1

I Canali TV per Bambini NON li Guarda, Quasi, Nessuno

Se avete figli sino all’età pre-adolescenziale, o se, in alternativa, per lavoro vi rivolgete a tale cluster di individui, certamente saprete dell’esistenza di diversi canali televisivi verticali dedicati, appunto ai bambini.
Per capire quale sia l’appeal, l’interesse di questa importante fascia di pubblico verso questi canali a loro dedicati abbiamo estrapolato dai dati Auditel di Settembre 2019, non ancora disponibili pubblicamente, quelli relativi specificatamente agli ascolti nel minuto medio di tali canali TV.
Prima di entrare nel merito di tali dati, va segnalato che sono prodotti nel quadro di un processo di transizione che condurrà a una integrale sostituzione del panel di rilevazione e che, nel corso di tale periodo, i dati medesimi sono soggetti ad apposito monitoraggio volto a individuare eventuali anomalie, e dunque diamo per affidabili comunque i dati forniti da Auditel.
Ebbene, ventiquattrore al giorno di cartoni e serie televisive dedicate a bambini e pre-adolescenti non sembrano avere il successo che ci si potrebbe attendere. Infatti il canale leader per ascolti, Super, ceduto in questi giorni da De Agostini Editore a Viacom, si attesta a poco meno di 55mila telespettatori – inclusi eventuali ospiti – nel minuto medio, seguito da K2, di Discovery,  appena sopra i 54mila telespettatori, e Boing, di Mediaset, sotto i 50mila telespettatori.
Nel complesso, sommando la visione di tutti i canali specializzati, e dunque al lordo delle duplicazioni, si arriva appena sopra i 311mila telespettatori. Se si considera che  l’universo bambini, costituito secondo Auditel da individui di età compresa tra 4 e 14 anni, è di oltre 6.2 milioni di individui si capisce ancora meglio quanto marginale sia la visione di questi canali. In pratica, stando ai dati, i media solamente il 5% degli individui nella fascia di età definita guarda questi canali TV. Non esattamente un successo, per usare un eufemismo.
La situazione migliora, ma non poi di tanto, analizzando i dati relativi ai contatti medi. In  questo caso la leadership è di K2, a poco più di un milione di contatti medi. Nel complesso il totale dei contatti medi si attesta appena sopra i 2,5 milioni, pari al 41.2% dell’universo di riferimento. Questo significa che, a Settembre 2019, più di un bambino su due non ha mai guardato uno dei canali a lui dedicati.
Con questi dati non sorprende che proprio a fine Settembre SKY abbia “spento” i canali Disney XD e Disney in English del pacchetto Sky Famiglia.
Cosa guardino i bambini è spiegato, con tutti i dettagli del caso, nel rapporto Auditel – Censis presentato all’inizio di questo mese. Le famiglie Auditel sono 24.3 milioni circa. In sei milioni e 396mila nuclei famigliari, pari al 26.3% del totale, è presente almeno un minore.
Stando al report, cinque milioni e 700mila italiani, pari al 9.7% della popolazione di età superiore ai quattro anni, guardano programmi televisivi live o on demand su schermi diversi dalla televisione, collegandosi a device fissi o mobili. È un valore che cresce negli anni, e che vede come protagonisti soprattutto, giustappunto, i minori e i millennials.
Il problema di fondo non è tanto la bontà, o meno, dei programmi bensì la progressiva “morte” del palinsesto televisivo. Perchè mai nell’era degli smartphone un individuo, bambini compresi, dovrebbe guardare quello che c’è in quel momento in televisione quando può accedere on demand al contenuto da lui preferito? Domanda retorica, che naturalmente contiene già la risposta al riguardo.




Brand in piazza

Brand in piazza

Cè Nike, che ha scelto Colin Kaepernick – giocatore di football americano e attivista contro l’ingiustizia razziale – come volto di una sua campagna pubblicitaria, e poi il brand di abbigliamento tecnico Patagonia, che ha avviato un’iniziativa per salvaguardare il fiume Snake, habitat principale dei salmoni negli Stati Uniti. Ma sono molte altre le aziende che hanno scelto di schierarsi. Di seguito due grandi pensatori del marketing raccontano come stanno cambiando le cose e quali sono i vantaggi per chi decide di imboccare la strada dell’impegno sociale.

