1

I big della moda riuniti su clima, oceani e biodiversità: 32 aziende firmano il Fashion Pact

|
I big della moda riuniti su clima, oceani e biodiversità: 32 aziende firmano il Fashion Pact

L’impegno sull’ambiente sottoscritto a Parigi con il presidente Macron. La presentazione ufficiale al G7 di Biarritz


Trentadue marchi leader nel settore della moda uniti in uno sforzo collettivo sulla sensibilizzazione dei temi ambientali con un focus su clima, difesa degli oceani e della biodiversità. È lo spirito del Fashion Pact, l’impegno che alcuni dei maggiori player del settore hanno sottoscritto a Parigi alla presenza del presidente francese Emmanuel Macron e che verrà presentato ufficialmente al G7 di Biarritz in programma nei prossimi giorni.  All’incontro all’Eliseo hanno partecipato anche il ministro dell’Economia e delle finanze Bruno Le Maire, del Lavoro Muriel Pénicaud, ed il vice ministro della Transizione ecologica e solidale Brune Poirson.
Gli obiettivi del Fashion Pact si basano sull’iniziativa science-based target (Sbt1), che si focalizza su tre aree principali per la salvaguardia del pianeta: arrestare il riscaldamento globale (global warming), creando e implementando un piano d’azione per azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050, al fine di mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1.5 gradi, tra adesso e il 2100. Ripristinare la biodiversità, raggiungendo gli obiettivi indicati dai parametri stabiliti dall’iniziativa science-based target, per ristabilire gli ecosistemi naturali e proteggere le specie. Proteggere gli oceani, riducendo l’impatto negativo del settore della moda sugli oceani stessi,mediante iniziative concrete, quali ad esempio la riduzione graduale della plastica monouso.
Ad aprile scorso, in previsione del vertice del G7, Emmanuel Macron aveva affidato a François-Henri Pinault, Presidente e ceo di Kering, il compito di riunire e coinvolgere gli attori più importanti nel campo della moda e tessile, con la finalità di definire obiettivi concreti per ridurre l’impatto ecologico causato dal proprio settore.
Nella schiera dei sottoscrittori marchi del lusso, della sport ma anche aziende del retail. Questo l’elenco completo: Adidas, Bestseller, Burberry, Capri Holdings, Carrefour, Chanel, Ermenegildo Zegna, Everybody & Everyone, Fashion3, Fung Group, Galeries Lafayette, Gap, Giorgio Armani, H&M, Hermes, Inditex, Karl Lagerfeld, Kering, La Redoute, Matchesfashion.Com, Moncler, Nike, Nordstrom, Prada, Puma, Pvh, Ralph Lauren, Ruyi, Salvatore Ferragamo, Selfridges, Stella Mccartney, Tapestry.




Il social nuoce gravemente alla salute: ve lo dicono le top model con un selfie

|

I selfie delle top model sono degli avvertimenti sulla pericolosità dei social network. La cover scelta da Kaia Gerger, Gigi Hadid e molte altre modelle da sfilata e copertina tra le più influenti sui social network, lancia un messaggio chiaro contro Instagram – sul quale le top model sono delle vere e proprie celebrità – e gli altri social.
Con un font pulito e facilmente comprensibile, su sfondo bianco, compare la scritta: “I social media danneggiano seriamente la tua salute mentale”. La frase, stampata sul retro di una custodia trasparente per cellulare, appare ultimamente sui social attraverso i loro selfie allo specchio o nelle foto in cui compare il telefono.
Oltre a Kaia Gerger e Gigi Hadid, si sono immortalate con dei selfie che mostrano questo avvertimento anche altre modelle, come Madison Beer, Hailey Bieber, Delilah Belle e dozzine di utenti Instagram. 

