Le 7 tecnologie per costruire gli aeroporti del futuro
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Le compagnie aeree e i gestori degli scali puntano i loro investimenti su riconoscimento facciale, intelligenza artificiale e digital twin
Lisbona – “La tua faccia? Sarà la tua carta d’imbarco”. La profezia arriva dall’Air transport It Summit che Sita, Società internazionale di telecomunicazioni aeronautiche, ha tenuto nei giorni scorsi a Lisbona. Biometria, internet of things, blockchain, cloud e intelligenza artificiale: sono alcuni dei capitoli di investimento da parte di aeroporti e compagnie aeree. Per rendere più smart gli scali, infatti, sono stati spesi globalmente 50 miliardi di dollari nel 2018 e la cifra è destinata a crescere a 61,4 miliardi per il 2019. Emerge da un’indagine effettuata da Sita, azienda fornitrice di soluzioni informatiche in mille aeroporti del mondo, controllata da 400 operatori del settore con 2800 clienti in 200 paesi, fra cui 40 autorità governative.
“Gli attuali 4 miliardi di passeggeri raddoppieranno nei prossimi 20 anni. È urgente ottimizzare processi e movimenti, magari all’interno di infrastrutture medio-piccole, assicurando a ogni utente un’esperienza veloce, automatizzata e senza interruzioni – spiega Sergio Colella, presidente di Sita per l’Europa. “I passeggeri forniscono volentieri i propri dati, se sono gestiti efficacemente e se ciò genera un vantaggio. I dati dimostrano che la soddisfazione degli utenti cresce del 20% secondo 6 compagnie e aeroporti su 10, dopo gli investimenti”.
L’impegno delle linee aeree è stato di 40,8 miliardi di dollari (il 4,84% dei ricavi) nel 2018, in aumento rispetto ai 24,8 del 2017. Gli aeroporti ne hanno messi sul piatto 10 (il 6,06% dei ricavi). La spesa converge sempre più su servizi cloud, cybersecurity, business intelligence, web app, data center, processi self-service e infrastrutture. “Condividere i dati” è quindi il nuovo mantra lanciato nel corso dell’evento, che ha visto anche la partecipazione di Armando Brunini, amministratore delegato di Sea. La società gestisce gli aeroporti di Malpensa e Linate, con 33,7 milioni di passeggeri, 107 linee aeree, 210 destinazioni in 90 Paesi. Così, dalla nota spesa globale di oggi è possibile capire come sta cambiando l’aeroporto del futuro, con le innovazioni pronte per il 2025.
1. Biometria
Convalidare da sé la propria identità con un selfie durante il check in online o direttamente in aeroporto senza esibire a ogni passaggio carta d’imbarco e passaporto. Sarà possibile con una scansione del proprio volto in meno di 5 secondi, grazie alle fotocamere del chiosco automatico o con il proprio smartphone. I dati biometrici del viso rilevati dall’intelligenza artificiale saranno infatti abbinati a quelli registrati nel chip del passaporto e alla carta d’imbarco.
Basterà poi farsi riconoscere dalle altre fotocamere al momento di caricare il bagaglio, abbinato con i propri dati biometrici, ai controlli di sicurezza, di confine e infine all’e-gate d’imbarco. Il 9% degli aeroporti ha già adottato questa soluzione, come Orlando negli Usa, ma saranno il 44% nel 2022. In futuro Sita che si possa arrivare a un token di viaggio vitalizio, grazie a soluzioni blockchain.
Fra gli scali che investono in questa tecnologia (il 61% entro il 2022) ci sono anche Malpensa e Linate. Qui ci saranno sei chioschi per l’enrollment, 25 e-gate, 10 gate pre-security e 7 face spot security (per un ulteriore controllo). Su questo fronte Sea ha investito 21 milioni.
Un passeggero al chiosco di check in per il riconoscimento biometrico all’aeroporto di Orlando (foto ufficio stampa SITA)
2. Digital twin
L’airport management system è una centrale operativa con capacità predittiva per i carichi di lavoro e congestionamento del traffico, in grado di rimodulare in pochi secondi tabelle orarie, stalli occupati, flussi di mezzi e persone all’imbarco anche in caso di eventi dirompenti (come una bomba d’acqua) grazie all’Ai. Con i sensori a tecnologia Lidar permette inoltre di monitorare movimenti e presenze in ogni area, in modo anonimo.
Gli operatori hanno così a disposizione un “gemello digitale” (digital twin) dell’intera struttura e possono decidere con un colpo d’occhio di smistare il flusso ai gate, aggiornare tempi d’attesa o riprogrammare le operazioni di terra. L’83% e l’80% degli aeroporti investono o investiranno in business intelligence per gestire il flusso dei passeggeri e le operazioni di volo.
3. Beacons
Con l’internet of things sarà possibile un servizio sempre più personalizzato muovendosi nella struttura fisica. Il 54% degli aeroporti invierà notifiche in app sui tempi d’attesa per il volo e il 77% investirà in strumenti per la navigazione indoor entro il 2022. Un esempio? Dal primo quadrimestre del 2020 sarà disponibile a Malpensa (nel T1) la tecnologia beacon con connessione bluetooth: entrando in aeroporto, l’App Sea Milan Airports indicherà il volo e guiderà I passeggeri al gate indicando il percorso più breve, arricchendolo di informazioni sui servizi (ascensori, scale mobili, farmacie, shopping).
Un passeggero guarda il tabellone delle partenze in aeroporto (foto ufficio stampa)
4. Imbarco bagaglio self service
Tre aereoporti su quattro forniranno il servizio di imbarco bagaglio self service entro il 2022. Gli aeroporti che hanno investito in questa procedura sono raddoppiati dal 18% al 36% nel giro degli ultimi quattro anni. L’utente potrà evitare le file etichettando da solo il bagaglio da stiva nel giro di un minuto. Questo, secondo Sita, permetterebbe di aumentare del 60% la capacità operativa dell’aereoporto, riducendo del 40% i costi operativi dello scalo.
