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COME L’OSSESSIONE PER LA POSITIVITÀ STA ROVINANDO LA NOSTRA SALUTE MENTALE

COME L’OSSESSIONE PER LA POSITIVITÀ STA ROVINANDO LA NOSTRA SALUTE MENTALE

Tra le tante cose che hanno caratterizzato la prima era di Facebook e oggi conservate nell’archivio iconografico collettivo “We Pretend It’s 2007-2012 internet”, c’è la grafica “Keep calm and carry on”. La storia di questa immagine è molto interessante: si tratta infatti di un poster di propaganda britannico realizzato nel 1939 con l’intento di distribuirlo in caso di catastrofe, ma mai effettivamente pubblicato. Nel 2000 un libraio inglese se lo aggiudicò all’asta e cominciò a venderne riproduzioni, finché nel 2007 non aprì un e-commerce dedicato che ebbe un successo straordinario. Testate come il Guardian, The Independent e il New York Times si interrogarono sul perché questa opera fosse così popolare, collegando la sua fama al clima politico depresso e alla crisi economica che nel 2009 ricordavano il periodo pre-bellico. Si può dire che “Keep calm and carry on” sia stato non solo uno dei primi meme di internet (vista la sua riproposizione in infinite varianti, spesso ironiche), ma abbia anche anticipato un fenomeno che ancora oggi è tra i più distintivi dei social network: l’ossessione per la positività.

Come sappiamo, sia internet che i social sono nati come strumenti per unire e connettere le persone, e la loro ascesa è stata accompagnata da un clima di fiducia ed entusiasmo positivista. A distanza ormai di una decina d’anni, il panorama è cambiato totalmente: i social sono associati alla manipolazione mentale, all’hate speech, al capitalismo di sorveglianza e all’ansia sociale. Tuttavia, esiste ancora una fetta di internet che non ha perso l’entusiasmo dei primi tempi, ma anzi sfrutta l’onda lunga del cinismo anti social per proporre la propria visione del mondo dove tutto va per il meglio e i social sono solo un mero passatempo. Parliamo di quella sterminata galassia che va dal coaching di laureati alla Bocconi, ai travel blogger, dai fanatici del fitness, ai guru spirituali improvvisati, che non fanno altro che condividere post motivazionali e citazioni sul successo e sulla felicità. Secondo loro, non è vero che stai male: in realtà stai benissimo, sei solo troppo negativo. E il mondo non è un brutto posto, sei tu che lo vedi in quel modo.

Questo fenomeno è stato chiamato in diversi modi: “Toxic positivity”, “Oppressive positivity”, “Fake positivity”, tutti termini che si riferiscono sia alla cultura dell’ottimismo a priori sia alla fiorente industria che la sostiene: il problema, infatti, non è tanto condividere la scritta “Stay positive” o una frase ispirazionale, ma il fatto che chi posta queste cose a quanto pare sta cercando di venderci qualcosa. E con altrettanta probabilità, questo qualcosa sarà legato al nostro benessere, con la promessa di cambiare le nostre vite in meglio: corsi di fitness, coaching, app per la meditazione, piani alimentari salutisti e quant’altro.

Ovviamente, non c’è niente di male nell’essere ottimisti e nel cercare di stare fisicamente e psicologicamente meglio e cambiare le proprie abitudini negative, ma questa esposizione continua alle good vibes risulta spesso in contrasto con il sentire comune: la nostra realtà, infatti, somiglia sempre più a quella vignetta del cane che beve il tè dicendo “This is fine”, mentre la sua casa è in fiamme. La cultura della positività tossica ci potrebbe far finire dritti nell’incendio.

Basta guardare i dati sullo stato di salute mentale globale per capire che c’è una contraddizione di fondo: secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, più di 300 milioni di persone nel mondo soffrono di depressione e questo numero sta crescendo, specialmente nei Paesi più poveri. Oltre alla depressione, che è anche la prima causa di disabilità nel mondo, i sintomi dell’ansia sono sempre più diffusi: secondo Assosalute, soltanto nel nostro Paese l’85% degli italiani soffre di disturbi legati allo stress. Se dovessimo farci un’idea basandoci solo sul nostro feed di Instagram, l’impressione sarebbe invece quella di vivere in pieno edonismo reaganiano.

