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Valutazione d'impatto sociale, dopo il decreto ecco cosa sapere e cosa fare

Valutazione d’impatto sociale, dopo il decreto ecco cosa sapere e cosa fare

La pubblicazione del decreto segue quello sul bilancio sociale degli enti di terzo settore con cui si relaziona esplicitamente presentando la valutazione di impatto come elemento del bilancio sociale con cui condivide principi di redazione. Ecco una guida alla lettura

Non c’è dubbio che ”la valutazione dell’impatto sociale” sia uno degli elementi introdotti dalla Riforma del Terzo settore che, presentando maggiore innovatività, ha catturato da subito l’attenzione di studiosi e addetti ai lavori. Il legislatore della legge 6 giugno 2016, n. 106 recante “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale” (legge delega) ha richiamato più volte l’impatto sociale, arrivando a relazionare l’affidamento agli enti dei servizi d’interesse generale nella fase di programmazione a livello territoriale “al rispetto di standard di qualità e impatto sociale del servizio” e a creare un potenziale collegamento – sviluppato poi solo indirettamente – tra impatto sociale e benefici fiscali.
Sicuramente hanno influenzato la scelta operata gli esempi derivanti da altri contesti internazionali, in particolare l’esempio della prassi britannica che ha eletto il “social impact measurement” come criterio di valutazione principale per l’operato delle charities e il “social return on investment” come metodo di valutazione di riferimento per esprimere un giudizio sui progetti in essere.
In questo contesto si colloca il decreto del Ministero del lavoro del lavoro e delle politiche sociali del 23 luglio 2019 “Linee guida per la realizzazione di sistemi di valutazione dell’impatto sociale delle attività svolte dagli enti del Terzo settore”, volto a dare attuazione alla richiesta “esplicita” da parte del legislatore delegante di disciplina della materia. La pubblicazione del decreto segue quello sul bilancio sociale degli enti di terzo settore con cui si relaziona esplicitamente presentando la valutazione di impatto come elemento del bilancio sociale con cui condivide principi di redazione.
Ciò detto, cos’è l’impatto sociale? Ce lo dice ancora una volta la norma delegante per la quale “per valutazione dell’impatto sociale si intende la valutazione qualitativa e quantitativa, sul breve, medio e lungo periodo, degli effetti delle attività svolte sulla comunità di riferimento rispetto all’obiettivo individuato”. Ad una prima lettura il proposito appare di difficile realizzazione, dato che le attività di interesse generale impattano sulla comunità di riferimento assieme a tanti altri fattori e prevederne gli effetti “di medio e lungo periodo” appare improbo per il più accorto dei valutatori.
Il proposito diviene più realistico se si considerano correttamente le linee guida come “standard di processo”, che delineano un percorso dichiarando come dice la norma il proprio “valore promozionale ponendosi quale strumento di facilitazione della concreta realizzazione della valutazione di impatto sociale (VIS)”. Tale processo deve essere regolato da alcuni principi quali intenzionalità, rilevanza, affidabilità, misurabilità, comparabilità, trasparenza e comunicazione), principi in gran parte comuni al processo di costruzione del bilancio sociale.
La scelta di standard di processo non definisce invece, specifici indicatori e misurazioni, compito proprio di uno standard di contenuto. La scelta sembra l’unica operativamente percorribile in quanto gli ambiti di intervento delle attività di interesse generale oggetto di misurazione sono estremamente eterogenei e qualsiasi formula “rigida” ed omnicomprensiva di valutazione dell’impatto sociale sarebbe stata comunque approssimativa ed insufficiente.
Basti pensare alla diversità delle situazioni che concernono gli interessi generali dell’art. 5 del Codice del Terzo settore che vanno dalle prestazioni socio-sanitarie alla tutela dell’ambiente, dall’adozione internazionale al commercio equo e solidale. Non sembra possibile, quindi, trovare una formula valutativa generale, considerato che anche la stessa attività nel medesimo contesto di riferimento può essere svolta con obiettivi, modalità e risultati diversi che richiedono indicatori estremamente differenti. Infatti il Decreto richiede agli enti di “prevedere all’interno del sistema di valutazione una raccolta di dati sia quantitativi che qualitativi, considerando indici ed indicatori, sia monetari che non monetari, coerenti ed appropriati ai propri settori di attività di interesse generale” esplicitando le dimensioni di valore che le attività perseguono.
Le linee guida richiedono così l’esplicitazione del processo di definizione delle finalità, dei risultati e degli effetti che le organizzazioni si propongono di raggiungere a partire dalla partecipazione al processo dei soggetti e/o delle istituzioni individuate come interlocutori o destinatari dell’attività.
Il documento fornisce altresì indicazioni per “organizzare” il proprio percorso valutativo, e definire:

  • dati oggettivi e verificabili;
  • la verifica dello scostamento tra risultati raggiunti e obiettivi programmati;
  • l’utilizzo delle informazioni raccolte a fini di comunicazione esterna agli stakeholders;
  • l’utilizzo di misure di sintesi per rappresentare l’impatto sociale.

