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Vivere nell’Area 51. Il nuovo ruolo politico del fantastico

Vivere nell’Area 51. Il nuovo ruolo politico del fantastico
Appuntamento via Facebook il 20 settembre prossimo per “invadere” la misteriosa Area 51. Ma dietro questo tipo di comunicazione cosa si cela? È come se all’improvviso ci trovassimo a vivere in un mondo che mescola costantemente fantastico e reale. Ma perché?


Ci andate a settembre? Sono ormai 2 milioni le persone che il 20 settembre 2019 invaderanno l’Area 51.
Almeno, sono 2 milioni quelle che hanno deciso di aderire all’evento Facebook: “Storm Area 51”, creato dalla pagina “Shitposting cause im in shambles” – curata dall’australiano Jackson Barnes.
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J. Barnes avrebbe anche un piano di “pacifica” invasione. E le forze dell’ordine in Nevada hanno già informato che si potrebbe arrivare all’uso della forza se ci fossero intrusioni in aree militari top-secret.
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Per molti tutto questo è pura goliardia. Ma intorno all’evento si è creato la solita sospensione emotiva che sta facendo precipitare gli eventi. Per esempio: Keemstar, sviluppatore indipendente, ha creato un videogame a tema dal titolo appunto Storm Area 51 o – come riporta anche MondoFox – alcuni Chef, per esempio, Guy Fieri propongono di regalare costolette di maiale “radioattive” agli “invasori”.
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IL FANTASTICO CONQUISTA IL REALE

Fino a qui la cronaca di queste settimane. Ma adesso la domanda vera e seria: e se non fossimo noi a dover invadere l’Area 51 – detta Dreamland? Sì, proprio così, se fosse invece Dreamland ad averci già invaso tutti, cambiando per sempre il nostro paradigma di realtà?
Oggi, infatti, è il pensiero fantastico ad irrompere e conquistare completamente il nostro immaginario, allargando le maglie stesse di quello che crediamo e sentiamo come reale.
Il pensiero fantastico è una delle forme con cui pensiamo (oltre al pensiero razionale e a quello immaginativo). Solitamente, il pensiero fantastico è:
• creativo: perché inventa mondi, informazioni, notizie e le porta nel reale;
• incoerente: perché la sua logica fa viaggiare oltre lo spazio tempo, può condurti nell’Antico Egitto o sull’Enterprise con Spock;
• contro-fattuale: perché i fatti oggettivi non hanno nessun senso per “lui”, anzi trova sempre un modo per raccontarli alternativamente;
• sovversivo: perché cambia le regole della realtà, sovverte ordini logici consolidati, dogmi duraturi e regimi di verità costituiti;
• nervoso: quando entri nel suo reame ciò che conta è la tenuta emotiva, puoi trovarti in zone terrificanti così come angelicamente appaganti.
La cosa interessante del pensiero fantastico – come hanno approfondito diversi studiosi come Todorov o Caillois – è che porta sempre con sé lo “strano” e il “meraviglioso” (positivo o negativo). Quando lo adoperi e ne subisci le conseguenze sei sempre all’interno di un mondo eccentrico.

GLI EFFETTI STRANIANTI DEL FANTASTICO

Oggi siamo tutti sotto l’effetto strano e straniante del pensiero fantastico. Per questo, è possibile che i fantasiosi tweet di personalità politiche possono cambiare i destini di una nazione e i post Instagram di influencer basati sulla pura fiction, possono generare profitti e business.
Pensiamo alla campagna #MyTruth di Calvin Klein, lanciata nel maggio 2019, che tra i tanti testimonial, ha coinvolto anche Lil Miquela, fictional character e digital art project. O per dirla in parole povere: personaggio-influencer inventato, (parto della pura fantasia di un team di creativi e storyteller) che però fattura. Puro pensiero fantastico – creatore di mondi – all’opera che si diverte a mescolare soggettività con oggettività. Nella foto sotto vediamo Lil Miquela con una modella in carne e ossa: Bella Hadid.
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Oppure guardiamo la recentissima querelle tra il brand Ferrari e Philippe Plein, stilista tedesco, che ha postato sul suo profilo Instagram auto Ferrari in co-branding di suoi prodotti (nella fattispecie scarpe). Ferrari, mandandogli una lettera legale, ha diffidato privatamente lo stilista dal fare questo tipo di associazioni, soprattutto perché i valori dell’azienda non vengono rappresentati nei post dello stilista, piuttosto sessisti. E per tutta risposta Plein ha messo on line l’intera vicenda avviando una “battle of narrative” veramente aggressiva. Altro esempio del potere sovversivo e nervoso del fantastico. Che in questo caso crea un meraviglioso negativo.
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Così, tutti all’improvviso ci troviamo a vivere e abitare in Dreamland con i suoi complotti, i suoi misteri, le sue dinamiche di salvezza, i suoi meta-personaggi e bizzarri anti-eroi, le sue nervose querelle, in un miscuglio costante tra immaginativo e reale.