È evidente che qualcuno ha ben pensato di privatizzare e quindi capitalizzare quello che è anzitutto un problema sociale. Anche se siamo abituati a pensare che le malattie mentali siano una questione privata, è innegabile che la loro diffusione esponenziale negli ultimi anni sia stata legata a un sistema socio-economico sempre più esigente e soffocante – come dimostrano i dati in crescita sulla sindrome del burnout. La falsa positività ovviamente non ha interesse a risolvere il problema alla radice, altrimenti nessuno sarebbe più interessato a comprare un’app che ti sprona a pensare positivo quattro volte al giorno.

La positività è diventata così rilevante nella nostra società anche grazie all’influenza dell’ex presidente della American Psychology Association, Martin Seligman, famoso proprio per i suoi studi sulla psicologia positiva: secondo Seligman, la disciplina si concentrava troppo sull’aspetto patologico della salute mentale, e non sull’ottimismo e la felicità. Questi concetti introdotti ormai vent’anni fa, vengono spesso svuotati e semplificati per un consumo immediato diventando, come dice Nicholas Gilmore sul Saturday Evening Post, materiale “da workshop motivazionali e meeting aziendali”. Il marketing ha sempre sfruttato la felicità per venderci di tutto, ma ora sembra che si sia creata una sorta di “meta-industria” che usa questi valori non per proporci un prodotto, ma la felicità in sé.

Il sistema si autoalimenta in modo molto sapiente: la falsa positività ci induce a nascondere tutte le emozioni negative e riduce la complessità dei nostri sentimenti a un binarismo tra “buoni” e “cattivi”, che a lungo andare si rivela nocivo. La repressione genera sempre frustrazione, e di conseguenza nuove emozioni negative: non basta fare pensieri felici per essere felici, ma anzi, questa convinzione può rivelarsi controproducente. Secondo due studi pubblicati dalla rivista scientifica Motivation and Emotion, le persone che credono che le proprie emozioni possano essere cambiate con la forza di volontà e la positività sono più inclini a incolparsi per le proprie emozioni negative.

La cultura della positività imposta è opprimente sia per chi decide di abbracciarla (e che presto si accorgerà che non si può vivere la propria vita con un sorriso sempre stampato in faccia) sia per chi invece soffre di depressione o di altre malattie mentali, magari sottovalutate o non diagnosticate. L’idea che basti pensare positivo per far sì che le cose belle accadano, significa far ricadere la responsabilità delle esperienze e dei sentimenti negativi esclusivamente sulle scelte dell’individuo. Ma le persone non decidono di essere depresse, o anche semplicemente tristi: la falsa positività è una forma di gaslighting, che invalida emozioni che tutti proviamo, con l’aggravante di farlo spesso nel nome del profitto.

“Essere positivi è diventata una nuova forma di correttezza morale”, ha spiegato la psicologa della Harvard Medical School Susan David in un Ted Talk, “Alle persone col cancro viene automaticamente detto che basta pensare positivo. Alle donne viene detto di non essere così arrabbiate. E la lista va avanti. È una tirannia. È la tirannia della positività, ed è crudele, ingiusta e inefficace”. Secondo David, la cosa fondamentale per sottrarsi a questo dominio dell’ottimismo è interpretare le emozioni non come un’imposizione, ma come dati da cui partire per analizzare la propria condizione.