Dal prossimo anno il Terminal 2 di Malpensa sarà il primo in Italia senza operatori al check-in perché verranno trasformati tutti i banchi in self bag drop: saranno 21, un po’ come sul modello londinese di Gatwick. In caso di peso superiore al previsto, il passeggero pagherà la differenza con sistemi di pagamento elettronici, nella medesima postazione
Self bag drop all’aeroporto di Orlando (foto ufficio stampa SITA)
5. Smart security
Oltre 8 aeroporti su 10 stanno investendo in infrastrutture, business intelligence e processi di self-service, così anche Sea Milano prepara l’installazione di macchine Edes-Cb (Explosives Detection Systems for Cabin Baggage) con tecnologia Tac al posto dei tradizionali raggi x. I nuovi dispositivi di controllo permetteranno di non dover estrarre computer, tablet e smartphone dalla valigia, che potrà contenere anche creme e liquidi oltre 100 millilitri.
Entreranno in funzione a regime entro l’estate a Linate e per la fine del 2020 a Malpensa. La tecnologia, per cui Sea ha investito 17 milioni, è già in uso per i controlli dei bagagli da stiva e permette di riconoscere, in maniera automatica, la minima percentuale di esplosivo, svolgendo anche una parte del lavoro dell’operatore. Inoltre, le linee automatizzate per la gestione del bagaglio a mano permetteranno di gestire un numero più elevato di passeggeri, fino a 250 all’ora.
6. Un’app per tracciare i bagagli
Se la tecnologia World Tracer è già in uso dal 1991, grazie alle web app ogni compagnia aerea potrà fornire aggiornamenti riguardo il bagaglio smarrito al passeggero che, dopo aver fatto denuncia alle autorità competenti, riceverà un codice univoco di tracciamento e decidere data e luogo della consegna, imitando l’esperienza degli ecommerce più famosi. Metà degli aeroporti ha investito nel tracciamento dei bagagli in area check in nel 2019 e comunque il numero dei bagagli smarriti è in calo costante nell’ultimo decennio, da 46.9 milioni di pezzi nel 2007 a 24.8 milioni nel 2018. La spesa annuale correlata è scesa da 4,22 miliardi di dollari a 2,4 miliardi.
Una valigia viene caricata sull’aereo (foto ufficio stampa SITA)
7. Cybersecurity
Se è vero che “ci sono due tipi di aziende, quelle che sono state hackerate e quelle che ancora non sanno di esserlo state” (John Chambers, Cisco), la priorità per scali e aerolinee è diventata l’addestramento del personale, mentre cresce la ricerca in intelligence delle minacce informatiche.
La difesa informatica è il tema di spesa più diffuso fra gli aeroporti (95%) e il secondo per le compagnie aeree (96%). Nel mondo, fra luglio 2016 e gennaio 2019, sono state attaccate 12 strutture. Oltre 100 voli subirono ritardi in Vietnam per un attacco agli scali di Ho Chi Minh e Hanoi e la piattaforma di Kiev fu colpita dal ransomware WannaCry. Nel 2018 gli hacker misero in scacco la rete wireless nell’aeroporto di Atlanta; mezzo milione di passeggeri subì ritardi e cancellazioni per un errore di sistema del centro Eurocontrol a Bruxelles e un furto di dati alla British Airways mise a rischio la sicurezza di 380mila carte di credito.
Sergio Colella, presidente di Sita Europa (foto ufficio stampa)
Come ulteriore tassello per supportare gli aeroporti a integrare le soluzioni informatiche nel processo di trasformazione digitale, Sita, che ha chiuso il 2018 con 1,7 miliardi di ricavi, ha appena acquisito il 100% di Software Design, società italiana con un team di 70 esperti, specializzata nell’integrazione di soluzioni software per gli aeroporti e principale fornitore di servizi a Capodichino (Napoli), scalo che, anche grazie ai sistemi digitali, ha potuto gestire un aumento del 16% di viaggiatori, arrivati a 10 milioni nel 2018.
Nutella, come sfruttare il packaging nella comunicazione di impresa
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Ognuno di noi ha, almeno una volta, assaggiato la nutella.
La crema di nocciole più famosa del mondo è stata inventata nel 1964
dall’industria dolciaria Ferrero. Il successo di questo prodotto, che ha reso i
Ferrero la famiglia più ricca d’Italia, è sicuramente dovuto al sapore del
prodotto, che piace molto soprattutto ai più piccoli, ma anche all’intelligenza
del top management che ha permesso di sfruttare tutte le leve del marketing,
adattandole ai diversi paesi in cui il prodotto è distribuito.
La Ferrero infatti, avendo un prodotto non personalizzabile,
hanno sfruttato abilmente il packaging per trasmettere i propri valori ai
clienti piuttosto che fare del barattolino di vetro un mero contenitore. I
vasetti infatti, spesso diversi tra di loro, spesso vengono riutilizzati e
apprezzati dai clienti.
Il primo vasetto del 1964, che conteneva 200 grammi di
prodotto, aveva una forma conica con il tappo bianco che tutti conosciamo. Pochi
anni dopo il vasetto originale venne sostituito con vasetti di diverse forme,
sempre in vetro, arricchiti con svariate decorazioni, come ad esempio personaggi
dei cartoni animati o i luoghi più famosi d’Italia, che lo resero un oggetto da
collezione e ne permisero il riutilizzo.
Seguendo le orme della coca-cola, la Ferrero nel 2013 lanciò
il vasetto personalizzato con la campagna ‘’nutella sei tu’’. Non solo nei
negozi divenne possibile acquistare barattoli con 150 nomi ma divenne possibile
anche acquistare su internet un vasetto con il proprio nome, nel caso in cui non
fosse presente tra i 150 disponibili in negozio. Visto l’enorme successo di
questa iniziativa, l’anno seguente la Ferrero decise di lanciare i vasetti con
le frasi motivazionali e nel 2015 con varie espressioni dialettali. Nel 2017 i
vasi delle dimensioni più grandi vennero prodotti con un numero di serie progressivo
e unico, al fine di rendere ogni barattolo diverso da tutti gli altri. A
sostegno della diversità, nel 2019 la ferrero ha lanciato l’edizione speciale
che ha preso il nome di nutella gemella per veicolare il messaggio che ‘’anche
se siamo tutti diversi, c’è sempre qualcosa che ci unisce’’.
Ferrero ci insegna come anche un prodotto di larghissimo consumo può essere reso speciale e unico grazie ad un packaging originale.
“Strumenti innovativi per la mappatura degli stakeholder e per la rendicontazione integrata”
“Strumenti innovativi per la mappatura degli stakeholder
e per la rendicontazione integrata”
Prof. Luca Poma Università LUMSA di Roma e all’Università statale della Repubblica di San Marino
Introduzione
In
una delle sue celebri “lezioni americane”, “Exactitude”, l’indimenticabile
Italo Calvino – nella top ten degli autori italiani del ‘900 – si concentra
sulla “forza della parola” e – per contro – sulla crescente banalizzazione del
linguaggio nei tempi moderni. Le parole sono come un abito, che dà forma ai
nostri pensieri e ci permette di decidere come desideriamo essere percepiti
all’esterno, dal pubblico con il quale inevitabilmente entriamo quotidianamente
in contatto.