I selfie delle top model che vogliono sovvertire Instagram
Nelle foto alcuni dei selfie su Instagram delle top model che hanno scelto la cover con l’avvertimento contro i social network

Alcuni studi hanno scoperto che l’uso prolungato del social media è legato alla depressione e alla solitudine e alleviare le pressioni che derivano dalla connessione costante è stata al centro della preoccupazione dei giganti dell’hi-tech negli ultimi anni.
Secondo The Verge, che ha fatto emergere questo caso, la popolarità di questa semplice custodia per iPhone, suggerisce che anche le persone con molto successo sui social, come le supermodelle con milioni di follower e le cui carriere dipendono anche da Instagram, si preoccupano dell’effetto che i social media hanno sulla mente e sull’autostima, propri e di chi le segue. 
I selfie delle top model che vogliono sovvertire Instagram
La custodia del telefono con l’avvertimento sulla salute mentale è di Urban Sophistication, un marchio che da quattro anni si è specializzato in abiti e accessori con loghi e frasi ironiche. La custodia con la frase sui social media, sul mercato dal 2017, costa 35 dollari ed è un bestseller. 
Da anni si parla dei danni per la salute mentale dell’uso dei social network: nel 2017 si parlava di come l’uso di Facebook diminuisca la salute fisica e mentale e nel 2019 l’esperimento di un fotografo faceva emergere l‘ansia da foto ritocco degli adolescenti, ma anche in passato la salute mentale e l’uso dei social (ma anche dei videogiochi) è stata al centro di ricerche e studi.




La schiavitù moderna è il nuovo rischio reputazionale (e legale) per i manager

|

La crescente sensibilità sociale dei consumatori obbliga le aziende a controllare con attenzione la supply chain, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, per evitare violazioni dei diritti dei lavoratori


I consumatori sono perennemente alla ricerca dei prezzi più bassi ma, allo stesso tempo, sono sempre più sensibili a temi quali le violazioni dei diritti dei lavoratori, soprattutto se compiute nei Paesi in via di sviluppo. Le aziende non possono però far notare la contraddizione di queste due richieste perché “il cliente ha sempre ragione”. Ricade dunque su di loro la responsabilità di trovare un giusto equilibrio, con il rischio da una parte di perdere compratori perché i suoi prezzi sono troppo alti e, dall’altra, di subire un pesante danno d’immagine, se non addirittura potenziali azioni legali.
A lanciare l’allarme su questi rischi sono gli esperti di Allianz Global Corporate & Specialty che rilevano come il Global Slavery Index 2018 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) stimi che, a livello globale, circa 40,3 milioni di persone vivano in una condizione di moderna schiavitù. Inoltre, i Paesi del G20 importano prodotti a rischio di provenienza da lavoro forzato per un valore totale di 354 miliardi di dollari, un dato che riguarda soprattutto l’elettronica (pc, cellulari, ecc.) con 200 miliardi di miliardi, seguita dall’abbigliamento (127,7 miliardi), la pesca (12,9 miliardi), il cacao (3,6 miliardi) e la canna da zucchero (2,1 miliardi). La schiavitù moderna non riguarda però solo il Terzo Mondo ma anche l’Italia dove, sempre secondo le stime dell’Ilo ben 145mila persone risultano esserne vittime.
“La principale minaccia che un’impresa deve affrontare a causa dello sfruttamento degli esseri umani nella supply chain, oltre ai potenziali rischi di responsabilità civile quando opera con fornitori, è proprio il danno reputazionale – scrivono gli esperti del colosso tedesco – Una situazione, quest’ultima, sempre più probabile per le aziende che non rispettano gli standard richiesti, soprattutto a seguito dell’accresciuta difesa dei consumatori e persino dei cosiddetti esempi negativi di casi resi di pubblico dominio, molti dei quali guidati da organizzazioni non governative per sensibilizzare l’opinione pubblica“.
Lo sfruttamento degli esseri umani nella supply chain sta dunque diventando una preoccupazione e un importante elemento di esposizione per i consigli di amministrazione, dirigenti e funzionari delle aziende con sede nel Regno Unito, negli Stati Uniti, nell’Unione Europea ed in Australia. “In un momento in cui le autorità di regolamentazione e quelle investigative stanno concentrando un’attenzione senza precedenti sulla responsabilità personale dei dirigenti aziendali, questioni come la schiavitù nella supply chain potrebbero creare problemi importanti per i manager senior – spiega Shanil Williams, Global head of commercial financial lines di Allianz Global Corporate & Specialty – Prevediamo una maggiore applicazione delle norme in materia di diritti umani ed è quindi necessario responsabilizzare i dirigenti nell’essere trasparenti nell’effettuare i controlli delle attività della catena dei fornitori. Le aziende che non adottano misure adeguate per eliminare lo sfruttamento degli esseri umani dalla catena dei loro fornitori possono dover affrontare cause legali”.
Per mettersi al sicuro da questi rischi, le aziende devono impegnare contrattualmente i venditori e i fornitori su salari equi, orari di lavoro e trattamento umano giusti prima di fare affari con loro, implementando inoltre i necessari controlli per affrontare le violazioni. Quando viene scoperta un’infrazione, è importante agire rapidamente e dichiarare pubblicamente che non verranno tollerate violazioni del codice di condotta da parte dei loro fornitori. Esistono infine delle soluzioni assicurative efficaci di risposta alle crisi, che possono contribuire a mitigare l’impatto dei sinistri “reputational”.