A volte sono proprio i social ad alimentare questo disagio, facendoci sentire in difetto in confronto a vite artificiosamente perfette o a standard estetici irraggiungibili. Il panorama, però, sta cominciando a cambiare: sempre più persone usano i social, specialmente Instagram, come una piattaforma di advocacy per la salute mentale. I cosiddetti “therapy influencer” raccontano le loro esperienze e i loro percorsi psicologici. In particolare, si insiste sull’inevitabilità e la normalità delle emozioni negative che la cultura della positività cerca di cancellare a tutti i costi. Dopotutto, anche quel “Keep calm and carry on” serviva a nascondere agli inglesi che sarebbe arrivata l’invasione nazista.




Grazie a Twitter evitata la terza guerra mondiale

Ora che la terza guerra mondiale sembra di nuovo scampata, qualcuno inizia a dire che è stato anche per merito di Twitter se alla fine Stati Uniti e Iran si sono fermati. La questione ovviamente è molto più complessa, ma certo la crisi nel giro di poche ore ha dimostrato in maniera lampante come sia cambiata la diplomazia al tempo dei social media. Subito dopo l’attacco missilistico dell’altra notte il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif in un inglese perfetto (ha studiato a Denver) ha detto al mondo tre cose in meno di 280 caratteri: 1) la risposta iraniana era proporzionata; 2) l’azione era giustificata da un articolo della carta delle Nazioni Unite; 3) l’Iran non è in cerca di escalation militari né di guerre ma vuole solo difendersi.

Appena dodici minuti dopo il presidente americano Trump, che di solito usa Twitter come una clava al punto che molti vorrebbero che fosse escluso dalla piattaforma, ha risposto con un tweet quasi celebrativo, “fin qui tutto bene!”, che lì per lì è parso surreale visto il personaggio e invece era una dichiarazione di pace. E’ dal 2011 che si parla di twitdiplomacy, cioé dell’utilizzo di Twitter da parte di capi di governo per gestire le relazioni e in particolare le crisi internazionali. Il motivo è che Twitter offre la possibilità di comunicare istantaneamente, pubblicamente e per scritto in modo conciso. Rispetto al passato, anche recente, si tratta di un passo in avanti formidabile. Lo storico della Guerra Fredda Garrett Graff ha ricordato che al tempo della crisi cubana dei missili all’ambasciata americana a Mosca ci vollero 12 ore per decodificare e inviare a Washington il messaggio dei russi (cinque pagine, non esattamente un tweet).

Il ministro Jarad Zarif

E la risposta americana fu affidata dall’ambasciata sovietica a Washington ad un messo in bicicletta diretto ad un ufficio postale della Western Union. Era il 1962 e la scena non era molto diversa dai metodi antichi, quando per dichiararsi guerra o pace i re dovevano inviare messi che a volte percorrevano personalmente decine di chilometri per recapitare il messaggio (si pensi al povero Filippide che percorse 42 chilometri con l’armatura da soldato da Maratona ad Atene per poter annunciare la vittoria sui persiani).

Fu allora che russi e americani decisero di creare un telefono rosso, per comunicare direttamente, anche se in realtà non era un telefono bensì una telescrivente (che da Washington passava per Londra, Copenaghen, Stoccolma ed Helsinki prima di arrivare a Mosca); perché quando c’è di mezzo la guerra, meglio scriversi ed evitare i rischi di equivoci con la traduzione. Come accaduto l’altra notte. Ma senza segreti: in diretta, sotto gli occhi del mondo, con il fiato sospeso. E così abbiamo capito che se un giorno scoppierà la guerra, lo sapremo da Twitter. Ma intanto è arrivata la pace. 




Il co-founder di Wikipedia ha lanciato un social network sulle notizie

Jimmy Wales ha lanciato Wt:social, progetto con il quale intende prendere le distanze dai modelli tradizionali di social esistenti

Un social network che si chiama Wt:social focalizzato sulle notizie. E’ l’idea “che sta crescendo” di Jimmy Wales, co-founder di Wikipedia, nato nel 1966, originario dell’Alabama. Wt:social è stato lanciato una settimana fa e, da allora, ci sono state più di 25 mila persone registrate sulla piattaforma, che funziona in modo diverso dai social network “tradizionali”. Ci si iscrive e si finisce in una sorta di lista di attesa. Due le versioni, gratis e premium (12 euro al mese, 90 l’anno). Una volta registrato, chiunque può condividere informazioni e pubblicare ciò che viene chiamato “talk” (la piattaforma è attualmente disponibile solo in inglese). Inoltre, puoi anche modificare le informazioni di altri e qualsiasi altro utente può modificare le pubblicazioni che fai.