Tutti i punti sopra elencati richiederebbero osservazioni più approfondite la cui trattazione ci porterebbe lontano nella discussione. Si deve, però, almeno soffermare l’attenzione sul fatto che il processo di valutazione dell’impatto sociale dovrebbe rappresentare per l’ente non solo un mezzo di comunicazione esterna, ma primariamente uno strumento di controllo strategico delle attività mostrando talvolta agli stessi dirigenti le dimensioni di valore perseguito ed il modo per misurarle.
D’altronde se le società lucrative controllano la gestione per capire se i propri target “monetari” e “non monetari” sono in linea con quanto programmato, gli enti del Terzo settore una volta definite le dimensioni esplicative non debbano monitorare la produzione di valore sociale attraverso indicatori liberamente predefiniti.
In merito all’applicazione della norma, come spesso accade in questa Riforma il legislatore non “obbliga” gli enti a comportamenti “virtuosi” collegando tali comportamenti a potenziali benefici. In questa prospettiva, le linee guida prevedono che le pubbliche amministrazioni “possano” richiedere la realizzazione di sistemi di misurazione del social impact per la “valutazione dei risultati in termini di qualità e di efficacia delle prestazioni e delle attività svolte”, anche in via differita, per interventi di almeno 18 mesi e di entità economica superiore ad 1milione di euro. Si introduce così una programmazione e individuazione preventiva di parametri di risultato ed impatto che per essere efficace dovrebbe inserirsi nei meccanismi di assegnazione e remunerazione delle attività svolte.
L’indicazione conferma una percezione avuta dalla lettura del testo, ossia che l’impatto sociale sia considerato un tema soprattutto per “grandi”, visto anche la possibilità di includere la misurazione nel bilancio sociale (obbligatorio per gli enti del Terzo settore che presentano proventi annui superiori a 1milione di euro). Con questo non si vuol dire che gli enti non grandi non abbiano un impatto sulla comunità di riferimento. Si vuole, in realtà, significare che la costruzione di modelli per la misurazione dell’impatto, pensando ai casi internazionali e nostrani di riferimento, non è cosa sempre intuitiva e spesso onerosa in termini organizzativi. Una soluzione per gli enti di minori dimensioni la suggerisce il decreto affermando che i Centri di servizio per il volontariato e le reti associative nazionali possono fornire supporto per l’identificazione e la realizzazione di strumenti di misurazione. L’indicazione appare, in verità, naturale perché un movimento (si pensi alle grandi reti) assume una credibilità maggiore quando riesce a misurare il suo impatto in via complessiva, e per dare un senso all’aggregazione dei dati (e non sommare pere con mele) è opportuno disporre di dati omogenei: inoltre modelli omogenei di misurazione diffondono una cultura organizzativa unitaria. In tal modo anche i piccoli enti potranno strutturare e sperimentare modelli valutativi più semplici, che sicuramente la prassi professionale, tecnica e delle organizzazioni non mancherà di identificare.
Non si può, infine, non apprezzare l’elasticità offerta nell’adozione del modello della valutazione di impatto sociale. Se, infatti, gli schemi di bilancio necessitano della comparabilità tra enti e quindi schemi standardizzati, l’impatto sociale sembra dover essere maggiormente cucito su misura dello specifico ente con una sua applicazione uniforme nel corso del tempo per esplicitare il suo valore. Valore che non è rivolto solo alla comunicazione esterna, ma che può rappresentare un momento di riflessione “istituzionale e strategica” utilissimo per gli stessi dirigenti e interlocutori dell’organizzazione sulla missione dell’ente, gli impatti ricercati sulla comunità di riferimento e le modalità per valutarli. Non resta, quindi, di poter vedere come saranno recepite le indicazioni ministeriali, sperando che la misurazione non resti una dichiarazione di intenti ma una fonte di informazioni nuova per tutti i soggetti interni ed esterni, coinvolti, a diverso titolo, nel Terzo settore.
*Claudio Travaglini, Università di Bologna
*Matteo Pozzoli, Università degli Studi di Napoli “Parthenope”




BREXIT, OVVERO COMUNICAZIONE POLITICA E MANIPOLAZIONE DEL CONSENSO: CHI PAGA IL CONTO?