Il
“marketing relazionale” è ormai entrato nella pedagogia del business, ma non di
sole vendite vive un’azienda, o meglio: per vendere – ma soprattutto per
continuare a vendere – costruendo valore nel tempo, è necessario coltivare le
relazioni con gli stakeholder in modo realmente efficace, aperto
all’innovazione, e inclusivo delle novità dettate dallo sviluppo frenetico del
mondo digitale.
I
cittadini oggi si sentono sempre più liberi di manifestare la propria opinione
o, perlomeno, hanno la piena consapevolezza di “essere parte dell’equazione
globale”. Molte organizzazioni per contro si ostinano a tenerli fuori dalle
proprie dinamiche di decisione, nonostante keyword come “fiducia”,
“reputazione” e “rispetto” siano ormai – da tempo – parte integrante della
catena del valore.
La
narrazione costruita dall’azienda è centrale, nell’attrarre il Cliente
nell’universo dell’azienda, e l’importanza del preziosissimo asset intangibile
della “reputazione”, che è concretamente in grado di condizionare i
comportamenti di acquisto – dei prodotti, ma anche dei servizi – da parte dei
Clienti finali, é acclarata.
Il
termine “transmedia storytelling” – la costruzione di un universo
narrativo coerente su vari media, e soprattutto di esperienze in grado di
coinvolgere le persone e i Clienti – sta entrando prepotentemente nel
vocabolario degli addetti ai lavori: non solo rappresenta il futuro – anzi,
ormai il presente – del narrare storie create dalle aziende, ma esprime il
potere della cultura contemporanea che tende a fondere l’esperienza delle
aziende con quella dei fruitori, in una perfetta sintesi. Un processo per cui
si generano nuove “trame” e si aprono nuovi mercati partendo dalla circolazione
dei contenuti e delle idee che gli stessi Clienti finali creano attorno a un
prodotto, un servizio o un marchio.
Il
reputation management include strumenti ad alto valore aggiunto creati con lo
scopo di misurare e orientare l’opinione pubblica, condizionando positivamente
i comportamenti di acquisto; implica anche la ricezione dei commenti in modo
aperto e il coinvolgimento dei vari pubblici verso il miglioramento della percezione
che pubblicamente hanno dell’organizzazione.
L’era
della mera trasmissione unilaterale di contenuti – senza curarsi
dell’impressione e delle idee del proprio pubblico – è alla fine, cosa che
risulta evidentissima se solo si osservano le dinamiche relazionali dei vari social-network:
occorre lavorare su sistemi che prevedano un feedback istantaneo nonché
strumenti di narrazione collettiva, perché gli utenti non solo vogliono poter
“dire la loro” sulla storia narrata dal marchio, cosa che ormai viene data
assolutamente per scontato, ma vogliono anche poter influenzare le scelte delle
aziende; di fatto la “storia di successo” è solo quella che gli autori
“abbandonano” dal punto di vista creativo come un guscio di noce nell’oceano
della creatività del pubblico dei fruitori. Questo è un territorio nuovo, in
cui produzione e consumo scambiano i propri ruoli e discutono le proprie
ambizioni, mostrandosi specchio di un’era interconnessa, votata alla vera
partecipazione.
Oggi
sono sempre più frequenti le situazioni di co-protagonismo tra aziende, Clienti
finali e pubblico in generale. Federico Minoli, Amministratore delegato della
storica marca di motociclette Ducati, ebbe a dichiarare: “Improvvisamente la
domanda vera è: di chi è la marca? Noi siamo convinti che la marca sia dei
Ducatisti”. Come è facile comprendere, un atteggiamento virtuoso come
questo ha conseguenze sull’intera offerta di servizi dell’azienda e sulle
strategie di marketing della stessa.
La
rendicontazione integrata
Quattro
le parole chiave del Reputation management: l’identità, ovvero il DNA
dell’azienda, la sua mission, i suoi valori; l’immagine che è il
riflesso dell’identità dell’organizzazione così come è percepita – anche in
modo differente – dai diversi pubblici; quindi, la reputazione, ovvero
il grado di allineamento tra l’identità dell’organizzazione e la sua immagine,
costruita nel tempo dall’organizzazione insieme ai suoi pubblici; da non
dimenticare, infine, che la reputazione può migliorare sempre e solo se la
relazione tra i soggetti è basata su criteri di autenticità.
Le organizzazioni sempre più spesso “rendicontano” ai propri
stakeholder, con vari strumenti, alcuni più adeguati, altri meno. La
“rendicontazione non finanziaria” è stata resa obbligatoria del 31/12/2017 per
Direttiva UE per tutte le aziende da 500 dipendenti in su (in futuro questo
limite verrà probabilmente abbassato), ma è in realtà prassi corrente anche per
le PMI più attente a costruire con la propria Clientela un rapporto di fiducia,
in grado di condizionare i comportamenti di acquisto.
Tuttavia, la rendicontazione aziendale attuale viola intrinsecamente le
regole di base del Reputation management: è “agiografica”, auto-referenziale,
riporta solo i successi delle aziende e non rispetta quasi mai il principio del
“comply or explain” (le aziende illustrano molto raramente i motivi per i quali
non sono riuscite a raggiungere gli obiettivi dettati dagli impegni assunti con
i loro pubblici). Come è possibile costruire fiducia in assenza del requisito –
essenziale – della precitata autenticità…? La relazione tra organizzazione e
stakeholder è a quel punto come un fragile castello di carte, pronto a crollare
al primo episodio di crisi reputazionale: le cronache – e i Social – sono pieni
di case-history di questo genere.
Le
più recenti analisi sulla reportistica corporate posizionano le aziende in
due macro-categorie: imprese che cercano di soddisfare i bisogni di conoscenza
espressi dai loro pubblici in modo proattivo, con sistemi di reportistica più o
meno evoluti, o aziende puramente “marketing-oriented” che ritengono superfluo
ogni sforzo in rendicontazione.
