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Coinvolgere una parte ostile… conviene

Coinvolgere una parte ostile… conviene

È abbastanza comune per chi opera nell’area della leadership e dei conflitti trovarsi a dare consulenza a imprese che han bisogno di avviare un dialogo costruttivo con stakeholders ostili per risolvere relazioni tese, opposizioni e situazioni di blocco o conflitto aperto. Tipicamente si tratta di rapporti con le comunità attorno a una sede produttiva, con associazioni ambientaliste o di consumatori.
È segno di un’impresa lungimirante e saggia approcciare i conflitti in modo aperto e trasformativo (molto diverso dalla “gestione”, che presuppone l’inevitabilità della loro continuazione). Ci vuole coraggio e un’ottima leadership. Tuttavia bisogna ammettere che, a causa della diffusione di approcci comunicativi legati alla sostenibilità e alla Responsabilità Sociale d’Impresa, sono sempre di più le organizzazioni che prendono la via del dialogo con i propri portatori d’interesse, i cosiddetti stakeholders, con un approccio proattivo anche in caso di situazioni conflittuali o comunque di relazioni tese.
Ma recentemente mi è capitato qualcosa di veramente molto diverso: direi una forma di “iper-prevenzione”, molto, molto intelligente. Un collega americano – un airport manager – mi ha chiesto una consulenza su come consigliare la popolazione residente nell’area circostante un aeroporto al fine di coinvolgere le autorità aeroportuali in un dialogo costruttivo quando vi siano problemi (rumore, traffico, inquinamento; paura di questi…) che eccitano gli animi e creano conflitti. Una situazione, lo riconosciamo tutti, tutt’altro che improbabile. Il collega stava cercando di sviluppare un modello da proporre ai propri colleghi al fine di evitare le frequenti situazione di “muro contro muro” che si verificano intorno a installazioni fortemente impattanti sul territorio.
Confesso che, dopo un momento di difficoltà iniziale per adattare i miei processi di pensiero al contesto, mi sono divertito a pensare “alla rovescia” e sviluppare una lista di azioni ispirate dal Metodo CASE© e dalla mia esperienza nel campo della trasformazione dei conflitti. Ho trovato geniale l’idea di passare da un semplice approccio proattivo nell’avviare il dialogo con la controparte, restando sempre nei propri panni, a quello di sostegno alla controparte stessa per aiutarla a partecipare al dialogo in modo costruttivo ed efficace, in vista dello sviluppo di soluzioni mutualmente sodisfacenti. L’idea del collega americano era veramente visionaria, ma basata su solido buonsenso: quante volte ci sarà capitato di tentare di raggiungere un risultato importante in un dialogo e trovarci frustrati perché l’interlocutore non riusciva ad afferrare le nostre proposte, oppure comprendere la nostra visione? Oppure: quanto è frustrante trovarsi con un fronte di interlocutori spezzettato, contraddittorio e conflittuale al suo interno? A me è capitato spesso. L’idea di educare i propri interlocutori a divenire negoziatori più affidabili e ragionevoli è davvero rivoluzionaria e può portare a risultati eccezionali se portata con coraggio e leadership fino in fondo.
La lista che segue è stata rivista e collaudata con l’autorità aeroportuale che aveva commissionato la consulenza e possiamo dire che la sua efficacia è stata testata: mi fa perciò molto piacere poter ora condividere questo progetto con i lettori di Leadership&Management Magazine. Prima di passare ai consigli pratici, mi preme ricordare che le indicazioni sono rivolte a cittadini, associazioni o simili che siano stakeholder di un soggetto il quale (almeno apparentemente) svolge un’attività che impatta negativamente sulle loro vite. Quindi, se sei un manager o un imprenditore, tieni presente che la lista “parla” al comitato di zona che esprime preoccupazione per le emissioni della tua fabbrica, oppure all’associazione ambientalista che si oppone all’ampliamento del tuo stabilimento. Dovrai trovare il modo di passare queste informazioni ai tuoi interlocutori. I colleghi americani, in qualche caso, hanno offerto una formazione ai comitati. In altri è circolato un piccolo manualetto; si sa che gli statunitensi hanno la mania degli “handbook”.
Lo fai nel tuo interesse, anche se potrebbe a prima vista sembrarti che stai favorendo l’organizzazione e l’efficacia del tuo “nemico”. Nell’approccio alla trasformazione del conflitto partiamo dall’idea che non esistono “nemici” ma solo parti che hanno per il momento una percezione divergente degli obiettivi. E l’obiettivo del processo è di riallineare gli obiettivi verso prospettive mutualmente soddisfacenti.
Perciò, quello che ci si attende se darai una mano ai tuoi oppositori suggerendo loro questi passi di trasformazione, è che divenga molto più facile il dialogo con loro e l’individuazione di piani e progetti che possano soddisfare i bisogni sia della tua organizzazione sia dei suoi stakeholders. Ecco dunque cosa consigliamo di suggerire:

  • individuare tutte le voci simili alla loro nel contesto (altri gruppo, associazioni…);
  • se possibile, mettersi insieme e coordinarsi: la dispersione di energia genera il fallimento, quantomeno perché la controparte non può ascoltare un numero infinito di voci (resisti alla tentazione del “divide et impera”: dal tuo punto di vista è un’illusione. Moltiplichi solo le rotture di scatole e allunghi i tempi all’infinito);
  • trasformare i loro conflitti interni per individuare un portavoce (o più) equilibrato e autorevole. Gestire continuamente le relazioni interne e le ondate emotive (già questo non è facile… ma possibile);
  • raccogliere più informazioni possibili: informazioni dirette – non pettegolezzi – le più accurate che sia possibile. Ignorare quelle evidentemente orientate e quelle intenzionalmente distorte. La verità è sempre più forte;
  • distinguere i fatti dalle emozioni: i fatti sono necessari per sviluppare azioni efficaci; le emozioni sono motivanti, ma spesso portano fuori strada quando non sono individuate come tali;
  • scoprire cosa muove le emozioni: qual è il pericolo percepito a causa della controparte? È reale? Cercare di stabilirlo con obiettività;
  • quali sono i bisogni essenziali VERI che si sta cercando di soddisfare (fatti, non emozioni)?;
  • considerare anche i “pro” di avere la controparte nell’area: non sono lì solo per arrecare danno. Se sono veramente dei delinquenti, normalmente ci sono leggi da applicare (e la campagna può diventare dura, ma le istituzioni possono essere alleate). Ma nel 99% dei casi non lo sono, perciò non considereremo quell’1 per cento;
  • stabilire obiettivi ragionevoli, definire i punti negoziabili e quelli no con buonsenso, essere flessibili per quanto possibile;
  • considerare la controparte un interlocutore legittimo e un partner nel trovare soluzioni. Rispettarla (anche l’1 per cento, per il caso che ci si sia sbagliati sul loro conto…);
  • MAI lavorare CONTROSEMPRE impegnarsi PER qualcosa di diverso (una situazione, un accordo, un’operazione…) che migliorerà la situazione per tutti, e scoprire come;
  • scoprire chi è il vero interlocutore, dotato di potere decisionale(uno o più, in una o più occasioni) per vere discussioni costruttive e per la ricerca di soluzioni Win/Win;
  • sedersi al tavolo con una vera volontà di conoscere, comprendere e trovare soluzioni Win/Win;
  • essere aperti ai suggerimenti, condividere i propri dati apertamente, considerare quelli della controparte attentamente e onestamente;
  • essere cooperativi nel lavoro per raggiungere gli obiettivi (secondo gli accordi), in buona fede e flessibili per adattarsi a circostanze mutevoli.