VIVERE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE

Come si fa a vivere in Dreamland, senza perdere la ragione, piuttosto cavalcando il potere meraviglioso del pensiero fantastico?
Beh ci sono alcune questioni da fare nostre.
• La prima è che il concetto di “informazione coerente” diventa inutile per descrivere la complessità dei diversi tipi di news e narrative contemporanee. Non possiamo essere ingenui. Non c’è più nulla di lineare… Una foto rimanda a un hashtag che è collegato a un meme che a sua volta può diventare un post… Che monta una battaglia narrativa. Non ci dobbiamo fermare al primo cancello di informazioni, ma chiederci cosa c’è dopo? Anche perché ogni news viene cambiata, ricombinata, modificata decine di volte prima di arrivare al lettore; che, a sua volta, ricodifica, manipola, cambia l’informazione che legge (chissà da qui a settembre dove ci porterà l’occupazione dell’Area 51?).
• La seconda cosa da realizzare è che raramente siamo in contatto diretto con la “realtà” oggettiva delle cose e dei fatti, ma quasi sempre sperimentiamo il “realistico”: cioè, il racconto mediato e filtrato del reale. Tutti gli spazi di comunicazione sociale, economica e politica sono filtrati da contenuti creati e condivisi da qualcuno che sta raccontando qualcosa dal suo specifico punto di vista. Per cui va compreso quello sguardo particolare e le motivazioni di cui è portatore (come mai Plein ha pubblicato la querelle con Ferrari, semplice reazione nervosa o intento sovversivo mirato di altro tipo?).
• La terza è capire che proprio perché c’è sempre qualcuno dietro una comunicazione, cioè un autore specifico (soggetto, istituzione, azienda che sia), va individuata l’intenzionalità per cui certi contenuti testuali e visivi sono creati e socializzati (perché J. Barnes si è messo in testa di occupare l’Area 51? È solo una goliardata o c’è dietro qualche altra questione che dobbiamo sapere?).

IL RUOLO SOCIALE DEL FANTASTICO

Se è tutto completamente caricato di pensiero fantastico ci dobbiamo trasformare in detective. Siamo in una immensa “fantasy-spy-story” collettiva e quindi a noi la grande responsabilità di diventare investigatori, capaci di analizzare le realtà, attraverso indizi, segni, tracce, prove e contro-prove.
Ricordando sempre che quello che si vede, legge, ascolta è solo una dose di realistico, ma il reale è sempre più ampio, complesso e problematico. Senza dare nulla per scontato. Il pensiero fantastico non lo fa mai. Soprattutto a livello politico.




L’inganno contemporaneo della conoscenza disintermediata

L’inganno contemporaneo della conoscenza disintermediata

La cultura, la sua trasmissione, è ancora, fondamentalmente, una questione di relazioni. L’inganno dell’accesso disintermediato all’informazione e al sapere è un inganno. L’intermediazione, il rapporto con chi ha potuto fare esperienza, accumulare conoscenze, metterle alla prova rimane ancora una spinta evolutiva potente, sia individuale che collettiva. Ce lo insegna la manioca

La manioca è un tubero ricco di vitamine, calcio e carboidrati; per millenni ha costituito la base alimentare di intere popolazioni nelle diverse aree tropicali del globo esposte a condizioni climatiche avverse alla coltivazione, dall’Amazonia alle isole del sud Pacifico. Cresce in maniera praticamente spontanea, è facile da reperire, è versatile da cucinare e saporita e, come abbiamo detto, ricca di nutrienti.

Ha solo un problema, è altamente tossica; contiene, infatti, glicosidi cianogenici che, una volta decomposti, liberano acido cianidrico; la base, per intenderci, dello Zyklon B, il veleno usato nelle camere a gas dei lager nazisti per le esecuzioni di massa. L’avvelenamento da cianuro cui può portare il consumo di manioca, provoca problemi neurologici, scompensi al sistema immunitario, alla tiroide, fino alla paralisi degli arti inferiori. Le popolazioni che utilizzano questa pianta, però, hanno imparato a neutralizzare il rischio di intossicazione attraverso diverse tecniche che rendono il cibo cucinato con la manioca totalmente sicuro.