Anche
nel primo caso (aziende CSR-oriented), in controllo del flusso di comunicazione
è sempre saldamente in mano all’azienda, che segue i processi di eventuale
integrazione strategica della CSR, elabora gli strumenti di reportistica, e
filtra i dati, decidendo integralmente sostanza e forma del contenuto del
Bilancio integrato.
Il
rischio di “lifting” è quindi evidente, dal momento che non esistono efficaci
strumenti di controllo (per i bilanci sociali non vige l’obbligo di
certificazione da parte di Enti terzi); inoltre – aspetto a mio avviso sostanziale
– si registra quasi sempre l’assenza di un apposita sezione di tipo “comply or
explain”, nella quale l’azienda dovrebbe auspicabilmente illustrare gli
obiettivi non raggiunti nel corso dell’anno (scostamento tra i
risultati a fine anno e le attese iniziali).
L’obiettivo
principale della rendicontazione dovrebbe essere:
coinvolgere attivamente gli stakeholder esterni
nel processo di redazione del bilancio integrato
coinvolgere attivamente i dipendenti
nell’aggiornamento del cruscotto di indicatori quali-quantitativi contenuto nel
Bilancio integrato, così da limitare l’effetto “lifting” da parte della
Direzione/da parte degli azionisti
aumentare la percezione di trasparenza e di
fiducia e quindi aumentare la licenza di operare concessa all’azienda dagli
stakeholder
garantire a tutti i pubblici informazioni
aggiornate sull’azienda, in modo disintermediato, 365 giorni all’anno, senza
dover interpellare ogni volta l’azienda stessa
soprattutto, garantire informazioni sugli
obiettivi non raggiunti dall’azienda
Tali
obiettivi sono raggiunti nella maggior parte dei casi solo in parte, spesso per
nulla: le aziende sono quindi oggi chiamate a un maggior sforzo in direzione
della trasparenza di processo, della coerenza, e della genuinità nella
rendicontazione.
Una case-history di autenticità
Come
vedremo nel proseguio di questo Paper, il “Social Hub” rappresenta attualmente il
più moderno esperimento al mondo – riuscito – di rendicontazione integrata
online multinacanale e multistakeholder.
Si
tratta di una piattaforma web che mette l’organizzazione in grado di comunicare
con tutti i propri pubblici di riferimento, in modalità continua, rendicontando
ai cittadini – in tempo reale – sui progressi dell’organizzazione
nell’assolvimento del proprio mandato.
Il
Social Hub è un’evoluzione nel campo degli strumenti di rendicontazione, una sfida
che è punto di arrivo di un progetto sperimentale che garantisce un flusso di
dati totalmente disintermediati 365 giorni all’anno, senza soluzione di
continuità, imputati direttamente on-line dagli stakeholder
dell’organizzazione, che collaborano attivamente all’aggiornamento di numerose
tabelle inserite in un apposito cruscotto di indicatori.
La storia del
progetto e le sue basi teoriche
Il sistema normalmente applicato a tutti gli strumenti di rendicontazione è quello della “logica Aristotelica”: in logica classica, il principio di non contraddizione afferma l’incongruenza di ogni affermazione la quale implichi che una certa proposizione “A” e la sua negazione – diciamo la proposizione “non-A” – sono allo stesso tempo entrambe vere. Aristotele infatti diceva che “…non è lecito affermare che qualcosa sia e non sia nello stesso modo ed allo stesso tempo…”. Ne deriva che – in base a questo paradigma – vi è un esatto punto oltre il quale un pubblico non è più di interesse dell’organizzazione. O si è stakeholder, o non lo si è: ciò che c’è oltre l’ipotetica linea di demarcazione, secondo questo approccio, non deve interessare l’organizzazione, che in questo modo – però – pone di fatto un limite alla propria stessa licenza di operare.
Agli
inizi dei ruggenti anni ’60, all’Università di Berkeley, Lotfi Zadeh, un Professore
molto noto per i suoi contributi alla teoria dei sistemi, si convinse che le
tecniche tradizionali di analisi di tale teoria erano così schematiche e
“precise” da risultare inadeguate a descrivere molti dei problemi tipici in un epoca
di forte rinnovamento. Zadeh elaborò una nuova teoria, che alcuni percepirono
inizialmente in contraddizione con la logica aristotelica – e ne nacquero
accese discussioni accademiche! – ma che invece si rivelò essere, come vedremo,
una sua evoluzione dettata dallo sviluppo dei tempi e del pensiero: la logica “ad infiniti valori di verità”, basata
sul concetto di “insiemi sfumati”, anche conosciuta come “logica fuzzy” (da
indeterminato, sfumato, sfocato). Si tratta di un approccio alla logica in cui
si può attribuire a ciascuna proposizione un grado di “verità variabile”
compreso tra un valore 0 ed un valore 1. Quest’intuizione, utilissima per
spiegare molti fenomeni moderni, era stata tratteggiata già prima da
ricercatori del calibro di Bertrand Russel ed Albert Einstein, ma venne
codificata in modo articolato per la prima volta proprio dal Prof. Zadeh.
Quando
parliamo di grado di verità o valore di appartenenza intendiamo dire –
disorientando forse un po’ le nostre mentalità cartesiane, pregnate dal
concetto “o e vero o è falso, o è bianco o è nero” – che una certa proprietà
oltreché essere vera (cioè con valore 1) o falsa (cioè con valore 0) come
prevede la logica classica, può anche essere contraddistinta da valori
intermedi: vero è che “o si è vivi o si è morti” (valore 1 o valore 0) ma
altrettanto vero è che – in logica fuzzy – si può assegnare ad un neonato valore
1, ad un ragazzo appena maggiorenne valore 0,8, ed a un pensionato settantacinquenne
valore 0,15. Detta così può apparire banale, ma la codificazione di questa
riflessione sotto forma di algoritmi matematici avviò una vera e propria
rivoluzione nel mondo della logica moderna.
Un
nuovo modello di mappa degli stakeholder
Abbiamo quindi applicato i concetti su esposti alla Responsabilità Sociale delle Imprese, elaborando un nuovo tipo di procedimento per mappare gli stakeholder basato sull’assunto che “tutti sono stakeholder”, semplicemente con infiniti e sfumati valori di coinvolgimento. La mappa così concepita, è uno strumento innovativo per la lettura dei fenomeni nei quali viene coinvolta l’Organizzazione e delle dinamiche di comunicazione e interazione con i nostri pubblici. Laddove tradizionalmente, l’azienda era infatti rappresentata “al centro”, con intorno all’azienda, collegati da una linea ciascuno, i vari portatori d’interesse, questa nuova mappa degli stakeholder utilizza un diagramma cartesiano a 4 quadranti: nessuna correlazione tra l’Organizzazione e gli stakeholder, Organizzazione dominante sullo stakeholder, stakeholder dominante sull’Organizzazione, e – infine – interconnessioni reciproche e forti.
