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Dal relatore pubblico ai correlatori sociali

Dal relatore pubblico ai correlatori sociali

A poche settimane da BledCom, le riflessioni di Biagio Carrano a margine del simposio.

Dopo le note di Francesco RotoloBiagio OppiLetizia Ciancio e Toni Muzi Falconi, ecco quanto scrive Biagio Carrano, co-autore del paper presentato.
La ventiseiesima edizione del simposio di Bled si è focalizzata sul tema “Trust and Reputation”, che è un po’ come se un amministratore delegato di una banca parlasse di merito di credito dopo averne sfasciato i bilanci elargendo prestiti inesigibili ad amici e compari. Perché se ci sono due parole che descrivono la crisi di una professione e, in generale, delle società in cui oggi viviamo, esse sono proprio fiducia e reputazione. Non starò qui ad elencare cause e dinamiche che hanno portato a questo, però possiamo tratteggiare un orizzonte presente, in cui tutti i riferimenti entro cui tradizionalmente si muovono comunicatori e relatori pubblici, quali istituzioni, media, esperti, vivono un declino nella loro capacità di essere ancora autorevoli e rilevanti. A Bled abbiamo provato a presentare una prospettiva complementare dell’essere relatore pubblico, il cui ruolo sia capace di estendersi oltre i confini dell’organizzazione, per proporsi come “tessitore sociale”, “relatore di comunità”, “social capital officer”, ”social capital booster”: definizioni ancora parziali e instabili perché frutto di un’elaborazione in itinere.

Chi era il relatore pubblico?


Con una forte semplificazione potremmo affermare che finora il ruolo del professionista delle relazioni pubbliche è stato, e resta, per lo più, quello di convogliare il capitale intellettuale, umano e sociale esistente (inteso sia come attributi del marchio del committente, sia come reputazione verso gli stakeholder, sia come caratteristiche sociali dei territori in cui si opera, sia, infine, come il suo proprio capitale sociale inteso come reputazione, credibilità e capacità di persuasione) al fine di raggiungere gli obiettivi di comunicazione, intesi come advocacy o in termini di cambiamento degli atteggiamenti e dei comportamenti.
In questa declinazione, alla committenza vengono di regola proposte e sviluppate campagne per lo più di breve durata, al di sotto dei dodici mesi di orizzonte, con un approccio tattico legato spesso a necessità contingenti. Inoltre l’orientamento è per lo più dall’interno dell’organizzazione verso l’esterno: abbiamo un messaggio, un’idea, una qualità e vogliamo che alcuni soggetti all’esterno dell’organizzazione ne vengano a conoscenza.
Questa rapsodicità delle attività di comunicazione e di relazioni sociali si evidenzia anche nella durata degli incarichi dei dirigenti responsabili: l’incarico di un direttore finanza o un direttore di produzione dura per molto più tempo rispetto a un pari grado che si occupa di comunicazione. Spesso il direttore della comunicazione è più legato a un rapporto di fiducia con l’amministratore delegato che ai valori e alla cultura dell’impresa per cui lavora. Così la continuità di indirizzo nell’ambito della comunicazione viene meno e spesso non è considerata essenziale per il successo dell’impresa. Aspetto paradossale questo, in un’economia dove le imprese a maggior tasso di crescita sono quelle con forti elementi di valore intangibili.