Come puoi vedere, non considero la possibilità di un fallimento! Come cantò John Lennon, “Puoi dire che sono un sognatore”… ma, in verità, ho molta comprovata fiducia nell’approccio alle negoziazioni onesto, rispettoso ed equilibrato. Se ti trovi in una situazione di conflittualità, latente o attuale, con uno o più stakeholders apparentemente ostili hai solo da guadagnare a farne degli interlocutori lucidi, onesti e capaci.
Provare per credere.




Carlsberg ha creato la prima bottiglia di birra al mondo fatta di carta riciclabile e sostenibile

Carlsberg ha creato la prima bottiglia di birra al mondo fatta di carta riciclabile e sostenibile

Carlsberg ha presentato la prima bottiglia di birra al mondo fatta di carta. Realizzata  con fibre di legno riciclabili e sostenibili, si tratta di una vera svolta green per il noto marchio di birra danese.
Carlsberg sta lavorando con successo alla realizzazione di una bottiglia prodotta a partire da fibre di legno provenienti da fonti sostenibili, la Green Fiber Bottle, già dal 2015 insieme agli esperti di innovazione EcoXpac, alla società di packaging Billerud Korsnäs e ai ricercatori della Technical University of Denmark, supportati da Innovation Fund Denmark.
Dopo anni di lavoro, il birrificio danese ha ufficialmente presentato due prototipi di bottiglia in carta. Entrambi sono realizzati con fibre di legno provenienti da fonti sostenibili e completamente riciclabili e sono dotati di una barriera interna per consentire alle bottiglie di contenere la birra senza degradarsi.
Il primo prototipo utilizza una sottile barriera di polimeri di PET riciclato e il secondo, invece, una barriera in PEF, polimero a base biologica. Entrambe le bottiglie verranno utilizzate per testare il migliore rivestimento e arrivare all’obiettivo di una bottiglia a base biologica al 100% e senza polimeri.
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La nuova bottiglia fa parte dell’iniziativa “Together Towards Zero” di Carlsberg, che impegna l’azienda a raggiungere zero emissioni di carbonio per i suoi birrifici e una riduzione del 30% della sua impronta di carbonio totale entro il 2030.
Myriam Shingleton, vicepresidente per lo Sviluppo del Gruppo Carlsberg, ha dichiarato che le nuove bottiglie in carta sono più sostenibili rispetto a quelle in vetro e ai contenitori in alluminio:

“L’impatto sulla produzione è molto basso, perché l’energia e l’efficienza della tecnologia che stiamo utilizzando riducono le emissioni di carbonio rispetto ad altri processi produttivi”

L’azienda, che sfoggia tra l’altro un marchio di colore verde, ha già dimostrato di voler diventare sempre più green anche con altre iniziative. Già dall’anno scorso, ad esempio, non utilizza più gli anelli di plastica per tenere insieme le lattine di birra. Questo strumento, apparentemente innocuo, è in realtà molto inquinante e particolarmente pericoloso per gli animali marini che spesso vi rimangono impigliati.




Valutazione d'impatto sociale, dopo il decreto ecco cosa sapere e cosa fare

Valutazione d’impatto sociale, dopo il decreto ecco cosa sapere e cosa fare

La pubblicazione del decreto segue quello sul bilancio sociale degli enti di terzo settore con cui si relaziona esplicitamente presentando la valutazione di impatto come elemento del bilancio sociale con cui condivide principi di redazione. Ecco una guida alla lettura