COMUNICAZIONE POLITICA E MANIPOLAZIONE DEL CONSENSO: CHI PAGA IL CONTO?

18 dicembre, Claudio Vigolo intervista il Prof. Luca Poma, autore dell’articolo “COMUNICAZIONE POLITICA E MANIPOLAZIONE DEL CONSENSO: CHI PAGA IL CONTO?”  sulle manipolazioni occulte del dibattito pubblico in occasione della campagna “Leave” in UK (2016).
Ecco l’audio del “Blocco” (5 min. circa):




Scrivere per lo smartphone: una nuova linearità

Seguo da anni Mario García, uno dei più famosi newspaper designer a livello mondiale, che tra l’altro impersona al meglio il sogno americano: arrivato ragazzetto profugo cubano in Florida, senza sapere una parola di inglese, è diventato giornalista e poi visual designer, fino a progettare quotidiani su tutte le piattaforme e a insegnarlo alla scuola di giornalismo della Columbia University.
Ha vissuto tutta intera la trasformazione dei giornali, dalla composizione tipografica al digitale: ha portato il colore sulle pagine di serissimi quotidiani come il Wall Street Journal e il tedesco Die Zeit; ne ha ridotto il formato senza farli assomigliare a giornaletti scandalistici, anzi; ha dato al Washington Post la veste attuale; ha realizzato le edizioni digitali di tanti giornali in tutto il mondo.

“Visual journalism: a way to encourage reading, a way to bring visual excitement to the pages of newspapers that had traditionally being long masses of grey text.”

E infatti il primo volume della sua nuova trilogia The Story, si intitola Transformation. Il secondo, decisamente più interessante e attuale, Storytelling (l’edizione per Kindle costa solo 5 euro). In attesa del terzo dedicato al design, ho letto entrambi, non paga di leggermi da anni i suoi post.
Seguo così assiduamente un designer di quotidiani soprattutto perché:

  • i grandi quotidiani come quelli che chiamano come consulente Mario García hanno le risorse per sperimentare tanto e fare le cose in grande: le loro soluzioni sono di ispirazione per chiunque scriva online, qualsiasi cosa
  • l’industria dei quotidiani lotta da anni per trovare il modo per farsi leggere, coltivare e aumentare i loro abbonati: se trovano il modo di concentrare testi lunghi e complessi sulle superfici più piccole, possiamo rubare idee anche per siti e blog
  • il nostro designer cubano-statunitense è generoso e ciarliero, ci racconta e ci fa vedere un sacco di cose interessanti.

The Story, impaginato come le schermate di uno smartphone, ma con font classiche e persino vintage (Bembo per il testo, Deutsche Gothic per i titoli), è un inno alla storia, anzi alle buone storie, che sono alla base di qualsiasi pezzo giornalistico, su qualsiasi medium. Quello che rende i libri così interessanti sono le soluzioni che Garcia ha individuato per rendere gli articoli, soprattutto i più lunghi, leggibilissimi sui pochi centimetri quadrati dei nostri telefoni.

“If we have a good story the rest is easy.”

Oggi le storie possono avere le “gambe corte”: una breaking news breve e veloce sul sito, poche righe sui social, ma immediati, e finisce lì. O possono avere le “gambe lunghe” e prestarsi ad approfondimenti e dossier da pubblicare anche a una certa distanza di tempo, come quelli ricchissimi del New York Times o del Washington Post. In entrambi i casi però, i testi devono considerare il nuovo “giornalismo delle interruzioni”, consumato ovunque, tutto il tempo da circa l’80% della popolazione mondiale che li legge sul telefono. Legge, sì, legge, perché nonostante tutto ci stiamo abituando a leggere sul minischermo anche testi lunghissimi.

“The smartphone, the smallest platform, but the one your audience keeps as a constant companion.”

Il 98% delle persone tiene lo schermo verticale: scrolling surclassa swiping. Per questo García propone per i testi una “nuova linearità”, che asseconda la velocità con la quale il nostro pollice fa avanzare i contenuti sullo schermo. Una linearità fatta di un ritmico alternarsi di brevi paragrafi di testo, immagini, didascalie, video, grafici, citazioni, caption, sottotitoli. Se ben orchestrati, ci permettono di reggere/leggere con agio e leggerezza testi di parecchie decine di migliaia di caratteri. I grandi quotidiani gli hanno dato retta e i dati sulla lettura danno loro ragione.

Sulla stampa spaziamo con gli occhi, cogliendo il contesto del “paesaggio” testuale; sullo smartphone siamo concentrati sullo scrolling e il ritmo si gioca tutto in quel nastro stretto di parole e immagini.