Una nuova idea di capitale

Fino a trent’anni fa parlare di capitale non consentiva ambiguità: o avevi i capitali (in termini finanziari o di macchinari) per intraprendere un’attività o non partivi. Il capitale si riduce a soldi e mezzi di produzione e non vi erano dubbi: quello che facevi o accresceva o diminuiva il conto in banca o il patrimonio.
Teorici e analisti hanno gradualmente dimostrato che di capitali ce ne possono essere tanti. Si possono avere scarsi capitali ma un’artigianalità unica che ti consente di realizzare prodotti di eccellenza, grazie a un tornio o a un forno. E da quel forno e da quel tornio hanno avuto inizio tante storie di successo italiane. Puoi essere un neolaureato con le scarpe bucate ma hai una preparazione di eccellenza che presto (forse non in Italia) ti verrà riconosciuta con stipendi adeguati. All’opposto, non sei una cima e non hai mani di fata, ma hai savoir faire e una capacità empatica uniche che ti rendono credibile e ben accetto da tante persone, pronte a darti, appunto, credito. La consapevolezza che le risorse naturali non sono infinite spinge poi a considerare un loro uso efficiente e parco come un ulteriore fonte di valore per un’impresa.
L’approccio dell’International Integrated Reporting Council (fondato nel 2010 dal Principe Carlo insieme ai grandi operatori globali della revisione contabile e divenuto il principale centro di analisi intorno al valore e alla rendicontazione delle organizzazioni) ha individuato sei fonti del valore per le organizzazioni: il capitale finanziario (Financial), il capitale produttivo (Manufacturing), il capitale umano (HR), il capitale naturale (Natural), il capitale intellettuale (Intellectual), il capitale sociale e relazionale (Social). Ma ancora più importante è l’idea che il valore creato da un’organizzazione non può essere scisso dal valore creato al  proprio esterno: non è un vero valore se finisce per essere un gioco a somma zero, dove l’incremento di valore contabilizzato da un’impresa è frutto del depauperamento dei capitali utilizzati, interni o esterni, ad esempio attraverso lo sfruttamento di risorse naturali non rinnovabili, l’abuso del personale, indebolimento della fiducia a seguito di condotte scorrette, lo spreco di risorse economiche per spese o benefit ingiustificati.
Di questi sei asset, quattro sono interni all’azienda/organizzazione (Manufacturing, Financial, HR, Intellectual) e due esterni (Natural e Social). Inoltre cinque di questi asset sono prevalentemente degli stock, mentre solo il capitale sociale e relazionale può essere interpretato prevalentemente come un flusso perché esso si misura solo in rapporto a un determinato intervallo di tempo.
Dunque possiamo affermare che il capitale sociale e relazionale di un’organizzazione ha due specifici attributi: è un flusso ed è prevalentemente originato attivando risorse esterne ai confini organizzativi. Per ciascuno dei sei capitali vi sono figure professionali e manageriali specifiche ma con obiettivi diversi. Un direttore finanza o del personale ha come obiettivo quello di portare all’interno dell’organizzazione le risorse di miglior qualità, mentre il capitale sociale non può essere trasferito dall’esterno all’interno dell’organizzazione, proprio perché non è uno stock ma un flusso. Può essere attivato e accresciuto nella sua capacità di produrre esternalità positive per l’organizzazione, ma non può essere “trasportato” al suo interno come se fosse un barile di petrolio o un bonifico bancario.
Il capitale sociale e relazionale è contendibile ma, a differenza della conoscenza o dei beni digitalizzati, non è replicabile a costo zero. Al contrario richiede investimenti di lungo periodo e ogni organizzazione opera già in un contesto più o meno sviluppato dal punto di vista del capitale sociale, frutto di stratificazioni successive, in cui il capitale sociale non sempre è accresciuto ma può  aver registrato un decremento a seguito di particolari eventi o anche di una generazione meno propensa a investire in esso.
Il capitale sociale è stato per troppo tempo visto come uno stock, di natura personale o legato a uno specifico territorio, di cui l’organizzazione fruiva tatticamente in base alle sue esigenze del momento. Gli esempi più tipici sono quelli del personaggio autorevole o dell’esperto, di cui si attiva la reputazione o la fiducia che infonde nel pubblico, o l’apertura di canali di collaborazione con organizzazioni radicate sul territorio al fine di rendere più persuasiva una campagna di comunicazione o di accreditamento. Se invece interpretiamo il rapporto tra organizzazione e ambiente in cui opera in termini di costante dinamica di feedback, attraverso attività, relazioni e interazioni continuamente attivate, comprendiamo come questi due elementi non possono essere più pensati come separati, e questo non in base a un’astratto approccio olistico, ma semplicemente perché l’organizzazione è anche il suo ambiente, e dunque subisce o fruisce il degradarsi o lo svilupparsi del capitale sociale che la circonda così come subisce o fruisce i trend economici generali.