L’ascesa del brand activism
Di Sean Pillot de Chenecey, consulente di strategia e marketing

Colin Kaepernick è un giocatore di football americano, ma non trova un ingaggio da due anni. Nel 2016 aveva deciso di inginocchiarsi durante l’inno nazionale pre-partita in segno di protesta contro la violenza della polizia nei confronti delle minoranze etiche. Nike lo ha scelto per la sua recente campagna pubblicitaria dal messaggio molto chiaro: “Believe in something, even if it means sacrificing everything. [Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto.]”
È un esempio di quello che si definisce “brand activism” e ha scatenato un fortissimo coinvolgimento mediatico nonostante il rischio di un calo delle vendite tra quei consumatori che non condividono il pensiero di Kaepernick.
Secondo una relazione del 2017, Meaningful Brands, del gruppo di marketing e comunicazione Havas, il settantacinque per cento dei consumatori in tutto il mondo si aspetta un maggior contributo da parte dei brand per migliorare la qualità della vita, eppure solo il quaranta per cento crede che le imprese siano davvero impegnate.
Lo scetticismo dei consumatori è alimentato dal clima diffidente nei confronti di colossi tecnologici come Facebook, dal maggiore accesso alle informazioni online e dalle tensioni della politica moderna, in cui i fatti sembrano sfuggire e le emozioni prendono il sopravvento.
In questo mondo della post-verità, per le aziende è cruciale esaminare il proprio comportamento e ottenere la fiducia delle persone, la base di tutti i valori di un brand. Ogni tentativo di brand activism deve riflettere le convinzioni genuine del brand nei confronti di un tema rilevante per il brand stesso, altrimenti i consumatori riusciranno a smascherare presto l’associazione incoerente. Avrebbe poco senso che un marchio di latticini si impegnasse contro la violenza della polizia, ad esempio, ma funzionerebbe se promuovesse il benessere animale, purché la questione faccia già parte della buone pratiche. Può sembrare impegnativo, ma se si sceglie la strada giusta il brand activism permette di creare un legame emotivo con i consumatori che migliora la retention.
La campagna Nike è un esempio di alto profilo che illustra il modo in cui i brand stanno cercando di differenziarsi attraverso un messaggio chiaro. Parla di credere in se stessi, un concetto associato allo sport che si ritrova spesso nella storia del marchio americano. Per altri può essere la sostenibilità, magari legata all’impegno di limitare la propria impronta ecologica.
Qualunque sia la causa da sposare, è necessario un approccio, per così dire, olistico perché, credetemi, le organizzazioni che vogliono guadagnarsi la nostra fiducia devono dimostrarlo con i fatti. Creare una campagna che comunichi in maniera efficace “questo brand ha un’anima” non è abbastanza. Non è solo una questione di marketing, ma dell’intera azienda.
TOMS è un esempio eccezionale. Blake Mycoskie ha fondato la sua azienda di calzature nel 2006 con una missione: migliorare la vita delle persone. Per ogni paio di scarpe venduto, TOMS si è impegnato a donarne un paio a una persona in difficoltà.
Questo modello “one for one” ha avuto un grandissimo successo ed è stato seguito da molti altri. Dal 2006 a oggi TOMS Shoes ha distribuito più di 60 milioni di scarpe ai bambini. Nel 2011 il modello “one for one” è stato esteso al marchio di occhiali, TOMS Eyewear, che da allora è riuscito a correggere i difetti della vista di oltre 400.000 persone.
Tutto questo successo a un certo punto lo ha disilluso, e così Mycoskie ha deciso di prendersi una pausa di riflessione. Ha capito che TOMS aveva cominciato a ruotare intorno ai processi piuttosto che a un obiettivo ed è tornato con l’impegno di trasformarla di nuovo in un movimento.
In breve, i pilastri di un brand devono essere autenticità, trasparenza, credibilità, rispetto per la privacy ed empatia. I brand dovranno essere sempre più coraggiosi nel loro tentativo di coinvolgere co3nsumatori sempre più esigenti. Non si può più rimanere neutrali. Come ha fatto Nike con la sua campagna audace e rivoluzionaria, sono sicuro che altri seguiranno l’esempio di dare voce a persone e cause rilevanti per i consumatori e in questo modo a migliorare il loro senso di benessere.