Non c’è dubbio che ”la valutazione dell’impatto sociale” sia uno degli elementi introdotti dalla Riforma del Terzo settore che, presentando maggiore innovatività, ha catturato da subito l’attenzione di studiosi e addetti ai lavori. Il legislatore della legge 6 giugno 2016, n. 106 recante “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale” (legge delega) ha richiamato più volte l’impatto sociale, arrivando a relazionare l’affidamento agli enti dei servizi d’interesse generale nella fase di programmazione a livello territoriale “al rispetto di standard di qualità e impatto sociale del servizio” e a creare un potenziale collegamento – sviluppato poi solo indirettamente – tra impatto sociale e benefici fiscali.
Sicuramente hanno influenzato la scelta operata gli esempi derivanti da altri contesti internazionali, in particolare l’esempio della prassi britannica che ha eletto il “social impact measurement” come criterio di valutazione principale per l’operato delle charities e il “social return on investment” come metodo di valutazione di riferimento per esprimere un giudizio sui progetti in essere.
In questo contesto si colloca il decreto del Ministero del lavoro del lavoro e delle politiche sociali del 23 luglio 2019 “Linee guida per la realizzazione di sistemi di valutazione dell’impatto sociale delle attività svolte dagli enti del Terzo settore”, volto a dare attuazione alla richiesta “esplicita” da parte del legislatore delegante di disciplina della materia. La pubblicazione del decreto segue quello sul bilancio sociale degli enti di terzo settore con cui si relaziona esplicitamente presentando la valutazione di impatto come elemento del bilancio sociale con cui condivide principi di redazione.
Ciò detto, cos’è l’impatto sociale? Ce lo dice ancora una volta la norma delegante per la quale “per valutazione dell’impatto sociale si intende la valutazione qualitativa e quantitativa, sul breve, medio e lungo periodo, degli effetti delle attività svolte sulla comunità di riferimento rispetto all’obiettivo individuato”. Ad una prima lettura il proposito appare di difficile realizzazione, dato che le attività di interesse generale impattano sulla comunità di riferimento assieme a tanti altri fattori e prevederne gli effetti “di medio e lungo periodo” appare improbo per il più accorto dei valutatori.
Il proposito diviene più realistico se si considerano correttamente le linee guida come “standard di processo”, che delineano un percorso dichiarando come dice la norma il proprio “valore promozionale ponendosi quale strumento di facilitazione della concreta realizzazione della valutazione di impatto sociale (VIS)”. Tale processo deve essere regolato da alcuni principi quali intenzionalità, rilevanza, affidabilità, misurabilità, comparabilità, trasparenza e comunicazione), principi in gran parte comuni al processo di costruzione del bilancio sociale.
La scelta di standard di processo non definisce invece, specifici indicatori e misurazioni, compito proprio di uno standard di contenuto. La scelta sembra l’unica operativamente percorribile in quanto gli ambiti di intervento delle attività di interesse generale oggetto di misurazione sono estremamente eterogenei e qualsiasi formula “rigida” ed omnicomprensiva di valutazione dell’impatto sociale sarebbe stata comunque approssimativa ed insufficiente.
Basti pensare alla diversità delle situazioni che concernono gli interessi generali dell’art. 5 del Codice del Terzo settore che vanno dalle prestazioni socio-sanitarie alla tutela dell’ambiente, dall’adozione internazionale al commercio equo e solidale. Non sembra possibile, quindi, trovare una formula valutativa generale, considerato che anche la stessa attività nel medesimo contesto di riferimento può essere svolta con obiettivi, modalità e risultati diversi che richiedono indicatori estremamente differenti. Infatti il Decreto richiede agli enti di “prevedere all’interno del sistema di valutazione una raccolta di dati sia quantitativi che qualitativi, considerando indici ed indicatori, sia monetari che non monetari, coerenti ed appropriati ai propri settori di attività di interesse generale” esplicitando le dimensioni di valore che le attività perseguono.
Le linee guida richiedono così l’esplicitazione del processo di definizione delle finalità, dei risultati e degli effetti che le organizzazioni si propongono di raggiungere a partire dalla partecipazione al processo dei soggetti e/o delle istituzioni individuate come interlocutori o destinatari dell’attività.
Il documento fornisce altresì indicazioni per “organizzare” il proprio percorso valutativo, e definire:

  • dati oggettivi e verificabili;
  • la verifica dello scostamento tra risultati raggiunti e obiettivi programmati;
  • l’utilizzo delle informazioni raccolte a fini di comunicazione esterna agli stakeholders;
  • l’utilizzo di misure di sintesi per rappresentare l’impatto sociale.

