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“Strumenti innovativi per la mappatura degli stakeholder e per la rendicontazione integrata”

“Strumenti innovativi per la mappatura degli stakeholder e per la rendicontazione integrata”

XIX° convegno International Marketing Trends Conference


“Strumenti innovativi per la mappatura degli stakeholder
e per la rendicontazione integrata”

Prof. Luca Poma
Università LUMSA di Roma e all’Università statale della Repubblica di San Marino

Introduzione

In
una delle sue celebri “lezioni americane”, “Exactitude”, l’indimenticabile
Italo Calvino – nella top ten degli autori italiani del ‘900 – si concentra
sulla “forza della parola” e – per contro – sulla crescente banalizzazione del
linguaggio nei tempi moderni. Le parole sono come un abito, che dà forma ai
nostri pensieri e ci permette di decidere come desideriamo essere percepiti
all’esterno, dal pubblico con il quale inevitabilmente entriamo quotidianamente
in contatto.

Il
“marketing relazionale” è ormai entrato nella pedagogia del business, ma non di
sole vendite vive un’azienda, o meglio: per vendere – ma soprattutto per
continuare a vendere – costruendo valore nel tempo, è necessario coltivare le
relazioni con gli stakeholder in modo realmente efficace, aperto
all’innovazione, e inclusivo delle novità dettate dallo sviluppo frenetico del
mondo digitale.

I
cittadini oggi si sentono sempre più liberi di manifestare la propria opinione
o, perlomeno, hanno la piena consapevolezza di “essere parte dell’equazione
globale”. Molte organizzazioni per contro si ostinano a tenerli fuori dalle
proprie dinamiche di decisione, nonostante keyword come “fiducia”,
“reputazione” e “rispetto” siano ormai – da tempo – parte integrante della
catena del valore.

La
narrazione costruita dall’azienda è centrale, nell’attrarre il Cliente
nell’universo dell’azienda, e l’importanza del preziosissimo asset intangibile
della “reputazione”, che è concretamente in grado di condizionare i
comportamenti di acquisto – dei prodotti, ma anche dei servizi – da parte dei
Clienti finali, é acclarata.

Il
termine “transmedia storytelling” – la costruzione di un universo
narrativo coerente su vari media, e soprattutto di esperienze in grado di
coinvolgere le persone e i Clienti – sta entrando prepotentemente nel
vocabolario degli addetti ai lavori: non solo rappresenta il futuro – anzi,
ormai il presente – del narrare storie create dalle aziende, ma esprime il
potere della cultura contemporanea che tende a fondere l’esperienza delle
aziende con quella dei fruitori, in una perfetta sintesi. Un processo per cui
si generano nuove “trame” e si aprono nuovi mercati partendo dalla circolazione
dei contenuti e delle idee che gli stessi Clienti finali creano attorno a un
prodotto, un servizio o un marchio.

Il
reputation management include strumenti ad alto valore aggiunto creati con lo
scopo di misurare e orientare l’opinione pubblica, condizionando positivamente
i comportamenti di acquisto; implica anche la ricezione dei commenti in modo
aperto e il coinvolgimento dei vari pubblici verso il miglioramento della percezione
che pubblicamente hanno dell’organizzazione.

L’era
della mera trasmissione unilaterale di contenuti – senza curarsi
dell’impressione e delle idee del proprio pubblico – è alla fine, cosa che
risulta evidentissima se solo si osservano le dinamiche relazionali dei vari social-network:
occorre lavorare su sistemi che prevedano un feedback istantaneo nonché
strumenti di narrazione collettiva, perché gli utenti non solo vogliono poter
“dire la loro” sulla storia narrata dal marchio, cosa che ormai viene data
assolutamente per scontato, ma vogliono anche poter influenzare le scelte delle
aziende; di fatto la “storia di successo” è solo quella che gli autori
“abbandonano” dal punto di vista creativo come un guscio di noce nell’oceano
della creatività del pubblico dei fruitori. Questo è un territorio nuovo, in
cui produzione e consumo scambiano i propri ruoli e discutono le proprie
ambizioni, mostrandosi specchio di un’era interconnessa, votata alla vera
partecipazione.

Oggi
sono sempre più frequenti le situazioni di co-protagonismo tra aziende, Clienti
finali e pubblico in generale. Federico Minoli, Amministratore delegato della
storica marca di motociclette Ducati, ebbe a dichiarare: “Improvvisamente la
domanda vera è: di chi è la marca? Noi siamo convinti che la marca sia dei
Ducatisti”.
Come è facile comprendere, un atteggiamento virtuoso come
questo ha conseguenze sull’intera offerta di servizi dell’azienda e sulle
strategie di marketing della stessa.

La
rendicontazione integrata

Quattro
le parole chiave del Reputation management: l’identità, ovvero il DNA
dell’azienda, la sua mission, i suoi valori; l’immagine che è il
riflesso dell’identità dell’organizzazione così come è percepita – anche in
modo differente – dai diversi pubblici; quindi, la reputazione, ovvero
il grado di allineamento tra l’identità dell’organizzazione e la sua immagine,
costruita nel tempo dall’organizzazione insieme ai suoi pubblici; da non
dimenticare, infine, che la reputazione può migliorare sempre e solo se la
relazione tra i soggetti è basata su criteri di autenticità.

Le organizzazioni sempre più spesso “rendicontano” ai propri
stakeholder, con vari strumenti, alcuni più adeguati, altri meno. La
“rendicontazione non finanziaria” è stata resa obbligatoria del 31/12/2017 per
Direttiva UE per tutte le aziende da 500 dipendenti in su (in futuro questo
limite verrà probabilmente abbassato), ma è in realtà prassi corrente anche per
le PMI più attente a costruire con la propria Clientela un rapporto di fiducia,
in grado di condizionare i comportamenti di acquisto.