Il brand activism che funziona
Di Gareth Kay, creative strategist

I brand sono sempre più un’idea che i consumatori decidono di fare propria – e non sono solo semplici produttori di un prodotto o di un servizio a disposizione dell’utente. Per questo i consumatori si aspettano che i brand abbiano un punto di vista chiaro sui propri valori e il proprio ruolo nel mondo.
I principi di un brand possono rappresentare un reale vantaggio competitivo perché quando rispecchiano la visione del consumatore creano un legame a livello emotivo, e quindi duraturo. Non deve sorprendere se il brand activism sta diventando una strategia aziendale importante.
In teoria, il brand activism è semplice. Serve a capire la propria anima, il proprio DNA e quindi a essere sinceri anziché comunicare la ragione della propria esistenza con rivendicazioni prive di contenuti. Scegliere semplicemente una causa da sostenere non funziona. Può essere vista come una decisione cinica e utilitaristica. Ogni brand può contare sulla storia del proprio fondatore, spesso dimenticata. Scoprite qual è e reinterpretatela.
David Hieatt è un fantastico esempio di imprenditore, convinto che le aziende debbano rappresentare qualcosa. Ha avviato Howies, marchio di abbigliamento creato per spronare i consumatori a riflettere sul mondo che li circonda, a partire dall’uso dei materiali fino alla riduzione della corrente elettrica. Howies aveva un punto vendita in Carnaby Street, a Londra, dove le luci dovevano restare accese 24 ore al giorno in base al regolamento comunale. Hieatt lo ha raggirato installando un interruttore fuori dal negozio e chiedendo ai clienti di usarlo qualora avessero avuto bisogno della luce per qualche minuto durante la notte.
Poi ha fondato Hiut Denim a Cardigan, una cittadina gallese sede della più grande fabbrica di jeans del Regno Unito, prima che la produzione venisse delocalizzata in Marocco per tagliare i costi. Ha assunto di nuovo alcuni degli operai specializzati – o “mastri artigiani”, come li chiama Hieatt – e vuole espandere la produzione. Grazie all’importanza dei social media e alla maggiore onestà e trasparenza richieste dai consumatori, i piccoli imprenditori oggi possono raccontare storie davvero coinvolgenti.
Un’esperienza simile è quella di Patagonia, fondata da Yvon Chouinard con una missione chiara: “realizzare il prodotto migliore, non provocare danni inutili, utilizzare il business per ispirare e implementare soluzioni per la crisi ambientale.” Oggi offre sostegno economico a oltre un migliaio di gruppi ambientalisti locali in tutto il mondo.
Quando Patagonia ha lanciato una campagna pubblicitaria con lo slogan “Non comprate questa giacca“, i consumatori hanno creduto che fosse un incoraggiamento onesto a riflettere sui propri bisogni materiali, e non solo una trovata per distinguersi. Patagonia sprona la comunità a sostenere la Common Threads Initiative, uno schema che consiglia di acquistare soltanto il necessario, riparare, riutilizzare e riciclare tutto il resto.
Patagonia si è guadagnata il diritto di dare voce alla causa ambientalista. A marzo il brand ha lanciato la campagna Save the Blue Heart, che si propone di salvaguardare la bellezza incontaminata dei fiumi balcanici. Questo brand non sta cercando di sfruttare un problema per far colpo sui consumatori. La difesa dell’ambiente è parte del DNA Patagonia.
Se un’azienda crede davvero in qualcosa, il brand activism è efficace perché esprime un punto di vista alla base dell’azienda stessa. Più i reparti marketing sono indipendenti dagli altri, più serve un dirigente impegnato nel brand activism e dallo spirito imprenditoriale che sappia davvero portare il cambiamento a tutti i livelli. Sotto la guida di Paul Porlman, ad esempio, Unilever è riuscita a trasformare la propria catena di fornitura per rendere i propri marchi più sostenibili.
Eppure il brand activism ha la capacità di ritorcersi contro l’azienda se non viene percepito come autentico e parte della mission. E purtroppo molte imprese mancano di umiltà e consapevolezza.
Prendiamo ad esempio Pepsi. Tempo fa ha lanciato una campagna pubblicitaria che aveva per protagonista Kendall Jenner, la più giovane della famiglia Kardashian-Jenner. Nel video, Kendall abbandona a metà un servizio fotografico per unirsi a una folla di manifestanti, che esultano quando lei porge una lattina di Pepsi a un poliziotto. I social sono insorti. Bernice King, figlia di Martin Luther King, ha twittato una foto del padre spinto indietro da un poliziotto durante una manifestazione. La campagna è stata ritirata.
La lezione: non fingete mai.