Quali storie sono le più adatte allo srotolamento e come devono essere progettate per catturare e tenere incollato il lettore?
1. Devono avere un forte potenziale visivo, da esprimere attraverso foto, video, grafici, citazioni, screenshot. Come la famosissima storia del crollo del Ponte Morandi del New York Times (anche in italiano):

Quanti elementi visuali? Tra i 5 e i 6. I video non devono superare i 30 secondi.
E si possono mescolare foto e video? Sì, ma il meno possibile.
Attenzione: se si inserisce uno screenshot da un social, per esempio un tweet, questo non deve ripetere cose già dette nel testo. Anzi, bando a tutte le ripetizioni: ogni elemento deve essere unico e far progredire la storia.
2. Titoli e sottotitoli sono fondamentali per spingere chi legge sempre avanti: tra evocazione e descrizione, ma mai criptici. Per riuscirci, ci può aiutare il sottotitolo:

3. Il testo deve essere semplice: paragrafi brevi, ognuno un focus; periodi brevi, perché la colonna di testo stretta li fa sembrare ancora più lunghi. La ricchezza del contenuto e dello stile è affidata al lessico e all’integrazione tra testo e visual.

“In the mobile world, it is not just that less is best, less is the only way.”

4. L’incipit è decisivo: meglio piombare nella storia “in medias res”, per inchiodare chi legge a scoprire come si è arrivati fin lì o cosa sta per succedere, come nel lungo reportage del New York Times dedicato alla caduta di Aleppo in Siria:

5. Le didascalie sono fondamentali: raccordano testo e immagini, costituiscono un punto di ingresso in più, veicolano messaggi importanti. “I’m only going for the things that I’m passionate about” dice questa intima Nicole Kidman in bianco e nero in didascalia. Continuiamo a leggere per sapere quali sono queste cose che tanto la appassionano.

6. La fine del paragrafo annuncia o si riferisce all’immagine che viene dopo:

7. I vuoti sono spazi espressivi:

Insomma, la vera interazione è sempre più quella tra il nostro pollice e lo schermo che si srotola. Vi ricordate The Snow Fall? Il grandioso web-documentario del New York Times che nel 2012 fece incetta di premi e vinse anche un Pulitzer? Era ben scritto, ma pieno di link ed effetti speciali: nonostante i premi e l’indubbia qualità, ben pochi lo lessero per intero.
Invece ora un’altra storia vera di un salvataggio dopo una valanga, costruita con la linearità raccomandata da Mario García, ci tiene incollati allo smartphone. Io per leggerla ci ho messo una mezz’oretta, sempre col fiato sospeso, ma sono arrivata in fondo senza accorgermene: è Five Feet Under, pubblicata dal quotidiano norvegese Bergens Tidende (in inglese):

PS In The Story, Storytelling, ci sono anche due ottimi capitoli dedicati alle notifiche push (al NYT ci lavorano ben 11 persone) e alle newsletter.
PPSS Sono abbonata al NYT da qualche mese: mi è stato utilissimo per un lavoro che ho fatto quest’anno ma continuo a leggerlo con profitto e piacere tanti sono gli spunti e le soluzioni che ne traggo.




Crisi del 737 Max: si dimette Muilenburg, amministratore delegato della Boeing

L’azienda in una nota: Boeing deve «ripristinare la fiducia» e «riparare i rapporti con le autorità di regolamentazione, i clienti e tutte le altre parti interessate»


Si è dimesso l’amministratore delegato di Boeing, Dennis Muilenburg. Al suo posto la società ha nominato ceo David Calhoun. Boeing ha spiegato che un cambiamento era necessario, nel tentativo di ripristinare la reputazione del gruppo dopo la crisi del 737 Max. Smith fungerà da amministratore delegato ad interim durante il breve periodo di transizione prima che Calhoun, attuale presidente, assuma la guida della società.
Boeing deve «ripristinare la fiducia» e «riparare i rapporti con le autorità di regolamentazione, i clienti e tutte le altre parti interessate», sottolinea la stessa società, che si impegna a «operare con un rinnovato impegno per la piena trasparenza, compresa la comunicazione efficace e proattiva con la Faa», Federal Aviation Administration, agenzia federale dell’aviazione, «con gli altri regolatori globali e i suoi clienti». Il quadro finanziario del colosso aerospaziale rimane nebuloso dopo gli incidenti mortali che hanno riguardato i modelli 737 Max.