La nostra modalità di rappresentazione dei rapporti tra l’Organizzazione
e i propri pubblici va ben oltre l’aspetto meramente grafico, e finisce per
coinvolgere nel profondo l’aspetto filosofico di questa materia:
l’Organizzazione è rappresentata come una “texture di fondo” sulla quale “si
appoggiano gli stakeholder, a raffigurare l’esatta “coincidenza” di obiettivi e
desideri tra la prima e i secondi, enfatizzando visivamente Il modo con il quale
percepiamo il nostro ruolo nei confronti del pubblico e intendiamo rapportarci
– nel senso più ampio del termine – a ciò che ci circonda.
L’azione di input verso uno stakeholder, finirà per generare una
rielaborazione di informazioni anche all’interno del perimetro dello
stakeholder stesso, modificando in parte il suo DNA, e queste modifiche
finiranno inevitabilmente per produrre alterazioni all’interno del perimetro
dei pubblici d’interesse del nostro stakeholder, applicando così alle dinamiche
tra Organizzazione e stakeholder il principio che sta alla base delle reti
neurali.
Nelle “reti neurali artificiali”, al termine di ogni fase del processo
di apprendimento, il nodo avente un vettore di pesi più vicino ad un certo
risultato desiderabile è considerato il nodo “vincitore”, e tutti i pesi sono
aggiornati automaticamente in modo da avvicinarli a tale valore. Dato che
ciascun nodo ha un certo numero di nodi adiacenti, quando un nodo vince una
competizione, anche i pesi dei nodi adiacenti sono modificati, secondo la
regola generale che più un nodo è vicino al nodo vincitore tanto più marcata è
la variazione dei suoi pesi. Questo è ciò che succede in una mappa di
stakeholder, laddove una buona prassi ha alte probabilità di venir adottata da
tutto il network e diventa quindi il nuovo valore di riferimento.
Il tipo di mappa evoluta ideato sulla base di questo modello è quindi un
tentativo per codificare graficamente questi concetti: l’organizzazione si
sente così strettamente connessi ai propri pubblici, da arrivare ad affermare
che non ha relazioni con i propri stakeholder, bensì l’Organizzazione “è” i
propri stakeholder, e gli stakeholder sono l’Organizzazione, perché come
Organizzazione siamo parte integrante di uno scenario sociale complesso, con
una missione che va ben al di là del mero coinvolgimento dei “pubblici di
prossimità”.
Anche il posizionamento dei pubblici sulla mappa non è affatto
“casuale”, bensì è frutto della compilazione di dettagliate “checklist” da
parte degli stakeholder stessi e dei loro referenti all’interno dell’azienda, i cui risultati
determinano, mediante l’assegnazione di un valore numerico da -5 a +5 (e
relative frazioni decimali), il posizionamento dell’icona rappresentante uno
specifico pubblico in un preciso punto dello schema, secondo appunto la
misurazione dell’“influenza” dello stakeholder sull’organizzazione e viceversa.
Ogni stakeholder è quindi durante l’anno oggetto di specifiche strategie
e azioni di comunicazione, elaborate “ad hoc”, tendenti a generare il
cambiamento nella relazione necessario per spostare lo stakeholder – ovviamente
– sempre più verso il riquadro in alto a destra, quello delle “interconnessioni
forti” tra l’Organizzazione e lo stakeholder stesso.
L’evoluzione
nella rendicontazione integrata: il “Social Hub”
Successivamente,
dopo aver sperimentato con successo questo modello sull’azienda farmaceutica
leader in Italia nel settore delle medicine di origine biologico-naturale – ci
siamo posti un’ulteriore domanda: se la posizione più appetibile è – come
abbiamo sottolineato – quella delle interconnessioni forti, non è
anacronistico un sistema di reportistica confezionato esclusivamente
dall’azienda, flusso unilaterale di informazioni, non sottoposto a controlli
esterni, se non – nel migliore dei casi – a una mera “conferma di congruità
formale” da parte di qualche società di certificazione? Come abbiamo scritto, i
bilanci sociali tradizionali sono spesso documenti agiografici, redatti dalle
aziende alla fine dell’anno, più volte di quante si pensi oggetto di “lifting”,
e riportanti sempre solo pluspoint e quasi mai criticità. Un sistema obsoleto,
non trasparente, non condiviso con quegli stessi stakeholder che sosteniamo
sempre essere – a parole – “fondamentali” per il buon fine della missione
stessa dell’Organizzazione.
E’ nato
così il “Social Hub”: una piattaforma web sperimentale frutto di un processo di
condivisione dei contenuti con i vari pubblici aziendali, che collaborano
attivamente per l’intera fase di redazione del documento di rendicontazione
dell’Organizzazione, “emendando” periodicamente il testo stesso del bilancio; ogni
stakeholder può interagire direttamente con la piattaforma, modificando i dati
quali-quantitativi del bilancio relativi al proprio rapporto di
collaborazione/partnership/sponsorship con l’organizzazione, “costruendo” con
essa il Bilancio integrato.
L’Organizzazione
e i suoi stakeholder dispongono quindi di una rendicontazione agile, facilmente
accessibile, chiara e trasparente; solo online, perchè non percepiamo più – da
alcuni anni – alcun valore aggiunto dalla stampa di un supporto cartaceo. Dal
Social Hub è comunque possibile per qualunque utente estrapolare con un
semplice “click” – qualora necessario – una versione cartacea “light” del
Bilancio integrato, senza foto e impaginata in modo agile ed essenziale, così
da limitare lo spreco di carta.
Inoltre, lo strumento si rivela prezioso per permettere all’azienda di individuare precocemente segnali deboli di crisi e sacche d’inefficienza al proprio interno.
Il
bilancio integrato così concepito – frutto di 6 anni di lavoro per
l’adattamento del modello teorico che l’ha ispirato, e predisposto in versione
sperimentale online nel 2014, in versione 2.0 nel 2016, e in versione 3.0 nel
2019 – è stato dotato di un “cruscotto di indicatori” di oltre 60
tabelle – con relativa parte testuale – i cui dati sono aggiornati man mano
durante l’anno direttamente dai vari reparti aziendali, senza alcuna
“mediazione” da parte degli azionisti.