I Tukanoan dell’Amazzonia colombiana, per esempio, utilizzano un processo che dura alcuni giorni nel quale i tuberi vengono prima raschiati, poi filtrati, infine lavati per separare le fibre dalla polpa liquida, che viene, poi, bollita e può essere bevuta, mentre il resto deve decantare ancora per alcuni giorni prima di poter essere cotto e mangiato. Questa complessa procedura riduce fino a quasi farlo scomparire il contenuto tossico della manioca.

Il fatto realmente interessante riguarda l’origine di tale procedura, che una singola persona non avrebbe mai potuto elaborare. L’avvelenamento da cianuro che si verifica a seguito del consumo di manioca non processata è particolarmente subdolo perché i suoi terribili sintomi appaiono, in realtà, solo dopo molti anni di consumo regolare. Questo fatto rende il nesso causale tra l’utilizzo della manioca e l’avvelenamento altamente opaco e quasi impossibile da individuare (cfr. Joseph Heinrich, 2015, “The Secret of Our Success”. Princeton University Press).

Lo sappiamo per certo, perché, quando all’inizio del XVII secolo, i “conquistadores” esportarono la manioca dal Sudamerica in Africa Occidentale, lo fecero trascurando di trasmettere in maniera precisa alle popolazioni africane tutte le conoscenze necessarie per il suo sicuro utilizzo alimentare. Ancora oggi, a distanza di secoli, l’avvelenamento cronico da cianuro costituisce un problema endemico in varie aree del continente africano.

Proviamo ad immaginare, ora, una giovane madre Tukanoan che, invece di spendere giorni e giorni per processare la manioca così come le hanno insegnato da bambina, decida solamente di bollirla per eliminarne il gusto amaro. Risolverebbe, in questo modo, i problemi del gusto amaro e contemporaneamente potrebbe liberare tempo prezioso, nelle sue giornate, da dedicare ad altre attività, come la cura dei figli e della casa. Solo dopo molti anni i membri della sua famiglia inizierebbero a manifestare gravi problemi di salute connessi all’avvelenamento che, a questo punto, sarebbero difficilmente ricondotti al cambiamento delle abitudini alimentari, una causa remota che ha prodotto degli effetti difficilmente associabili.

Cosa ha impedito, per millenni, ai Tukanoan e a tutte le altre popolazioni indigene che consumano abitualmente manioca, di assumere simili comportamenti che, se pure producono benefici nel breve e medio periodo, diventano letali dopo molti anni? Non può essere una forma di apprendimento per esperienza diretta, lo abbiamo visto. È in realtà, ci insegnano gli antropologi, la loro disponibilità ad agire “per fede”; a seguire, senza magari capirne bene il perché, gli insegnamenti tramandati di generazione in generazione.

Siamo una “specie culturale” soggetta ad una interessantissima forma di coevoluzione nella quale la genetica influenza la cultura e, viceversa, la cultura, modificando l’ambiente, influenza la nostra storia genetica. Circa due milioni di anni fa, probabilmente, l’evoluzione culturale cominciò ad essere la principale spinta alla nostra evoluzione genetica. La capacità di apprendere e di trasmettere un corpo di conoscenze che si acquisiscono in maniera cumulativa e vanno a costituire la cultura dei popoli, è ciò che ci ha resi la specie di maggior successo in questo piccolo pianeta. Ma, come la storia della manioca ci spiega bene, affinché questo successo si possa realizzare attraverso la trasmissione culturale, occorre essere disposti ad apprendere, occorre che alcune specifiche condizioni siano rispettate.

Guardando alle società tradizionali, scopriamo tratti comuni che mettono in evidenza i meccanismi necessari alla trasmissione intergenerazionale della conoscenza. Affinché la trasmissione di codici culturali e comportamenti acquisiti produca risultati favorevoli per chi li adotta è necessario capire bene chi imitare. Quando i problemi sono complessi, l’incertezza è grande e la posta in gioco è elevata, le persone tendono ad assumere atteggiamenti conformisti, cioè tendono ad imitare gli altri, ma non tutti gli altri. In genere i giovani si focalizzano sugli anziani ritenuti i più saggi, su coloro che in un certo gruppo hanno guadagnato prestigio in virtù della loro eccellenza in qualche ambito, e modelli che hanno ottenuto successi ragguardevoli proprio perché hanno applicato quegli stessi principi che tramandano.

