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COMUNICAZIONE POLITICA E MANIPOLAZIONE DEL CONSENSO: CHI PAGA IL CONTO?

COMUNICAZIONE POLITICA E MANIPOLAZIONE DEL CONSENSO: CHI PAGA IL CONTO?

In un suo recente articolo dal titolo “Downing Street’s communications revolutionary”, il collega Stephen Waddington ha riepilogato l’inquietante situazione relativa alla manipolazione del consenso operata in Gran Bretagna occasione della campagna per il voto sulla Brexit.
Mentre Londra continua a navigare a vista verso l’ignoto, con un nuovo rozzo populista dalle soluzioni facili al timone della nazione, i burocrati di Bruxelles attendono il cadavere del “No Deal” (Brexit senza accordo) scorrere sul fiume.
Waddington definisce, non a torto, quella per la Brexit “una delle più grandi campagne di marketing e pubbliche relazioni mai realizzate”.
La campagna “Leave” ha infatti vinto con un margine del due percento, in larga parte grazie all’utilizzo di dati, storytelling e targeting a pagamento tramite Facebook, sfidando – e a mio avviso ampiamente oltrepassando – i limiti etici che dovrebbero regolare la nostra professione.
Carole Cadwalladr ha studiato il dossier per tre anni, per conto del quotidiano inglese The Guardian, e la Commissione parlamentare digitale, cultura, media e sport (DCMS) del Governo inglese, guidata da Damian Collins, ha esaminato nel dettaglio la campagna referendaria, pubblicando a febbraio 2019 un rapporto chiamato “Disinformazione e Fake news”. Anche la settima arte si è occupata della faccenda: la storia del Brexiters è stata recentemente raccontata nel documentario di Netflix “The Great Hack”.
La strategia e il pensiero alla base della campagna “Vote Leave” sono spiegati senza remore sul blog personale di Dominic Cummings, il principale architetto della campagna: il blog di Cummings – scrive Waddington – esplora il potenziale che la tecnologia ha oggi di sconvolgere e sovvertire le gerarchie tradizionali e migliorare la capacità di un’organizzazione di raggiungere i propri scopi.
Cummings ha un approccio a prima vista spregiudicato: ad esempio, ha scarso rispetto delle strutture organizzative e politiche esistenti e per le leggi che le proteggono, e il suo disprezzo per le classi politiche e i “civil servant” del Regno Unito non potrebbe essere più chiaro. Critica l’incapacità di utilizzare dati e strumenti moderni e critica anche i processi antiquati normalmente utilizzati: per lui, in sintesi, un fine – lecito o meno è da capire, -dovrebbe giustificare pressoché qualunque mezzo.
Cummings è stato anche convocato dalla Commissione Parlamentare inglese che sta indagando sulle dinamiche propagandistiche relative alla Brexit: semplicemente non si è presentato.
Venendo al dunque, Cummings e Cambridge Analytica hanno utilizzato mezzi di sicura efficacia ma di dubbia etica per identificare ben 7 milioni di elettori le cui opinioni avrebbero potuto essere – in tutto o in parte – manipolate, e prendendo di mira quegli elettori con ben 1,5 miliardi di post sui Social negli ultimi dieci giorni della campagna elettorale. Le prove raccolte hanno dimostrato che i canali dai quali sono arrivati i finanziamenti per pagare gli annunci online non erano trasparenti e che la paternità degli annunci stessi non era chiaramente rintracciabile (si trattava di ADV “lanciate nel web”, e non di post che apparivano su specifiche pagine ben identificabili).
In definitiva, questo genere di spregiudicata campagna pare essere stata ben efficace, se pensiamo che l’elettorato britannico ha votato per il 51,9% (17.410.742) pro Brexit, e per il 48,1% (16.141.241) contro, condizionando quindi le successive scelte del Governo inglese.
Delle altrettanto spregiudicate manovre per indirizzare il consenso durante la campagna elettorale dell’ex conduttore di reality-show televisivi prestato alla politica, Donald Trump, con oltre 230.000.000 di Americani raggiunti da messaggi che per essere educato non esiterei a definire quantomeno “estremamente polarizzanti”, si è già ampiamente parlato, come anche delle attività online poco chiare in occasione della campagna per l’indipendenza della Catalogna dalla Spagna: senza nulla voler togliere all’importanza del momento elettorale, i cui esiti posso essere solo nelle mani del popolo, appare comunque lecito riflettere se – e come – tali momenti possano essere stati condizionati in termini di libera costruzione del consenso con iniziative palesemente eterodirette.
In ogni caso, meno si è parlato delle sfacciate “incursioni” estere in casa nostra, in occasione delle elezioni di marzo 2018: una tale sequenza di fake news orchestrate ad arte da non essere riassumibile in un breve articolo come questo; ciò che è certo, è che risalendo la “bava informatica” lasciata da chi ha materialmente effettuato le attività distorsive online, si arriva ad account come @DoctorWho74. @lucamedico, @FrancoSuSarellu, e altri, e di li a una rete organizzata di BOT che porta dritti come una freccia, ancora una volta, alla celebre fabbrica di Troll Pietroburgese Ma lo slogan di chi si è giovato di queste ingerenze straniere nelle dinamiche elettorali nazionali non doveva essere “L’Italia agli italiani”…?
Una domanda potrebbe sorgere spontanea, amara, triste e forse provocatoria: “Questi soggetti non hanno altri strumenti per comunicare se non quelli basati sulla diffusione a pagamento di bugie?”. Vero è che la propaganda politica esiste da sempre (un amico mi ha ricordato, per non andar troppo lontani, gli “inviti” pro Democrazia Cristiana dei parroci italiani di mezzo secolo fa, al grido di “In cabina elettorale Stalin non ti vede, Dio sì”…?), il tema casomai è quello relativo all’esponenziale incremento di potenza degli strumenti oggi giorno utilizzati. In tal senso, la questione importante è ben più sostanziale: chi paga il conto? Chi ha firmato gli assegni per centinaia di milioni di euro/dollari/sterline/rubli che hanno finanziato campagne di comunicazione fortemente distorsive come ad esempio quella per la Brexit, che ha ottenuto come eclatante risultato l’uscita dall’Unione Europea di uno degli Stati più influenti del continente?
È sconcertante infine notare come queste “manovre” non abbiano destato allarme, sconcerto e sdegno da parte delle varie organizzazioni di Relazioni pubbliche, come ancor più da parte dei Governi che avrebbero dovuto vigilare sulla trasparenza dei processi democratici di propaganda elettorale, come giustamente denunciato da Michele Mezza nel suo ultimo saggio.
Lo stesso Collins ha dichiarato a un giornalista che