Tuttavia, la rendicontazione aziendale attuale viola intrinsecamente le
regole di base del Reputation management: è “agiografica”, auto-referenziale,
riporta solo i successi delle aziende e non rispetta quasi mai il principio del
“comply or explain” (le aziende illustrano molto raramente i motivi per i quali
non sono riuscite a raggiungere gli obiettivi dettati dagli impegni assunti con
i loro pubblici). Come è possibile costruire fiducia in assenza del requisito –
essenziale – della precitata autenticità…? La relazione tra organizzazione e
stakeholder è a quel punto come un fragile castello di carte, pronto a crollare
al primo episodio di crisi reputazionale: le cronache – e i Social – sono pieni
di case-history di questo genere.

Le
più recenti analisi sulla reportistica corporate posizionano le aziende in
due macro-categorie: imprese che cercano di soddisfare i bisogni di conoscenza
espressi dai loro pubblici in modo proattivo, con sistemi di reportistica più o
meno evoluti, o aziende puramente “marketing-oriented” che ritengono superfluo
ogni sforzo in rendicontazione.

Anche
nel primo caso (aziende CSR-oriented), in controllo del flusso di comunicazione
è sempre saldamente in mano all’azienda, che segue i processi di eventuale
integrazione strategica della CSR, elabora gli strumenti di reportistica, e
filtra i dati, decidendo integralmente sostanza e forma del contenuto del
Bilancio integrato.

Il
rischio di “lifting” è quindi evidente, dal momento che non esistono efficaci
strumenti di controllo (per i bilanci sociali non vige l’obbligo di
certificazione da parte di Enti terzi); inoltre – aspetto a mio avviso sostanziale
– si registra quasi sempre l’assenza di un apposita sezione di tipo “comply or
explain”, nella quale l’azienda dovrebbe auspicabilmente illustrare gli
obiettivi non raggiunti nel corso dell’anno (scostamento tra i
risultati a fine anno e le attese iniziali).

L’obiettivo
principale della rendicontazione dovrebbe essere:

  • coinvolgere attivamente gli stakeholder esterni
    nel processo di redazione del bilancio integrato
  • coinvolgere attivamente i dipendenti
    nell’aggiornamento del cruscotto di indicatori quali-quantitativi contenuto nel
    Bilancio integrato, così da limitare l’effetto “lifting” da parte della
    Direzione/da parte degli azionisti
  • aumentare la percezione di trasparenza e di
    fiducia e quindi aumentare la licenza di operare concessa all’azienda dagli
    stakeholder
  • garantire a tutti i pubblici informazioni
    aggiornate sull’azienda, in modo disintermediato, 365 giorni all’anno, senza
    dover interpellare ogni volta l’azienda stessa
  • soprattutto, garantire informazioni sugli
    obiettivi non raggiunti dall’azienda

Tali
obiettivi sono raggiunti nella maggior parte dei casi solo in parte, spesso per
nulla: le aziende sono quindi oggi chiamate a un maggior sforzo in direzione
della trasparenza di processo, della coerenza, e della genuinità nella
rendicontazione.

Una case-history di autenticità

Come
vedremo nel proseguio di questo Paper, il “Social Hub” rappresenta attualmente il
più moderno esperimento al mondo – riuscito – di rendicontazione integrata
online multinacanale e multistakeholder.

Si
tratta di una piattaforma web che mette l’organizzazione in grado di comunicare
con tutti i propri pubblici di riferimento, in modalità continua, rendicontando
ai cittadini – in tempo reale – sui progressi dell’organizzazione
nell’assolvimento del proprio mandato.

Il
Social Hub è un’evoluzione nel campo degli strumenti di rendicontazione, una sfida
che è punto di arrivo di un progetto sperimentale che garantisce un flusso di
dati totalmente disintermediati 365 giorni all’anno, senza soluzione di
continuità, imputati direttamente on-line dagli stakeholder
dell’organizzazione, che collaborano attivamente all’aggiornamento di numerose
tabelle inserite in un apposito cruscotto di indicatori.

La storia del
progetto e le sue basi teoriche

Il sistema normalmente applicato a tutti gli strumenti di rendicontazione è quello della “logica Aristotelica”: in logica classica, il principio di non contraddizione afferma l’incongruenza di ogni affermazione la quale implichi che una certa proposizione “A” e la sua negazione – diciamo la proposizione “non-A” – sono allo stesso tempo entrambe vere. Aristotele infatti diceva che “…non è lecito affermare che qualcosa sia e non sia nello stesso modo ed allo stesso tempo…”. Ne deriva che – in base a questo paradigma – vi è un esatto punto oltre il quale un pubblico non è più di interesse dell’organizzazione. O si è stakeholder, o non lo si è: ciò che c’è oltre l’ipotetica linea di demarcazione, secondo questo approccio, non deve interessare l’organizzazione, che in questo modo – però – pone di fatto un limite alla propria stessa licenza di operare.

Agli
inizi dei ruggenti anni ’60,  all’Università di Berkeley, Lotfi Zadeh, un Professore
molto noto per i suoi contributi alla teoria dei sistemi, si convinse che le
tecniche tradizionali di analisi di tale teoria erano così schematiche e
“precise” da risultare inadeguate a descrivere molti dei problemi tipici in un epoca
di forte rinnovamento. Zadeh elaborò una nuova teoria, che alcuni percepirono
inizialmente in contraddizione con la logica aristotelica – e ne nacquero
accese discussioni accademiche! – ma che invece si rivelò essere, come vedremo,
una sua evoluzione dettata dallo sviluppo dei tempi e del pensiero: la logica “ad infiniti valori di verità”, basata
sul concetto di “insiemi sfumati”, anche conosciuta come “logica fuzzy” (da
indeterminato, sfumato, sfocato). Si tratta di un approccio alla logica in cui
si può attribuire a ciascuna proposizione un grado di “verità variabile”
compreso tra un valore 0 ed un valore 1. Quest’intuizione, utilissima per
spiegare molti fenomeni moderni, era stata tratteggiata già prima da
ricercatori del calibro di Bertrand Russel ed Albert Einstein, ma venne
codificata in modo articolato per la prima volta proprio dal Prof. Zadeh.