Siamo in qualche modo programmati a far ciò. I neuroscienziati dello sviluppo ci spiegano come, ancora molto piccoli, siamo capaci di complesse attività di “social referencing”, di orientarci, cioè, nella nostra comunità alla ricerca dei modelli da cui imparare, di modelli da imitare. Questi modelli, dal canto loro, gli esempi di prestigio e saggezza che in genere scegliamo di imitare, hanno, nelle varie popolazioni e culture, tutti, qualità simili: sono generosi nel condividere il loro sapere, sono gentili nel trasmetterlo e pazienti; queste qualità non fanno altro che aumentare il loro prestigio e la stima che gli altri membri della comunità hanno di loro e quindi la loro “imitabilità”.

Nonostante i nostri computer, internet, i viaggi spaziali e le conquiste scientifiche, il nostro cervello, nelle ultime centinaia di migliaia di anni, non è cambiato poi molto e così il nostro bisogno degli altri, la nostra vulnerabilità e la dipendenza da un sapere che è costitutivamente comunitario e sociale. L’evoluzione, anche quella culturale, agisce, infatti, su altre scale temporali. Questo vuol dire che abbiamo, ancora oggi, bisogno di saggi gentili, di modelli cui riconoscere prestigio in cambio di conoscenze antiche e moderne.

La cultura, la sua trasmissione, è ancora, fondamentalmente, una questione di relazioni. L’inganno dell’accesso disintermediato all’informazione e al sapere si è rivelato per quello che è, appunto, un inganno. L’intermediazione, il rapporto con gli altri, soprattutto con chi ha potuto fare esperienza, accumulare conoscenze, metterle alla prova con successo e, così, allargare lo sguardo, rimane ancora oggi una spinta evolutiva potente, sia individuale che collettiva. Ma dove sono oggi questi saggi gentili? Qual è diventata oggi la metrica del successo con cui scegliamo gli “imitabili”? Che posto riserviamo loro nelle nostre comunità? Forse solo i margini, le periferie dell’Impero.

Ne è, probabilmente, un indizio il prestigio che socialmente attribuiamo agli insegnanti di ogni ordine e grado: praticamente nullo; così come il rapporto disfunzionale che, sempre più frequentemente, si instaura tra scuola e famiglia; per non dire della pretesa di una conoscenza autoprodotta e mal compresa, unita all’arroganza di chi si sente sempre all’altezza di ogni situazione. Sono tratti di un decadimento ormai iniziato, del sovvertimento di logiche evolutive antiche e necessarie, capaci, spesso, di farci, collettivamente, migliori di quanto, potremmo essere individualmente. Dovremmo spingerci, allora, verso quei margini e quelle periferie, come novelli Diogene, alla luce fioca della lanterna, alla ricerca di questi saggi gentili, di cui forse proprio oggi, abbiamo ancor più bisogno; per scovarli e convincerli a ritornare al centro delle nostre piazze, a riprendere la loro opera fondamentale di trasmissione, al tempo stesso fedele e creativa, della saggezza profonda della nostra specie: per imparare ad essere, sempre più, non solo “homo”, ma soprattutto “sapiens”.




Sovraccarico cognitivo: ricchi di informazione ma poveri di attenzione

Sovraccarico cognitivo: ricchi di informazione ma poveri di attenzione

Parliamo di sovraccarico cognitivo (information overload) quando, come scrive il premio Nobel Herbert Simon, la ricchezza di informazioni genera una povertà d’attenzione. Il termine viene coniato nel 1964, dal sociologo Bertram Gross.

