con esito negativo, così da non nuocere al profilo commerciale dei propri brevetti.

Qualche ostinato incompetente carente di onestà intellettuale continua a negare l’evidenza, sostenendo che non vi è stato negli anni un incremento delle diagnosi e – guarda caso – della prescrizione e vendita di psicofarmaci per “curare” questo disagio, nonostante i dati dimostrino il contrario (4): le aziende dal canto loro sono più schiette, e parlano di “mercato globale”, come potete leggere dalla presentazione dell’inquietante rapporto pubblicato in calce a questo articolo (5).

In questo scenario molto poco rassicurante, l’imperativo può essere uno solo: la prudenza e l’applicazione del principio di precauzione. È necessario prestare la massima attenzione affinché la scuola non diventi l’anticamera dell’ASL, come sta succedendo sempre più spesso anche in Italia, dove assistiamo a una sempre più marcato tentativo di medicalizzazione del disagio. Riflettiamo piuttosto sul rapporto di noi adulti con i bambini: quasi sempre, per ogni bambino che lancia un allarme e manifesta il proprio disagio profondo, c’è un adulto che non vuole o non può ascoltarlo, e che trova maggiore serenità nella certezza di una diagnosi e nella soluzione “facile” di una pastiglia miracolosa, piuttosto che nel doversi mettere lui stesso in discussione, oppure c’è un sistema scolastico depotenziato nella sua capacità pedagogica e di gestione delle differenze, o ancora un ambiente attorno al bambino per qualche motivo ostile o inadeguato a valorizzarne le specifiche peculiarità.



Bibliografia:

  1. Riddle et altri, “The Preschool Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder Treatment Study (PATS) 6-Year Follow-Up” – Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, Volume 52, Issue 3, March 2013, Pages 228-230
  2. THERAPEUTICS INITIATIVE Evidence Based Drug Therapy – “Stimulants for ADHD in children: Revisited” – Therapeutics letter, January/February 2018
  3. Storebø OJ, Pedersen N, Ramstad E, KielsholmML, Nielsen SS, Krogh HB, Moreira-Maia CR, Magnusson FL, Holmskov, M, Gerner T, SkoogM, Rosendal S,Groth C, GilliesD, Buch Rasmussen K,GauciD, ZwiM, Kirubakaran R,Håkonsen SJ, Aagaard L, Simonsen E, Gluud C. – “Methylphenidate for attention deficit hyperactivity disorder (ADHD) in children and adolescents – assessment of adverse events in non-randomised studies”. Cochrane Database of Systematic Reviews 2018, Issue 5. Art. No.: CD012069. DOI:10.1002/14651858.CD012069.pub2.
  4. Rae Thomas, Geoffrey K Mitchell, Laura Batstra – “Attention-deficit/hyperactivity disorder: are we helpingor harming?” – BMJ 2013;347:f6172 doi: 10.1136/bmj.f6172 (Published 5 November 2013)
  5. Attention Deficit Hyperactivity Disorder (ADHD) Farmaci – Mercato 2019 –“Rapporto Di Ricerca Sull’analisi Dei Fattori Di Crescita, Dimensioni, Segmenti, Fattori di Crescita Globali del Settore”