Quando
parliamo di grado di verità o valore di appartenenza intendiamo dire –
disorientando forse un po’ le nostre mentalità cartesiane, pregnate dal
concetto “o e vero o è falso, o è bianco o è nero” – che una certa proprietà
oltreché essere vera (cioè con valore 1) o falsa (cioè con valore 0) come
prevede la logica classica, può anche essere contraddistinta da valori
intermedi: vero è che “o si è vivi o si è morti” (valore 1 o valore 0) ma
altrettanto vero è che – in logica fuzzy – si può assegnare ad un neonato valore
1, ad un ragazzo appena maggiorenne valore 0,8, ed a un pensionato settantacinquenne
valore 0,15. Detta così può apparire banale, ma la codificazione di questa
riflessione sotto forma di algoritmi matematici avviò una vera e propria
rivoluzione nel mondo della logica moderna.

Un
nuovo modello di mappa degli stakeholder

Abbiamo quindi applicato i concetti su esposti alla Responsabilità Sociale delle Imprese, elaborando un nuovo tipo di procedimento per mappare gli stakeholder basato sull’assunto che “tutti sono stakeholder”, semplicemente con infiniti e sfumati valori di coinvolgimento. La mappa così concepita, è uno strumento innovativo per la lettura dei fenomeni nei quali viene coinvolta l’Organizzazione e delle dinamiche di comunicazione e interazione con i nostri pubblici. Laddove tradizionalmente, l’azienda era infatti rappresentata “al centro”, con intorno all’azienda, collegati da una linea ciascuno, i vari portatori d’interesse, questa nuova mappa degli stakeholder utilizza un diagramma cartesiano a 4 quadranti: nessuna correlazione tra l’Organizzazione e gli stakeholder, Organizzazione dominante sullo stakeholder, stakeholder dominante sull’Organizzazione, e – infine – interconnessioni reciproche e forti.

La nostra modalità di rappresentazione dei rapporti tra l’Organizzazione
e i propri pubblici va ben oltre l’aspetto meramente grafico, e finisce per
coinvolgere nel profondo l’aspetto filosofico di questa materia:
l’Organizzazione è rappresentata come una “texture di fondo” sulla quale “si
appoggiano gli stakeholder, a raffigurare l’esatta “coincidenza” di obiettivi e
desideri tra la prima e i secondi, enfatizzando visivamente Il modo con il quale
percepiamo il nostro ruolo nei confronti del pubblico e intendiamo rapportarci
– nel senso più ampio del termine – a ciò che ci circonda.

L’azione di input verso uno stakeholder, finirà per generare una
rielaborazione di informazioni anche all’interno del perimetro dello
stakeholder stesso, modificando in parte il suo DNA, e queste modifiche
finiranno inevitabilmente per produrre alterazioni all’interno del perimetro
dei pubblici d’interesse del nostro stakeholder, applicando così alle dinamiche
tra Organizzazione e stakeholder il principio che sta alla base delle reti
neurali.

Nelle “reti neurali artificiali”, al termine di ogni fase del processo
di apprendimento, il nodo avente un vettore di pesi più vicino ad un certo
risultato desiderabile è considerato il nodo “vincitore”, e tutti i pesi sono
aggiornati automaticamente in modo da avvicinarli a tale valore. Dato che
ciascun nodo ha un certo numero di nodi adiacenti, quando un nodo vince una
competizione, anche i pesi dei nodi adiacenti sono modificati, secondo la
regola generale che più un nodo è vicino al nodo vincitore tanto più marcata è
la variazione dei suoi pesi. Questo è ciò che succede in una mappa di
stakeholder, laddove una buona prassi ha alte probabilità di venir adottata da
tutto il network e diventa quindi il nuovo valore di riferimento.

Il tipo di mappa evoluta ideato sulla base di questo modello è quindi un
tentativo per codificare graficamente questi concetti: l’organizzazione si
sente così strettamente connessi ai propri pubblici, da arrivare ad affermare
che non ha relazioni con i propri stakeholder, bensì l’Organizzazione “è” i
propri stakeholder, e gli stakeholder sono l’Organizzazione, perché come
Organizzazione siamo parte integrante di uno scenario sociale complesso, con
una missione che va ben al di là del mero coinvolgimento dei “pubblici di
prossimità”.

Anche il posizionamento dei pubblici sulla mappa non è affatto
“casuale”, bensì è frutto della compilazione di dettagliate “checklist” da
parte degli stakeholder stessi e dei loro referenti  all’interno dell’azienda, i cui risultati
determinano, mediante l’assegnazione di un valore numerico da -5 a +5 (e
relative frazioni decimali), il posizionamento dell’icona rappresentante uno
specifico pubblico in un preciso punto dello schema, secondo appunto la
misurazione dell’“influenza” dello stakeholder sull’organizzazione e viceversa.

Ogni stakeholder è quindi durante l’anno oggetto di specifiche strategie
e azioni di comunicazione, elaborate “ad hoc”, tendenti a generare il
cambiamento nella relazione necessario per spostare lo stakeholder – ovviamente
– sempre più verso il riquadro in alto a destra, quello delle “interconnessioni
forti” tra l’Organizzazione e lo stakeholder stesso.

L’evoluzione
nella rendicontazione integrata: il “Social Hub”

Successivamente,
dopo aver sperimentato con successo questo modello sull’azienda farmaceutica
leader in Italia nel settore delle medicine di origine biologico-naturale – ci
siamo posti un’ulteriore domanda: se la posizione più appetibile è – come
abbiamo sottolineato – quella delle interconnessioni forti, non è
anacronistico un sistema di reportistica confezionato esclusivamente
dall’azienda, flusso unilaterale di informazioni, non sottoposto a controlli
esterni, se non – nel migliore dei casi – a una mera “conferma di congruità
formale” da parte di qualche società di certificazione? Come abbiamo scritto, i
bilanci sociali tradizionali sono spesso documenti agiografici, redatti dalle
aziende alla fine dell’anno, più volte di quante si pensi oggetto di “lifting”,
e riportanti sempre solo pluspoint e quasi mai criticità. Un sistema obsoleto,
non trasparente, non condiviso con quegli stessi stakeholder che sosteniamo
sempre essere – a parole – “fondamentali” per il buon fine della missione
stessa dell’Organizzazione.

