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Lego sta facendo fatica a trovare un’alternativa alla plastica

Lego bioplastiche

Nonostante le ricerche, non ha ancora trovato una formula adatta perché i suoi mattoncini rimangano quelli che conosciamo

Da ormai sette anni Lego sta studiando un modo per produrre i suoi mattoncini con la plastica di origine vegetale. È un progetto ambizioso: la società danese lo ha adottato perché la sua storia e il suo immaginario le impongono, in un certo senso, di posizionarsi come attenta alle questioni ambientali. Ma è anche molto complicato, come ha raccontato di recente il Wall Street Journal, e finora non ci è riuscita se non nel caso di alcuni pezzi secondari. Nello specifico alberi, cespugli e foglie, introdotti sul mercato lo scorso anno e derivanti dalla canna di zucchero coltivata in Brasile. Il resto dei 50 miliardi di mattoncini che Lego produce ogni anno continua a essere prodotto con la plastica tradizionale.
Definire le “bioplastiche” non è semplice, perché al momento sono diversi i materiali che ricadono in questa categoria, più o meno impropriamente: sono in generale quelle plastiche prodotte completamente o in parte con biomasse vegetali, che possono essere biodegradabili ma possono anche non esserlo, e che possono essere prodotte a partire da fonti rinnovabili ma anche fossili. In genere derivano dalla canna da zucchero, ma possono anche essere ricavate da amido di mais, grano, scarti alimentari o fecola di patate. Sono generalmente considerate un’alternativa molto più ecosostenibile della plastica tradizionale, anche se non sono – perlomeno non ancora – un materiale propriamente a basso impatto ambientale. Anche per questo è sconsigliato utilizzare il termine “bioplastiche”, a cui viene spesso preferito “polimeri a base biologica”.
Soprattutto, i problemi delle plastiche di origine vegetale riguardano le loro capacità di sostituire le plastiche tradizionali, derivanti dal petrolio. Lego ha infatti bisogno che i suoi mattoncini si incastrino bene tra di loro, che facciano CLACK, ma che possano anche essere separati facilmente; che siano sufficientemente robusti e che mantengano il loro colore e la loro forma a diverse temperature e soprattutto a lungo. «Se costruisci un castello con i Lego vuoi che sia ancora in piedi dopo cinque anni, dopo dieci, senza che i mattoncini cambino forma o che le torrette cadano», ha spiegato Tim Guy Brooks, a capo del dipartimento di Lego che si occupa di sostenibilità ambientale.
Nel 2012 Lego si impegnò a trovare un modo per iniziare a impiegare alternative sostenibili alla plastica tradizionale entro il 2030, e per farlo investì 150 milioni di dollari in ricerca e sviluppo. Finora ha testato oltre 200 materiali diversi, ma a oggi soltanto il 2 per cento dei suoi prodotti è di origine vegetale. Ha provato a partire dal mais, ma i mattoncini uscivano troppo morbidi; quelli a base di grano non assorbivano come si deve il colore; altri ancora erano troppo difficili da separare, troppo fragili o si “allentavano” col tempo negli incastri. «È un po’ come andare sulla Luna», ha spiegato Brooks. «Quando Kennedy disse di voler mandarci l’uomo, molta della tecnologia e delle attrezzature necessarie non esistevano ancora». Ricorrere alla plastica riciclata per ora non è un’opzione, visto che Lego ha bisogno di mantenere un certo standard di qualità – alto, e soprattutto omogeneo – nelle materie prime.
Lego non è sola in questo tentativo. Coca-Cola, per esempio, nel 2013 aveva promesso di includere una percentuale di materie prime vegetali in tutte le sue bottiglie (in parte lo fa già, fin dal 2009), ma ha poi dovuto spostare gli obiettivi sull’utilizzo di plastica riciclata. Quattro anni fa l’azienda aveva sviluppato una bottiglia di origine vegetale, ma non ha trovato il modo di portarne la produzione ai livelli necessari per metterla sul mercato, spiega il Wall Street Journal. Per sviluppare nuovi materiali industriali su questa scala serve che le aziende investano moltissimi soldi, e perciò Lego ha coinvolto altri gruppi come Nestlé, Procter & Gamble e McDonald’s per unire le forze e trovare materie prime che siano sostenibili non solo a livello ambientale, ma anche economico. La stessa Coca-Cola ha iniziato a condividere le sue tecnologie nel settore con altre aziende, sperando di trovare un modo per rendere l’utilizzo di polimeri biologici sostenibile.
Nonostante se ne parli da decenni, le plastiche di origine vegetale costituiscono meno dell’1 per cento dei 359 milioni di tonnellate di plastica che produciamo ogni anno, secondo European Bioplastics, l’associazione che rappresenta il settore in Europa. Anche se in futuro potrebbero arrivare incentivi e obblighi imposti dai governi, per ora Lego si sta impegnando di sua iniziativa. Come dice Brooks, «non possiamo dire che ispiriamo i costruttori di domani, se distruggiamo il pianeta».