Brand Activism – il delicato rapporto tra Aziende e temi sociali

Brand Activism – il delicato rapporto tra Aziende e temi sociali

In un periodo storico in cui la politica sembra sempre più ripiegare verso una dimensione individuale e di breve periodo, il dibattito intorno ai temi sociali e alle prospettive future del pianeta entra in maniera evidente all’interno delle strategie di comunicazione delle aziende.
Un terreno scivoloso, dove per anni le aziende hanno scelto di non avventurarsi, temendo le reazioni negative di parte della clientela e puntando quindi ad un marketing basato esclusivamente sui prodotti e sulla visibilità del marchio.
Ma le cose cambiano.

Lo scenario

Secondo una recente ricerca di Shelton Group, l’86% dei consumatori americani ritiene che le aziende debbano impegnarsi sui temi sociali: ambiente, lavoro, inclusione, parità dei diritti. Secondo la stessa ricerca, il miglioramento dell’immagine del marchio presso i consumatori è dovuto all’introduzione di nuovi prodotti o servizi (53%), alla qualità del servizio clienti (34%), all’impegno su temi di rilevanza sociale (30%)
L’avvento dei Social Media ha consentito l’interazione diretta tra i clienti e i marchi su larga scala, un fenomeno del tutto nuovo nel rapporto tra produttore e consumatore, ma i consumatori digitali scelgono il dialogo diretto con le aziende, quando ritengono che queste siano autentiche e trasparenti e le aziende devono agire di conseguenza, ben sapendo che una volta instaurata la conversazione è estremamente più semplice coinvolgere il cliente nel processo di acquisto.
Si crea così un meccanismo di continua retroazione in cui le aziende, attraverso gli strumenti di Social listening, analizzano le tendenze del momento, valutano quali temi possono essere in linea coi valori del marchio e coi prodotti ed i servizi offerti e mettono in atto una strategia di comunicazione in linea con le aspettative degli utenti, questo attirerà l’attenzione di tutti coloro che ritengono giusta quella causa, anche se non conoscono il marchio o i prodotti venduti; i post relativi ai temi sociali saranno oggetto di commenti, condivisioni, apprezzamenti, ottenendo una visibilità decisamente superiore a quella che potrebbero avere i contenuti relativi al singolo prodotto.
Il risultato netto è che la conversazione, non sarà più legata al prodotto, che di per sé spesso non è poi molto differente dagli altri, ma sul marchio e sulla sua capacità – o meno – di costruire il consenso, oggi facilmente quantificabile attraverso il numero dei follower, dei like e dei commenti positivi ad ogni singolo post.
Questo non significa che l’impegno sociale delle aziende sia puramente opportunistico, anche perché le aziende che scelgono di esporsi, prendendo posizione su temi sociali anche controversi, rischiano di perdere una fetta di clienti che, pur apprezzando il prodotto, non condividono l’indirizzo “politico” delle imprese. Molti sono i casi in cui i marchi hanno una reale consapevolezza della loro responsabilità sociale e vogliono usarla per guidare il cambiamento verso un ideale “mondo migliore”. Detta così, suona banale, ma è certo che una volta che la strada viene tracciata, altri brand saranno spinti a seguirla e sempre più consumatori avranno la percezione di un cambiamento possibile.

Alcuni esempi


Se prendiamo ad esempio il tema dell’impatto ambientale, grazie a una sempre maggiore attenzione mediatica e ad una risposta positiva, seppure lenta, di molte aziende, oggi, secondo una recente ricerca di GWI, il 57% dei consumatori si dice disposto a spendere di più per un prodotto “ecologico”, rispetto al 48% del 2011.
Su questo tema, sono sempre più numerose le aziende come Pepsico, Barilla, Colgate, Gillette e molte altre, che hanno siglato un accordo con @Terracycle, azienda che opera nei processi di riciclaggio dei rifiuti in maniera eco-responsabile.
 