L’attuale legge elettorale è irrimediabilmente obsoleta, e che si dovrebbe esaminare l’ipotesi di una legislazione di emergenza per aggiornarla, almeno per stabilire i principi di base per i quali un post sui Social dovrebbe essere ne più ne meno parificato a un poster o a un opuscolo elettorale.

Chissà cosa ne pensano di questa proposta coloro i quali si sono svenduti per denaro architettando una delle più eclatanti manovre di manipolazione dell’opinione pubblica degli ultimi decenni.
Tante e tali sono le preoccupazioni per le regole di carattere etico a Londra (sic!), che Dominic Cummings è stato appena nominato Consigliere senior del Primo Ministro inglese Boris Johnson, a Downing Street. Il nuovo Premier e il Partito conservatore intendono evidentemente giammai normare, e anzi ulteriormente implementare queste spregiudicate pratiche di comunicazione. Come si suol dire, quando i cafoni si accorgono di aver raggiunto il pavimento, imperterriti iniziano a scavare: più in basso di così, si può sempre scendere.
 


Edit alle h. 13.00 del 01/09/2019




Basta con i profitti a ogni costo: le multinazionali Usa guardano ad ambiente e lavoratori

Duecento tra le più grandi aziende americane pubblicano un documento in cui sconfessano il mantra “prima gli azionisti” che per anni ha guidato le politiche societarie. Per creare valore bisogna guardare anche all’impatto ecologico, al rispetto dei clienti e “alle condizioni dignitose offerte ai dipendenti”


MILANO – “Primo obiettivo di una azienda è creare valore per gli azionisti”. Un mantra, una sorta di credo al limite del dogma nel mondo delle imprese quotate in Borsa che ha dominato l’economia liberale negli ultimi decenni. Una regola aurea che ora viene messa in dubbio dallo stesso “cuore” del capitalismo finanziario mondiale. Duecento tra le principali aziende di Wall Street e colossi finanziari – da Jp Morgan ad Amazon, da BlackRock a General Motors – hanno reso pubblico un documento in cui sostengono che per creare valore di lungo periodo, le aziende non devono solo portare dividendi ai propri azionisti, costi quel che costi. L’attenzione al profitto deve rimanere, ma dovrà essere solo una delle linee guida: d’ora in avanti i manager devono considerare anche l’impatto sull’ambiente e sulle comunità locali, i rapporti corretti con i fornitori, il rispetto dei consumatori e le condizioni offerte ai propri dipendenti.
Le duecento imprese firmatarie fanno parte di “The Business Roundtable”, che come si intuisce dal nome è un tavolo di lavoro attorno al quale si siedono le grandi multinazionali per capire cosa può fare bene al loro business. Per decenni, seguendo le teorie degli economisti iperliberisti (in primis, Milton Friedman) i manager avevano come imperativo categorico la traduzione pratica del motto “prima gli azionisti”. A tutti i costi: di fronte a un calo dei consumi o dei profitti, non hanno esitato a tagliare personale, spostarsi dove si pagavano meno tasse, o dove le norme anti-inquinamento erano meno rigide.
Ora, sostiene il documento approvato falla “tavola rotonda degli affari”, scelte di questo tipo non sono più un vantaggio, ma si stanno trasformando in elementi negativi e a lungo andare danneggiano il business. Un cambio di rotta senza precedenti a questi livelli e narrata in questi termini. Ma il dibattito iniziato a livello di fondi etici e finanza sostenibile si sta allargando anche agli investitori più tradizionali, invertendo i rapporti di forza. “La società devono proteggere l’ambiente e trattare i dipendenti con dignità e rispetto”, si legge nel documento così come lo riporta il Financial Times.
Il quotidiano britannico mette, giustamente, l’accento sul fatto che l’iniziativa dei “duecento” può essere letta come una risposta politica alla crescita dei movimenti populisti e sovranisti che hanno attecchito puntando sul fatto che i governi hanno lasciato mano libera alle aziende a discapito delle condizioni sociali e ambientali. Ecco perché viene definito “capitalismo inclusivo”, perché si occupa di interagire con tutti coloro che in qualche modo vengono coinvolti nell’attività di un grande gruppo.
Allo stesso modo, il Financial Times sottolinea come il documento di “The Roundtable Business” sia una mossa politica per lanciare un messaggio ai candidati più radicali del Partito Democratico, da Elizabeth Warren a Bernie Sanders, che stanno conducendo una campagna attaccando le multinazionali come macchine di profitti, che guardano solo ai soci e non alle ricadute sociali delle loro scelte. E in qualche modo proporsi per cambiare le regole assieme ai politici che domani potrebbero essere alla Casa Bianca, invece di subirne le scelte. Lo stesso Jeremy Corbyn si è aggiudicato la leadership dei Laburisti nel Regno Uniti proponendo nuove regole per le imprese e le finanza.
Del resto, fu proprio Larry Fink, il numero uno di BlackRock, il più grande fondo di investimento del mondo, a chiedere alle grandi multinazionali giusto un anno fa di impegnarsi di più sul tema delle ricadute sociali e guardare meno alla creazione di valore per gli azionisti. E di recente, sempre “The Roundtable Business” ha chiesto alla Sec (la Consob americana) di introdurre limiti per arginare le pressioni degli azionisti – a cominciare dai fondi attivisti – che portano a iniziative che guardano esclusivamente alla creazione di profitti, senza preoccuparsi delle conseguenze. Ora, però, devono dimostrare che non sia solo una mossa politica, ma allargare il “tavolo” ai governi per cambiare veramente le regole.