Una nuova prospettiva per i relatori pubblici

Il capitale sociale in cui e con cui si relaziona un’organizzazione è dunque un asset competitivo dell’organizzazione stessa, e come tale va tutelato, coltivato, promosso e accresciuto come tutti gli altri valori che l’organizzazione custodisce al proprio interno. Se si parte da questo assunto si trasforma e si dilata anche l’ambito e le responsabilità dei comunicatori e dei relatori pubblici.
La relazione con i portatori di interesse è stata finora sempre pensata come una relazione uno a molti, uno a pochi o uno a uno. In realtà questo nuovo ruolo del relatore pubblico prevede anche la capacità di promuovere relazioni molti a molti. Certo, è un truismo affermare con Robert Putnam “Working together is easier in a community blessed with a substantial stock of social capital” (Putnam 1993, pp. 35 and 36), ma quante organizzazioni si sono poste questo obiettivo, assumendo professionisti capaci di incrementare questo capitale?
A Bled abbiamo definito questa nuova relazione tra capitale sociale e relazioni pubbliche nei termini inglesi di “entanglement”, correlazione, concetto che richiama anche l’entanglement quantistico,  chiaramente un traslato per evidenziare la correlazione anche a distanza tra un’organizzazione e il suo capitale sociale, che in qualche modo diventa un “portato” della cultura organizzativa anche quando essa opera in contesti diversi da quello originario, come nel caso, ad esempio, di aperture di nuove sedi all’estero.
In questa nuova dimensione professionale gli orizzonti temporali di azione cambiano in maniera significativa. Da obiettivi a breve termine tramite iniziative occasionali si passa a risultati di lungo termine attraverso attività ricorrenti anche se meno eclatanti. Non si cerca tanto la visibilità occasionale quanto il rafforzamento dei legami esistenti, la creazione di nuove interlocuzioni e la promozione di un contesto sociale aperto di per sé alla relazione. Ci troviamo in una dimensione che oltrepassa i confini usuali della corporale social responsibility o della sussidiarietà: l’organizzazione non investe sul capitale sociale in base a principi risarcitori o di sana etica aziendale, quanto investe perché persuasa che sviluppare questa componente della sua configurazione di valore le consente di essere competitiva.
Se intende promuovere questo nuovo modello, il comunicatore o relatore pubblico deve darsi anche strumenti nuovi. Innanzitutto quantificare l’apporto al capitale sociale dato dai suoi interventi. Poi la capacità di uscire dall’ambito propagandistico e della advocacy per entrare in una dimensione alquanto inesplorata: una posizione più esterna che interna all’organizzazione, più dedicata a tessere legami che a instaurare relazioni strumentali, più focalizzata su una visione lunga di un contesto sociale che sulla imminente trimestrale (al di là delle imprese dove comunque è prevista una rendicontazione puntuale anche del capitale sociale). Una funzione siffatta può appunto trovare una sua legittimità solo se capace di quantificare con metodi condivisi l’impatto delle sue azioni.
All’interno del piano per accrescere il capitale sociale, che deve prevedere investimenti e risultati come tutti gli altri piani aziendali, il piano di comunicazione ed RP vedrà iniziative e attività dedicate a questi specifici obiettivi di correlazione con il capitale sociale.
Un passaggio conseguente sarà la mappatura del capitale sociale, da svilupparsi attraverso gli strumenti che le ricerche degli ultimi trent’anni hanno definito: non soltanto uno statico censimento dei soggetti che sul territorio tutelano e sviluppano il capitale sociale e non soltanto soltanto l’analisi di correlazione tra le attività di questi soggetti e determinati output sociali. Bisognerà integrare ad essi la sentiment analysis (non solo online, ma anche nei luoghi fisici) attraverso i metodi e i software oggi disponibili. Solo così si potrà capire quali sono i gap e i picchi e definire delle azioni capaci di aderire effettivamente alle caratteristiche della cultura sociale locale e dunque risultare efficaci.
Ma soprattutto si tratterà di uscire da una logica funzionale alla diffusione di alcuni messaggi di “buona volontà”: passare dalla promozione di buone pratiche alla diffusione di attitudini produttive del capitale sociale sarà la vera sfida, perché la pratica è il frutto di un’attitudine e spesso una campagna migliora solo temporaneamente gli effetti di una pratica se non si è lavorato sulle attitudini.
Quello di cui sopra è un elenco, parziale e finanche contraddittorio. Nessuna ambizione di dare indicazioni definitive, ma solo di suscitare una riflessione per esplorare collettivamente una dimensione che appare essere la sfida del presente per la professione del relatore pubblico e per le nostre stesse società.