È italiana la nave anti-plastica più grande al mondo. Ha droni e sottomarino

Fincantieri l’ha costruita in Romania e presto veleggerà per gli oceani. Ricerca, studi e divulgazione sono gli obiettivi del progetto di un ex petroliere norvegese

Il Pianeta ha un nuovo alleato contro plastica e gas serra: una nave di 183 metri che solcherà gli oceani per proteggere e studiare gli ecosistemi marini. Rev Ocean è un gigante costruito da Fincantieri in Romania, a Tulcea, da dove è partita verso la Norvegia per un collaudo finale prima delle sue spedizioni in tutto il mondo. Sulla Revo Ocean sarà attivo anche un inceneritore in grado di trattare quasi tutti i rifiuti, anche la plastica, ed è stato pensato proprio per non scaricare tutta l’immondizia prodotta a bordo nei Paesi che verranno toccati dalla crociera . Le emissioni, garantiscono sul sito ufficiale, saranno ridotte al minimo ed ecologicamente sostenibili. La ciurma complessiva sarà di 35 membri dell’equipaggio e 55 scienziati per quanto riguarda i viaggi di ricerca, ma saranno possibili anche delle sorte di crociere con 28 passeggeri che potranno prendere parte a queste spedizioni green.

Foto: www.revocean.org

Perché una nave?

Rev Ocean è stata finanziata dal filantropo norvegese Kjell Inge Rokke, un imprenditore miliardario con un passato nell’industria petrolifera. L’investimento su un progetto green per il bene del Pianeta è stato un gesto per farsi “perdonare” i tanti anni passati in un settore resosi responsabile di disastri ambientali. Tanta la tecnologia a basso impatto su ambiente e fauna marina che è stata installata sulla nave, come quella che recupera il calore sfruttato poi per creare acqua dolce e il sistema di riduzione di suoni e vibrazioni. Sul sito ufficiale è possibile esplorare la nave.

Foto: www.revocean.org




Trust in Communicators: i risultati 2019

Conta più chi l’ha detto rispetto a ciò che viene detto e i soggetti esterni all’azienda riscuotono più fiducia dei professionisti della comunicazione. Sono alcune delle evidenze emerse da Trust in Communicators, la ricerca di Euprera che indaga la fiducia nei professionisti della comunicazione.