Un modello diverso

“Gli attuali social network si reggono su un modello di business legato alla pubblicità. Questo porta ad una dipendenza, a rimanere incollati ad un sito e ad essere trasportati in discorsi di odio e radicali, non nella cura del lato umano” ha spiegato Wales.

Informare ed essere utili

L’approccio di Wt:social vuole essere diverso: il suo obiettivo è informare, essere utile agli utenti, seguendo la filosofia collaborativa che ha già reso Wikipedia uno strumento di base su Internet.

Fake news, disinformazione e social

“Mi sono reso conto che il problema delle fake news e della disinformazione ha molto a che fare con le piattaforme social” ha spiegato Wales sul suo profilo Twitter, specificando che questa nuova piattaforma è una evoluzione di WikiTribune, sito fondato nel 2017 in cui giornalisti e volontari, in stile Wikipedia, scrivono notizie neutrali e verificate. “Non venderemo mai i vostri dati – si spiega sul sito – ci manterremo sulle donazioni per assicurare la protezione della privacy e che lo spazio social sia privo di annunci”. Insomma, lo stesso modello su cui si basa Wikipedia. L’interfaccia di Wt.social è solo in inglese ma si può pubblicare in qualsiasi lingua.

Come si accede

Per iscriversi alla piattaforma bisogna registrarsi ed avere più di 13 anni. Gli utenti social hanno la loro pagina del profilo con una bacheca e possono condividere le notizie nei diversi subforum tematici (subwiki) esistenti nel social network.





Anche il ‘pensiero positivo’ ha un lato oscuro

Il settimanale americano Newsweek si scaglia contro la dittatura del ‘positive thinking’: pensare che “per essere felici basta volerlo” crea ansia e può renderci miopi davanti alle difficoltà. E la scienza conferma: la psiche è troppo complessa per nutrirsi di slogan. Meglio parlare di ‘resilienza’, la capacità di vivere i momenti difficili con consapevolezza

Pensare positivo può far male alla salute? L’ottimismo forzato ci renderà più fragili e insicuri? L’allarme viene da Newsweek, che ha dedicato un articolo alla tirannia del pensiero positivo. 

Partendo da studi recenti da cui sembra emergere il lato oscuro dell’ottimismo: pensare che “per essere felici basta volerlo” – il messaggio rimandato da decine di manuali di auto aiuto – può mettere in crisi i più fragili, colpevolizzando chi non riesce a risollevarsi. Sembrano confermarlo due studi recenti apparsi sulla rivista Motivation and Emotion: nel primo Karin Coifman della Kent State University mostra come le emozioni negative possano aiutarci a gestire meglio le situazioni difficili. Mentre per il secondo, uno studio sperimentale firmato da Elisabeth Kneeland dell’Università di Yale, chi ritiene che gli stati emotivi non siano immodificabili, e possano quindi essere condizionati, tende a sentirsi in colpa per le proprie emozioni negative.

A essere sotto accusa, secondo la rivista americana, è la psicologia positiva, un filone di ricerca che si basa sulla psicologia umanista di Abraham Maslow e Carl Rogers. Sono stati loro i primi a notare, negli anni ’50 del secolo scorso, come la ricerca psicologica si fosse focalizzata sugli aspetti più oscuri della personalità umana, trascurandone la potenzialità e le risorse nell’ottica di un funzionamento ottimale. Anche se il merito di averne ripreso le idee di fondo, aprendo lo studio del “positivo” a una seria indagine scientifica, va soprattutto a Martin Seligman – già presidente dell’American Psychological Association e oggi responsabile del Centro di psicologia positiva dell’Università della Pennsylvania – insieme con altri, tra cui vale la pena di citare il nome di Mihaly Csikszentmihalyi.