La difficile storia del 737 Max

«Siamo stati umiliati». Dennis Muilenburg, l’algido ingegnere, amministratore delegato della Boeing, la settimana scorsa in un’imbarazzante intervista è sceso dal suo piedistallo e ha fatto mea culpa. «Siamo stati umiliati da questi due incidenti – ha detto – stiamo apportando mutamenti alla nostra azienda e anch’io sto cambiando come leader».
Tutto è iniziato nell’ottobre 2018, con il primo schianto in Indonesia di un 737 Max, il nuovo aereo di punta della compagnia. A marzo del 2019 lui era nella sua casa di Chicago quando è stato chiamato durante la notte da un centro operativo Boeing, che lo ha avvisato del secondo incidente in Etiopia. Complessivamente 346 tra passeggeri e personale di bordo hanno perso la vita nei due incidenti. A quel punto le autorità mondiali e per ultima la Faa, hanno deciso la messa a terra del velivolo. Niente più voli di aerei 737 Max finché non si fossero capite le cause dei disastri. Boeing ha accettato con riluttanza la decisione, ha chiesto scusa con molto ritardo, ha sempre unicamente pensato a rimettere gli aerei in volo, entrando apertamente in contrasto con le autorità di controllo. Per mesi Muilenburg ha solo cercato di placare le preoccupazioni, di calmare gli animi, citando dati sui guasti tecnici, spesso errati, annunciando, in contrasto con le autorità di controllo, date sul ritorno in volo degli aerei, minimizzando i difetti tecnici.

La traccia del volo Boeing 737 caduto in mare in Indonesia

Da marzo Boeing ha continuato a produrre quaranta 737 Max al mese, benché quelli già consegnati, 383, fossero fermi a terra, chiusi negli hangar, in attesa di capire cosa non fosse andato bene. E sono ben 400 i 737 pronti per la consegna che sono stati bloccati. Insomma, per Boeing è una vera disgrazia, tanto più che a dicembre, l’azienda di Seattle ha deciso lo stop sine die della produzione, una mossa choccante, con grandi implicazioni per la vasta rete di fornitori e dipendenti Boeing e per l’economia americana. L’azienda ha assicurato che non ci saranno ripercussioni negative sul piano occupazionale, anche se è difficile dire quanto durerà lo stop. Lo stesso presidente Usa Donald Trump ha chiamato Muilberg alla Casa Bianca per avere chiarimenti. Secondo il Wsj nessuno si aspetta che la Faa revochi il divieto dei voli almeno fino a febbraio, ma si tratta solo di ipotesi, in realtà c’è incertezza assoluta sulla ripresa dei voli.

Dal decollo agli ultimi istanti prima dell’incidente: la ricostruzione del disastro dell’Ethiopian airlines



Ridurre gli sprechi alimentari è possibile e conveniente

Secondo quanto riportato a seguito degli studi del progetto
‘’reduce 2018’’, portati avanti dall’università di Bologna e dal ministero
dell’ambiente, in Italia gli sprechi alimentari ammontano a 15 miliardi
all’anno, di cui 12 miliardi rappresentano il valore del cibo gettato dalle
famiglie e la restante parte agli scarti di filiera. L’1% della popolazione
italiana ha dichiarato di aver buttato del cibo ogni giorno nel 2018, dato
inferiore rispetto al 2014 quando a gettare cibo quotidianamente era un
italiano su due. Nonostante il miglioramento, il valore del cibo buttato rimane
molto alto, 15 miliardi infatti corrispondono a circa l’1% del Pil del nostro
paese.

A risentire dello spreco alimentare è anche l’ambiente, in
quanto gli scarti devono esser portati nelle discariche e negli inceneritori e
poi smaltiti. Non sprecare cibo ancora
commestibile, inoltre, significa risparmiare le energie e le risorse
normalmente impiegate nella catena che dal campo porta gli alimenti fino alle
tavole e dare una mano alla propria comunità.

Con quest’ottica si è sviluppata
MyFood, startup italiana che ha vinto il bando food waste reduction finanziato
dalla fondazione Unicoop Firenze. MyFoody nasce con la missione di
combattere gli sprechi alimentari. Lo fa utilizzando una piattaforma web e un’app
che permette al consumatore di acquistare prodotti a rischio spreco a un
prezzo ridotto, prenotandoli online e recandosi per il ritiro e il pagamento
nei punti vendita più vicini a lui. Utilizzando l’app e acquistando i prodotti
prossimi alla scadenza si riesce a risparmiare circa il 50% sulla spesa. My
food ha riscosso, sin dalla sua fondazione nel 2015 un grande successo e al
momento vanta tra i partner alcuni dei supermercati più forti in italia come
Lidl e Coop. Al momento disponibile nelle principali città, myfood ha
dimostrato come anche nel piccolo è possibile fare qualcosa.