Una nuova ricerca rivela alti livelli di sfiducia nei confronti dei portavoce delle aziende, mentre gli esperti esterni riscuotono più fiducia presso l’opinione pubblica. I sostenitori esterni delle organizzazioni riscuotono infatti più fiducia rispetto a dirigenti, professionisti delle relazioni pubbliche ed esperti di marketing da parte dell’opinione pubblica. Un team di ricercatori europei ha esplorato sia il significato di questo quadro mutevole per i professionisti della comunicazione sia il processo di costruzione della fiducia nelle organizzazioni.
Lo studio è stato condotto da rinomati ricercatori dell’Università di Lipsia, dell’Università di Leeds Beckett e dell’Università IULM di Milano, e supportato da Cision Insights e Fink & Fuchs. I ricercatori tedeschi, inglesi e italiani hanno condotto una serie di sondaggi rappresentativi in ​​ciascuno dei rispettivi Paesi. I sondaggi miravano a indagare i dati sulla fiducia del pubblico nei confronti dei dirigenti delle organizzazioni, dei giornalisti, dei professionisti delle relazioni pubbliche (RP) e del marketing e a confrontarli con il livello di fiducia negli altri sostenitori che parlano a nome delle organizzazioni. I ricercatori hanno anche condotto un sondaggio tra i professionisti della comunicazione negli stessi Paesi. Questo sondaggio mirava a capire come i professionisti valutano la fiducia del pubblico nella loro professione.
La ricerca ha evidenziato che i professionisti della comunicazione riscuotono più fiducia e sono riconosciuti maggiormente nel Regno Unito rispetto a Germania e Italia. Nonostante ciò, il pubblico rivela un alto livello di sfiducia nei confronti di questi professionisti (vedere la Figura 1). È stato individuato un divario di fiducia, che si sta colmando, tra professionisti della comunicazione e giornalisti, ma non così ampio come previsto.
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Le informazioni sulle organizzazioni sono spesso diffuse da persone che non sono professionisti della comunicazione, ad esempio da sostenitori dell’organizzazione come clienti (fan, brand ambassador), esperti del settore (accademici, consulenti) o attivisti con gli stessi interessi. Lo studio ha dimostrato che gli esperti del settore riscuotono più fiducia rispetto a questi sostenitori, ma sono comunque tutti più fidati rispetto ai professionisti della comunicazione (vedi Figura 2). Gli sforzi dovrebbero essere focalizzati sul consentire a questi gruppi di sostenitori di promuovere il processo di costruzione della fiducia.
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La ricerca ha rivelato che l’opinione pubblica percepisce in maniera confusa gli obiettivi e le attività dei professionisti delle relazioni pubbliche (vedi figura 3). Mentre i professionisti della comunicazione fraintendono il giudizio dell’opinione pubblica su di loro e ne sopravvalutano la fiducia. Questi professionisti, inoltre, giudicano erroneamente il loro ruolo nel processo di rafforzamento della fiducia e ignorano la fiducia del pubblico nei confronti dei sostenitori esterni.
(descrizione)
A commento del nuovo studio, la Prof. Stefania Romenti, responsabile della parte italiana della ricerca, afferma: “Questa ricerca è frutto della partnership che il Centro di ricerca per la comunicazione strategica, da me diretto presso l’Università IULM, ha stretto con l’European Communication Monitor (ECM), l’indagine più estensiva condotta in 46 paesi sul ruolo strategico giocato dalla comunicazione nelle organizzazioni. Dall’edizione 2019 dell’ECM era emerso che in particolare in UK, Germania e in Italia il livello di fiducia tra comunicatori, organizzazioni e opinione pubblica è più critico rispetto ad altri contesti culturali. Per questo motivo abbiamo deciso di realizzare una nuova ricerca incentrata sul ruolo della fiducia nelle diverse figure di comunicatori che a vario titolo rappresentano le organizzazioni. I risultati rappresentano uno spunto di riflessione operativo per i professionisti e li supportano nella selezione delle figure più adeguate a esprimersi in rappresentanza delle imprese”.


La ricerca
La ricerca “Trust in Communicators” è diviso in due parti.  Innanzitutto, abbiamo intervistato i comunicatori d’impresa attraverso uno studio quantitativo in tre Paesi: Germania, Italia e Regno Unito, per comprendere la percezione della fiducia nei confronti dei comunicatori. Successivamente, abbiamo confrontato le loro opinioni con le percezioni della fiducia nei confronti dei professionisti della comunicazione negli stessi Paesi da parte della popolazione complessiva.
Sulla base di ricerche precedenti e della letteratura esistente sulla fiducia nei professionisti della comunicazione, è stato costruito un elenco di dichiarazioni per rilevare il livello di fiducia o sfiducia in tutti i tipi di comunicatori che possono parlare a nome di un’organizzazione e dei giornalisti che si occupano delle organizzazioni. Inoltre, sono state delineate delle dichiarazioni relative alle attività delle relazioni pubbliche. Il sondaggio si basa su un campione rappresentativo di adulti di età compresa tra 16 e 64 anni provenienti da Germania, Italia e Regno Unito (intervistati tramite “omnibus” online nella primavera del 2019 da Kantar TNS). Inoltre, i professionisti della comunicazione sono stati esaminati contemporaneamente nell’ambito della ricerca annuale European Communication Monitor (communicationmonitor.eu).