BOMBARDAMENTO SENSORIALE. Non è sorprendente che sul tema esista una gran mole di ricerche: di fatto,  stiamo affrontando un bombardamento sensoriale (e di conseguenza cognitivo) che non ha precedenti nella storia. Per dire: già nel 2008 L’università della California calcola che l’individuo medio sia esposto a 34 gigabyte di contenuti ogni giorno. E a un diluvio di oltre centomila parole.
SOLO 120 BIT. Consideriamo che la mente umana può elaborare un massimo di 120 bit di informazione al secondo. Non è poco, ma una normale conversazione da sola consuma circa un terzo di questa potenza di elaborazione. Che succede a tutto il resto dell’informazione, e a noi?
PRESTARE ATTENZIONE, FORSE. Sovraccarico cognitivo vuol dire che più cose abbiamo a cui stare attenti, meno riusciamo a prestare attenzione. Più cose abbiamo di cui tenere conto, più cerchiamo scappatoie che ci mettano al riparo dall’intollerabile fatica di dover prendere in considerazione troppi elementi con troppe variabili.
Infine, più cose ci sono che confliggono per catturale la nostra attenzione, più rischiamo di prestare attenzione a quelle non rilevanti.
TROPPI DATI A DISPOSIZIONE. Parliamo di sovraccarico cognitivo anche quando facciamo fatica a capire e a prendere la decisione giusta perché i dati da valutare sono troppi. E il nostro cervello non ce la fa a considerarli e valutarli tutti, e a farlo in tempo utile.
ANDARE A SBATTERE. Il sovraccarico cognitivo pregiudica la nostra capacità di recepire, selezionare e comprendere gli stimoli che veicolano informazioni importanti per noi. Ed ha delle conseguenze. Per dire: scegliamo di dar retta agli (incalzanti e attraenti ) stimoli visivi dello schermo del cellulare. E andiamo a sbattere contro il palo della cui noiosa presenza non ci siamo accorti.
OTTO SECONDI. Ma anche quando le conseguenze non sono così gravi, sembra che, mentre la quantità di stimoli cresce, la nostra capacità di stare attenti diminuisca. Uno studio svolto da Microsoft nel 2016 attesta che, rispetto all’anno 2000, la finestra temporale d’attenzione per chi sta in rete si è ridotta di un terzo: se in precedenza di trattava di 12 secondi, oggi smettiamo di stare attenti dopo soli 8 secondi. Per dire: un pesce rosso, che arriva a 9 secondi, avrebbe più tenuta di noi. Anche se il dato è stato ripreso da molte fonti autorevoli, BBC lo mette in discussione. Un dato empirico che però confermerebbe la riduzione dell’attitudine a prestare attenzione è la progressiva riduzione della lunghezza della maggior parte dei contenuti in rete.
RABBIA E PAURA PER COMPETERE. Questo fenomeno, per inciso, ne innesca un altro: se la capacità di prestare attenzione ha dei limiti, e se contemporaneamente cresce la disponibilità di informazione, la competizione per catturare la scarsa attenzione delle persone si intensifica a dismisura.  E si gioca su emozioni forti come rabbia e paura, su titoli urlati, sulla tossica capacità di sorprenderci delle notizie false.
STIMOLI-SPAZZATURA. Così, una quantità di stimoli-spazzatura, che sono molto più potenti ed efficaci della media (ce l’ha detto il Mit nel 2018) intasa il nostro già provato sistema sensoriale. L’ulteriore conseguenza è che, permettendo agli stimoli più prepotenti (non a quelli più importanti) di catturare la nostra scarsissima attenzione, ci esponiamo a una percezione distorta e ansiogena di quanto ci circonda.
RICHIESTE INCALZANTI. Ed ecco un’altra conseguenza di cui tener conto: molti degli stimoli che recepiamo contengono un’esplicita richiesta di retroazione: guarda! Scopri! Impara! Ridi! Arrabbiati! Scandalizzati! Condanna! Commenta! Condividi! Partecipa! Iscriviti! Compra! Non perdere l’opportunità! Risparmia!
DECIDI, DECIDI, DECIDI! Così, ci tocca decidere se aderire o meno a ciascuna di queste richieste: altra fatica cognitiva che intossica la nostra mente obbligandoci ad aggiungere all’infinità di decisioni grandi e piccole che la vita ci domanda di prendere ogni giorno un’infinità di ulteriori decisioni, tanto minute quanto irrilevanti.
MENO COINVOLTI. C’è un dato ulteriore: la consuetudine tossica e la condivisione di stimoli altamente drammatici può renderci più insensibili e meno coinvolti. È l’effetto spettatore che, secondo lo psicologo sociale Staley Milgram, si può (un po’ sbrigativamente) riassumere così: se tutti vedono e nessuno fa niente, anch’io mi sento autorizzato a non far niente. Su, fatevi venire in mente qualche esempio, che in giro ce ne sono diversi.
ESTERNALIZZARE IL SOVRACCARICO COGNITIVO. In sostanza: più aumenta l’informazione disponibile, più aumenta la fatica preliminare e aggiuntiva di analizzare e selezionare ciò che ci serve, più aumenta la quantità di decisioni da prendere, più aumentano la fatica, il senso di inadeguatezza, l’indifferenza. Per resistere alla fatica del decidere, cerchiamo di esternalizzarla, e di lasciarla, quando è possibile, agli algoritmi.
QUANDO A DECIDERE È L’ALGORITMO. Se cerchiamo qualcosa con Google, e ci accontentiamo dei primi risultati che la prima parola chiave che abbiamo scritto ha prodotto, in realtà lasciamo che sia un algoritmo a decidere  quali sono le informazioni a cui dobbiamo esporci. Se dobbiamo decidere un percorso e lo costruiamo con Maps, sarà un algoritmo a dirci  che strada dobbiamo prendere. La stessa cosa succede con le pantofole da comprare in rete, o con la serie da guardare stasera. O con le notizie che troviamo sui social media.
TECNOLOGIA E LIBERO ARBITRIO. Certo: avendo a disposizione quantità crescenti di dati che ci riguardano, gli algoritmi imparano a conoscerci sempre meglio (ricordo l’inquietante promessa fatta dai fondatori di Cambridge Analytica: con 300 like su Facebook, l’algoritmo ti conosce meglio di tua madre).
La tecnologia distrugge ogni parvenza di libero arbitrio, scrive Yuval Noah Harari (l’articolo esce, con una diversa traduzione, anche su Repubblica), proponendoci una prospettiva che sembra tratta da Black Mirror ma, a pensarci bene, è meno distopica di quanto potrebbe sembrare.
Questo articolo, aggiornato il 23 febbraio 2019, esce, in una versione più breve, anche su internazionale.it, ed è il secondo di una serie. Leggete anche Attenzione: come funziona, perché si modifica, quanto è preziosa