Questo
progetto di condivisione e di totale disintermediazione tra l’organizzazione e
i suoi pubblici, permette ai cittadini di accedere durante tutto l’anno ai dati
grezzi e non “trattati” o commentati dall’organizzazione, per farsi
una propria personale idea dell’andamento delle attività societarie.
Vi è anche
un’area Fotogallery/Videogallery, con la possibilità di pubblicare “storie per
immagini”, interviste, etc., che illustrino meglio all’utente la filosofia e i
progetti promossi dall’Organizzazione.
Una
“time-line” riporta – anno per anno – i “fatti salienti” che hanno
caratterizzato l’evoluzione e la crescita dell’Organizzazione stessa.
È stata infine
creata l’area “Cosa non siamo riusciti a
fare e perché”, primo bilancio integrato in Italia a prevedere un intero capitolo
di questo genere all’interno del Report, consolidando ancor più il principio
“comply or explain”, che prevede l’obbligo – previsto dai framework internazionali in materia,
purtroppo ancora poco applicati in Italia – di rendicontare ogni obiettivo che
si è mancato di raggiungere.
É inoltre possibile “valutare”
il bilancio mediante la compilazione di un apposito Questionario di gradimento
on-line sul Social Hub. Tutti i questionari compilati contribuiscono a
modificare “in tempo reale” la valutazione da parte degli utenti dello
strumento di rendicontazione.
Il modello proposto in questo
Paper – e già collaudato in Italia – è un viaggio affascinante, oltre una nuova
frontiera del marketing relazionale, della sostenibilità e della
rendicontazione trasparente, consci del fatto che non sempre “nuovo” è sinonimo
di “pericoloso”, dal momento che i nuovi scenari della comunicazione vanno
necessariamente governati. Nel contempo, è quasi una “provocazione”, per le
aziende decise a aprire i propri cancelli sulla base di principi di autenticità
e trasparenza, e a sfidare il domani con ottimismo e senza paura.
Rivoluzione etica nel business, è l’ora della reputation
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Reputation : è una delle nuove parole di questi anni ed è decisiva per la comprensione della società contemporanea.
Sta a significare la fama, la reputazione che una certa azienda ha ma in un ambito preciso che va al di là della qualità e investe piuttosto i valori ossia la responsabilità ambientale, etica, sociale. Più l’azienda ha un comportamento giusto rispetto ai diritti dei lavoratori, alla provenienza delle materie prime che utilizza, all’impronta ambientale del suo funzionamento compreso lo smaltimento, maggiore è la sua buona reputazione, più forte la propria identità valoriale. L’indice di reputation ha anche un risvolto business: l’impegno ha maggiori possibilità di attrarre i consumatori ed influenzare le loro decisioni di acquisto, come emerge dallo studio di Accenture Strategy, Global Consumer Pulse Research “From Me to We: The Rise of the Purpose-led Brand”.
Oggi gli utenti non si interessano solo alla qualità dei prodotti, ma osservano sempre più come si comportano le aziende nei confronti della società e orientano le proprie decisioni di acquisto di conseguenza. In Italia, il 71% dichiara di voler acquistare beni e servizi dalle aziende che riflettono i valori in cui crede e quasi un consumatore su due (47%) ha smesso di acquistare un prodotto a causa delle azioni di un’azienda, non in linea con la propria etica personale. Da un brand ci si aspetta che prenda una posizione chiara su questioni sociali, culturali, ambientali e politiche (per il 73% dei consumatori italiani) e che sia trasparente su come produce e distribuisce i propri prodotti (per l’83%) fornendo rassicurazioni tangibili sulle proprie posizioni in tema di sostenibilità ambientale e sociale e su come promuove condizioni di lavoro appropriate. Il 61% degli utenti, nell’acquistare un brand, un prodotto o un servizio, tiene in considerazione anche come si comportano i leader aziendali, il modo in cui comunicano i loro valori e se li mettono in pratica nella vita quotidiana. Nella realtà odierna, il brand non appartiene più solo all’azienda, ma sono i consumatori e i diversi stakeholder che contribuiscono a costruirne la sua forma attuale: il 63% dei clienti ritiene, infatti, di poter influenzare la posizione di un’azienda su questioni di interesse pubblico. È l’autenticità e il sistema valoriale di un’azienda a stare a cuore ai clienti: il 63% orienta le proprie decisioni di acquisto in base a questi due fattori. Il loro desiderio è anche che i brand trattino bene le persone e l’ambiente: il 78% è orientato ad acquistare prodotti da aziende che utilizzano ingredienti di buona qualità e rispettano i diritti umani, mentre il 68% vuole rivolgersi a imprese che si impegnano per il miglioramento dell’ambiente e per la riduzione dell’utilizzo di materiali plastici. Addirittura, il 76% dei consumatori attribuisce più alle aziende che alle istituzioni la responsabilità di guidare il cambiamento sociale e si aspetta che siano proprio i CEO a prendere iniziative verso la sostenibilità, senza attendere imposizioni normative.
“Non basta più che le aziende siano pronte a risolvere le possibili criticità che si presentano nella realtà quotidiana: ora sono l’impegno a supporto dei valori condivisi e della sostenibilità ad influenzare fortemente le scelte dei consumatori, che si aspettano trasparenza rispetto alla fornitura dei prodotti, alla loro tracciabilità e alla garanzia di condizioni lavorative sicure” ha dichiarato Beatrice Lamonica, Sustainability Lead di Accenture Strategy. “Oggi, le aziende sono consapevoli che devono tenere in grande considerazione la sostenibilità sociale e ambientale, non tanto come semplice dovere o osservanza delle normative vigenti, ma come un elemento fondamentale del proprio DNA e come un’opportunità di innovare, differenziare ed accrescere il proprio business.”
Secondo l’analisi di Accenture, un calo di fiducia può avere un forte impatto sulla competitività di un’azienda e influenzarne negativamente il fatturato. I consumatori non sono più solo degli acquirenti, ma partecipatori attivi che investono tempo e attenzione e vogliono condividere un sistema di valori con le aziende a cui si rivolgono.