Da employer branding a employer reputation

|

Perché -oggi più che mai- la reputazione è una leva determinante anche per le “Human Resources” delle Aziende


Reputation Institute ha battezzato il 2019 come “Reputation Judgement Year” per enfatizzare l’urgenza imposta alle aziende di incontrare le crescenti aspettative degli stakeholder in uno scenario che sta cambiando e che impone una rinnovata centralità di un racconto “Corporate”.
Globalizzazione e media digitali hanno drammaticamente accelerato la domanda di partecipazione degli stakeholder non solo rispetto alle grandi questioni sociali ma anche nelle relazioni con le aziende: la reputazione delle imprese, oggi, è continuamente sottoposta al giudizio dei suoi pubblici grazie alle straordinarie possibilità di accesso alle informazioni. Questo oggi non vale solo nelle scelte di acquisto dei consumatori (dove il prodotto/servizio è sempre meno importante di “chi c’è dietro” quel prodotto/servizio), ma anche nella scelta dell’azienda in cui lavorare: oggi la reputazione è uno delle leve di talent attraction & retention. Ed è un giudizio che va oltre il tradizionale concetto di “datore di lavoro” e si arricchisce di nuove e crescenti aspettative legate soprattutto a credibilità e leadership dell’impresa anche al di fuori del contesto aziendale interno.
La Comunità HR oggi si trova, quindi, costretta ad aggiornare strategie e leve per vincere le due sfide principali che la Reputation Economy impone con forza: (1) trasformare i dipendenti in ambasciatori della reputazione verso l’esterno dell’azienda; (2) attrarre (e trattenere) i talenti migliori, soprattutto in un mercato alla ricerca di nuove competenze, dove la crescente competizione per i talenti tra “agili” start up e “grandi” aziende, annulla,  di fatto, ogni differenza dimensionale e di capacità di investimenti.
In questo contesto, partendo dal presupposto che la reputazione è un legame emotivo che spinge le persone a voler lavorare per un’azienda, Reputation Institute ha analizzato la reputazione di 100 aziende operanti in Italia nella loro veste di datore di lavoro presso un campione selezionato di job seeker.
Che cosa influenza la scelta di una persona di lavorare per un’azienda (“work for”)? Secondo lo studio di Reputation Institute non è sufficiente la capacità dell’azienda di farsi riconoscere come un datore di lavoro “attraente” (Employer Brand Stregth Index). La leva dell’Employer Branding – oggi utilizzata da molte Direzioni HR per riuscire ad attrarre talenti – è sicuramente utile, ma non spiega esaustivamente le ragioni alla base della scelta delle persone. Esiste, infatti, secondo i dati analizzati da Reputation Institute, una correlazione ancora più forte tra “work for” e reputazione dell’azienda, perché – a differenza dell’Employer Branding – quest’ultima rappresenta un asset capace di costruire equity in maniera molto più durevole. Non basta essere riconosciuti, quindi, occorre saper costruire un legame emotivo molto più forte e duraturo.
“Le tematiche legate alle persone, dipendenti e potenziali candidati, diventano quindi una priorità che non coinvolge più soltanto il mondo HR, ma la totalità dell’organizzazione. I confini dei ruoli della comunicazione esterna e quella interna si sono fusi e stanno dando origine a una nuova sinergia e partnership organizzativa.” – ha affermato Michele Tesoro-Tess. “La comunità HR oggi deve munirsi di nuove metriche di monitoraggio e di valutazione per prendere delle scelte riconosciute strategiche anche dai CEO, oggi sempre più attenti ad accaparrarsi nuove competenze coerenti con le strategie necessarie ad affrontare un mercato sempre più competitivo”.
Come si può integrare Employer Branding ed Employer Reputation? Esiste una “equazione di valore” da sviluppare per accelerare la capacità dell’azienda di attrarre nuovi lavoratori: all’aumentare della capacità dell’azienda di farsi riconoscere, cresce più che proporzionalmente la sua reputazione con impatti significativi sulla propensione delle persone a voler lavorare per quella stessa azienda.