Facebook ha pagato centinaia di collaboratori per far trascrivere ciò che ci diciamo nelle chat audio

Facebook ha pagato centinaia di collaboratori per far trascrivere ciò che ci diciamo nelle chat audio

Il social network di Menlo Park ha pagato centinaia di collaboratori esterni per far trascrivere le chat audio fra gli utenti di Messenger


Facebook ci ascolta. Il social network di Menlo Park ha pagato centinaia di collaboratori esterni per far trascrivere le chat audio fra gli utenti di Messenger, in modo da avere un testo (quindi dei dati trascritti) anche quando un testo non c’era. Lo ha rivelato l’agenzia Bloomberg, e la stessa Facebook è stata costretta ad ammettere la pratica. Un portavoce della società californiana ha comunque garantito che il tutto è stato interrotto circa una settimana fa, e non vi è intenzione di riprendere questa strada.
Per un tempo abbastanza ignoto, dunque, Facebook ha di fatto ascoltato le conversazioni dei suoi utenti. Ed è giusto ricordare che poco più di un anno fa, davanti al Congresso Usa, Mark Zuckerberg aveva negato questa possibilità. Rispondendo a un senatore, il Ceo di Facebook aveva detto: «lei sta parlando di questa teoria della cospirazione che noi ascoltiamo quello che passa per il microfono degli utenti e lo usiamo per la pubblicità. Non lo facciamo». Zuckerberg era stato perentorio, insomma.
Oggi, però, i fatti potrebbero dargli torto. Ciononostante, è difficile parlare di violazione della privacy degli utenti. Da quanto si apprende, infatti, Facebook ha fatto trascrivere esclusivamente le chat vocali degli utenti che hanno scelto questo tipo di opzione. Difficile, dunque, configurare un’ipotesi di reato. Tuttavia, la policy sull’uso dei dati di Facebook – ampiamente rivista negli ultimi mesi – non fa cenno ai file audio e al fatto che persone terze in carne e ossa possano accedere alle informazioni contenute lì dentro.

Perché ci ascoltano

Se Facebook ha deciso di far trascrivere i messaggi vocali dei suoi utenti, investendo del denaro per assoldare un team di collaboratori ad hoc, un motivo dovrà pur esserci. La posizione che trapela da Menlo Park è orientata all’innovazione: la trascrizione sarebbe servita a capire quanto l’intelligenza artificiale usata per trascrivere l’audio fosse performante.
L’ipotesi meno ortodossa, invece, spinge a pensare che Facebook possa averlo fatto per avere dati da dare in pasto al suo potente algoritmo. Che il gigante di Menlo Park analizzi in modo maniacale il comportamento degli utenti sulla sua piattaforma, per ricavarne dati utili a scopi di marketing, non è un mistero. Dai like, ai commenti ai messaggi, tutto ciò che avviene su Facebook è oggetto di profilazione. Con la trascrizione degli audio messaggi, potrebbe essere stata aggiunta un’altra casella a questa giostra di dati.