E’ nato
così il “Social Hub”: una piattaforma web sperimentale frutto di un processo di
condivisione dei contenuti con i vari pubblici aziendali, che collaborano
attivamente per l’intera fase di redazione del documento di rendicontazione
dell’Organizzazione, “emendando” periodicamente il testo stesso del bilancio; ogni
stakeholder può interagire direttamente con la piattaforma, modificando i dati
quali-quantitativi del bilancio relativi al proprio rapporto di
collaborazione/partnership/sponsorship con l’organizzazione, “costruendo” con
essa il Bilancio integrato.

L’Organizzazione
e i suoi stakeholder dispongono quindi di una rendicontazione agile, facilmente
accessibile, chiara e trasparente; solo online, perchè non percepiamo più – da
alcuni anni – alcun valore aggiunto dalla stampa di un supporto cartaceo. Dal
Social Hub è comunque possibile per qualunque utente estrapolare con un
semplice “click” – qualora necessario – una versione cartacea “light” del
Bilancio integrato, senza foto e impaginata in modo agile ed essenziale, così
da limitare lo spreco di carta.

Inoltre, lo strumento si rivela prezioso per permettere all’azienda di individuare precocemente segnali deboli di crisi e sacche d’inefficienza al proprio interno.

Il
bilancio integrato così concepito – frutto di 6 anni di lavoro per
l’adattamento del modello teorico che l’ha ispirato, e predisposto in versione
sperimentale online nel 2014, in versione 2.0 nel 2016, e in versione 3.0 nel
2019 – è stato dotato di un “cruscotto di indicatori” di oltre 60
tabelle – con relativa parte testuale – i cui dati sono aggiornati man mano
durante l’anno direttamente dai vari reparti aziendali, senza alcuna
“mediazione” da parte degli azionisti.

Questo
progetto di condivisione e di totale disintermediazione tra l’organizzazione e
i suoi pubblici, permette ai cittadini di accedere durante tutto l’anno ai dati
grezzi e non “trattati” o commentati dall’organizzazione, per farsi
una propria personale idea dell’andamento delle attività societarie.

Vi è anche
un’area Fotogallery/Videogallery, con la possibilità di pubblicare “storie per
immagini”, interviste, etc., che illustrino meglio all’utente la filosofia e i
progetti promossi dall’Organizzazione.

Una
“time-line” riporta – anno per anno – i “fatti salienti” che hanno
caratterizzato l’evoluzione e la crescita dell’Organizzazione stessa.

È stata infine
creata l’area “Cosa non siamo riusciti a
fare e perché”,
primo bilancio integrato in Italia a prevedere un intero capitolo
di questo genere all’interno del Report, consolidando ancor più il principio
“comply or explain”, che prevede l’obbligo – previsto dai framework internazionali in materia,
purtroppo ancora poco applicati in Italia – di rendicontare ogni obiettivo che
si è mancato di raggiungere.

É inoltre possibile “valutare”
il bilancio mediante la compilazione di un apposito Questionario di gradimento
on-line sul Social Hub. Tutti i questionari compilati contribuiscono a
modificare “in tempo reale” la valutazione da parte degli utenti dello
strumento di rendicontazione.

Il modello proposto in questo
Paper – e già collaudato in Italia – è un viaggio affascinante, oltre una nuova
frontiera del marketing relazionale, della sostenibilità e della
rendicontazione trasparente, consci del fatto che non sempre “nuovo” è sinonimo
di “pericoloso”, dal momento che i nuovi scenari della comunicazione vanno
necessariamente governati. Nel contempo, è quasi una “provocazione”, per le
aziende decise a aprire i propri cancelli sulla base di principi di autenticità
e trasparenza, e a sfidare il domani con ottimismo e senza paura.




Rivoluzione etica nel business, è l’ora della reputation

Rivoluzione etica nel business, è l'ora della reputation

Reputation : è una delle nuove parole di questi anni ed è decisiva per la comprensione della società contemporanea.

Sta a significare la fama, la reputazione che una certa azienda ha ma in un ambito preciso che va al di là della qualità e investe piuttosto i valori ossia la responsabilità ambientale, etica, sociale. Più l’azienda ha un comportamento giusto rispetto ai diritti dei lavoratori, alla provenienza delle materie prime che utilizza, all’impronta ambientale del suo funzionamento compreso lo smaltimento, maggiore è la sua buona reputazione, più forte la propria identità valoriale. L’indice di reputation ha anche un risvolto business: l’impegno ha maggiori possibilità di attrarre i consumatori ed influenzare le loro decisioni di acquisto, come emerge dallo studio di Accenture Strategy, Global Consumer Pulse Research “From Me to We: The Rise of the Purpose-led Brand”.