La guerra che l’ISIS sta perdendo online

La batosta è stata programmata. Un’azione congiunta, tra il 21 e il 24 novembre, coordinata dal quartier generale dell’Europol all’Aia insieme a 9 servizi online, tra cui Google, Files.fm, Twitter, Instagram e Telegram. Obiettivo: riportare alle piattaforme una montagna di segnalazioni sulla propaganda dell’ISIS (o Stato Islamico), raccolte dall’unità specializzata nell’investigare contenuti su Internet (la Internet Referral Unit), video, pubblicazioni, account sui social media. Le due giornate hanno portato in tutto alla segnalazione di oltre 26mila contenuti, ma anche account e canali, a sostegno del’ISIS, che poi i vari servizi online hanno valutato in base ai propri termini di servizio ed eventualmente rimosso.

Il giro di vite di Telegram

Una parte consistente di queste segnalazioni, spiega sempre in vari comunicati l’Europol, l’agenzia Ue di contrasto al crimine, ha riguardato proprio materiali, account, gruppi e canali su Telegram. Di conseguenza, “una porzione significativa di attori chiave della rete dello Stato Islamico su Telegram è stata buttata fuori dalla piattaforma”, scrive ancora l’agenzia, sottolineando lo sforzo attuato da Telegram nell’ultimo anno e mezzo per “sradicare” chi abusa del suo servizio sia “rafforzando le sue capacità tecniche nel contrastare contenuti malevoli, sia instaurando una stretta partnership con l’Europol”. Stessi toni trionfalistici anche nel comunicato della app di messaggistica fondata da due fratelli russi (poi emigrati altrove insieme all’azienda). “Dopo gli attacchi ISIS in Europa abbiamo tolleranza zero per la loro propaganda sulla nostra piattaforma”, ha scritto uno dei due cofondatori, Pavel Durov sul suo canale. “Nel contempo, continueremo a difendere il diritto assoluto dei nostri utenti alla privacy come nessun altro servizio, dimostrando che non devi sacrificare la privacy per la sicurezza. Puoi avere – e dovresti avere – entrambe”.
Dunque ci sono due elementi che emergono da queste giornate e che andrebbero sottolineati: la rete dell’ISIS è stata di fatto in gran parte smantellata su Telegram. Europol ha riconosciuto pubblicamente lo sforzo della piattaforma, polverizzando con un comunicato anche l’immaginario mediatico che dipingeva sempre tale app come un ricettacolo di terroristi che comunicano in modo cifrato – come se Telegram avesse il monopolio della cifratura poi, oggi è semmai difficile trovare una app di messaggistica decente che non sia cifrata.
Inoltre questo nuovo corso fra Telegram-Europol (e governi occidentali) è politicamente interessante di per sé, anche se non è chiaro cosa implichi (una ipotesi: il massimo della collaborazione sul terrorismo in cambio di una non-belligeranza su altri fronti?).
Un dato è certo: lo sforzo di Telegram c’è stato, commenta a Valigia Blu Michael Krona, professore di media e comunicazione alla svedese Malmo University e autore del recente saggio The Media World of ISIS. “È interessante il fatto che nei giorni successivi all’azione dell’Europol, la stessa Telegram abbia continuato a chiudere account a una velocità che non avevano mai avuto prima”, prosegue Krona. “Anche se c’è ancora attività sulla piattaforma, questa è stata ridotta in modo significativo e i nuovi canali che aprono sono chiusi nel giro di una o due ore. A rendere possibile tutto ciò probabilmente una combinazione di filtri automatici – dato che molte aziende tech hanno rafforzato le loro capacità tecniche così come le policy nella ricerca di materiale terroristico online – e di segnalazioni umane. Ritengo tuttavia che Telegram abbia avuto la capacità di chiudere account da molto tempo, ma per una ragione o l’altra non lo abbia fatto. Non so se o cosa gli sia stato offerto in cambio della cooperazione con Europol”.