Sempre @Gillette ha recentemente presentato una campagna di sensibilizzazione sui comportamenti degli uomini nei confronti delle donne. Partendo da “Il meglio di un uomo“, lo slogan che da anni contraddistingue il marchio, Gillette ha promosso una su cosa davvero rende un uomo migliore, stigmatizzando ogni comportamento violento, molesto o anche solo machista e creando un fondo per supportare gli uomini a dare davvero il meglio di loro stessi, Molti i commenti positivi, ma numerose anche le reazioni negative, a dimostrazione del fatto che i temi sociali richiedono una certa dose di coraggio per essere affrontati.

Sul tema della non discriminazione si è espressa @IKEA con #fateloacasavostra, campagna e video virali, dove il brand si inserisce sul tema del sentirsi a casa, in linea con il suo core business, ma ovviamente dotato di un valore molto più ampio, legato all’accoglienza, all’inclusione e alla libertà di scelta.

 

Altro caso di studio è @Starbucks. Nel 2017, in aperta polemica con la legislazione Trump, dichiarò che avrebbe assunto 10.000 immigrati. La popolarità del marchio crebbe di conseguenza, fino all’aprile 2018, quando due clienti di colore vennero allontanati da un negozio Starbucks di Philadelphia apparentemente senza alcun motivo se non il colore della loro pelle. La notizia causò numerose proteste, e fu lo stesso Amministratore Delegato del gruppo a chiedere pubblicamente scusa. Il 29 Maggio 2018 Starbucks chiuse 8.000 negozi negli Stati Uniti per 24 ore in modo da offrire formazione antirazzista ai suoi 175.000 dipendenti. L’azienda investì quindi molto sulla diffusione di contenuti che dimostrassero quanto il marchio fosse estraneo ad ogni tipo di discriminazione recuperando così il favore del pubblico.
 
Al di là dei singoli casi, la tendenza è chiara: le grandi aziende sono sempre più sui temi sociali, prendono posizione, avvicinandosi in maniera “autentica” ai consumatori e questo premia in termini di immagine, ma anche di fatturato.




NOVARTIS, LA MULTINAZIONALE “CAMPIONE” DI RENDICONTAZIONE TRASPARENTE, E IL DIALOGO CON GLI STAKEHOLDER SULLO SCANDALO IN GRECIA

Novartis: “trasparente”, ma sullo scandalo corruzione in Grecia…
Il “marketing relazionale” è ormai entrato nella pedagogia del business, ma non di sole vendite vive un’azienda, o meglio: per vendere – ma soprattutto per continuare a vendere, costruendo valore nel tempo – è necessario coltivare le relazioni con i propri pubblici in modo realmente trasparente, efficace, aperto all’innovazione, e inclusivo delle novità dettate dallo sviluppo frenetico del mondo digitale. Per comprendere meglio le dinamiche che regolano questi delicati aspetti della vita delle aziende, esaminiamo il caso della multinazionale svizzera Novartis.
Nell’epoca della piena realizzazione della “profezia” di Warren Buffet “sui 5 minuti che servono per distruggerla”, c’è ancora qualcuno convinto che la reputazione – il più importante e prezioso asset intangibile per un’organizzazione – sia qualcosa che si costruisce grazie solamente a “uscite sui giornali”.
La reputazione è il grado di allineamento tra l’identità dell’organizzazione e la sua immagine, costruita nel tempo dall’organizzazione insieme ai suoi pubblici: essa può migliorare sempre e solo se la relazione tra i soggetti è basata su criteri di reale autenticità.
I Clienti oggi si sentono sempre più liberi di manifestare la propria opinione: sanno di essere parte dell’equazione. L’era della mera trasmissione unilaterale di contenuti – senza curarsi dell’impressione e delle idee del proprio pubblico – è finita da tempo, cosa che risulta evidente se si osservano le dinamiche relazionali dei vari social-network, e il peso del “passaparola” tra i Clienti di un’azienda.
Anche per questo, le organizzazioni sempre più spesso “rendicontano” ai propri stakeholder, con vari strumenti, alcuni più adeguati, altri meno. La “rendicontazione non finanziaria” è stata resa obbligatoria – con direttiva UE – dal 31/12/2017 per tutte le aziende da 500 dipendenti in su (in futuro questo limite verrà probabilmente abbassato), ma in realtà è già da tempo prassi corrente per le aziende più attente a costruire con la propria Clientela un rapporto di fiducia, in grado di condizionare i comportamenti di acquisto.
Tuttavia, la rendicontazione aziendale spesso viola intrinsecamente le regole di base del Reputation management: è “agiografica”, auto-referenziale, riporta solo i successi delle aziende e non rispetta quasi mai il principio del “comply or explain” (le aziende illustrano raramente i motivi per i quali non sono riuscite a raggiungere gli obiettivi dettati dagli impegni assunti con i loro pubblici). Come è possibile costruire fiducia in assenza del requisito – essenziale – della già citata autenticità? La relazione tra organizzazione e stakeholder è a quel punto come un fragile castello di carte, pronto a crollare al primo episodio di crisi reputazionale: le cronache – e i Social – sono pieni di case-history di questo genere.