Dove Mettere gli Hashtag su Instagram

Dove Mettere gli Hashtag su Instagram

Instagram continua ad essere la piattaforma più “hot” del momento, e dunque la corsa di influencer, brand, enti, e organizzazioni, sul social di foto [e video], non ha sosta.
 In  tutto questo giocano un ruolo non trascurabile gli hashtag, il cui utilizzo, come noto, aiuta le persone a scoprire nuovi contenuti, e dunque può servire ad aumentare la propria platea di follower, e ad aumentare la portata dei post.
Sul tema, Socialinsider, in partnership con Quuu , una piattaforma di diffusione e promozione dei contenuti, ha esaminato 649.895 post di Instagram da oltre 6.700 account con diverse dimensioni di pubblico, di follower, per verificare cosa ci dicono i dati su come utilizzare gli hashtag per migliorare le prestazioni di Instagram.
Nel complesso, i dati, che sono stati presi da Agosto 2018 a Giugno 2019, mostrano una preferenza per la maggior parte dei brand, con una maggioranza schiacciante del 93.8%, di posizionare gli hashtag nella didascalia, rispetto al primo commento.


I brand usano meno hashtag quando li inseriscono nei commenti e più hashtag quando li usano nella didascalia. La maggior parte dei post ha 2 hashtag quando si guardano solo gli hashtag nel primo commento. Tuttavia, quando i marchi utilizzano hashtag nella didascalia, la maggior parte dei post ha 7 hashtag.
I dati rivelano anche in che modo il posizionamento dell’hashtag influisce sulla portata degli account Instagram di piccole e medie dimensioni per numero di follower.
I profili fino a 100.000 follower hanno un tasso di copertura migliore quando si utilizzano gli hashtag nella didascalia. I dati mostrano che l’uso di hashtag nella didascalia porta agli account Instagram di piccole e medie dimensioni una maggiore copertura per post.
I profili con meno di 5mila follower hanno un tasso di copertura medio del 36.85% per post con hashtag nella didascalia, quelli con tra 5mila e 10mila follower hanno un tasso di copertura medio del 20.98% per post con hashtag nella didascalia, quelli tra 10mila e 50mila follower si attestano ad un tasso di copertura medio del 21,47% per post con hashtag nella didascalia, e quelli con tra 50mila e 100mila follower registrano un tasso di copertura medio del 21.43% per post con hashtag nella didascalia.
I profili con oltre 100mila follower hanno un tasso di copertura migliore quando pubblicano i loro hashtag nei commenti [15.9%], a differenza di una percentuale di copertura del 14.8% dei post con hashtag nella didascalia.
La situazione cambia se invece della copertura dei post si analizza l’engagement. Iinfatti, il tasso di coinvolgimento per post è maggiore quando i post aggiungono hashtag mostrati nel primo commento o inseriscono hashtag nascosti nella didascalia. I brand, in generale, preferiscono non nascondere i loro hashtag, ma non è sempre la decisione migliore. In tal senso l’indicazione che pare emergere dalla desk research è quella di nascondere gli hashtag delle didascalie, ma non nascondere quelli nel primo commento.
Indicazioni preziose per chi deve gestire operativamente uno, o più, account su Instagram. Buon lavoro.




Democrazia in Europa: il mercato della verità online

Democrazia in Europa: il mercato della verità online

La rivoluzione digitale ha soddisfatto il bisogno di immediatezza della società democratica, che mal tollera l’incertezza nel processo decisionale, ma ha compresso eccessivamente i tempi di riflessione critica sull’informazione, distorcendo la distinzione tra vero e falso.