Sostenitori dell’ISIS dispersi online

Ma il terzo dato interessante è che, come conseguenza del giro di vite, i soggetti pro-ISIS sono stati dispersi e si sono messi in cerca di altre piattaforme; e questo ha prodotto un po’ di agitazione negli analisti e osservatori. Ma al momento, come può confermare anche Valigia Blu, continuano ad avere vita dura.
Dopo le cancellazioni su Telegram e su altri grossi social, la propaganda pro-Stato Islamico ha infatti iniziato a spostarsi altrove, come hanno notato vari osservatori, dalla giornalista Rukmini Callimachi allo stesso Michael Krona. Ma a dirlo erano gli stessi protagonisti, cioè alcuni nodi informativi dell’ISIS, come Quraysh che, secondo Jihado Scope e altriavvertiva della cancellazione di migliaia di account su Telegram consigliando di fare dei backup.
Una parte dei profili ha iniziato a ricrearsi su altre app di messaggistica, in particolare su TamTam, dove sarebbe apparsa anche una rivendicazione per l’attacco sul ponte di Londra del 29 novembre, riferiscono alcuni ricercatori.

Il tentativo (fallito) di riparare su TamTam

TamTam è una app di messaggistica molto simile a Telegram, lanciata nel 2017 dal gruppo russo Mail.ru (una delle maggiori aziende internet del Paese, lo stesso che controlla il social network Vkontakte) e basata a sua volta su una precedente app, OK Message. Nel 2018, proprio mentre Telegram era ai ferri corti con Mosca e non voleva consegnare ai servizi di sicurezza le chiavi di cifratura con cui protegge una parte delle conversazioni degli utenti, al punto da essere bloccata (con poca efficacia a dire il vero) dalle autorità, TamTam ne approfittava per farsi pubblicità e racimolare utenti. Questa volta però gli iscritti raccolti e ricevuti da Telegram sarebbero stati alquanto scomodi.
È anche vero che da subito qualcuno ha notato come in un servizio dalla diffusione decisamente più limitata, come TamTam, i pro-ISIS – arrivati per di più in massa, tutti assieme – sarebbero stati molto visibili, insomma non avrebbero potuto giocare facilmente a fare l’ago nel pagliaio. E così in effetti è avvenuto. Lo staff di TamTam ha affrontato subito la questione, iniziando a cancellare account. O a bloccare canali e rimuovere i contenuti. Nel giro di qualche giorno, tra il 29 novembre e il primo dicembre, l’emergenza TamTam è rientrata e molti, come il ricercatore Charlie Winter, si sono congratulati con la sua capacità di intervento, probabilmente agevolata dalle segnalazioni di ricercatori e cittadini (in Francia soprattutto c’è una rete “anonima” di cacciatori online di profili ISIS che si dà molto da fare su questo fronte). Valigia Blu ha provato a vedere se si trovavano facilmente noti canali di propaganda ISIS e ne ha trovato alcuni pressoché vuoti e privi di utenti in cui i contenuti erano stati quasi immediatamente cancellati.

Altri tentativi, tra Riot e Hoop

Nel mentre, i pro-ISIS dibattevano su dove andare, saltando, come notato anche da BBC Monitoring, da una piattaforma all’altra. Oltre a TamTam, ci sono state segnalazioni su un afflusso di account dell’ISIS su altre due app di messaggistica minori e poco note, Riot e Hoop Messenger. Ma in entrambi i casi ci sono state reazioni, e di nuovo l’afflusso non deve essere passato inosservato. Addirittura già il 26 novembre, quindi ancora a ridosso del blitz Europol-Telegram, lo stesso Quraysh riferiva che Riot stava cancellando molti account di sospetti sostenitori ISIS, segnalava Jihado Scope. Anche Hoop Messenger (app prodotta dall’azienda canadese Magnificus Software e lanciata nel 2015) si è messa al lavoro, come comunicato dai suoi account ufficiali. Ma, avvertivano loro stessi, “la crescita è rapida perché creano nuovi canali con telefoni e alias differenti. E siccome gli alias non sono connessi agli account master non possiamo identificarli”. Il riferimento è a una specifica funzione di Hoop che permette di creare, oltre al proprio account principale (detto master), degli altri account sotto altri nomi che di fatto sono separati e autonomi. Malgrado dunque l’impegno messo dalla piattaforma, Valigia Blu ha facilmente trovato almeno un canale attivo pro-ISIS con quasi duecento iscritti. Anche Hoop (come TamTam) è molto simile a Telegram, anche se con qualche funzione diversa, ma tutte queste piattaforme di messaggistica cifrata sono sfruttate dalla propaganda pro-ISIS anche per la funzione dei canali, aperti al pubblico, che permettono di fare broadcasting dei messaggi agli iscritti. Su Telegram però è molto più evidente la procedura per segnalare un canale, su Hoop è meno chiaro.