Oggi gli utenti non si interessano solo alla qualità dei prodotti, ma osservano sempre più come si comportano le aziende nei confronti della società e orientano le proprie decisioni di acquisto di conseguenza. In Italia, il 71% dichiara di voler acquistare beni e servizi dalle aziende che riflettono i valori in cui crede e quasi un consumatore su due (47%) ha smesso di acquistare un prodotto a causa delle azioni di un’azienda, non in linea con la propria etica personale.
Da un brand ci si aspetta che prenda una posizione chiara su questioni sociali, culturali, ambientali e politiche (per il 73% dei consumatori italiani) e che sia trasparente su come produce e distribuisce i propri prodotti (per l’83%) fornendo rassicurazioni tangibili sulle proprie posizioni in tema di sostenibilità ambientale e sociale e su come promuove condizioni di lavoro appropriate. Il 61% degli utenti, nell’acquistare un brand, un prodotto o un servizio, tiene in considerazione anche come si comportano i leader aziendali, il modo in cui comunicano i loro valori e se li mettono in pratica nella vita quotidiana.
Nella realtà odierna, il brand non appartiene più solo all’azienda, ma sono i consumatori e i diversi stakeholder che contribuiscono a costruirne la sua forma attuale: il 63% dei clienti ritiene, infatti, di poter influenzare la posizione di un’azienda su questioni di interesse pubblico.
È l’autenticità e il sistema valoriale di un’azienda a stare a cuore ai clienti: il 63% orienta le proprie decisioni di acquisto in base a questi due fattori. Il loro desiderio è anche che i brand trattino bene le persone e l’ambiente: il 78% è orientato ad acquistare prodotti da aziende che utilizzano ingredienti di buona qualità e rispettano i diritti umani, mentre il 68% vuole rivolgersi a imprese che si impegnano per il miglioramento dell’ambiente e per la riduzione dell’utilizzo di materiali plastici. Addirittura, il 76% dei consumatori attribuisce più alle aziende che alle istituzioni la responsabilità di guidare il cambiamento sociale e si aspetta che siano proprio i CEO a prendere iniziative verso la sostenibilità, senza attendere imposizioni normative.

“Non basta più che le aziende siano pronte a risolvere le possibili criticità che si presentano nella realtà quotidiana: ora sono l’impegno a supporto dei valori condivisi e della sostenibilità ad influenzare fortemente le scelte dei consumatori, che si aspettano trasparenza rispetto alla fornitura dei prodotti, alla loro tracciabilità e alla garanzia di condizioni lavorative sicure” ha dichiarato Beatrice Lamonica, Sustainability Lead di Accenture Strategy. “Oggi, le aziende sono consapevoli che devono tenere in grande considerazione la sostenibilità sociale e ambientale, non tanto come semplice dovere o osservanza delle normative vigenti, ma come un elemento fondamentale del proprio DNA e come un’opportunità di innovare, differenziare ed accrescere il proprio business.”

Secondo l’analisi di Accenture, un calo di fiducia può avere un forte impatto sulla competitività di un’azienda e influenzarne negativamente il fatturato. I consumatori non sono più solo degli acquirenti, ma partecipatori attivi che investono tempo e attenzione e vogliono condividere un sistema di valori con le aziende a cui si rivolgono.

Le nuove sfida per i brand che vogliono avere successo

“Siamo di fronte ad una rivoluzione etica nel business, frutto di un’evoluzione complessa che ha progressivamente trasformato l’approccio dei brand nei confronti dei loro clienti. Fino a qualche anno fa le aziende orientavano decisioni e investimenti con l’obiettivo di accrescere la fedeltà del proprio target; in seguito hanno cambiato modo di porsi per ottenere un coinvolgimento attivo degli utenti fino ad arrivare, in una nuova fase, a cercare di essere iper-rilevanti nei confronti del pubblico. Oggi, devono necessariamente aderire a un sistema di valori rilevante e condiviso con i consumatori, che in Accenture abbiamo definito “Purpose” ha commentato Fabio De Angelis, Managing Director – Accenture Strategy, Advanced Customer Strategy Lead. 

Per rafforzare il proprio brand e costruirsi un successo che duri nel tempo, è fondamentale creare e implementare relazioni forti con i propri utenti. Per riuscire a farlo le aziende devono iniziare seguendo alcuni semplici passi:

• definire chiaramente il perimetro del proprio business, determinare il ruolo più ampio che si desidera avere nella vita dei consumatori e focalizzarsi su un ambito di loro interesse. Le aziende leader possono farlo cercando di capire cosa sta a cuore ai propri utenti, perché i propri dipendenti hanno scelto di lavorare per loro e perché le altre aziende collaborano con loro. In questo modo troveranno l’essenza della propria esistenza e gli elementi distintivi che possono fare la differenza.

• essere chiari e autentici: le persone si accorgono di ciò che non è genuino. Se un’azienda si impegna realmente a supporto di un sistema valoriale condiviso, i suoi principi guideranno ogni decisione aziendale e promuoveranno le connessioni tra consumatori, dipendenti e azionisti. Tutto ciò, però, richiede una guida forte, basata sulle azioni più che sulle parole.

• coinvolgere i consumatori a un livello più profondo: se interagiscono attivamente con le società e partecipano al loro successo, è possibile utilizzare questa “energia” coinvolgendo i clienti nella co-creazione di nuovi prodotti o servizi e nella progettazione di iniziative o partnership, portandoli ad investire nella crescita dell’azienda in cambio di vantaggi personalizzati. Includere i clienti nel proprio ecosistema di innovazione aiuterà le aziende ad essere rilevanti, a comunicare più fortemente ed efficacemente i propri valori e a identificare nuove opportunità di crescita per ampliare il proprio mercato.




Reputazione, un asset strategico che orienta le scelte dei clienti

Reputazione, un asset strategico che orienta le scelte dei clienti

Henry Ford diceva che “le due cose più importanti non compaiono nel bilancio di un’azienda: la reputazione ed i suoi uomini”. Erano gli inizi del ‘900, non esisteva il web ed il binomio qualità/prezzo era il mantra di ogni strategia commerciale. Tuttavia, il grande imprenditore statunitense già evidenziava l’importanza della reputazione, concetto che oggi è diventato imprescindibile, tanto da poter determinare la crescita o il declino di un’azienda.

Una recente ricerca di Accenture1 che ha coinvolto 30.000 consumatori nel mondo rivela ad esempio che il 63% degli acquirenti orienta le proprie decisioni di acquisto di prodotti e servizi in base al sistema valoriale di un’azienda e all’autenticità delle sue azioni. Ciò significa che, da soli, qualità e prezzo non sono più sufficienti per costruirsi una buona reputazione e incontrare il consenso del mercato.

Non cogliere questa nuova dinamica può essere molto negativo per le aziende: in Italia2, il 47% degli intervistati ha dichiarato di non acquistare prodotti di realtà di cui non condivide i valori e le azioni concrete.

Cos’è la brand reputation?