Le nuove sfida per i brand che vogliono avere successo
“Siamo di fronte ad una rivoluzione etica nel business, frutto di un’evoluzione complessa che ha progressivamente trasformato l’approccio dei brand nei confronti dei loro clienti. Fino a qualche anno fa le aziende orientavano decisioni e investimenti con l’obiettivo di accrescere la fedeltà del proprio target; in seguito hanno cambiato modo di porsi per ottenere un coinvolgimento attivo degli utenti fino ad arrivare, in una nuova fase, a cercare di essere iper-rilevanti nei confronti del pubblico. Oggi, devono necessariamente aderire a un sistema di valori rilevante e condiviso con i consumatori, che in Accenture abbiamo definito “Purpose” ha commentato Fabio De Angelis, Managing Director – Accenture Strategy, Advanced Customer Strategy Lead.
Per rafforzare il proprio brand e costruirsi un successo che duri nel tempo, è fondamentale creare e implementare relazioni forti con i propri utenti. Per riuscire a farlo le aziende devono iniziare seguendo alcuni semplici passi:
• definire chiaramente il perimetro del proprio business, determinare il ruolo più ampio che si desidera avere nella vita dei consumatori e focalizzarsi su un ambito di loro interesse. Le aziende leader possono farlo cercando di capire cosa sta a cuore ai propri utenti, perché i propri dipendenti hanno scelto di lavorare per loro e perché le altre aziende collaborano con loro. In questo modo troveranno l’essenza della propria esistenza e gli elementi distintivi che possono fare la differenza.
• essere chiari e autentici: le persone si accorgono di ciò che non è genuino. Se un’azienda si impegna realmente a supporto di un sistema valoriale condiviso, i suoi principi guideranno ogni decisione aziendale e promuoveranno le connessioni tra consumatori, dipendenti e azionisti. Tutto ciò, però, richiede una guida forte, basata sulle azioni più che sulle parole.
• coinvolgere i consumatori a un livello più profondo: se interagiscono attivamente con le società e partecipano al loro successo, è possibile utilizzare questa “energia” coinvolgendo i clienti nella co-creazione di nuovi prodotti o servizi e nella progettazione di iniziative o partnership, portandoli ad investire nella crescita dell’azienda in cambio di vantaggi personalizzati. Includere i clienti nel proprio ecosistema di innovazione aiuterà le aziende ad essere rilevanti, a comunicare più fortemente ed efficacemente i propri valori e a identificare nuove opportunità di crescita per ampliare il proprio mercato.
Reputazione, un asset strategico che orienta le scelte dei clienti
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Henry Ford diceva che “le due cose più importanti non compaiono nel bilancio di un’azienda: la reputazione ed i suoi uomini”. Erano gli inizi del ‘900, non esisteva il web ed il binomio qualità/prezzo era il mantra di ogni strategia commerciale. Tuttavia, il grande imprenditore statunitense già evidenziava l’importanza della reputazione, concetto che oggi è diventato imprescindibile, tanto da poter determinare la crescita o il declino di un’azienda.
Una recente ricerca di Accenture1 che ha coinvolto 30.000 consumatori nel mondo rivela ad esempio che il 63% degli acquirenti orienta le proprie decisioni di acquisto di prodotti e servizi in base al sistema valoriale di un’azienda e all’autenticità delle sue azioni. Ciò significa che, da soli, qualità e prezzo non sono più sufficienti per costruirsi una buona reputazione e incontrare il consenso del mercato.
Non cogliere questa nuova dinamica può essere molto negativo per le aziende: in Italia2, il 47% degli intervistati ha dichiarato di non acquistare prodotti di realtà di cui non condivide i valori e le azioni concrete.
Cos’è la brand reputation?
Secondo una definizione da manuale, “la reputazione di un’organizzazione è la fusione di tutte le aspettative, percezioni ed opinioni sviluppate nel tempo da clienti, impiegati, fornitori, investitori e vasto pubblico in relazione alle qualità dell’organizzazione, alle caratteristiche e ai comportamenti, che derivano dalla personale esperienza, il sentito dire o l’osservazione delle passate azioni dell’organizzazione”3.
In pratica, la brand reputation è la valutazione complessiva e stabile nel tempo, condivisa da più stakeholder, che riguarda un’impresa, e per estensione i prodotti e i servizi che offre. Il comportamento dei suoi dirigenti, il rapporto con gli stakeholder, il modo di comunicare: tutto contribuisce a costruire la reputazione di un’azienda.
Le variabili della brand reputation sono molteplici ma possono essere raggruppate in tre dimensioni:
una che attiene più strettamente al lavoro dell’azienda: corporate identity, prodotti e servizi, luogo di lavoro, governance, performance economiche;
l’aspetto emotivo che l’azienda riesce a generare (stima, fiducia, ammirazione, disapprovazione), che emerge da come l’opinione pubblica (media, web) ne parla;
le intenzioni comportamentali espresse dalle persone in termini di decisione di acquisto, di investimento, di aspirazione a lavorare nell’azienda considerata.
Di certo c’è che la costruzione di una buona brand reputation è un processo lungo ed in costante evoluzione, perché la considerazione può mutare col variare del paradigma valoriale e delle priorità condivise dall’opinione pubblica.
In effetti, una realtà che ha una lunga storia, da sempre contraddistinta da una buona reputazione, potrebbe vederla crollare da un momento all’altro se non riuscisse più ad essere in sintonia con il sentire comune della società. In questo senso,valgono le parole di Warren Buffet, secondo cui “ci vogliono 20 anni per costruire una buona reputazione, cinque minuti per distruggerla”. Oggi verrebbe da dire che in realtà bastano anche pochi secondi per distruggere quanto costruito in anni di lavoro, vista la rapidità e capillarità con cui informazioni ed opinioni viaggiano attraverso il web.
I fattori chiave per costruire una buona brand reputation nel terzo millennio
Nella ricerca citata, Accenture ha chiesto ai consumatori quali sono i fattori che li guidano verso la scelta di acquistare prodotti o servizi di un brand piuttosto che un altro, al di là di prezzo e qualità. Ecco le risposte che hanno ottenuto più del 50% delle preferenze:
l’azienda è trasparente sulla provenienza delle materie prime e sulle condizioni dei lavoratori;
l’azienda tratta bene i suoi dipendenti;
l’azienda crede nella riduzione della plastica e nel miglioramento dell’ambiente;
il brand non si limita a vendere prodotti e servizi, ma si impegna per qualcosa di più grande, in linea con i miei valori personali;
l’azienda si impegna per questioni sociali e culturali in cui crede;
il brand supporta e agisce in favore di cause che condivido;
il brand fa ciò che dice e mantiene le promesse;
il brand ha valori etici e dimostra autenticità in tutto ciò che fa;
dimostra passione e attenzione verso i prodotti e servizi che vende.