Un ISIS online frammentato

Altre app di chat finite nel mirino degli osservatori sono state RocketChat, Threema e Conversation, anch’esse piuttosto di nicchia. Ma un dato è chiaro: mai come oggi l’ISIS online è disperso e frammentato, come appare evidente e come ha rilevato lo stesso Krona. Tuttavia, commenta lui stesso a Valigia Blu, “non penso che l’attuale frammentazione e le sperimentazioni su varie piattaforme continueranno per molto tempo. Credo che lo Stato Islamico e i suoi sostenitori, come hanno fatto in passato, si sistemeranno su una piattaforma principale da cui l’organizzazione possa centralizzare le sue comunicazioni ufficiali e stabilire legami con i canali di distribuzione pro-IS, come avevano fatto su Telegram. Resta da vedere dove finiranno, mentre la loro ricerca di un sistema stabile, sicuro e cifrato continua”.
Di fatto la situazione attuale è però questa. Alcuni analisti di intelligence possono essere infastiditi per aver perso traccia di molti account. Ma la forza di propaganda online dell’ISIS non è mai stata così tenue.
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Immagine in evidenza Reuters/Davo Ruvic via El Confidencial




Scoop, la Casaleggio ha sottratto i dati personali di utenti Facebook tre anni prima di Cambridge Analytica

La società inglese aveva sottratto 87 milioni di profili per aiutare Trump e Brexit, ma il sistema era già stato testato nel 2013 in Italia con un’app scaricabile dal blog di Grillo. La denuncia di Marco Canestrari, l’ex braccio destro del cofondatore del Movimento

