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Amazon trasforma il lavoro in un videogame

Amazon trasforma il lavoro in un videogame

Un videogioco per aumentare la produttività. Amazon, secondo quanto riportato dal Washington Post, avrebbe installato in alcuni magazzini americano degli schermi sopra le postazioni dei dipendenti da cui è possibile vedere l’avanzamento del lavoro.

Come in un videogioco

Mentre gli addetti impacchettano oggetti o smistano pacchi sui rulli trasportatori, le loro azioni vengono tradotte sugli schermi in mattoncini che si accumulano per costruire un castello, in macchine che gareggiano all’interno di un circuito e così via. Vincere o perdere dipende dalla velocità con cui i magazzinieri portano a termine il loro lavoro e dalla quantità di prodotti che riescono a smistare nel minor tempo possibile.

I premi

Per il colosso dell’ecommerce lo sviluppo di questi videogame mira a rendere meno ripetitivo il lavoro dei magazzinieri, che vedono così trasformati i loro gesti nelle performance di gioco. Per chi vince le sfide digitali, sono previsti dei premi che possono essere riscossi in bottigliette d’acqua, magliette e altro merchandising Amazon.

Non solo Amazon

Anche in altre società come Uber o Lyft, oppure nelle aziende della cosiddetta gig economy che si occupano di food delivery, il fenomeno della gamification prende sempre più piede, mettendo i dipendenti in una sorta di competizione continua, sottoponendosi a livelli di stress molto alti. Amazon ha anche stretto accordi con il carcere Vallette di Torino e con quello di Rebibbia a Roma, al fine di impiegare i detenuti come dipendenti e magazzinieri in un percorso di reinserimento.




Sette terribili strategie SEO da abbandonare per sempre

Google ed internet si evolvono giorno dopo giorno, ma le cattive tattiche SEO, per non dire le strategie di ottimizzazione ormai obsolete, proliferano come se fossero ancora vincenti.
Ma la cosa peggiore di tutto ciò è che queste tecniche continuano inesorabili a fare danni e a decimare le pagine web, le classifiche di ricerca, il traffico e le conversioni perché gli stessi proprietari di siti web non sanno che ormai non funzionano più da anni.

Sette strategie SEO da abbandonare per sempre

Danny Goodwin insieme a Julia McCoy, CEO di Express Writers, durante un seminario di approfondimento sulla SEO hanno discusso delle più comuni tecniche SEO “cattive” che stanno ancora imperando in tutto il web. Durante l’incontro sono emersi molti punti focali, dei quali riportiamo i punti più salienti.
Ma prima di passare all’elenco è sempre bene ricordare il fulcro di tutto il ragionamento che andremo a  fare: Google è Pro-Utente, e quindi è da irresponsabili non preoccuparsi di come esso recepisca il singolo sito web ed omettere da qualsiasi strategia di visibilità le pratiche Google-friendly.
Spesso si vedono on-line bellissimi siti (graficamente parlando) che sono completamenti sbagliati se si analizzano con gli occhi di Google. Online esistono tantissimi tool che fanno SEO audit (alcuni anche gratuiti) ed il loro utilizzo è sempre consigliato per capire gli errori commessi fino ad oggi.

Sette cattive tattiche SEO che Google odia davvero

Usare la parola chiave in modo obsoleto e forzato.

Anni fa era comune vedere contenuti multipli, all’interno dello stesso sito web, che puntavano alla stessa parola chiave.

Leggendo lo schema sopra si capisce subito come la keyword “come fare il latte” possa generare più risultati diversi tra loro. Oggi, se dovessimo separare le parole chiave correlate come questa in più contenuti ignoreremmo l’importanza della ricerca semantica che guarda all’intero argomento di una pagina piuttosto che alle ripetute istanze di parole chiave per determinare la rilevanza per l’utente.
Creare troppo contenuto intorno a parole chiave simili può anche cannibalizzare il posizionamento delle parole chiave e penalizzare anche un intero sito web.
Per ovviare a tutto ciò la soluzione è semplice, perché basta incorporare naturalmente i sinonimi della parola chiave all’interno del contenuto completo.

Sviluppare solo contenuti brevi, sottili e non esaustivi.