Key Word #1: Responsabilità
I primi sei punti evidenziati dalla ricerca potrebbero essere sintetizzati nel concetto di responsabilità ambientale e sociale e riflettono l’accresciuta sensibilità dell’opinione pubblica verso questi temi.
Buona parte dei consumatori (il 76%, secondo la ricerca Accenture) pensa che le aziende abbiano la responsabilità, anche più delle istituzioni, di guidare il cambiamento sociale e lo sviluppo sostenibile. Sempre lo stesso studio dice, ad esempio, che il 78% dei consumatori è orientato ad acquistare prodotti da imprese che utilizzano ingredienti di buona qualità e rispettano i diritti umani, mentre il 68% vuole rivolgersi a aziende che si impegnano per il miglioramento dell’ambiente e per la riduzione dell’utilizzo di materiali plastici.
Investire per diminuire il proprio impatto ambientale, sostenere iniziative per ridurre la plastica o risolvere alcune criticità ambientali, essere attenti alla provenienza delle materie prime, rispettare i diritti dei lavoratori e migliorare il loro benessere, adottare politiche di inclusione e di abbattimento delle diseguaglianze, supportare iniziative sociali e culturali nel territorio di riferimento: tutte queste sono buone prassi che incidono profondamente su una buona brand reputation.
Non a caso, secondo l’Osservatorio sulla Sostenibilità della Società Italiana Comunicazione, realizzato in collaborazione con Format Research4, la “linea di investimento” più perseguita è quella della sostenibilità che, per il 35,4% delle aziende rappresenta «il modo di fare impresa da qui in avanti» e che per 6 realtà su 10 (58,3%) porta ad un aumento della brand reputation.
Key Word #2: Credibilità
Tornando all’elenco delle risposte dei consumatori, un altro tema che risalta è quello che potremmo definire della credibilità. Quando le persone dicono di apprezzare un brand che “mantiene le promesse”, e che “dimostra autenticità in tutto ciò che fa”, dicono sostanzialmente che non bastano le promesse e gli impegni formali, perché la valutazione si basa sui fatti concreti.
Il rapporto di fiducia che si può instaurare tra un’azienda e gli stakeholder sulla base di valori comuni e condivisi va curato nel tempo ed alimentato da azioni e comportamenti coerenti, che mettono in pratica quanto comunicato con le parole. In questo rapporto tra azienda e stakeholder, diventa fondamentale l’intermediazione di realtà terze, il più possibile oggettive, indipendenti e imparziali, che possano testare e confermare la bontà di ciò che l’impresa dice e fa. Enti di ricerca, istituti che conferiscono dei premi, ma anche stampa, esperti qualificati e influencer possono contribuire ad accrescere la buona reputazione laddove attestino la coerenza e la trasparenza di un’azienda.
D’altro canto, il rischio legato alla perdita di credibilità è altissimo: se il rapporto di fiducia viene tradito, è molto difficile poi recuperarlo. In questo senso, le nuove modalità di comunicazione, in particolare il web, possono rappresentare una grande opportunità ma anche una minaccia. Sono un’opportunità perché consentono alle aziende di comunicare direttamente con gli stakeholder e dare visibilità alle proprie azioni. Tuttavia, la notizia di un possibile “errore” ha potenzialità distruttive, perché si diffonde rapidamente e capillarmente. Senza contare, tra l’altro, il pericolo di essere vittima di “fake news”, che fa sorgere l’esigenza da parte delle aziende di tutelarsi dal rischio reputazionale.
Key Word #3: Customer Experience
Infine, l’ultimo punto dell’elenco stilato in base ai risultati dell’indagine Accenture fa riferimento ai prodotti e servizi e chiama in causa la customer experience. Il prodotto o servizio offerto resta infatti centrale nella valutazione della buona reputazione di un’azienda. Rispetto al passato, tuttavia, la valutazione del consumatore non è più solo sulla qualità del bene o sul prezzo, ma su tutta l’esperienza di acquisto – un processo che inizia quando la persona si rende conto di avere un bisogno, si consolida nel momento in cui acquista il bene o il servizio, e prosegue anche oltre, perché comprende l’assistenza post-vendita e il modo in cui l’azienda conserva e tutela i dati raccolti.
Si tratta quindi della interazione-relazione tra impresa e cliente, che può determinare la reputazione di un brand. Un prodotto di ottima qualità venduto senza assistenza o da un addetto scortese influirà probabilmente in modo negativo sulla valutazione dell’azienda da parte del cliente. E se il cliente deciderà di raccontare la sua esperienza negativa, l’opinione entrerà nel flusso delle informazioni che contribuiscono a creare la reputazione del brand.
Reputazione: sarà la “moneta” del futuro?
La brand reputation è già oggi un asset strategico per le imprese, e probabilmente lo diventerà sempre di più, alla luce della crescente sensibilità dell’opinione pubblica ai temi della sostenibilità ambientale e sociale.
Secondo il Reputation Institute5, per migliorare la propria reputazione le aziende devono porsi obiettivi superiori rispetto alle proprie performance economiche e operare coerentemente con questi obiettivi. La qualità dei beni e servizi offerti continuerà ad essere centrale, ma una buona reputazione potrà sempre più fare la differenza nell’ambito della competitività. L’impegno nella sostenibilità ambientale e sociale, l’attenzione alla protezione dei dati dei clienti, oltre che alla loro esperienza di acquisto, l’impegno per il territorio sono aspetti che, in qualche modo, dovranno sempre di più entrare a fare parte del “bilancio” aziendale.
In questo contesto, come si sta muovendo Allianz? Il gruppo, di cui fa parte Darta Saving, ha da tempo intrapreso un strada ben precisa nel segno della sostenibilità, del miglioramento della customer experience6 e della trasparenza come strumento essenziale per costruire una credibilità duratura. Tale impegno è stato riconosciuto da autorevoli realtà che si occupano di misurare la reputazione del brand. Nel 2017, il gruppo è stato inserito nella classifica stilata da KPMG Nunwood dei 50 migliori brand in Italia per customer satisfaction, e nel 2019 il Reputation Institute ha confermato la presenza di Allianz tra i 150 migliori brand dell’Italy RepTrack7. Questa classifica, che valuta la reputazione dei brand, vede Allianz al terzo posto per i servizi finanziari e al secondo tra le realtà assicurative.