Tutti i punti sopra elencati richiederebbero osservazioni più approfondite la cui trattazione ci porterebbe lontano nella discussione. Si deve, però, almeno soffermare l’attenzione sul fatto che il processo di valutazione dell’impatto sociale dovrebbe rappresentare per l’ente non solo un mezzo di comunicazione esterna, ma primariamente uno strumento di controllo strategico delle attività mostrando talvolta agli stessi dirigenti le dimensioni di valore perseguito ed il modo per misurarle.
D’altronde se le società lucrative controllano la gestione per capire se i propri target “monetari” e “non monetari” sono in linea con quanto programmato, gli enti del Terzo settore una volta definite le dimensioni esplicative non debbano monitorare la produzione di valore sociale attraverso indicatori liberamente predefiniti.
In merito all’applicazione della norma, come spesso accade in questa Riforma il legislatore non “obbliga” gli enti a comportamenti “virtuosi” collegando tali comportamenti a potenziali benefici. In questa prospettiva, le linee guida prevedono che le pubbliche amministrazioni “possano” richiedere la realizzazione di sistemi di misurazione del social impact per la “valutazione dei risultati in termini di qualità e di efficacia delle prestazioni e delle attività svolte”, anche in via differita, per interventi di almeno 18 mesi e di entità economica superiore ad 1milione di euro. Si introduce così una programmazione e individuazione preventiva di parametri di risultato ed impatto che per essere efficace dovrebbe inserirsi nei meccanismi di assegnazione e remunerazione delle attività svolte.
L’indicazione conferma una percezione avuta dalla lettura del testo, ossia che l’impatto sociale sia considerato un tema soprattutto per “grandi”, visto anche la possibilità di includere la misurazione nel bilancio sociale (obbligatorio per gli enti del Terzo settore che presentano proventi annui superiori a 1milione di euro). Con questo non si vuol dire che gli enti non grandi non abbiano un impatto sulla comunità di riferimento. Si vuole, in realtà, significare che la costruzione di modelli per la misurazione dell’impatto, pensando ai casi internazionali e nostrani di riferimento, non è cosa sempre intuitiva e spesso onerosa in termini organizzativi. Una soluzione per gli enti di minori dimensioni la suggerisce il decreto affermando che i Centri di servizio per il volontariato e le reti associative nazionali possono fornire supporto per l’identificazione e la realizzazione di strumenti di misurazione. L’indicazione appare, in verità, naturale perché un movimento (si pensi alle grandi reti) assume una credibilità maggiore quando riesce a misurare il suo impatto in via complessiva, e per dare un senso all’aggregazione dei dati (e non sommare pere con mele) è opportuno disporre di dati omogenei: inoltre modelli omogenei di misurazione diffondono una cultura organizzativa unitaria. In tal modo anche i piccoli enti potranno strutturare e sperimentare modelli valutativi più semplici, che sicuramente la prassi professionale, tecnica e delle organizzazioni non mancherà di identificare.
Non si può, infine, non apprezzare l’elasticità offerta nell’adozione del modello della valutazione di impatto sociale. Se, infatti, gli schemi di bilancio necessitano della comparabilità tra enti e quindi schemi standardizzati, l’impatto sociale sembra dover essere maggiormente cucito su misura dello specifico ente con una sua applicazione uniforme nel corso del tempo per esplicitare il suo valore. Valore che non è rivolto solo alla comunicazione esterna, ma che può rappresentare un momento di riflessione “istituzionale e strategica” utilissimo per gli stessi dirigenti e interlocutori dell’organizzazione sulla missione dell’ente, gli impatti ricercati sulla comunità di riferimento e le modalità per valutarli. Non resta, quindi, di poter vedere come saranno recepite le indicazioni ministeriali, sperando che la misurazione non resti una dichiarazione di intenti ma una fonte di informazioni nuova per tutti i soggetti interni ed esterni, coinvolti, a diverso titolo, nel Terzo settore.
*Claudio Travaglini, Università di Bologna
*Matteo Pozzoli, Università degli Studi di Napoli “Parthenope”




BREXIT, OVVERO COMUNICAZIONE POLITICA E MANIPOLAZIONE DEL CONSENSO: CHI PAGA IL CONTO?