Anche se il contenuto breve trova all’interno di un progetto online la sua giusta connotazione, certamente se lo si vuole adottare in ottica SEO la scelta risulterà sbagliata.
Molti studi hanno confermato che il contenuto più condiviso e quello che si classifica meglio nei risultati dei motori di ricerca è quello in forma lunga (1.900-3.000 parole).
BuzzSumo ha analizzato più di 100 milioni di articoli. I messaggi più condivisi erano in forma lunga.
Backlinko ha studiato 1 milione di blog, e ha trovato 1.900-2.000 word post nella parte alta della SERP di Google.

Pubblicare contenuti in modo random invece che in modo coerente

Pubblicando contenuti in modo coerente alimenterà la “sete” di Google, che vedendo contenuto sempre nuovo ed aggiornato premierà il progetto web nel suo complesso.
HubSpot ha esaminato i dati sulla frequenza di blogging di oltre 13.500 marketer e agenzie. Coloro che hanno scritto più di 16 volte al mese hanno guadagnato più traffico e più contatti.
Impostare un programma di blogging, pubblicare in modo coerente e regolare aiuterà a costruire una folta libreria di contenuti. L’importante è evitare di scrivere per fare quantità, assicurandoci di non perdere mai la qualità nel processo.

Dare priorità alla quantità prima della qualità

Il contenuto è il re di qualsiasi sito web, ed è per questo motivo che Google ha a cuore la qualità dei contenuti. Contenuti scritti male, contenuti senza valore non contribuiscono alla scalata delle classifiche di alto livello.
Secondo le Google Quality Rater Guidelines, Google dice che le pagine con la massima qualità:

  • Raggiungono uno scopo prefissato.
  • Dimostrare un alto livello di E-A-T (competenza, autorevolezza e affidabilità).

Ecco perché è fondamentale concentrarsi sulla creazione di contenuti migliori, andando, ad esempio, a scriverne di migliori rispetto ai risultati già esistenti tra i primi cinque nella prima pagina di Google.

Pubblicare contenuti duplicati

Secondo uno studio di SEMrush su oltre 100.000 siti web, uno degli errori SEO più comuni è la duplicazione dei contenuti.
Ecco allora l’importanza di utilizzare dei programmi online che controllino l’autenticità del contenuto duplicato e che segnalino le pagine simili.
Lo scopo di questa operazione è quella di riscrivere tutte le pagine che hanno un’alta percentuale di corrispondenza, con l’obiettivo finale di ottenere una corrispondenza dello 0%.

Acquistare link

L’acquisto di link è espressamente vietato e penalizzato da Google. Oggi è una tecnica non solo obsoleta ma altamente penalizzante. Nel forum per i webmaster di Google, Google dice che l’acquisto o la vendita di link può essere considerato parte di uno schema di link e una violazione delle linee guida per i webmaster di Google.
Questo perché Google considera ogni link ad un sito web essenzialmente come un “voto di fiducia” e se si acquistano (e Google lo scopre) si perde la sua fiducia.
L’acquisizione deve essere invece naturale e perché avvenga nel miglior modo possibile bisogna diventare una risorsa conosciuta che le persone amano, di cui si fidano e a cui si collegano. Questo richiede tempo e impegno.
Un esempio è Express Writers che in otto anni non ha mai cercato un link. La qualità dei contenuti, l’originalità del pensiero e la rilevanza per il proprio pubblico sono sempre stati al primo posto.

Dimenticare le recensioni dei consumatori o ottenerne di false

Il settanta per cento dei consumatori oggi controlla l’azienda e le recensioni dei prodotti da essa venduti prima di effettuare un acquisto online.
Uno studio del Washington Post ha scoperto che il 61% delle recensioni di elettronica su Amazon sono false.
Per ovviare a tali pratiche poco redditizie e alla penalizzanti sul lungo termine sarebbe sempre bene chiedere ai clienti soddisfatti di lasciare una recensione non solo sul sito web ma anche sui social media o sulla piattaforma più utilizzata (BBB, Yelp, Amazon).