Secondo una definizione da manuale, “la reputazione di un’organizzazione è la fusione di tutte le aspettative, percezioni ed opinioni sviluppate nel tempo da clienti, impiegati, fornitori, investitori e vasto pubblico in relazione alle qualità dell’organizzazione, alle caratteristiche e ai comportamenti, che derivano dalla personale esperienza, il sentito dire o l’osservazione delle passate azioni dell’organizzazione3.

In pratica, la brand reputation è la valutazione complessiva e stabile nel tempo, condivisa da più stakeholder, che riguarda un’impresa, e per estensione i prodotti e i servizi che offre. Il comportamento dei suoi dirigenti, il rapporto con gli stakeholder, il modo di comunicare: tutto contribuisce a costruire la reputazione di un’azienda.

Le variabili della brand reputation sono molteplici ma possono essere raggruppate in tre dimensioni:

  • una che attiene più strettamente al lavoro dell’azienda: corporate identity, prodotti e servizi, luogo di lavoro, governance, performance economiche;
  • l’aspetto emotivo che l’azienda riesce a generare (stima, fiducia, ammirazione, disapprovazione), che emerge da come l’opinione pubblica (media, web) ne parla;
  • le intenzioni comportamentali espresse dalle persone in termini di decisione di acquisto, di investimento, di aspirazione a lavorare nell’azienda considerata.

Di certo c’è che la costruzione di una buona brand reputation è un processo lungo ed in costante evoluzione, perché la considerazione può mutare col variare del paradigma valoriale e delle priorità condivise dall’opinione pubblica.

In effetti, una realtà che ha una lunga storia, da sempre contraddistinta da una buona reputazione, potrebbe vederla crollare da un momento all’altro se non riuscisse più ad essere in sintonia con il sentire comune della società. In questo senso,valgono le parole di Warren Buffet, secondo cui “ci vogliono 20 anni per costruire una buona reputazione, cinque minuti per distruggerla”. Oggi verrebbe da dire che in realtà bastano anche pochi secondi per distruggere quanto costruito in anni di lavoro, vista la rapidità e capillarità con cui informazioni ed opinioni viaggiano attraverso il web.

I fattori chiave per costruire una buona brand reputation nel terzo millennio

Nella ricerca citata, Accenture ha chiesto ai consumatori quali sono i fattori che li guidano verso la scelta di acquistare prodotti o servizi di un brand piuttosto che un altro, al di là di prezzo e qualità. Ecco le risposte che hanno ottenuto più del 50% delle preferenze:

  • l’azienda è trasparente sulla provenienza delle materie prime e sulle condizioni dei lavoratori;
  • l’azienda tratta bene i suoi dipendenti;
  • l’azienda crede nella riduzione della plastica e nel miglioramento dell’ambiente;
  • il brand non si limita a vendere prodotti e servizi, ma si impegna per qualcosa di più grande, in linea con i miei valori personali;
  • l’azienda si impegna per questioni sociali e culturali in cui crede;
  • il brand supporta e agisce in favore di cause che condivido;
  • il brand fa ciò che dice e mantiene le promesse;
  • il brand ha valori etici e dimostra autenticità in tutto ciò che fa;
  • dimostra passione e attenzione verso i prodotti e servizi che vende.

Key Word #1: Responsabilità

I primi sei punti evidenziati dalla ricerca potrebbero essere sintetizzati nel concetto di responsabilità ambientale e sociale e riflettono l’accresciuta sensibilità dell’opinione pubblica verso questi temi.

Buona parte dei consumatori (il 76%, secondo la ricerca Accenture) pensa che le aziende abbiano la responsabilità, anche più delle istituzioni, di guidare il cambiamento sociale e lo sviluppo sostenibile. Sempre lo stesso studio dice, ad esempio, che il 78% dei consumatori è orientato ad acquistare prodotti da imprese che utilizzano ingredienti di buona qualità e rispettano i diritti umani, mentre il 68% vuole rivolgersi a aziende che si impegnano per il miglioramento dell’ambiente e per la riduzione dell’utilizzo di materiali plastici.

Investire per diminuire il proprio impatto ambientale, sostenere iniziative per ridurre la plastica o risolvere alcune criticità ambientali, essere attenti alla provenienza delle materie prime, rispettare i diritti dei lavoratori e migliorare il loro benessere, adottare politiche di inclusione e di abbattimento delle diseguaglianze, supportare iniziative sociali e culturali nel territorio di riferimento: tutte queste sono buone prassi che incidono profondamente su una buona brand reputation.

Non a caso, secondo l’Osservatorio sulla Sostenibilità della Società Italiana Comunicazione, realizzato in collaborazione con Format Research4, la “linea di investimento” più perseguita è quella della sostenibilità che, per il 35,4% delle aziende rappresenta «il modo di fare impresa da qui in avanti» e che per 6 realtà su 10 (58,3%) porta ad un aumento della brand reputation.

Key Word #2: Credibilità

Tornando all’elenco delle risposte dei consumatori, un altro tema che risalta è quello che potremmo definire della credibilità. Quando le persone dicono di apprezzare un brand che “mantiene le promesse”, e che “dimostra autenticità in tutto ciò che fa”, dicono sostanzialmente che non bastano le promesse e gli impegni formali, perché la valutazione si basa sui fatti concreti.

Il rapporto di fiducia che si può instaurare tra un’azienda e gli stakeholder sulla base di valori comuni e condivisi va curato nel tempo ed alimentato da azioni e comportamenti coerenti, che mettono in pratica quanto comunicato con le parole. In questo rapporto tra azienda e stakeholder, diventa fondamentale l’intermediazione di realtà terze, il più possibile oggettive, indipendenti e imparziali, che possano testare e confermare la bontà di ciò che l’impresa dice e fa. Enti di ricerca, istituti che conferiscono dei premi, ma anche stampa, esperti qualificati e influencer possono contribuire ad accrescere la buona reputazione laddove attestino la coerenza e la trasparenza di un’azienda.