La rendicontazione di Novartis

Ebbene, non è il caso di Novartis, ila multinazionale farmaceutica produttore – come molte altre aziende del settore – di preziosi farmaci salvavita, e di vari farmaci blockbuster anche per bambini.
Nella sezione del suo sito dedicato alla Responsabilità sociale, il colosso Svizzero illustra con estrema chiarezza le politiche e i codici che in Novartis definiscono gli standard di lealtà, correttezza e trasparenza che tutti i dipendenti e i fornitori sono tenuti a rispettare, come è d’altra parte evidente analizzando vari fatti di cronaca che non fanno che confermare l’attenzione di questa azienda al profilo etico dei dipendenti e collaboratori.
Pazienti, collaboratori, medici, istituzioni, partner commerciali, azionisti, opinione pubblica: guadagnare e mantenere la fiducia di tutti questi interlocutori secondo Novartis è una condizione essenziale affinchè l’organizzazione possa svolgere il suo ruolo di leader dell’innovazione in medicina, e l’azienda si muove quindi sempre esattamente in questa chiara direzione.
La trasparenza nelle attività di reporting, in termini di responsabilità sociale, è poi una priorità per il Gruppo, tanto che Novartis pubblica da anni un resoconto dettagliato delle sue attività di responsabilità sociale. Il Society Report della farmaceutica Svizzera risponde all’esigenza di illustrare e divulgare i progressi effettuati in particolari ambiti (Novartis ha sottoscritto il Global Compact dell’ONU) promuovendo in tutto il mondo la diffusione dei principi che stanno alla base di una crescita economica sostenibile, ovvero: rispetto dei diritti dell’uomo, salvaguardia dei diritti e della dignità dei lavoratori, tutela dell’ambiente e lotta alla corruzione. Il testo in questione è suddiviso in quattro capitoli che rispecchiano altrettante priorità: attenersi agli standard etici più elevati, essere parte della soluzione sui temi del pricing e dell’accesso alle cure, affrontare le sfide per la salute globale ed esercitare una cittadinanza responsabile.
In virtù di tutti questi principi – necessità di rendicontazione trasparente, coerenza e autenticità – cari a molte multinazionali e nei quali Novartis a suo dire si ritrova senza possibilità di equivoco, in un capitolo del Report 2018, pubblicato nel 2019, l’azienda rendiconta i suoi pubblici su quanto accaduto in Grecia, e assunto agli onori delle cronache fin dagli inizi del 2018: infatti, già a febbraio dell’anno scorso, come confermato da un articolo de Il Post, i procuratori anticorruzione di Atene inviarono al Parlamento della Grecia i documenti di un’inchiesta nata sull’ipotesi che Novartis avrebbe pagato tangenti ad alcuni importantissimi politici greci per condizionare il locale mercato dei farmaci. Le tangenti pagate da Novartis sarebbero state pari a 50 milioni di euro, secondo l’agenzia di stampa greca AMNA, con conseguenti perdite per lo stato Greco che corrisponderebbero a diversi miliardi di euro.
I Pubblici ministeri di Atene – che sono stati assistiti nell’indagine dall’FBI – hanno fatto sapere che i fatti riguardano gli anni dal 2006 al 2015, un periodo in cui la Grecia era nel pieno delle difficoltà dettate dalle riforme economiche e dei tagli imposti dai creditori internazionali, all’interno del programma di salvataggio che terminerà nell’agosto del 2018. Sempre AMNA sosteneva che nelle carte dei procuratori ci fosse la testimonianza di 20 persone a supporto delle accuse, e che le tangenti sarebbero state pagate per alzare il prezzo dei farmaci Novartis e ottenere vie preferenziali per l’autorizzazione dei suoi prodotti.