Lo fa anche Amazon

Qualcosa di simile riguarda anche Amazon. Qualche mese fa, infatti, è esploso il caso degli speaker intelligenti del colosso di Seattle. Amazon impiega migliaia di persone in tutto il mondo per rendere più efficiente l’assistente Alexa che gira sui suoi altoparlanti Echo. Il team ascolta le registrazioni vocali catturate nelle case e negli uffici dei proprietari di Echo, le trascrive, le annotate e quindi le inserisce nel software per eliminare le lacune nella comprensione del linguaggio umano da parte di Alexa e aiutarlo a rispondere meglio ai comandi. Il team comprende aziende appaltatrici e impiegati a tempo pieno di Amazon che lavorano un po’ in tutto il mondo: da Boston alla Costa Rica, fino all’India e alla Romania. Persone che lavorano nove ore al giorno, analizzando fino a mille clip audio a testa per turno. Un lavoro per lo più banale durante il quale si utilizzerebbe una chat interna per condividere file quando c’è bisogno di aiuto per analizzare una parola confusa o una registrazione divertente.
Il fatto che un team “umano” ascolti un campione di registrazioni di Alexa, seppur a scopi migliorativi, ha aperto un nuovo dibattito sulla protezione dei dati personali. È francamente difficile, però, parlare di privacy violata. Perché che Amazon registri la cronologia di ciò che diciamo al suo speaker è cosa nota (ma lo stesso fa Google e tutti gli altri player del settore). E ogni utente ha espressamente acconsentito. Nessuno ci ha però detto che altri umani potessero ascoltare le conversazioni col cilindro di Jeff Bezos. Ma in fondo neanche il contrario.