Sono napoletani i primi 4 studenti italiani con laurea in Green Economy

Sono napoletani i primi 4 studenti italiani con laurea in Green Economy

Il 23 luglio al Suor Orsola seduta di laurea con l’intervento delle aziende eccellenti del settore e presentazione corso di laurea magistrale sulla sostenibilità economica ed ambientale

Saranno quattro napoletani i primi laureati italiani in Green Economy. Martedì 23 luglio alle ore 16:30 nella Sala degli Angeli dell’Università Suor Orsola Benincasa Roberto Di Ruocco, Ludovica Famularo, Angelo Pettrone e Rosita Puca taglieranno il traguardo del loro percorso triennale alla prima sessione utile del terzo anno del primo corso di laurea italiano in Economia aziendale specificamente dedicato alla Green Economy.
Un corso che nei suoi primi tre anni ha attirato a Napoli molti studenti provenienti anche da diverse regioni italiane, dal Piemonte alla Calabria, dalle Marche alla Puglia.
Economia e gestione delle imprese green, la responsabilità sociale delle aziende, gli accordi internazionali sul clima e l’analisi costi – benefici degli interventi pubblici in tema di infrastrutture saranno tra i temi oggetto delle tesi di laurea alle quali gli studenti hanno lavorato con Marcello D’Amato, Presidente del corso di laurea in Economia Aziendale e Green Economy del Suor Orsola, Massimo Marelli, già Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e docente di Economia pubblica al Suor Orsola e Alessandra Storlazzi, docente di Strategia e comunicazione d’impresa e responsabile dei rapporti dell’Ateneo con le aziende.
Dalla TAV Torino – Lione ai grandi problemi climatici del pianeta: ecco i temi delle prime quattro tesi universitarie in Italia in Green Economy
Di grande attualità il lavoro di tesi di Angelo Pettrone che in tema di investimenti pubblici sulle infrastrutture ha analizzato anni di studi sul rapporto costi-benefici della realizzazione della TAV Torino – Lione.
Un’analisi ad ampio raggio che dimostra

quanto potrebbe essere controproducente non realizzare l’opera, dal momento che si presenta come un progetto che può comportare enormi benefici sia sul piano commerciale che sul piano del turismo, ma soprattutto in termini occupazionali.

Nel lavoro di tesi di Ludovica Famularo si analizza la responsabilità sociale delle aziende ma anche quella delle istituzioni universitarie e si evidenzia come anche e soprattutto

gli Atenei, quali enti di formazione posti in essere per volontà ed interesse collettivi, che coinvolgono un numero sempre maggiore di stakeholder, studenti con le rispettive famiglie, personale dipendente, imprese, enti della pubblica amministrazione, enti non profit, mass media, hanno la necessità di introdurre lo strumento del bilancio sociale come documento di legittimazione sociale che accentri la loro figura come fautori di miglioramento del tessuto locale in termini economico-sociali grazie al potere attrattivo di cui potenzialmente godono.