Ciò ha permesso che i social media si strutturassero come luoghi di veridizione, di formazione della verità, con logiche di mercato. Come il vero prezzo è legato naturalmente a domanda e offerta, così sui social l’informazione acquista il crisma della verità secondo il numero di condivisioni o like che ottiene. La mera diffusione funge da autopoiesi delle fonti, avulsa da ogni analisi critica sulla effettiva veridicità della notizia.
Si è così agevolata la diffusione di fake news, specie se per guadagno pubblicitario o per influenzare processi e decisioni politiche di uno Stato.
Democrazia rappresentativa e democrazia liquida
I social hanno aperto alla democrazia liquida, nella quale l’elettore ha il potere di controllare come il suo voto viene speso dal rappresentante in relazione ad ogni proposta legislativa, ed eventualmente riassegnarlo.
Si coniugano così i principi della democrazia rappresentativa e le istanze di partecipazione di quella diretta, specie nei sistemi di e-voting, la cui immediatezza permette votazioni, dal carattere referendario, su un numero potenzialmente infinito di proposte legislative.
Ciò comporta un rischio specifico: in assenza di tempi funzionali ad un’analisi critica, tali votazioni diverrebbero dei plebisciti, legati al sentiment dell’elettorato e ai rapidi tempi di reazione propri del web, impedendo all’elettore di testare la veridicità dell’informazione. Così, nel meccanismo di veridizione summenzionato, anche delle fake news verrebbero assunte come vere, e come base di decisioni politiche. Ciò influirebbe sulla governabilità e sulla stabilità della democrazia, precludendo alla minoranza un effettivo potere di opposizione in tali decisioni-lampo, e aprendo ad un totalitarismo della maggioranza di turno.
Il meccanismo di veridizione dei social viene sfruttato da opinion leader che canalizzano gli orientamenti politici, grazie all’azione di software informatici.
Esempio ne è il software ‘la Bestia’, utilizzato dallo staff comunicativo del leader della Lega Matteo Salvini per analizzare le interazioni degli utenti e consigliare post o tweet, al fine di polarizzare il sentiment degli utenti. Così si riesce a far leva su emozioni basilari e argomenti conflittuali, con cui dividere l’opinione pubblica in ‘buona e vera’, se conforme alla notizia veicolata, oppure ‘cattiva e falsa’, delegittimando le opinioni divergenti.
Tuttavia, al di là della dubbia etica pubblica che la ispira, e del rischio di esasperare le divisioni sociali, tale strategia politica può ritenersi espressione di democrazia. Una deriva autoritaria, fuori e contro il sistema democratico, pare, seppur non impossibile, allo stato attuale quanto meno improbabile, data l’alta burocratizzazione ed interdipendenza delle società europee.

Cyberwarfare e Digital Authoritarianism

L’odierno scenario di cyberwarfare, legato alla disinformazione, costituisce, invece, un attuale rischio per la democrazia e la libertà d’espressione.
Emblematici sono l’elezione di Donald Trump e il referendum sulla Brexit: eventi in cui la Russia avrebbe etero-diretto l’opinione pubblica dei due Paesi mediante diffusione di fake news.
Ciò sarebbe avvenuto anche grazie all’attività di Cambridge Analytica di microtargeting comportamentale, alla policy di scarsa trasparenza di Facebook sulla fonte e sul finanziamento dei contenuti politici sul sito, nonché al filter bubble, meccanismo per cui ogni utente visualizza contenuti altamente omogenei, basati sulle proprie interazioni sul social, con effetto di restringerne l’orizzonte informativo.
A tale intrusione nella libertà d’espressione degli utenti e nella sicurezza nazionale, gli Stati hanno risposto censurando la disinformazione sui social, nella pretesa impossibile di definire normativamente il falso, e assumendo un ruolo di guida nella verità, che deve rimanergli estraneo in un’ottica democratica.
Normative di digital authoritarianism, restrittive della libertà online, si sono diffuse negli stati europei. È, però, soprattutto in Russia e Cina, che il diritto di espressione è abolito da una capillare censura in rete, e si impone uno spazio online isolato dal resto del mondo.