D’altro canto, il rischio legato alla perdita di credibilità è altissimo: se il rapporto di fiducia viene tradito, è molto difficile poi recuperarlo. In questo senso, le nuove modalità di comunicazione, in particolare il web, possono rappresentare una grande opportunità ma anche una minaccia. Sono un’opportunità perché consentono alle aziende di comunicare direttamente con gli stakeholder e dare visibilità alle proprie azioni. Tuttavia, la notizia di un possibile “errore” ha potenzialità distruttive, perché si diffonde rapidamente e capillarmente. Senza contare, tra l’altro, il pericolo di essere vittima di “fake news”, che fa sorgere l’esigenza da parte delle aziende di tutelarsi dal rischio reputazionale.

Key Word #3: Customer Experience

Infine, l’ultimo punto dell’elenco stilato in base ai risultati dell’indagine Accenture fa riferimento ai prodotti e servizi e chiama in causa la customer experience. Il prodotto o servizio offerto resta infatti centrale nella valutazione della buona reputazione di un’azienda. Rispetto al passato, tuttavia, la valutazione del consumatore non è più solo sulla qualità del bene o sul prezzo, ma su tutta l’esperienza di acquisto – un processo che inizia quando la persona si rende conto di avere un bisogno, si consolida nel momento in cui acquista il bene o il servizio, e prosegue anche oltre, perché comprende l’assistenza post-vendita e il modo in cui l’azienda conserva e tutela i dati raccolti.

Si tratta quindi della interazione-relazione tra impresa e cliente, che può determinare la reputazione di un brand. Un prodotto di ottima qualità venduto senza assistenza o da un addetto scortese influirà probabilmente in modo negativo sulla valutazione dell’azienda da parte del cliente. E se il cliente deciderà di raccontare la sua esperienza negativa, l’opinione entrerà nel flusso delle informazioni che contribuiscono a creare la reputazione del brand.

Reputazione: sarà la “moneta” del futuro?

La brand reputation è già oggi un asset strategico per le imprese, e probabilmente lo diventerà sempre di più, alla luce della crescente sensibilità dell’opinione pubblica ai temi della sostenibilità ambientale e sociale.

Secondo il Reputation Institute5per migliorare la propria reputazione le aziende devono porsi obiettivi superiori rispetto alle proprie performance economiche e operare coerentemente con questi obiettivi. La qualità dei beni e servizi offerti continuerà ad essere centrale, ma una buona reputazione potrà sempre più fare la differenza nell’ambito della competitività. L’impegno nella sostenibilità ambientale e sociale, l’attenzione alla protezione dei dati dei clienti, oltre che alla loro esperienza di acquisto, l’impegno per il territorio sono aspetti che, in qualche modo, dovranno sempre di più entrare a fare parte del “bilancio” aziendale.

In questo contesto, come si sta muovendo Allianz? Il gruppo, di cui fa parte Darta Saving, ha da tempo intrapreso un strada ben precisa nel segno della sostenibilità, del miglioramento della customer experience6 e della trasparenza come strumento essenziale per costruire una credibilità duratura. Tale impegno è stato riconosciuto da autorevoli realtà che si occupano di misurare la reputazione del brand.
Nel 2017, il gruppo è stato inserito nella classifica stilata da KPMG Nunwood dei 50 migliori brand in Italia per customer satisfaction, e nel 2019 il Reputation Institute ha confermato la presenza di Allianz tra i 150 migliori brand dell’Italy RepTrack7. Questa classifica, che valuta la reputazione dei brand, vede Allianz al terzo posto per i servizi finanziari e al secondo tra le realtà assicurative.


1. https://www.accenture.com/_acnmedia/Thought-Leadership-Assets/PDF/Accenture-CompetitiveAgility-GCPR-POV.pdf
2. http://www.ansa.it/canale_lifestyle/notizie/societa_diritti/2019/04/15/rivoluzione-etica-nel-business-e-lora-della-reputation_ee52841e-1ccd-4fdb-a122-8877384fc19f.html
3. Roger Bennett, Rita Kottasz (2000), “Practitioner perceptions of corporate reputation: an empirical investigation”
4. https://www.ilsole24ore.com/art/ambiente-territorio-e-welfare-sostenibilita-piace-imprese-e-fa-bene-conti-AEqOviCF
5. https://www.reputationinstitute.com/reputation-macro-trends
6. https://assets.kpmg/content/dam/kpmg/it/pdf/2017/06/KPMG-2017-L-era-della-Customer-Experience.pdf
7. https://insights.reputationinstitute.com/website-assets/italy-reptrak-2019




Incendi in Australia: il supporto delle grandi imprese

Incendi in Australia: il supporto delle grandi imprese

Gli incendi sono un problema che affliggono la maggior parte
del globo durante i periodi estivi. Quest’anno la sorte peggiore è toccata all’Australia
la quale, a seguito di incendi appiccati spesso con dolo, ha bruciato per mesi.
A farne maggiormente le spese, oltre alla flora locale, sono stati gli animali.
Si stima che circa 500 milioni di animali siano morti a causa delle fiamme.
Visto che la fauna australiana è composta da creature uniche al mondo, in
quanto si sono evolute separatamente nell’isola, si teme che gli incendi
abbiano comportato l’estinzione di almeno una specie. La specie in questione è
un marsupiale endemico, simile ad un topo che abita solo in un’area
all’estremità occidentale dell’isola, completamente distrutta dalle fiamme. A
rischio sarebbero anche i koala, si stima infatti che ne siano morti almeno
25.000 esemplari e i koala australiani sono gli unici al mondo non effetti da
clamidia, un’infezione batterica simile all’hiv. 31 le morti tra le persone e i
danni dal punto di vista economico sono incalcolabili.