Roberto Di Ruocco, grazie ad una selezione dell’ARU, l’Agenzia Regionale per le Universiadi, indirizzata ai migliori laureandi e laureati dell’Università Suor Orsola Benincasa, è reduce dal lavoro svolto per le Universiadi 2019 proprio sui temi della valutazione dell’impatto economico – ambientale della manifestazione sportiva sul territorio campano. Il suo lavoro di tesi illustra l’EU ETS, Emission Trading System, il sistema di scambio di quote di emissione dell’UE che è alla base della politica europea per contrastare i cambiamenti climatici ed è essenziale per ridurre in maniera economicamente efficiente le emissioni di gas a effetto serra.
È il primo e più grande mercato mondiale della CO2, attivo in 31 Paesi e limita le emissioni prodotte da oltre 11mila impianti ad alto consumo di energia, centrali energetiche e impianti industriali, tra cui 1200 imprese che appartengono al settore manifatturiero italiano, e dalle compagnie aeree che collegano tali Paesi.
Rosita Puca, 21 anni appena compiuti è la più giovane del gruppo. Durante il corso di studi ha lavorato nel Centro di Biotecnologie dell’Azienda Ospedaliera Cardarelli e nel suo lavoro di tesi ha declinato in diversi settori il tema dei grandi problemi ambientali globali con un focus speciale sulle emissioni inquinanti delle automobili nelle grandi città italiane.
Al termine della loro sessione di laurea i ‘neo dottori green’ avranno già la possibilità di incontrare, insieme con il presidente dell’Unione Industriali di Napoli, Vito Grassi, alcune delle aziende italiane più importanti del settore ‘green’, Ambiente S.p.A., Deloitte & Touche S.p.A., RDR S.r.l. e Tecno S.r.l., che prenderanno parte alla presentazione del nuovo corso di laurea magistrale in Economia, Management e Sostenibilità, il primo in Campania specificamente dedicato alla sostenibilità economica, sociale ed ambientale delle imprese.
Il futuro occupazionale dei ‘neo dottori green’ del Suor Orsola
Dall’ecobrand manager al comunicatore del settore green, dall’esperto nella commercializzazione dei prodotti di riciclo all’esperto in green marketing. Ecco alcune delle professioni del futuro per le quali vengono preparati i laureati del comparto accademico ‘green’ dell’Università Suor Orsola Benincasa. E il recente dato sull’efficacia del titolo di studio del Suor Orsola, che secondo l’ultimo rapporto AlmaLaurea è superiore del 13% rispetto alla media nazionale degli altri Atenei, premia, come evidenzia il Rettore, Lucio d’Alessandro

proprio l’impostazione metodologica dei nostri percorsi didattici come quelli di Economia, che sono progettati insieme con le aziende del territorio per individuare ex ante le esigenze di un mercato del lavoro in continua evoluzione e sono strutturati con una spiccata vocazione pratica e professionalizzante che consente agli studenti di maturare, sin dal primo anno, significative esperienze on the job all’interno delle aziende.

Un elemento quest’ultimo evidenziato anche da un altro dato del Rapporto Almalaurea: durante il corso di studi il 75,1% dei laureati al Suor Orsola ha svolto tirocini professionali e il 69,2% ha sperimentato un’attività lavorativa. Due dati che sono superiori del 16% e del 4% rispetto alla media nazionale.
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Lo sviluppo sostenibile all’interno delle nuove forme di business

Lo sviluppo sostenibile all’interno delle nuove forme di business

Lo sviluppo sostenibile all’interno delle nuove forme di business
*Armando Agulini, LUMSA, armdagulini@hotmail.com

Introduzione

All’origine della crisi finanziaria che attraversiamo vi è una profonda crisi antropologica che riduce l’essere umano ad uno solo dei suoi bisogni, il consumo. Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che abbiamo stabilito con il denaro, poiché accettiamo il suo predomino su di noi e sulle nostre società.[1] Per capire l’importanza della sostenibilità ed il peso che hanno le aziende nella messa in discussione del modello attuale orientato al profitto bisogna ripartire dai valori, riportando sotto il controllo della società, l’economia.
La responsabilità sociale come termine entra nel linguaggio manageriale proprio per indicare il complesso di regole atte a definire i doveri morali delle aziende (economico, etico e ambientale). Un sempre maggior numero di imprese sanno che la capacità di apparire socialmente responsabili accresce la propria competitività e credibilità sul mercato, viceversa, il non assumere una condotta responsabile rischia di portare l’impresa alla corrosione del suo potere[2]. L’interesse sociale dell’impresa nasce infatti come la contrapposizione tra shareholder supremacy– l’attenzione al profitto e agli azionisti (Dodge vs Ford 1919)[3]– e lo stakeholder value[4]– l’attenzione ai dipendenti, ai fornitori e alla comunità. Il dibattito sulla responsabilità sociale d’impresa (RSI) fu nucleato da due illustri economisti, Berle e Means, i quali presupponevano la separazione di potere tra il management e la proprietà attraverso l’adempimento e divisione dei compiti, quali obiettivi economici da un lato e obblighi giuridici da un altro. Nel corso del tempo c’è stata un evoluzione di quelli che sono i valori economici, sociali e ambientali ai quali l’azienda deve mirare. Il livello base era la compliance, le aziende si dovevano adeguare alle richieste e agli obblighi imposti dalla legge e dallo stato. Poi, alcune aziende hanno introdotto la filantropia aziendale, attività con un impatto positivo per “gli altri”. Successivamente queste attività sono state integrate all’interno dell’azienda e ampliate tramite scelte di RSI.
Per fare business al giorno d’oggi la produzione di valore economico e quella di valore sociale vanno necessariamente tenute insieme. Per questa ragione sono sempre più numerosi gli esempi di convergenza dei soggetti for-profit verso la sfera non-profit, e viceversa[5]. Oggi, accanto alla dicotomia tra le aziende for-profit e le organizzazioni non-profit[6], si affianca una terza via, il modello ibrido d’impresa “for-benefit” o “for-purpose”, una nuova concezione di corporate social responsability con commitment che incorpora la dimensione sociale e ambientale nell’agire d’impresa come fattore strategico (Castellani et al. 2016).
E’ l’impresa che con il suo business deve cercare di generare un impatto positivo nel mondo, non è più solo compito dei governi.