Dalla Bestia di Salvini a Giorgia Meloni: il setaccio di Report sulla comunicazione social della destra italiana

|
Dalla Bestia di Salvini a Giorgia Meloni: il setaccio di Report sulla comunicazione social della destra italiana
Durante il programma di Rai3 sono stati analizzati i profili social dei leader della Lega e di Fratelli d’Italia, tra campagne social a pagamento e amplificazione del messaggio attraverso bot


Dopo l’inchiesta sui presunti fondi russi alla Lega e la rete di finanziamenti delle organizzazioni ultracristiane, Report ha posto la propria lente di ingrandimento sul mondo social della destra italiana.
Dall’inchiesta è emerso un quadro fortemente articolato e complesso, che vede attivi diversi attori, ed è caratterizzato da più fattori che si intrecciano in modo quasi impercettibile a un occhio non esperto.

La diffusione delle fake news attraverso pagine modificate

Ma a chiunque frequenti i social network da diversi anni (in particolare Facebook) sarà capitato almeno una volta nella propria “vita digitale” di vedere pagine a cui aveva espresso la propria preferenza cambiare radicalmente nome, passando da temi leggeri come il calcio, la moda, il gossip, a seguire delle pagine o a far parte di gruppi dai connotati chiaramente politici, ma non ufficiali, e che dispensano spesso fake news.
Ed è nel tentativo di risalire agli account che diffondono tali contenuti falsi in modo sistemico e coordinato che Report ha intercettato alcuni gruppi e pagine che, dopo aver fatto incetta di membri e/o follower, hanno cambiato la propria denominazione, diventando pagine di amplificazione di contenuti filo leghisti o filo M5s.

Report

✔@reportrai3

Gruppi che condividono #fakenews sui migranti nascono come pagine di sport e di agricoltura. E, dopo aver fatto incetta di membri e followers, cambiano la propria denominazione, diventando gruppi a supporto della Lega e dei Cinquestelle. #Report

Visualizza l'immagine su Twitter

880

21:48 – 28 ott 2019
Informazioni e privacy per gli annunci di Twitter
640 utenti ne stanno parlando

 
Tuttavia, a ridosso del voto delle Europee 2019, molte pagine che diffondevano contenuti falsi sono state rimosse dalla piattaforma di Zuckerberg. Nessuna delle pagine chiuse presentava collegamenti ufficiali o diretti con la Lega che, così come altri partiti, ufficialmente usa il sistema delle sponsorizzazioni.

Il costo delle sponsorizzazioni politiche su Facebook

Tutti i politici, infatti, per raggiungere un maggior numero di persone, pagano Facebook per creare dei contenuti sponsorizzati. Renzi, per esempio, nell’ultimo anno ha speso 56.632 euro e sponsorizza quasi ogni giorno tutti i post che pubblica sulla piattaforma social, scegliendo la fascia d’età degli utenti target del messaggio e la loro regione di residenza.
E se Di Maio quest’anno ha speso 0 euro in inserzioni, il Movimento Cinque Stelle ha investito quasi 50mila euro, anche se la maggior parte delle sponsorizzazioni si sono concentrate nel periodo antecedente alle elezioni Europee.
Ma il più attivo è Matteo Salvini che, dall’inizio del 2019, ha speso 140.000 euro in inserzioni. Tuttavia il leader della Lega, a differenza di tutti gli altri politici, è l’unico a scegliere di amplificare e utilizzare come target anche gli utenti con meno di 18 anni.
Inoltre Salvini investe spesso in inserzioni per accrescere la diffusione di notizie di cronaca relative a migranti, indirizzando – anche in questi casi – il target verso i giovani tra i 13 e i 17 anni.