La “Pesce Palla Strategy” sui social media: fine di un ciclo

La “Pesce Palla Strategy” sui social media: fine di un ciclo

Che i social media abbiano cambiato il mondo è cosa ormai assodata. Lo vediamo da tante piccole cose: i food bloggers hanno riscritto parte del galateo per cui oggi non è più buona educazione “cominciare a mangiare prima che tutti abbiano fotografato e condiviso sui social il proprio piatto”. Il più buono sarà quello che ha preso più like. Vestirsi non è più una questione di stile ma, stando ai fashion bloggers, una questione di scatto-acchiappa-like per cui il valore degli abbinamenti lo decide il numero di “mi piace” che riceverà la foto.
Prima dell’avvento dei social media, o lavoravi o cercavi lavoro. Oggi o lavori o fai l’Influencer. Non importa se hai un seguito di 100 o 100mila followers: tutti hanno il diritto di autoproclamarsi influencer senza dare troppo peso a quanti realmente sono in grado di influenzare.
E qui arriviamo al punto: in una società 2.0 in cui il valore individuale sembra essere il numero di followers e di likes, tutti, chi più chi meno, ricorrono ad aiutini per gonfiare i propri numeri cercando di apparire più influenti di quanto non siano realmente.
Io la chiamo “Pesce Palla strategy”. Ti gonfi per sembrare più grosso di quel che sei. Ma il pesce palla lo conosciamo tutti e, più che influenzarci, ci fa un po’ sorridere perché solo lui pensa di far paura a qualcuno.
E così, per fare come lui, chi desidera prendere la via veloce per apparire influente sui social, acquista nell’ordine:
Fake followers:
profili del tutto finti creati da algoritmi e rivenduti a migliaia per poche decine di dollari;
Likes:
gli stessi profili fake metteranno migliaia di like alle foto/video di chi paga per riceverli;
Servizi di automazione:
attraverso delle attività di follow/unfollow, like bombing e visualizzazioni delle instagram stories, chi usufruisce di questi servizi aumenta i numeri del proprio profilo senza che questo dipenda direttamente dalla qualità dei contenuti pubblicati o dalla strategia applicata.
Queste attività, col passare del tempo, hanno creato danni incalcolabili sia alle piattaforme social che vedono dirottare volumi di denaro per nulla indifferenti verso terze parti, sia a singoli e aziende che lavorano sulla propria crescita in modo organico, ossia senza ricorrere ad artifizi. Ecco che oggi, un seguito di 5mila followers reali, passa per un risultato poco soddisfacente, i soldi che dovrebbero entrare nelle casse delle piattaforme per promuovere i post con ADS a pagamento vanno invece a riempire quelle di chi vende followers e likes oppure ai finti influencers che, gonfi come il pesce palla, vendono post sul proprio profilo ad aziende che intendono promuoversi. Nemmeno a dirlo, il risultato di tali campagne è e sarà sempre ben al di sotto delle attese.
Infine, l’esperienza social, quella a cui tanto tengono Zuckerberg & Soci (mezzo mondo considerato il numero di shares di Facebook – e quindi Instagram e Whatsapp), perde completamente di appeal passando da interazione genuina tra utenti al nulla cosmico.
E’ notizia dello scorso novembre che Instagram ha dichiarato guerra a questo tipo di attività mettendo in campo le machine learning tools, strumenti di intelligenza artificiale in grado di individuare i comportamenti scorretti e di interromperli. Lo scorso febbraio, tra il 13 e il 14, le famigerate “machines” fecero la loro prima uscita ufficiale creando non poco scompiglio a livello mondiale. I followers finti per un giorno sparirono dai profili. Ne abbiamo parlato in questo articolo. 
Ad aprile escono le prime indiscrezioni relativamente alla rimozione dei like su Instagram: è possibile che nelle prossime versioni della app non si vedano più. “Vogliamo che i tuoi followers si concentrino su ciò che condividi, non su quanti like ottengono i tuoi post” – tuona Instagram in una preview che chi scrive ha potuto vedere.
Arriviamo quindi al 4 giugno con l’entrata in vigore del nuovo algoritmo, attualmente l’ultimo e il più difficile da interpretare anche per i più qualificati social media manager.
Impossible continuare a crescere con gli automatismi, acquistare followers è un terno al lotto poiché possono arrivare tutti, solo alcuni o nessuno e nei giorni successivi non sai mai se ci saranno ancora. Il prezzo dei like invece è cresciuto tantissimo perché per mandarli le procedure sono molto più complesse e i filtri di Instagram ne bloccano la maggior parte. Il mercato parallelo della notorietà a basso costo comincia fortemente a scricchiolare e i pesci palla cominciano a sgonfiarsi.
Nel mese di luglio, per chi credeva che Instagram scherzasse, arriva il colpo finale: via ai test in 7 paesi tra i quali l’Italia: una mattina ti svegli, guardi i profili dei tuoi idoli e non trovi più i like sulle foto. Non puoi metterli e non ne visualizzi il numero. Sta succedendo veramente e sta succedendo ora.
E’ una questione psicologica quella di mettere con più facilità un like su una foto che ne ha già migliaia, condizionati dal fatto che sia già stata apprezzata da molti prima di noi. Ma se questo numero non è visibile, ci si concentrerà sul valore del contenuto, la qualità della foto e il messaggio del testo che la accompagna così che questa abbia davvero la potenzialità di condizionare le scelte di acquisto di chi ci si imbatte.
Tutto questo, a detta di molti, sarà la tomba degli influencers che, senza poter sfoggiare i loro tanto impressionanti quanto finti numeri, perderanno appeal sul loro seguito. Finiti gli influencers finiranno anche le piattaforme su cui operano. Ma questo scenario è davvero realizzabile?
La posizione di chi scrive è che invece questo giro di vite sulle attività contrarie alla policy di Instagram non solo non danneggerà le ultrasensibili dinamiche, ma ci restituirà anche un network che di social non ha solo il nome ma anche la forma.
I finti influencers via via spariranno lasciando spazio a figure di riferimento in grado, prima ancora di influenzare, di informare e selezionare le migliori proposte sul mercato. Tutto in favore del mercato e della user experience.
Non essendoci alternative, gli investimenti di profili personali e brand saranno riservati quasi esclusivamente alla produzione di contenuti di qualità e alla promozione di questi ultimi attraverso l’advertising a pagamento offerto dalle piattaforme che li ospitano.
Felici gli utenti, che riceveranno informazioni mirate e con contenuti di qualità;
felici Zuckerberg, soci e azionisti che rimpingueranno le proprie casse;
felici gli influencers veri che trarranno benefici concreti dal loro lavoro;
felici i brand che intendono investire sugli influencer, questa volta con meno rischio di sbagliare;
felici i social media manager professionisti, che rimangono a tutti gli effetti l’ultimo asso nella manica per chi vuole crescere in modo organico indirizzando il proprio messaggio al mercato di riferimento.
E il pesce palla? Fortunatamente lui potrà continuare a gonfiarsi quando lo ritiene opportuno. Instagram non ne ha fatto – ancora – specifica menzione.