COMUNICAZIONE POLITICA E MANIPOLAZIONE DEL CONSENSO: CHI PAGA IL CONTO?

18 dicembre, Claudio Vigolo intervista il Prof. Luca Poma, autore dell’articolo “COMUNICAZIONE POLITICA E MANIPOLAZIONE DEL CONSENSO: CHI PAGA IL CONTO?”  sulle manipolazioni occulte del dibattito pubblico in occasione della campagna “Leave” in UK (2016).
Ecco l’audio del “Blocco” (5 min. circa):




Scrivere per lo smartphone: una nuova linearità

Seguo da anni Mario García, uno dei più famosi newspaper designer a livello mondiale, che tra l’altro impersona al meglio il sogno americano: arrivato ragazzetto profugo cubano in Florida, senza sapere una parola di inglese, è diventato giornalista e poi visual designer, fino a progettare quotidiani su tutte le piattaforme e a insegnarlo alla scuola di giornalismo della Columbia University.
Ha vissuto tutta intera la trasformazione dei giornali, dalla composizione tipografica al digitale: ha portato il colore sulle pagine di serissimi quotidiani come il Wall Street Journal e il tedesco Die Zeit; ne ha ridotto il formato senza farli assomigliare a giornaletti scandalistici, anzi; ha dato al Washington Post la veste attuale; ha realizzato le edizioni digitali di tanti giornali in tutto il mondo.

“Visual journalism: a way to encourage reading, a way to bring visual excitement to the pages of newspapers that had traditionally being long masses of grey text.”

E infatti il primo volume della sua nuova trilogia The Story, si intitola Transformation. Il secondo, decisamente più interessante e attuale, Storytelling (l’edizione per Kindle costa solo 5 euro). In attesa del terzo dedicato al design, ho letto entrambi, non paga di leggermi da anni i suoi post.
Seguo così assiduamente un designer di quotidiani soprattutto perché:

  • i grandi quotidiani come quelli che chiamano come consulente Mario García hanno le risorse per sperimentare tanto e fare le cose in grande: le loro soluzioni sono di ispirazione per chiunque scriva online, qualsiasi cosa
  • l’industria dei quotidiani lotta da anni per trovare il modo per farsi leggere, coltivare e aumentare i loro abbonati: se trovano il modo di concentrare testi lunghi e complessi sulle superfici più piccole, possiamo rubare idee anche per siti e blog
  • il nostro designer cubano-statunitense è generoso e ciarliero, ci racconta e ci fa vedere un sacco di cose interessanti.

The Story, impaginato come le schermate di uno smartphone, ma con font classiche e persino vintage (Bembo per il testo, Deutsche Gothic per i titoli), è un inno alla storia, anzi alle buone storie, che sono alla base di qualsiasi pezzo giornalistico, su qualsiasi medium. Quello che rende i libri così interessanti sono le soluzioni che Garcia ha individuato per rendere gli articoli, soprattutto i più lunghi, leggibilissimi sui pochi centimetri quadrati dei nostri telefoni.

“If we have a good story the rest is easy.”

Oggi le storie possono avere le “gambe corte”: una breaking news breve e veloce sul sito, poche righe sui social, ma immediati, e finisce lì. O possono avere le “gambe lunghe” e prestarsi ad approfondimenti e dossier da pubblicare anche a una certa distanza di tempo, come quelli ricchissimi del New York Times o del Washington Post. In entrambi i casi però, i testi devono considerare il nuovo “giornalismo delle interruzioni”, consumato ovunque, tutto il tempo da circa l’80% della popolazione mondiale che li legge sul telefono. Legge, sì, legge, perché nonostante tutto ci stiamo abituando a leggere sul minischermo anche testi lunghissimi.

“The smartphone, the smallest platform, but the one your audience keeps as a constant companion.”