Alcune possibili soluzioni democratiche

L’unica soluzione possibile sembra quella per cui “i mali della democrazia si curano con più democrazia”.
In tal senso, si dovrebbero sfruttare le potenzialità dei social, cercando di ridurne la funzione di veridizione, attraverso un sistema integrato di private and public enforcement, in cui:

  1. i gestori dei social predispongono meccanismi di segnalazione della disinformazione e compiono una verifica ponderata delle segnalazioni, per scongiurarne un uso distorto. Inoltre, essi dovrebbero consentire che l’utente possa graduare l’effetto del filter bubble, per ampliare il proprio orizzonte informativo.
  2. agli utenti deve essere lasciato il controllo interno, senza potere di censura, attraverso l’opera indipendente di debunking e fact-checking. Tale meccanismo dovrebbe essere potenziato, per evitare errori, mediante l’azione integrata dei media tradizionali, sia quale supporto informativo nell’indagine sulla falsità dell’informazione, sia quale cassa di risonanza dell’esito dell’indagine, per minimizzare l’effetto distorsivo della disinformazione.



Sicurezza e Sistema Paese: non solo cybercrime

Sicurezza e Sistema Paese: non solo cybercrime

Sempre più spesso si dibatte di sicurezza informatica e cybercrime, finendo con il non considerare gli attacchi fisici. È la cosiddetta strategia della lumaca, in riferimento al caso accaduto in Giappone nel maggio scorso, quando una lumaca, dopo essersi infilata in una centralina elettrica di una stazione, ha causato un cortocircuito e la sospensione del traffico ferroviario. L’analisi a cura di Secursat.


Mentre i media e gli addetti delle grandi aziende si concentrano su sicurezza informatica, cybercrime, minacce e  attacchi hacker e ci si interroga sulla vulnerabilità dei sistemi di controllo industriali definendoli estremamente attaccabili, anche alla luce di alcuni significativi attacchi hacker (ad esempio WannaCry, che ha colpito nel 2017 i PC delle strutture ospedaliere britanniche) volgendo così lo sguardo alla sicurezza informatica come al principale asset da salvaguardare, in Italia, nel 2019, per paralizzare il traffico ferroviario dell’alta velocità, e quindi il paese, è sufficiente appiccare un incendio nell’area dove si trovano i cavi di trasmissione dati degli apparati di sicurezza dei treni, come è successo il 23 luglio.
I media e gli esperti della security si prodigano in scuse ma forse, l’unica vero aspetto su cui riflettere è che la convinzione che il cybercrime sia il nuovo e unico nemico, ha causato un generale abbassamento della guardia di fronte alle minacce che arrivano nel più classico dei modi, quello fisico. Abbiamo forse perso tutti la consapevolezza, (o possiamo pensare che in taluni casi la consapevolezza non ci sia mai stata?) che i rischi e le minacce possono ancora interessare la sicurezza in senso fisico?
Riprendendo, infatti, le parole usate a rivendicazione dell’attacco che sostengono come «sia sufficiente accendersi una sigaretta all’aria aperta […] per mandare in tilt questo gigante chiamato Potere che ha sempre e comunque i piedi di argilla. Come tutta la sua esaltata magnificenza, tutta la sua invincibilità, dipendano da fragili cavi disseminati un po’ dovunque. Talmente vulnerabili da poter essere neutralizzati persino da una lumaca».
Tralasciando – e dissociandosi – dai toni usati dal sito su cui la rivendicazione è apparsa, è importante riportare il concetto di fallibilità e vulnerabilità di fronte ad una “semplice” azione come può essere quella di appiccare un incendio. In questo senso si è parlato di “strategia della lumaca”, in riferimento al caso accaduto in Giappone nel maggio scorso, quando una lumaca, dopo essersi infilata in una centralina elettrica di una stazione, aveva causato con la propria bava un cortocircuito e la sospensione del traffico a rotaie nel sud del paese.
In realtà il coinvolgimento del movimento anarco-insurrezionalista in azioni o tentativi di sabotaggio era già stato documentato in passato: solo nel novembre 2015 nei pressi di Bologna erano stati incendiati i cavi elettrici dell’alta velocità. Tuttavia, nonostante le precedenti minacce nessuna contromisura era stata presa allo scopo di prevenire altri attacchi simili. Si ricordi come tra gli obiettivi sensibili per i gruppi di anarchici da tempo c’è la tratta dell’Alta Velocità, contro cui sono state dirette “azioni delittuose” (La Notizia – Giornale.it) eppure uno snodo cruciale come quello di Firenze non era protetto, né controllato, e molti altri sono nelle stesse condizioni. È lo stesso direttore Moretti ad ammettere come il nodo di Firenze, nonostante fosse un punto fondamentale e strategico per la gestione della circolazione dei treni, non era adeguatamente sorvegliato.
L’attenzione generale della comunicazione nazionale è, dunque, sempre più orientata al pericolo degli attacchi informatici,  al 5G, alla cyberguerra, all’intelligenza artificiale, e verso tutte le nuove tecnologie con le quali è giusto e fondamentale cercare di tenere il passo e rimanere aggiornati, mentre, però, il paese si ferma perché neppure il dysaster recovery e la business continuity sono di fatto concretizzati nei modelli di security dei grandi player che condizionano il sistema paese.
In virtù di queste considerazioni è imprescindibile ricordarsi che non possiamo smettere di fare analisi e assessment che ci possano dare un quadro completo e concreto dei possibili rischi e “banalmente” intraprendere misure fisiche, mutuate dalla sicurezza tradizionale, come sensori e telecamere, che se parte di un piano strategico di security complessivo e se installate, programmate, monitorate e mantenute secondo logiche innovative, ed in luoghi chiave e strategici, possano aiutarci a difendere e proteggere in maniera reale, seppur mai assoluta, gli asset pubblici di questo paese come quelli privati di aziende ed organizzazioni.