Modelli Aziendali

Benefit Corporation e Social Purpose Companies

L’alternativa più popolare per le aziende che desiderano operare secondo uno standard di responsabilità sociale è sempre di più riconosciuto nelle Benefit Corporation. Una Benefit Corporation è uno stato giuridico ammesso in alcuni stati americani e in Italia, che usa la forza delle imprese per creare valore, sancendo tale finalità nell’oggetto sociale del proprio statuto come vincolo di missione. In generale, l’espressione Benefit Corporation identifica quelle imprese che allargano le proprie responsabilità al rispetto e all’interesse per i propri dipendenti, i consumatori, la collettività e l’ambiente[7].
Nell’aprile 2010 il Maryland divenne il primo Stato americano ad approvare e a completare l’iter legislativo per la definizione di una specifica forma giuridica che si affianca a quelle di profit e non-profit, innovando il diritto societario USA: le Benefit Corporation (US Law 2010). Diventare una Benefit Corporation legalmente riconosciuta, non preclude la possibilità all’azienda di poter ricevere il marchio di certificazione; anzi, perseguire un approccio orientato alla sostenibilità d’impresa sul modello societario Benefit facilita notevolmente il raggiungimento dei requisiti per aggiudicarsi il Marchio B Corp, ma in ogni caso si può essere una Benefit Corporation senza essere certificati B Corp (Nigri 2016).
La certificazione e il movimento, attivo dal 2006, prima del framework legale, nasce dall’idea di tre imprenditori: Jay Coen Gilbert, Bart Houlahan e Andrew Kassoy. Gilbert e Houlahan fondarono nel 1993 un’azienda di abbigliamento sportivo, AND1. Questa si dimostrò subito un’azienda socialmente responsabile con codici di condotta all’avanguardia, welfare aziendale e integrazione locale. I dipendenti- che erano in parte proprietari- e i fornitori, erano felici e orgogliosi di lavorare per AND1 e avevano benefit oltre la media del mercato. In meno di 10 anni il fatturato dell’azienda arrivò a superare i 250 milioni di dollari facendola diventare la seconda società più importante nel mondo delle calzature per giocare a basket degli Stati Uniti, alle spalle soltanto della Nike[8]. Nel 2005, dopo un credit crunch ed alcuni licenziamenti però, decisero di cederla a American Sporting Goods, vedendo vanificare, nel giro di pochi mesi, tutti i loro sforzi di responsabilità sociale (Dent 2016).
Fondarono quindi- grazie anche a Andrew che era stato solo un investitore nel progetto AND1 ed era ora pronto a sostenerli pienamente, dopo aver trascorso 16 anni in private equity- e  alla loro membership all’interno della Henry Crown Fellows of The Aspen Global Leadership Network (AGLN) (McNulty Foundation 2015) B Lab, facendo nascere un nuovo modo di fare business. “B Lab”, come sostiene Houlahan, “è stata fondata per incoraggiare le imprese ad agire come agenti di cambiamento sociale e ambientale, in quanto, il problema principale che stavamo cercando di risolvere era la necessità che il business fosse più impegnato nell’affrontare le grandi sfide a livello internazionale, che né i governi e né il settore non-profit sono in grado di fronteggiare.” La community delle Certified B Corp™ oggi conta oltre 2000 società in ben 50 paesi in tutto il mondo e 130 industrie. Ciò sta a significare che non esiste un tipo di azienda for-profit che possa essere esclusa da questo movimento.
Le leggi sulle Società Benefit trasformano la triple bottom line in un contratto esecutivo. Viene richiesto agli amministratori di portare a termine una mission profit & purpose e dà agli azionisti potere esecutivo se non riescono a portarla a termine. L’alternativa più permissiva alla legge sulle Benefit è denominata flexible purpose, prima, e social purpose corporation (SPC), poi. Lo statuto delle SPC consente alle aziende di designare uno o più scopi sociali. Sebbene richieda ai propri direttori di prendere in considerazione questi scopi sociali quando prendono decisioni di gestione e di pubblicare un rapporto sociale annuale, non impone loro di considerare i loro impatti ambientali, assumere un revisore o rilasciare la relazione al pubblico. Le leggi che autorizzano le SPC sono passate a Washington, dove sono circa 156 le SPC attive, in Texas, in Florida e in California (in California e in Florida sono presenti anche le leggi per le SB) e i legislatori in Ohio, Georgia e molti altri stati stanno considerando entrambe le alternative (Levillain and Segrestin, 2019)[9].
Le aziende possono diventare SPC e ottenere la certificazione B Corp, validando il loro percorso tramite B Lab. Fred Whittlesey, fondatore e proprietario del Compensation Venture Group SPC di Seattle, che è anche certificata B Corp, cura la certificazione e pubblica il benefit report: “la distinzione tra SPC e Benefit Corporation“, afferma, “è altamente tecnica e poco significativa“.[10]