Report

✔@reportrai3

Per trasmettere la propria propaganda, i profili ufficiali dei partiti ricorrono alle sponsorizzazioni su Facebook. Quasi tutti indirizzano i loro messaggi a utenti dai 18 anni in su, #Salvini è l’unico che indirizza i suoi messaggi anche ai minorenni.#Report

Video incorporato

1.792

21:49 – 28 ott 2019
Informazioni e privacy per gli annunci di Twitter
1.306 utenti ne stanno parlando

I “sock puppets” e l’amplificazione dei contenuti

Tra gli strumenti utili a oliare al meglio la diffusione dei contenuti sui social (indipendentemente dalla loro veridicità e fondatezza o meno), vi sono poi i cosiddetti sock puppets, ossia degli account che sembrano reali ma non lo sono, e vengono gestiti contemporaneamente attraverso software specifici che con un semplice click permettono di diffondere contenuti affinché questi – ingannando gli algoritmi delle piattaforme – risultino avere maggiore rilevanza e, di conseguenza, visibilità.
In questo modo si alimenta quindi l’attenzione del pubblico, che incrocia inconsapevolmente un determinato tipo di contenuto ritenendolo pubblicato da un utente reale, ma così non è.

Report

✔@reportrai3

Si chiamano “sock puppets”, in italiano “account marionetta”. Sono profili che sembrano reali, ma in realtà vengono gestiti contemporaneamente, a gruppi di 10 o anche di cento, da un’unica persona. #Report

Visualizza l'immagine su Twitter

650

21:52 – 28 ott 2019
Informazioni e privacy per gli annunci di Twitter
477 utenti ne stanno parlando

Tra i casi riportati vi è quello di Francesca Totolo, collaboratrice de Il Primato Nazionale, e che spesso si è resa protagonista di diffusione di notizie false e contro i migranti, che risulta possedere un “account trigger” (grilletto, ndr).
Ogni volta che pubblica un contenuto su Twitter, infatti, le ricondivisioni sono immediate e i messaggi che veicola si diffondono a grande velocità, come se si attivasse un meccanismo di ricondivisione del contenuto in modo forzato attraverso bot o account fake.

I bot e l’automatizzazione dei contenuti

Un ulteriore strumento utile all’amplificazione di taluni contenuti sarebbero poi i bot, dei profili falsi programmati per scrivere contenuti con un determinato taglio e/o per diffondere questi contenuti.
Spesso, come conferma Andrea Bruno, programmatore informatico e creatore di bot, la creazione di contenuti falsi che polarizzino il pubblico è molto più semplice del previsto.
In alcuni casi è sufficiente un fotomontaggio con un’affermazione falsa e fuorviante per riuscire a inserire nel circuito vere e proprie fake news, che polarizzano ulteriormente gli utenti della rete.

Chi paga tutti questi strumenti social?

Nell’inchiesta Report si è principalmente focalizzata sulla cosiddetta “Bestia” di Luca Morisi, il creatore della “perfetta” macchina social di Matteo Salvini.