Il 98% delle persone tiene lo schermo verticale: scrolling surclassa swiping. Per questo García propone per i testi una “nuova linearità”, che asseconda la velocità con la quale il nostro pollice fa avanzare i contenuti sullo schermo. Una linearità fatta di un ritmico alternarsi di brevi paragrafi di testo, immagini, didascalie, video, grafici, citazioni, caption, sottotitoli. Se ben orchestrati, ci permettono di reggere/leggere con agio e leggerezza testi di parecchie decine di migliaia di caratteri. I grandi quotidiani gli hanno dato retta e i dati sulla lettura danno loro ragione.

Sulla stampa spaziamo con gli occhi, cogliendo il contesto del “paesaggio” testuale; sullo smartphone siamo concentrati sullo scrolling e il ritmo si gioca tutto in quel nastro stretto di parole e immagini.

Quali storie sono le più adatte allo srotolamento e come devono essere progettate per catturare e tenere incollato il lettore?
1. Devono avere un forte potenziale visivo, da esprimere attraverso foto, video, grafici, citazioni, screenshot. Come la famosissima storia del crollo del Ponte Morandi del New York Times (anche in italiano):

Quanti elementi visuali? Tra i 5 e i 6. I video non devono superare i 30 secondi.
E si possono mescolare foto e video? Sì, ma il meno possibile.
Attenzione: se si inserisce uno screenshot da un social, per esempio un tweet, questo non deve ripetere cose già dette nel testo. Anzi, bando a tutte le ripetizioni: ogni elemento deve essere unico e far progredire la storia.
2. Titoli e sottotitoli sono fondamentali per spingere chi legge sempre avanti: tra evocazione e descrizione, ma mai criptici. Per riuscirci, ci può aiutare il sottotitolo:

3. Il testo deve essere semplice: paragrafi brevi, ognuno un focus; periodi brevi, perché la colonna di testo stretta li fa sembrare ancora più lunghi. La ricchezza del contenuto e dello stile è affidata al lessico e all’integrazione tra testo e visual.

“In the mobile world, it is not just that less is best, less is the only way.”

4. L’incipit è decisivo: meglio piombare nella storia “in medias res”, per inchiodare chi legge a scoprire come si è arrivati fin lì o cosa sta per succedere, come nel lungo reportage del New York Times dedicato alla caduta di Aleppo in Siria:

5. Le didascalie sono fondamentali: raccordano testo e immagini, costituiscono un punto di ingresso in più, veicolano messaggi importanti. “I’m only going for the things that I’m passionate about” dice questa intima Nicole Kidman in bianco e nero in didascalia. Continuiamo a leggere per sapere quali sono queste cose che tanto la appassionano.

6. La fine del paragrafo annuncia o si riferisce all’immagine che viene dopo:

7. I vuoti sono spazi espressivi:

Insomma, la vera interazione è sempre più quella tra il nostro pollice e lo schermo che si srotola. Vi ricordate The Snow Fall? Il grandioso web-documentario del New York Times che nel 2012 fece incetta di premi e vinse anche un Pulitzer? Era ben scritto, ma pieno di link ed effetti speciali: nonostante i premi e l’indubbia qualità, ben pochi lo lessero per intero.
Invece ora un’altra storia vera di un salvataggio dopo una valanga, costruita con la linearità raccomandata da Mario García, ci tiene incollati allo smartphone. Io per leggerla ci ho messo una mezz’oretta, sempre col fiato sospeso, ma sono arrivata in fondo senza accorgermene: è Five Feet Under, pubblicata dal quotidiano norvegese Bergens Tidende (in inglese):

PS In The Story, Storytelling, ci sono anche due ottimi capitoli dedicati alle notifiche push (al NYT ci lavorano ben 11 persone) e alle newsletter.
PPSS Sono abbonata al NYT da qualche mese: mi è stato utilissimo per un lavoro che ho fatto quest’anno ma continuo a leggerlo con profitto e piacere tanti sono gli spunti e le soluzioni che ne traggo.