Teal Organization e Flourishing Enterprise

Il merge tra i modelli for-profit e non-profit fa si che la nozione di sostenibilità faccia un ulteriore passo avanti, da sostenibilità a prosperità. Flourishing– l’aspirazione che gli esseri umani prospereranno per sempre sul pianeta- diventa l’obiettivo a cui deve mirare l’azienda. La flourishing enterprise aggiunge agli sforzi strategici, organizzativi e operativi per essere sostenibile, pratiche riflessive; coltiva la salute emotiva e spirituale, sviluppando internamente queste competenze chiave, focalizzandosi allo stesso tempo sulla sua attività: redditizia e sostenibile. La flourishing mira a maggiori risultati di business, benessere personale e a un pianeta più sano. L’idea di flourishing si basa quindi su di un nuovo paradigma di reinvenzione- di fare del bene facendo bene- non quello di fare meno male.
Tramite un processo di rinforzo positivo vengono raggiunti scopi più alti di benessere sociale all’interno dell’impresa. L’obiettivo principale diventa quello di far aumentare la prosperità, così come la salute dei sistemi umani e naturali. Laszlo (Laszlo 2014) sostiene che la trasformazione deve iniziare dagli individui, le aziende devono integrare pratiche per migliorare il benessere dei dipendenti aumentando così il loro senso di connessione. Nella sua nuova ricerca con Tsao (2019), afferma anche che, ciò che possiamo fare per evitare circoli viziosi che si traducono in una mancanza di creatività e collaborazione a tutti i livelli aziendali, è intervenire sulla mentalità o sul paradigma da cui nasce il sistema (Meadows 1997). Trasformare la nostra coscienza è lo strumento più efficace che abbiamo per apportare un cambiamento. Alcune delle singole pratiche di trasformazione che identificano nel loro libro comprendono la meditazione, azioni e flusso consapevoli, il journaling, l’immersione nella natura, l’arte e l’estetica, la poesia e la musica. Incorporare queste pratiche apporta cambiamenti fondamentali nel pensiero e la percezione delle persone portando le aziende in vetta.
Aggiungere pratiche riflessive agli sforzi commerciali esistenti non richiede più lavoro; semplicemente cambia il modo in cui il lavoro viene fatto e, cosa più importante, gli effetti. Le imprese, iniziando questo percorso a sostegno della sostenibilità integrata, contribuiranno a grandi cambiamenti sistemici. Ridisegnare la strategia guiderà la creazione di valore condiviso e i risultati positivi verranno percepiti dall’intera società.
Porter e Kramer (2015) sostengono che questa potrebbe essere la forma più elevata di capitalismo perché i profitti implicano uno scopo sociale. In effetti, il modo migliore in cui un’impresa può iniziare a creare valore condiviso è partendo dal proprio business di riferimento. Tuttavia, la creazione di valore condiviso non deve essere vista solo come un tipo diverso e innovativo di strategia ma come parte della strategia. Per comprendere e mettere in atto le best practice servono dei leader che fungano da ispirazione costante per l’azienda nell’affrontare i processi decisionali e la pianificazione strategica.
Le Teal come le Flourishing agiscono in un quadro teorico ibrido e ricco di teorie organizzative dove la distinzione tra profit e non-profit e tra economia e psicologia sfuma ancora di più. Sono organizzazioni che credono e si fidano delle persone che lavorano al loro interno, investono sulle loro capacità, premiano la diversità e l’integrità, creano ambienti stimolanti per tutti coloro che vi lavorano e mirano a rendere le risorse umane come esseri presenti e come esseri interi e completi. In questo modo le imprese sono in grado di produrre risultati incredibili a tutti i livelli. Non solo soddisfano le aspettative dei loro clienti, ma hanno personale felice che raramente si assenta dal lavoro. Il primo a parlare di questa tipologia di organizzazione è Frederic Laloux (2014), che nel suo libro “Reinventare le Organizzazioni” descrive le tappe dell’evoluzione dei modelli organizzativi. “Nelle Teal non esiste un processo di strategia. Nessuno al vertice stabilisce un corso da seguire per gli altri (…). Le persone in queste aziende hanno un senso molto chiaro e acuto dello scopo dell’organizzazione e un ampio senso della direzione in cui l’organizzazione potrebbe essere chiamata ad andare.” Secondo l’autore è dai limiti e dalle sconfitte del presente che comincia a delinearsi un nuovo stadio di coscienza, che egli contrassegna con il colore Teal (il colore delle foglie di thè).
L’agire dell’organizzazione deve essere personale e collettivo insieme. La crescita di ciascuno è contestualmente crescita dell’organizzazione e il perseguimento della propria vocazione personale incontra ciò che l’organizzazione aspira a realizzare. Il compito del leader in questo contesto è creare le condizioni perché questo accada. Attraverso l’ascolto, asseconda il cammino dell’organizzazione. Quando le persone passano all’approccio Teal imparano ad avere fiducia, a perseguire ciò che è veramente significativo, come il tempo, considerando forme di lavoro part-time, freelance ed altro, essendo però felici.
Con le organizzazioni Teal, servire lo scopo diventa più importante che servire l’organizzazione, e ciò apre nuove possibilità di collaborazione attraverso i confini organizzativi. Un’organizzazione potrebbe unirsi a un’altra per un progetto; un team di colleghi potrebbe decidere di passare a un’altra organizzazione, su base temporanea o permanente; una società potrebbe condividere il suo capitale intellettuale o alcune attività con un’altra organizzazione o donarlo. Lo stesso è vero internamente. Non è necessaria l’approvazione da parte delle risorse umane o dalla gerarchia, se si decide per qualsiasi motivo di lavorare meno ore, a patto che si trovi un modo per trasferire gli impegni che si sono presi ai colleghi. Se si vuole tornare e lavorare più ore, è possibile esplorare con i colleghi quali nuovi ruoli e impegni si possono assumere che portino un valore aggiunto per l’organizzazione. Le persone potrebbero non solo ridurre o aumentare il numero di ore lavorate come dipendenti. Potrebbero passare dal lavoro impiegatizio (a tempo pieno e/o part-time) al lavoro autonomo; in altri momenti potrebbero scegliere di fare del volontariato, di donare soldi o temporaneamente potrebbero decidere di non aver alcun coinvolgimento con l’organizzazione, per poi tornarci più avanti.
È plausibile che in futuro lo scopo, anziché l’organizzazione, diventi l’entità attorno alla quale le persone si raccoglieranno. Le persone si collegheranno secondo modalità diverse e le organizzazioni uniranno le loro forze o si scioglieranno, a seconda di ciò che meglio serve in un dato momento.