Ricordate lo scandalo che ha travolto Facebook e Cambridge Analytica, 87 milioni di profili su Facebook utilizzati per sponsorizzare la candidatura di Donald Trump e la campagna pro-Brexit? Non è successo solo negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ma anche qui in Italia. Anzi, quel metodo è stato testato per la prima volta nel nostro paese. Ad aver anticipato i metodi di Cambridge Analytica è stata Casaleggio Associati, la srl milanese che ha fondato e gestito fino al 2016 il Movimento Cinque stelle. Ad accorgersene è stato Marco Canestrari, ad oggi il primo e unico whistleblower dell’azienda-partito, attualmente programmatore informatico a Londra.
Era il febbraio 2013 quando sul blog di Beppe Grillo gestito dall’azienda milanese viene dato l’annuncio del rilascio di un’app per sostenere la campagna elettorale del Movimento. «Tu puoi fare molto per restituire l’Italia ai suoi cittadini. Lo puoi fare diffondendo le idee e il programma del MoVimento 5 Stelle. Diventa Attivista 5 Stelle. Se hai un profilo Facebook puoi iniziare subito». Era il manuale del perfetto grillino, bastava accedere all’applicazione Facebook dal blog, accettare le condizioni e l’utente poteva aggiungere il logo ufficiale alla sua foto profilo, promuovere lo Tsunami Tour, diffondere il programma e appoggiare i candidati del M5s. E ovviamente raccogliere fondi. Solo che quella chiamata alle armi celava un inganno, una gigantesca cessione di dati personali.
Consentire l’accesso al proprio profilo a quell’app, e accettare le condizioni, significava però fornire in automatico le proprie informazioni base del profilo Facebook, dall’indirizzo e-mail fino al proprio luogo di nascita, quello di residenza e l’orientamento politico e religioso. Richiedere tutti questi dati è il primo passo di una potenziale e gigantesca profilazione di massa di cittadini comuni e anche dei futuri parlamentari che di lì a poche settimane il Movimento avrebbe messo in lista e poi eletto. Un’operazione simile sarà ripetuta anche nel 2014, in occasione delle elezioni europee.
Rimangono aperti molti interrogativi. Quante sono le persone profilate da Casaleggio Associati e che fine hanno fatto i dati raccolti? Era legale? Questi dati sono stati ceduti per fini commerciali? E a chi?
Secondo Canestrari, «l’app consentiva agli amministratori di Casaleggio Associati una serie di operazioni. Tra cui monitorare le attività dell’utente attivista: infatti c’era una sorta di concorso, i più attivi sarebbero stati premiati con una cena con Grillo». Canestrari spiega che «l’app non è più attiva, ma web Archive conserva le informazioni che permettono di risalire ai permessi richiesti da Casaleggio Associati». Questa è la pagina recuperata.
Casaleggio scelse di richiedere il maggior numero di permessi, ossia di dati, anche quelli non pertinenti all’attività politica. Ma non solo: esattamente come è successo con Cambridge Analytica, la srl milanese ha potuto ottenere pressoché ogni dato disponibile non solo sugli attivisti che avevano scaricato l’app, ma anche sui loro amici di Facebook, quindi chiunque avesse avuto tra gli amici un attivista del movimento che si era scaricato l’app potrebbe aver subito un accesso ai propri dati da parte della Casaleggio. Una stima delle intrusioni è impossibile, ma si tratterebbe di una delle più ampie operazioni di raccolta di dati personali mai avvenuta in Italia. Un patrimonio inestimabile sia dal punto di vista del marketing politico che commerciale.
Ad aver gestito l’intera operazione era Casaleggio Associati come responsabile dei dati per conto di Beppe Grillo, mentre Pietro Dettori si occupava del funzionamento dell’applicazione Facebook secondo il ricordo di alcuni ex-dipendenti. Oggi Dettori è socio di Rousseau e social media manager di Luigi Di Maio.
Rimangono aperti molti interrogativi. Quante sono le persone profilate da Casaleggio Associati e che fine hanno fatto i dati raccolti? Era legale? Questi dati sono stati ceduti per fini commerciali? E a chi?
I fatti raccontano che la Cambridge Analytica italiana ha aperto la strada e che altri hanno percorso la via tracciata. Fatti che gettano una nuova luce sugli incontri che i Casaleggio hanno avuto con esponenti di punta della società inglese, della Brexit, come Liz Bilney, e Steve Bannon
L’operazione è stata replicata anche nel 2014 (qui il link) e nel 2018, in occasione delle due tornate elettorali europee e nazionali, anche qui attraverso un’app di Facebook, ospitata sul sito di Luigi Di Maio, ma la piattaforma, secondo Canestrari, «aveva probabilmente già limitato la possibilità di accedere ai dati, proprio in seguito allo scandalo di Cambridge Analytica. Non possiamo sapere – dice l’ex braccio destro di Gianroberto Casaleggio – se li hanno effettivamente scaricati, né che cosa ne abbiano fatto. Bisognerebbe chiedere al Garante se hanno tabelle da poter confrontare, oppure indurlo ad aprire una nuova istruttoria ma credo sia passato troppo tempo».
I fatti raccontano che la Cambridge Analytica italiana ha aperto la strada e che altri hanno percorso la via tracciata. Fatti che gettano una nuova luce sugli incontri che i Casaleggio hanno avuto con esponenti di punta della società inglese, della Brexit, come Liz Bilney, e Steve Bannon. Il metodo Casaleggio, dunque, pare sia stato esportato altrove.
Quando è scoppiato lo scandalo dei dati sottratti a Facebook da Cambridge Analytica, Davide Casaleggio disse «non ho ancora capito che cosa è successo, mi informerò». Intervistata da Linkiesta, l’ex-analista di Cambridge Analytica Brittany Kaiser ha detto: «So per esperienza diretta che esistono molti dati a disposizione sui comportamenti degli elettori italiani. Dati che i vostri partiti potrebbero comprare senza problemi, se volessero usarli». C’era un filo sottile sull’asse Milano-Londra che doveva rimanere segreto. E che oggi è possibile vedere più chiaramente. Quello che è avvenuto tra Londra e Washington venne testato per la prima volta in Italia. Le cavie eravamo noi.