Negli ultimi anni, però, la psicologia positiva ha avuto un crescente successo soprattutto nella versione popolarizzata e divulgativa, utilizzata spesso anche nella formazione aziendale e nell’esercito. Una semplificazione che ha attirato molte critiche da parte di chi pensa che l’ottimismo a priori – quello che la psicologa Barbara Held definisce la “tirannia dell’atteggiamento positivo”- possa fare più male che bene, colpevolizzando chi non riesce a vedere l’aspetto positivo dei guai con cui deve fare i conti.

Diversi studi sembrano alimentare lo scetticismo: una ricerca australiana realizzata nel 2012 mostra che le persone tendono a sentirsi più tristi quando pensano che gli altri si aspettino da loro un atteggiamento ottimista. Mentre altri studi mostrano che, in determinate situazioni, visualizzare l’esito positivo di un compito che ci spaventa come un esame o un colloquio di lavoro – una tecnica frequentemente proposta da corsi e manuali di auto aiuto – può rendere il successo meno probabile.

Anche perché –e forse questa è l’obiezione più interessante e solida avanzata dal reporter americano – un irragionevole ottimismo può tradursi in un atteggiamento superficiale, o nell’ostinazione a negare una verità non gradita, come il fatto di non essersi preparati a dovere.

Tanto che secondo la giornalista Barbara Ehrenreich – autrice di Bright-Sided: How Positive Thinking Is Undermining America – la crisi economica del 2008 sarebbe stata causata anche dall’irrazionale ottimismo di quanti rifiutavano di credere al possibile fallimento di operazioni finanziarie azzardate.

Una preoccupazione legittima, resta da capire se queste evidenze rappresentino critiche effettive alla psicologia positiva. “In questo modo si rischia di banalizzarla: il giornalista fa lo stesso errore che attribuisce agli psicologi. Semplificando un pensiero complesso, che non lavora solo sulle emozioni, ma sul funzionamento normale – e, potenzialmente, ottimale – dell’essere umano, sia dal punto di vista emotivo che da quello cognitivo”, spiega Marta Bassi, ricercatrice universitaria e past president della Società Italiana di Psicologia Positiva.

L’idea della psicologia positiva, insomma, non è quella di “prescrivere” la felicità proponendo scorciatoie o facili ricette, ma di aiutare le persone a trovare un senso e una ragione di speranza anche nelle circostanze più difficili. Non a caso, molte delle ricerche realizzate in questo settore riguardano persone che si trovano in situazioni difficili, disabili o malati e loro familiari: “Non puoi chiedere a chi assiste un familiare malato terminale se è felice nella situazione in cui si trova, se per felicità intendi solo un’emozione positiva – osserva Bassi – ma se ti riferisci alla consapevolezza di quello che c’è di buono anche in un’esperienza così dolorosa – la vicinanza delle persone care, la possibilità di sentirsi utili e di essere vicini in un momento difficile- allora può arrivare una risposta che stupirebbe chi in una tragedia umana non sa vedere altro che l’inevitabile sofferenza”.

E’ questa la differenza tra l’Edonia – un concetto di benessere molto semplificato, che tende a ridurre la felicità al vissuto di emozioni positive, sviluppato soprattutto in ambito statunitense – e l’ Eudaimonia, un benessere che nasce dalla capacità di dare un senso alla propria esistenza e di funzionare quanto meglio possibile, date le circostanze. “Anche vivendo la sofferenza, quando è necessario, senza dimenticare che il dolore può essere un’occasione di crescita personale – osserva Bassi – tanto che la psicologia positiva parla di crescita post traumatica (Postraumatic growth o PGT)”.