Conclusioni

Se definiamo lo sviluppo sostenibile come la necessità per le generazioni future di soddisfare i propri bisogni, allora le attività economiche possono essere considerate sostenibili se il loro impatto sull’ambiente naturale è non-negativo (Laszlo 2011). Per poter vivere in un mondo sostenibile, bisogna generare circoli virtuosi in cui le aspettative, le disposizioni e il comportamento positivo si rafforzano a vicenda.
Le organizzazioni possono quindi prosperare utilizzando i loro punti di forza per aumentare e sostenere il benessere comune, aumentando allo stesso tempo i loro interessi personali.
 

References

Castellani, Giovanni, Dario De Rossi, and Andrea Rampa. 2016. Le Società Benefit: la nuova prospettiva di una Corporate Social Responsability con commitment. Fondazione Nazionale dei Commercialisti.
Dent, Mark. 2016. What happened to AND1? The Wharton grad who sold the clothing brand has a new idea. Billy Penn.
Laloux, Frederic, and Ken Wilber. 2014. Reinventing organizations: A guide to creating organizations inspired by the next stage in human consciousness. Nelson Parker.
Laszlo, Christopher, Judy Brown, John Ehrenfeld, Mary Gorham, Ilma Barros-Pose, Linda Robson, Roger Saillant, Dave Sherman, and Paul Werder. 2014. Flourishing enterprise: the new spirit of business. Stanford, California: Stanford Business Books, an imprint of Stanford University Press.
Laszlo Zsolnai. 2011. Environmental ethics for business sustainability, International Journal of Social Economics, 38(11), pp.892-899, https://doi.org/10.1108/03068291111171397.
Levillain, Kevin, and Blanche Segrestin. 2014. The Blind Spot of Corporate Social Responsibility: Changing the legal framework of the firm. EURAM, Jun 2014, Valence, Spain.
McNulty Foundation. 2015. How three successful entrepreneurs redefined business as a force for good.
Meadows, Donatella H. 1997. Places to Intervene in a System. Whole Earth Winter.
Nigri, Giorgia, Laura Michelini, Cecilia Grieco, and Gennaro Iasevoli. 2016. B Corps and their Social Impact Communication Strategy: Does the Talk Match the Walk? In SIM Conference 2016. Università di Cassino.
Porter, Michael E., and Mark R. Kramer. 2015. Creating Shared Value. How to reinvent capitalism—and unleash a wave of innovation and growth. http://www.coherence360.com/praxis/wp-content/uploads/2015/08/Michael_Porter_Creating_Shared_Value.pdf 2015.
Tsao, Frederick Chavalit, and Christopher Laszlo. 2019. Quantum leadership: new consciousness in business. Stanford, California: Stanford Business Books, an imprint of Stanford University Press.
US Law. 2010. The Benefit Act. Maryland Code.
[1] Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium del Santo Padre Francesco ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi alle persone consacrate e ai fedeli laici sull’annuncio del vangel nel mondo attuale, 55.
[2] Vedi K. Davis. Can Business Afford to Ignore Social Responsibilities?. California Management Review, n°2, 1960, pp.60-70.
[3] https://www.law.illinois.edu/aviram/Dodge.pdf
[4] Vedi J. Tirole. Corporate Governance Econometrics. Vol. 69, No. 1, 2001, pp. 1-35.
[5]  Vedi Rago S. e Venturi P. Teoria e modelli di organizzazioni ibride presenti all’interno dell’imprenditorialità sociale, in Venturi P., Zandonai F. Ibridi organizzativi. L’innovazione sociale generata dal Gruppo Cooperativo CGM. Bologna, il Mulino, pp. 17-51, 2014.
[6] Vedi Robson, R. A new look at Benefit Corporations: Game Theory and Game Changer. American Business Law Journal Vol. 52, issue 3, pp. 501-555, 2015.
[7] Vedi Andrè R. Journal of business ethics, vol. 110, 133-150, september 2012.
[8] Vedi Honeyman R. 2016.
[9] http://leginfo.legislature.ca.gov/faces/billNavClient.xhtml?bill_id=201320140SB1301
[10] https://www.triplepundit.com/2016/03/social-purpose-vs-benefit-corporations-small-distinction-big-difference/
 