Nonostante in Europa queste notizie siano passate un po’ in
sordina, sono molte le aziende che hanno lanciato iniziative per cercare di
sensibilizzare la popolazione e aiutare l’Australia. Tra le varie azioni
promosse, alcune aziende hanno lanciato prodotti in edizione limitata, il cui
ricavato è stato devoluto a favore dell’Australia. Lush, ad esempio, ha
lanciato un sapone a forma di koala il cui ricavato verrà devoluto al Bush
Animal Fund per aiutare i gruppi di salvataggio degli animali mentre Balenciaga
ha lanciato delle felpe e delle t-shirt con disegnato un cucciolo di koala e i
ricavi delle vendite saranno devoluti per la lotta agli incendi.

Il gruppo Kering ha donato oltre un milione di dollari
australiani ad organizzazioni locali di soccorso e Kfc Australia ha devoluto
700 mila dollari alla croce rossa per far fronte al disastro. Unilever Australia
invece elargirà beni primari ma anche prodotti per la pulizia a coloro che sono
rimasti senza casa e si è impegnata ad aiutare i propri partner commerciali in
loco che hanno subito danni.




HUMAN

HUMAN

L’ospite di questa settimana del mio blog è Danilo Piton di HUMAN

Ciao Danilo e benvenuto sul mio blog. La tua società Human è nata pochi mesi fa: da chi è partita l’idea?
Ciao Rossella e grazie per la visibilità che ci offri. L’idea di Human nasce nell’estate del 2017. Discutendo tra amici, ci siamo sentiti soli nella nostra volontà di partecipare alla sfida lanciata dai Sustainability Developements Goals delle Nazioni Unite. Sembrava essere una questione riservata a Stati, Organizzazioni e Aziende, mentre noi crediamo che siano prima di tutto le persone a poter fare la differenza nel contrastare i cambiamenti climatici.
E allora ci siamo chiesti: se le aziende pianificano le loro attività per la sostenibilità, perché non dare anche alle persone la possibilità di realizzare il proprio percorso verso la sostenibilità?
Per questo abbiamo realizzato una web app che permette alle persone di conoscere l’impatto ambientale del proprio stile di vita e di stabilire le azioni per diventare più sostenibili.
Dopodiché possono condividere questo impegno con tutti propri profili social, perché quando facciamo qualcosa di buono è bene che tutti lo sappiano affinché si uniscano a noi.
L’obiettivo di HUMAN è comunicare la bellezza di essere sostenibili per coinvolgere gli altri nel piacere della sostenibilità. Ed ecco che una semplice idea si è trasformata in innovazione e in uno strumento semplice e quotidiano diventa la base per creare una community.
Il problema dei cambiamenti climatici è sempre più attuale. Con la vostra proposta vi rivolgete alle imprese per coinvolgere le persone: ci spieghi meglio?
La HUMAN Web app è lo strumento. Si tratta di un contenitore di “Awareness campaign” con cui vengono affrontati argomenti specifici a tema ambientale e che vengono messe a disposizione delle aziende, affinché possano divenire seminatrici di sostenibilità presso i loro stakeholder.
L’utente, sottoscrivendo una “Campagna di Awareness”, aderisce alla comunità di valori ed esperienze realizzata dalla specifica azienda.
Le Nazioni Unite, con i Sustainability Developements Goals, hanno stabilito i target che devono essere raggiunti dagli stati membri; gli stati membri da parte loro hanno chiesto alle aziende di impegnarsi verso il traguardo comune; le aziende saranno agevolate nel raggiungimento dei loro obiettivi incentivando la diffusione della HUMAN WebApp presso i loro dipendenti e clienti.
Vogliamo raggiungere le aziende che condividono con noi la fiducia nelle persone e la volontà di incentivare la coscienza sostenibile. Crediamo che grazie al coinvolgimento delle aziende potremo ottenere più facilmente la visibilità necessaria a coinvolgere un numero di utenti rilevanti per un cambiamento significativo.
La tecnologia è fondamentale per trovare soluzioni finalizzate alla riduzione dell’impatto ambientale: quanto è stata importante per voi?
Per HUMAN tecnologia significa comprendere l’impatto associato a consumi e comportamenti e disporre della capacità di rappresentazione delle campagne nel contesto digitale identificato.
La certificazione dei processi di misura necessari alla quantificazione degli impatti collegati ai comportamenti degli utenti è stata ottenuta grazie a una collaborazione con il Dipartimento Ingegneria Ambientale del Politecnico di Torino, sotto la direzione scientifica del professor Blengini. I processi di Life Cycle Assessment assegneranno i valori da associare alle singole risposte oggetto di valutazione nelle campagne di Awareness.
La tecnologia ci permette anche di essere flessibili e assecondare i bisogni delle aziende e delle persone. Per esempio: HUMAN non è una app, bensì una web app, e quindi non richiede all’utente di dover scaricare nulla. Offre anche la possibilità di raccogliere e raccontare informazioni rilevanti sull’impegno per la sostenibilità, con una suite completa di strumenti di analisi dei dati, progettata dal team di Human e dai nostri partner tecnologici.
Infine è proprio il nostro team e le sue competenze tecnologiche e trasversali a dare energia a questo progetto, adattandosi velocemente agli obiettivi che le company possono dichiarare, con dinamicità ed entusiasmo.
Quali sono gli obiettivi che vi siete dati per il 2020?
Il 2020 per noi è un anno cruciale, dal 30 gennaio andremo in produzione. I contatti avviati con alcune aziende early adopter ci hanno permesso di mettere a punto la HUMAN App e i Seeding Sustainability, i servizi pensati a supporto delle aziende, in modo da presentare la nostra soluzione al mercato CSR.
Inoltre parteciperemo al Giro d’Italia della CSR per aggiungere la proposta di HUMAN ai vari volti della sostenibilità. Sarà un anno nel quale andremo a mettere a punto il nostro modello di vendita, anche grazie ad alcuni accordi commerciali di distribuzione, con lo scopo di procedere all’internazionalizzazione a partire dal 2021.
Il rafforzamento del Team e l’arricchimento di competenze ci permetterà di dare vita alla nostra vision: realizzare la piattaforma digitale più usata per diffondere le campagne di sostenibilità, e così unire aziende, persone e istituzioni nel miglioramento concreto dell’ambiente.