Anche Seligman in realtà non parla mai di ottimismo a tutti i costi ma di resilienza, ossia della capacità di recuperare rispetto a un’esperienza problematica: il termine, mediato dalla fisica, indica originariamente la capacità di un materiale di resistere a un urto senza rompersi. “E la resilienza passa anche attraverso il dolore, l’accettazione del fatto che esiste un problema che deve essere gestito e se possibile risolto “, prosegue Bassi. Tenendo conto che non tutti sono uguali, e per qualcuno affrontare le avversità è più difficile, “ma il merito della psicologia positiva è proprio quello di cercare di capire come aiutare le persone ad attivare al meglio le proprie risorse”. Tenendo conto della personalità di ogni individuo, del suo equilibrio – “è comprensibile che chi soffre di ansia si senta schiacciato da un perentorio invito a essere felice” – e soprattutto del contesto sociale e culturale.

Che è, in fondo, quello contro cui si mobilita Newsweek: “Può succedere che chi vive emozioni negative si senta in colpa, ma il problema sono le pressioni sociali, non la psicologia positiva, che piuttosto di tali pressioni cerca di comprendere gli effetti – osserva Bassi – Siamo parlando di un messaggio che arriva da una società che ci vuole performanti a ogni costo, e impone modelli sociali cui stare dietro è difficile”.

E quindi, può avere senso ricordare che i corsi che spuntano un po’ dappertutto, all’insegna di “se lo vuoi davvero, ci riuscirai”, possono ferire i più deboli e aumentare l’ansia di chi sente di non farcela. E che – lo ricordano alcune delle ricerche citate da Newsweek – un momento di cattivo umore può renderci più persuasivi e perfino migliorare la nostra memoria. “Ma soprattutto – conclude Bassi – è importante ricordare che la personalità umana è troppo complessa per racchiuderla in uno slogan“.




Se Richard Branson la mette sul transpersonale

La psicologia transpersonale permette di capire meglio l’evoluzione della coscienza umana e dove si sta dirigendo il nostro rapporto col mondo. Vediamo come.

Ogni fenomeno sociale e onda di cambiamento sono prodotti della cultura in cui nascono; di conseguenza, rispondono ai bisogni più evidenti della società in cui si diffondono. La psicologia, nella declinazione delle sue correnti, ha seguito di pari passo lo stesso principio.

La psicoanalisi e lo studio della dimensione istintuale arrivano per esempio in un momento storico di grande repressione sessuale; la psicologia umanistica nasce nell’era dello sviluppo tecnologico, in cui l’uomo sta diventando macchina: essa quindi apre e supporta il tema della soddisfazione dei bisogni individuali, del senso della vita e del benessere. Dunque in che tempo siamo ora, avendo appagato tutti i bisogni primari di sopravvivenza e di comunicazione?

L’evoluzione della coscienza nella dimensione transpersonale e i suoi effetti sul mondo del lavoro

La corrente di psicologia transpersonale interpreta bene il momento storico, rimettendo il focus sui bisogni “secondari”: appartenenza, fiducia, coraggio, decisione. Ma anche trascendenza, intesa come superamento della separazione dall’infinito, dal divino. La sofferenza, più o meno manifesta, è legata alla ridotta espressione della parte creativa, alla mancata attualizzazione delle potenzialità umane più alte.

Parlando di coscienza ci addentriamo in un territorio che non ha una cartografia scientifica, ma per cui disponiamo diverse mappe con cui orientarci. Se chiedessimo alle neuroscienze di spiegarci la coscienza, l’approccio sarebbe quello di provare a identificarla all’interno della mente umana, nella mappatura dell’attività neuronale. Ne dedurremmo quindi che assenza di movimento è uguale ad assenza di coscienza. In tale senso, non abbiamo risposte definitive.

Sul versante della psicologia, l’esperienza più bella di che cosa possa essere la coscienza l’ho potuta sperimentare personalmente con un docente durante una pratica scolastica. A occhi chiusi, in piedi in uno spazio fisico (libero da tavoli e sedie!), due colleghi mi fecero girare su me stessa in diverse direzioni per un tempo indefinito, al termine del quale mi lasciarono semplicemente andare. Ho potuto così sperimentare la perdita dei confini, uno spazio ampio, che definirei semplicemente qualcosa che va oltre. Ecco, forse la coscienza potremmo immaginarla così.