Sul profilo Facebook di Salvini è vietato parlare di 49 milioni di euro

Sul profilo Facebook di Salvini è vietato parlare di 49 milioni di euro

Il ministro dell’Interno usa una funzione riservata al mantenimento di un linguaggio rispettoso nei commenti per censurare le citazioni delle magagne della Lega


La paranoia, scrisse una volta in un suo libro Thomas Pynchon, è l’aglio nella cucina della vita: non si esagera mai. E una buona dose di paranoia deve aver colto anche il ministro dell’Interno Matteo Salvini, se sul suo visitatissimo profilo Facebook – poco meno di 4 milioni di fan, engagement stellari, spese per la promozione dei post impegnative, eccetera – ha messo al bando una serie di termini considerati sensibili dallo stesso leader della Lega e dal suo stratega, il domatore della Bestia, Luca Morisi. Tra questi, ovviamente, c’è la cifra-tormentone che più ha tolto il sonno al salvinismo: 49 milioni di euro, ovvero l’ammontare di denaro pubblico indebitamente incassato dal 2008 al 2010 (e poi dal 2011 al 2014) sotto forma di rimborsi elettorali dal fu partito padano, che dovrà essere restituito in comode rate nei prossimi ottant’anni (perché la legalità è importante, come spiega spesso lo stesso Salvini).

Ma andiamo con ordine

Di una serie di parole blacklistate – cioè indicate dall’amministratore della pagina Facebook come termini il cui uso è proibito nei commenti, pena la mancata approvazione del messaggio – sulla pagina di Salvini si era iniziato a parlare nel corso del weekend, e la questione è diventata virale grazie – soprattutto – a un post della seguita community di Socialisti Gaudenti e a un tweet dell’autore Massimo Mantellini, il quale ha provato a commentare una diretta salviniana usando il passepartout dei 49 milioni. Risultato: “Your comment contains a blacklisted word”, e commento cassato.

massimo mantellini

@mante

Ho voluto provare e in effetti è vero. Se commenti sulla bacheca di Matteo Salvini “49 milioni” il commento viene blacklistato. Il massimo tecnologico che possa organizzare la famosa bestia.

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Non solo i 49 milioni, anzi

A seguire, diversi tentativi indipendenti e report hanno confermato la mesta policy del canale del ministro dell’Interno, precisando che si tratta di una blacklist adottata solo per le (frequentissime) dirette di Salvini, che il leader della Lega è solito usarle per commentare live i fatti del giorno.
Chiara Severgnini sul Corriere della Sera è andata più a fondo nella questione, scoprendo che in realtà i termini proibiti dal ministero dei Bacioni – qui in una versione a metà tra l’orwelliano e il farsesco – non si limitano ai rimborsi indebitamente intascati dalla Lega: a essere proibito nelle dirette del Capitano è anche l’uso di “Siri” o “Armando Siri”, il sottosegretario leghista allontanato dal governo dopo essere stato invischiato in accuse di corruzione. E, spiega Severgnini, a rientrare nei termini-tabù c’è addirittura “Legnano”, la città lombarda il cui sindaco della Lega, Gianbattista Fratus, si trova attualmente agli arresti domiciliari per una storia di possibile corruzione e turbativa d’asta.
Di norma, i filtri in dotazione alle pagine Facebook si utilizzano permantenere un linguaggio bastantemente civile e rispettoso – il che non è sempre facile, soprattutto in pagine come quella di Salvini, su cui passano giornalmente centinaia di migliaia di utenti. Il ministro, tuttavia, ha deciso di optare per un uso avanguardistico del mezzo: perché limitarsi a censurare il turpiloquio, si sarà detto, quando si possono mettere a tacere quei rosiconi che tirano in mezzo vecchie storiacce di malapolitica fonti di imbarazzo?
La soluzione al ban, già proposta da più parti, potrebbe essere inventarsi modi creativi per arrivare alla somma-che-non-deve-essere-nominata di 49 milioni: equazioni, moltiplicazioni, addizioni, logaritmi. Cercate di vedere il bicchiere mezzo pieno: commentare sulla pagina del ministro dell’Interno della Repubblica italiana diventerà un piacevole ripasso delle vostre conoscenze matematiche.