Morisi infatti gestisce uno staff di 35 esperti di digitale che monitorano Salvini 24 ore su 24 7 giorni su 7. Attraverso il monitoraggio delle conversazioni, tuttavia, lo staff di Morisi è in grado di intercettare le conversazioni che hanno maggiore rilevanza, a prescindere dal fatto che riguardino prettamente Salvini o la Lega.
Inoltre, grazie al monitoraggio in tempo reale sul sentiment della rete, lo staff di Morisi può adeguare o rettificare il messaggio condiviso a seconda delle opinioni prevalenti nelle conversazioni online.
Un caso eclatante è stato quello relativo al commento della vittoria di Mahmood al festival di Sanremo, inizialmente osteggiata da Salvini e poi, dopo l’analisi delle conversazioni sul tema, trasformatasi in favorevole all’artista milanese.
Ma da chi provengono i soldi che la Lega investe nei contenuti sponsorizzati? Già nel 2017 Report si era occupata del caso, e aveva scoperto che dal 2009 aveva incassato all’incirca un milione di euro da parte delle Asl in amministrazione leghista della Lombardia.
Sempre Report, nel giugno scorso, aveva ricostruito alcuni movimenti sospetti di denaro nelle casse della Lega. Dall’inchiesta era emerso che il Carroccio aveva versato 480mila euro di fondi pubblici alla cognata di Alberto Di Rubba, direttore amministrativo della Lega alla Camera, destinate ufficialmente alle attività del gruppo sui social network.
Tuttavia, la donna ufficialmente è una barista con un’attività nella provincia di Bergamo, e pochi giorni prima del versamento aveva aperto una società di comodo in cui far confluire la cifra.
Il contratto con la società di comodo è stato sospeso dopo alcuni mesi, ma una parte del versamento – secondo una fonte anonima intervistata da Report – è rientrato nelle casse della Lega, per essere destinato ad alcuni membri dello staff di Salvini, tra cui proprio lo stesso Morisi.

Lo strano caso degli stessi account di Giorgia Meloni, Trash Italiano e Francesca Michelin

Spostandosi invece all’analisi dei follower di Giorgia Meloni, nell’inchiesta di Report sono emersi alcuni dati curiosi, che farebbero intendere che molti dei “seguaci” della leader di Fratelli d’Italia siano profili falsi e, ipoteticamente, acquistati per alimentare il seguito digitale. Questi profili anomali risultano essere stati tutti creati nello stesso periodo e hanno la caratteristica comune di avere meno di 10 follower.
Ma la vera curiosità è che più di 237mila di account che seguivano Meloni, secondo il data analyst Alex Orlowsk, a maggio, erano gli stessi che seguivano l’account di Trash Italiano, un blog che crea e condivide gif e meme di spettacolo.

Report

✔@reportrai3

Tra Giorgia Meloni, la cantante Francesca Michielin e la pagina “Trash Italiano” i follower a maggio del 2019 sono praticamente gli stessi. Sono anomaili perché hanno meno di 10 follower e sono stati creati tutti quanti nello stesso periodo. #Report

Visualizza l'immagine su Twitter

326

22:14 – 28 ott 2019
Informazioni e privacy per gli annunci di Twitter
224 utenti ne stanno parlando

Migliaia di questi follower, inoltre, combaciavano con gli utenti che seguono il profilo della cantante Francesca Michielin che, lo scorso maggio, risultava avere il 34% dei follower in comune con la leader di Fratelli d’Italia.
E la domanda, in questo caso, sorge spontanea: com’è possibile che un numero così consistente di utenti, tutti creati nello steso periodo di tempo e tutti con meno di 10 follower, possano seguire account così distanti?
Giorgia Meloni ha negato di aver acquistato follower, Trash Italiano – in una mail inviata alla redazione di Report – ha negato di averne acquistati per alimentare il proprio seguito social, così come la cantante Francesca Michielin. Ma i dubbi persistono e, al momento, la risposta sembra essere ancora lontana.

Report

✔@reportrai3

“Trash Italiano” ci ha scritto oggi in relazione a quanto mostrato dall’inchiesta#Report

Visualizza l'immagine su Twitter

263

22:10 – 28 ott 2019
Informazioni e privacy per gli annunci di Twitter
99 utenti ne stanno parlando

La risposta di Giorgia Meloni al servizio di Report

La leader di Fratelli d’Italia, dopo la messa in onda del servizio di Report, ha rigettato tutte le presunte che emergerebbero dall’inchiesta. «#Report mi dedica un bambinesco servizio degno di un circolo terrapiattista: GOMBLOTTO sovranista, hacker cosacchi, bot e robot. Zero fatti, solo fango. Raccolgo i dati e faccio una conferenza per deridere questi “giornalisti di inchiesta, ci sarà da ridere», scrive Meloni su Twitter.

https://twitter.com/GiorgiaMeloni/status/1188936488135860233