Marcel Bich, il torinese che cambiò il modo di scrivere (e di accendere) del mondo

Marcel Bich, il torinese che cambiò il modo di scrivere (e di accendere) del mondo

Molti credono che il barone Marcel Bich, fondatore della dinastia industriale Bic, sia stato un personaggio francese.
In realtà non è così, egli fu torinese e nacque in corso Re Umberto 60, nel cuore dell’elegante quartiere della Crocetta; diventò poi francese in seguito, come vedremo.
Il suo nome, che suona effettivamente come d’oltralpe, ha origine da una famiglia della nobiltà savoiarda e precisamente di Châtillon, in Val d’Aosta.
Fino a sedici anni rimase nella nostra meravigliosa città per poi venir naturalizzato francese quando con i genitori emigrò a Parigi ed e lì che completò gli studi universitari.
Gli inizi per il giovane Marcel nel mondo del lavoro erano ancora lontanissimi dai grandi successi futuri. Si dedicava difatti alla vendita porta a porta, come rappresentante d’inchiostri e commerciante di lampadine.
Poi, nel 1953, ci fu la svolta. Quell’anno per il barone fu il momento cruciale.
Fu come per il petroliere americano che scopre il suo primo giacimento, come per l’inventore che sa di aver per le mani un prototipo dalle uova d’oro, come per il cacciatore di diamanti di fronte ad una pietra grande come una palla da biliardo.
Incontrò László József Bíró, un inventore e giornalista ungherese che portava con sé la soluzione al problema delle macchie d’inchiostro lasciate dalle penne stilografiche, ancora in quei tempi le regine indiscusse del mercato della scrittura a mano. Nel suo prototipo, osservando che l’inchiostro era poco fluido, inserì una piccola pallina metallica che permetteva così di far nascere lettere e parole su carta in maniera omogenea, pulita e veloce.
L’idea all’ungherese gli si accese in testa come una lampadina quando osservò dei bambini giocare a biglie sulla strada. Ipnotizzandosi su una biglia che uscita da una pozzanghera lasciava una scia d’acqua sul marciapiede, ecco scoccare il lampo di genio.
Perché dunque non inventare una pallina che scrivesse?
Le intuizioni pionieristiche di Bíró, purtroppo per lui, non ebbero subito una felice evoluzione industriale e commerciale poi.
Negli anni’40, epoca degli sforzi dell’inventore per produrre in serie la sua penna a sfera, non era ancora disponibile una tecnologia adeguata per rendere il prodotto perfetto, semplice e soprattutto economico per sfondare nel mercato di largo consumo che in occidente dopo la seconda guerra mondiale era ripartito con una crescita apparentemente senza fine.
E fu qua, in un momento di difficoltà per lo scoraggiato Bíró che Bich acquistò il brevetto della penna e riprese il lavoro incompiuto, ovvero perfezionare quello che era ancora grezzo e gettarsi nell’arena. Va detto che lo sfortunato Bíró morirà poi a Buenos Aires, povero, senza aver nemmeno annusato quelle immense ricchezze accumulate da chi aveva comprato le sue fatiche, Marcel per l’appunto.