Novartis e i politici corrotti: denaro ai massimi livelli

Tra i politici che parrebbero coinvolti, vi sono due ex Primi ministri: Antonis Samaras e Panagiotos Pikramenos; Dimitris Avramopoulos, Commissario europeo per le migrazioni nella precedente legislatura UE (già Ministro della Sanità in Grecia dal 2006 al 2009); l’ex vice Primo ministro socialista Evànghelos Venizèlos e l’attuale governatore della Banca di Grecia, Jànnis Stournàras. Samaras e Avramopoulos facevano parte di Nuova Democrazia, il partito di centrodestra che ha governato a lungo la Grecia negli anni precedenti alla grande crisi, e che avrebbe almeno parte della responsabilità sull’alterazione dei conti pubblici compiuta in modo da garantire la sua ammissione in zona Euro. Commentando il caso Novartis, il ministro aggiunto della Giustizia, Dimitris Papanghelòpoulos, disse l’anno scorso che potrebbe essere “il più grande scandalo da quando esiste lo stato Greco”.
Novartis, nel suo Society Report illustra con trasparenza anche le circostanze per le quali è stata coinvolta in numerose inchieste sulla corruzione negli ultimi anni, in Cina, Corea del Sud, Turchia e Stati Uniti, illustrando le proprie motivazioni a riguardo, e ritorna successivamente sul tema dello scandalo “Grecia” con diversi puntuali aggiornamenti nell’area News del proprio sito istituzionale, specie dopo che sui mass-media è filtrata la notizia che 3 whistleblowers (ex dirigenti della stessa azienda, convintisi a confessare) si sarebbero recati in USA per collaborare con l’FBI, confermando le accuse che hanno generato lo scandalo in Grecia, come riportato dalla TV Svizzera RSI, alla quale essi hanno raccontato nel dettaglio le modalità di corruzione di medici e funzionari pubblici. I tre whistleblowers avrebbero infatti riferito dell’esistenza di un vero e proprio “programma corruttivo”, in parte finanziato direttamente dalla sede centrale di Basilea, celato dietro le apparenze di normali iniziative di marketing.
Novartis, che era al corrente da circa 1 anno e mezzo dell’inchiesta, ha ritenuto quindi corretto, nel rispetto dei principi etici ai quali aderisce, di informare compiutamente i propri stakeholder della vicenda, condividendo con i pubblici che ha cuore quanto accaduto, nel documento di rendicontazione pubblicato sul proprio sito web aziendale.
Anzi, no. A ben guardare, su tutte queste vicende non vi è un’unica riga, né nel Society Report, né altrove. Strano, probabilmente una trascurabile svista, che certamente – come le buone prassi di reputation management e corporate social responsibility dimostrano – non avrà alcuna ricaduta sul valore per gli azionisti di Novartis…
 
NOTA: l’Ufficio relazioni esterne di Novartis, diretto da Satoshi Jean-Paul Sugimoto ha così commentato, con una risposta non firmata, una nostra richiesta di approfondimenti e spiegazioni inviata in occasione della pubblicazione di questo articolo:

Questo caso (Grecia, ndr) è stato altamente politicizzato e il dibattito intorno ad esso è stato litigioso e, spesso, sensazionalistico. Abbiamo sempre cooperato, e continueremo a farlo, con le indagini in corso da parte delle autorità greche e statunitensi e adotteremo le misure appropriate per contrastare qualsiasi comportamento illecito. L`impegno di Novartis in Grecia, per sostenere i pazienti greci e il sistema sanitario greco, continua immutato. 