L’evoluzione dell’umanità è fatta di salti di coscienza, di ampiamento di quello spazio che va oltre, alla ricerca della soddisfazione di quei bisogni secondari di cui abbiamo parlato; di quel principio armonizzatore che è spinta verso la connessione a qualcosa di più “alto”, universale. Se paragonassimo un computer a un cervello umano, potremmo dire che il primo è composto da tanti circuiti separati e molto veloci, mentre il secondo è in grado di fare delle cose attivando i circuiti connessi tra loro, come un tutt’uno.

I movimenti globali di mobilitazione per il clima, il nuovo interesse per le iniziative di CSR, la nascita delle B-Corp: possiamo osservare tutto questo con quella che viene chiamata la seconda attenzioneEspandendo quello spazio privo di confini e osservando da quel punto possiamo accorgerci che tali fenomeni non sono solo una moda del momento, una strategia di employer branding priva di contenuti profondi.

Quelli che definiamo young talent, i giovani talenti per cui le aziende si danno battaglia, sono un chiaro manifesto dell’evoluzione della coscienza delle nuove generazioni. Ancora prima di arrivare a un colloquio si informano sulla presenza di eventuali attività di responsabilità sociale, siano esse green o di volontariato. Ogni giorno posso osservarli lavorare in azienda, e spesso mi capita di riconoscere loro una maggiore capacità di lavorare in team, uno sguardo ricco di curiosità, alla ricerca di ruoli che consentano loro una visione end-to-end nelle loro responsabilità (mi rendo conto che il lessico aziendale ci sta invadendo, e ne sorrido).

Se ogni cosa ci riguarda

Richard Branson, fondatore del Virgin Group e amico personale di Barack Obama (questo già mi basterebbe per provare una bonaria invidia) non è solo capace di twittare la sua immagine mentre galleggia in piscina indossando una coda di sirena: è anche un grande sostenitore della CSR. Lo definirei un fan del genere umano e della connessione col tutto.

Nel 2016, per la compagnia Virgin Atlantic Airways, ha implementato un programma di CSR chiamato Change is in the air (Virgin: Corporate Social Responsibility Case Study, Pearson, 2017), che si focalizza sull’ambiente e la community. Oltre all’impegno a produrre meno emissioni di CO2, ha introdotto un approccio sostenibile in tutta l’esperienza di volo, dai suggerimenti per la preparazione di un bagaglio più leggero al riciclo del rivestimento delle cuffie, così come delle coperte in dotazione ai passeggeri. La plastica delle bottiglie viene trasformata e riutilizzata per comporre parti della divisa dell’equipaggio, che a loro volta verranno riciclate nuovamente, una volta raggiunte le loro onorabili miglia percorse. Il viaggiatore è coinvolto e si sente parte di ogni aspetto dell’iniziativa, può fare una donazione, oppure semplicemente riciclare il giornale che ha letto a bordo. Con alle spalle i tre anni precedenti in perdita, la campagna Change is in the air ha giocato un ruolo fondamentale per invertire la rotta. Tre gli obiettivi che si era prefissata: tornare a un business profittevole, preservare la magia dei suoi impiegati, migliorare la customer experience.

In sostanza, esiste una tensione, un ordine armonico che ci spinge a riconoscere la nostra connessione con il tutto: ogni cosa ci riguarda. Sostenere il bisogno collettivo verso questa spinta promuove individui con una maggiore condizione di salute psicologica (un dato che occorre tenere fortemente in considerazione anche in ambito aziendale), che non può essere intesa come la mera assenza di sintomi, ma come “l’espressione piena delle potenzialità umane nascoste nelle vette della psiche” (Wilber, Ken, Oltre i confini – la dimensione transpersonale in psicologia, Cittadella Editrice, Assisi, 2017).