Il barone nato a Torino iniziò dunque l’avventura delle penne Bic (come il suo cognome ma mozzato dell’h) facendo costruire della macchine di precisione da svizzeri e risolvendo definitivamente il problema di inchiostri poco adatti. L’idea di realizzare un prodotto di plastica trasparente fu vincente; ora chi scriveva sapeva esattamente quanto poteva ancora lavorare.
I bassissimi prezzi di vendita garantirono un successo planetario che ogni anno raggiungeva nuovi picche di cifre ed utili. Il design esagonale fu studiato non tanto per estetica ma perché allora i banchi erano inclinati e in questa maniera le biro non scivolavano giù.
Che diffusione! Che guadagni! Che vittorie!
Era ed è un oggetto d’uso quotidiano, diffusissimo a livello globale e “democratico” perché chiunque poteva permettersi di acquistarlo. Ci fu un tempo in cui in Brasile si usava come moneta di scambio, i ragazzini di Bombay ne elemosinavano e durante la Guerra Fredda al di là della Cortina di Ferro la penna a sfera era considerata come un dono prezioso e passepartout per avventure erotiche al pari delle calze di nylon.
Fu un prodotto industriale che diventò uno di quei beni di consumo che si radicò nella storia dell’umanità recente, contribuendo e modificando gli usi e costumi del mondo, al pari della Coca Cola o dei jeans.
Era la rivoluzione dell’usa e getta, del consumo perpetuo.
Dalle penne a sfera la multinazionale Bic, sempre saldamente governata dal padre-barone, si allargò ad altre genialità: l’accendino usa e getta, che sconvolgeva l’idea dell’accendino classico, costoso al pari d’un orologio, e i rasoi di plastica, comodi, pratici e reperibili ovunque (un duro colpo per le sedie dei barbieri).
Era la nuova way of life che avanzava imperante.
Era l’era della plastica che dettava le nuove regole industriali, commerciali e sociali.
Marcel Bich morì nel 1994 a Parigi all’età di 79 anni. Lasciò un impero titanico, con filiali ovunque sul pianeta. Ebbe sempre orrore di finanzieri, tecnocrati e giornalisti.
Quando qualcuno tentava di strappargli un intervista, la sua fedele segretaria giapponese lo freddava con: “Il barone lavora, non ha tempo da perdere”.
Non fece mai ricorso a finanziamenti esterni per gli investimenti che la sua gigantesca società richiedevano di anno in anno, ma ricorse sempre a risorse aziendali, interne. Di temperamento riservato e schivo, dedicò le rimanenti energie alla vela agonistica, sua grande passione nonché croce e delizia, perché con la sua barca “France” non riuscì mai a vincere la Coppa America, pallino su cui si era impuntato.
L’impronta che Marcel Bich, torinese naturalizzato francese, ha lasciato nella storia della grande industria recente è indelebile. Non si tratta solo di leggere su un industriale fortunato e abile commerciante, si tratta di capire qualcosa di più profondo, che ha influenzato masse e comportamenti.
A tal fine basterebbe porsi le domande: Ma quanti miliardi di sigarette sono state accese con gli accendini di plastica colorata? Ma quante guance sono state rasate dalle lame Bic? Ma quanti milioni di chilometri di inchiostro sono stati sputati dalle biro?
Mentre scrivo queste righe, muovo la sguardo sul caos della mia scrivania e conto tre penne sue e due accendini con il suo marchio.
La sua rivoluzione di plastica è ancora ovunque.