All’ulteriore domanda circa quali “misure appropriate per contrastare i comportamenti illeciti l’azienda abbia adottato”, lo stesso Ufficio ha poi risposto:

Novartis ha condotto esaurienti indagini interne sulle accuse nei suoi confronti. Dal momento che queste indagini sono tuttora in corso, non è possibile fornire ulteriori commenti

Curioso, che a un anno e mezzo dall’avvio delle indagini interne esse siano ancora in corso e non sia possibile conoscerne gli esiti. E poi ancora:

“Novartis assicura in ogni caso che adotterà le misure appropriate per contrastare qualsiasi comportamento illecito”

Ne siamo certi, in perfetta coerenza con tutto quanto illustrato sopra, nell’articolo e nei documenti che potete leggere cliccando sui vari link inseriti nell’articolo stesso.
Che incredibile, incommentabile tristezza.
 
Aggiornamento, 18 novembre 2019: pare che pratiche corruttive per favorire farmaci più costosi per il SSN, non siano state applicate – da Novartis – solo in Grecia: è di questi giorni la notizia di una inchiesta su danni per oltre 200 milioni di Euro in Italia….
 
 – edit 30/10/2019 h. 11.45
 – edit 30/10/2019 h. 12.15
 – edit 31/10/2019 h 03:10
 – edit 18/11/2019 h 11:50




Twitter: “Da novembre blocchiamo tutte le inserzioni pubblicitarie politiche a livello globale”

L’annuncio dal profilo dell’amministratore delegato Jack Dorsey:

 “La pubblicità su internet è molto potente ed efficace – ha scritto – ma comporta significativi rischi laddove può essere usata per influenzare voti”. Una scelta che provoca Facebook, che nei giorni scorsi ha dichiarato di non volere intervenire sulle inserzioni politiche anche se diffondono fake news

“Abbiamo preso la decisione di bloccare tutte le inserzioni pubblicitarie politiche a livello globale”. Twitter annuncia dall’account del suo amministratore delegato Jack Dorsey una decisione storica e in controtendenza rispetto a Facebook, che ha recentemente precisato di non volere intervenire su questo aspetto, anche se comporta la diffusione di fake news. La scelta della piattaforma di microblogging, che sarà attiva dal 22 novembre, ha però avuto un effetto immediato su Wall Street, dove il titolo è calato fino al 2,28%. “La pubblicità su internet è molto potente ed efficace – ha aggiunto ancora Dorsey – ma comporta significativi rischi politici laddove può essere usata per influenzare voti. Questo – ha proseguito – non ha nulla a che fare con la libertà di espressione. Ha a che fare con il pagare” per raggiungere il pubblico più ampio possibile e “questo ha significative ramificazioni che l’architettura democratica di oggi potrebbe non essere in grado di gestire”.
Dorsey spiega in particolare che un messaggio politico ottiene un pubblico più ampio grazie ai follower di un account o ai retweet. “Pagare per avere un pubblico annulla questa scelta e impone alla gente dei messaggi politici perfettamente ottimizzati e mirati“, afferma, aggiungendo: “Riteniamo che questa decisione non debba essere inquinata dal denaro”. Poi sembra rispondere direttamente a Zuckerberg: “Per noi non è credibile dire ‘lavoriamo duramente per impedire alla gente di aggirare le regole dei nostri sistemi per diffondere delle informazioni false ma se qualcuno ci paga per prendere di mira e costringere la gente a vedere la loro pubblicità politica allora possono dire ciò che vogliono’!”. Twitter, come pure Facebook e Google, trae la maggior parte delle loro entrate dalla pubblicità, spesso mirata in modo molto sottile grazie ai dati raccolti.

Il suo fuoco di fila di domande ha lasciato spiazzato Zuckerberg, che non è riuscito a dare delle risposte esaustive. Lo scambio fra i due è diventato virale sui social. A Ocasio-Cortez che gli chiedeva di rispondere con un “semplice sì o no” alla domanda se Facebook avesse intenzione di rimuovere o meno bugie, Zuckerberg ha risposto evadendo la domanda. “In molti casi, in una democrazia, ritengo che la gente debba essere in grado da sola di vedere cosa i politici dicono e giudicare” ha detto. “Quindi non le rimuovete?” ha incalzato Ocasio-Cortez. “Beh, dipende dal contesto in cui appaiono” ha risposto Zuckerberg, evasivo anche quando incalzato sulle sue recenti cene con esponenti di destra.