Lista di cose da non fare in una strategia SEO

Riepilogando quanto finora detto ecco le principali cose da non fare in una strategia SEO:

  1. Non creare troppi contenuti intorno a parole chiave simili ma incorporare naturalmente parole chiave sinonimi.
  2. Non creare contenuti brevi e sottili. Un contenuto completo guadagna più menzioni, condivisioni e classifiche.
  3. Non pubblicare contenuti in modo erratico ma seguire una pianificazione dei contenuti.
  4. Non anteporre la quantità alla qualità. Concentrarsi sulla creazione di contenuti migliori di quelli già presenti nella top 5 di Google.
  5. Non pubblicare contenuti duplicati e verificare l’originalità di quelli già pubblicati.
  6. Non comprare link ma creare contenuti che generino link spontanei.
  7. Non dimenticare le recensioni dei clienti, ma soprattutto non pubblicare recensioni false.

Domande e risposte più significative

Abbiamo estrapolato solo alcune delle domande dei partecipanti al webinar alle quali Julia McCoy ha risposto:
D: Quali strumenti SEO/contenuto utilizzi?
R: KWFinder di Mangools è il mio strumento di ricerca per parole chiave preferite. Lo uso almeno 3 volte a settimana! Il mio go-to secondario è SEMrush (specialmente amando il loro Keyword Magic Tool). Per la ricerca di contenuti e la scoperta di argomenti caldi amo BuzzSumo.
D: Quali sono i tuoi pensieri sui post del blog in forma lunga (5-8 mila parole)?
R: Unbounce ha costruito l’inizio di un impero da 7 milioni di dollari con una guida massiccia di 13.000 parole! Dipende dai tuoi obiettivi, da dove stai pubblicando e da chi. (Unbounce ha pubblicato la propria guida come guest post su Moz, che è stata una mossa molto intelligente, e l’argomento era rivolto solo ai lettori di Moz, che allora era composto da decine di migliaia di principianti che volevano capire la SEO).
Non sottovalutate il potere dei contenuti lunghi, si tratta di quale sia l’obiettivo, quanto sia mirato al pubblico e se l’argomento è davvero adatto per una “guida finale”.
L’attenzione è sempre più bassa, e non tutti hanno voglia di leggere una guida completa.
Spesso è utile convertirla in un PDF scaricabile, perfetto per fare list-building, o da utilizzare per i social media da pianificare su Twitter, LinkedIn, ecc, anche attraverso campagne e-mail, funnel, ecc.
D: Il webinar ha coperto principalmente i blog. Che ne dici dei prodotti? Molti prodotti sono simili tra loro, quindi il contenuto diventa “per forza” duplicato. Come si fa ad evitarlo?
R: Il contenuto unico, 100% originale e ben scritto (creativo, accattivante, dettagliato, dettagliato, accurato alle specifiche del prodotto) è la chiave per un prodotto di alto livello.




Carceri e riscatto

La notizia è di alcuni giorni fa: è nata la linea di birre Malnatt, il gusto del riscatto, un progetto che punta al reinserimento delle persone carcerate ed ex-carcerate nel mondo produttivo.

Si tratta di una serie di birre artigianali che prendono il nome dalla parola in dialetto milanese resa famosa dalla canzone ‘Ma mi’ di Strehler interpretata da Ornella Vanoni e poi da Enzo Jannacci, e che oggi ha perso il connotato negativo di un tempo.
Il progetto nasce dalla collaborazione tra i tre istituti penitenziari milanesi di Bollate, Opera e San Vittore e un gruppo di imprenditori ed esercenti del territorio milanese, con il supporto del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e del Comune di Milano. Le tre varianti si chiamano Malnatt San Vittore, Malnatt Bollate e Malnatt Opera: tutte le birre sono artigianali agricole non pastorizzate né filtrate, ad alta fermentazione e a bassa gradazione alcolica (meno di 6°).
Le birre Malnatt (www.birramalnatt.it) sono in fase di distribuzione presso il canale horeca e moderno di Milano e hinterland. Il progetto prevede anche il merchandising con boccali e magliette che portano il logo. Ci saranno serate ed eventi, tra cui la cena finale del corso di cucina a cui hanno partecipato alcuni detenuti e in cui verranno servite le Malnatt.
Si parlerà di “carcere e riscatto” anche al Salone della CSR nell’evento “Ristretti orizzonti” il 2 ottobre 2019 a Milano in Università Bocconi.
http://www.csreinnovazionesociale.it/evento/ristretti-orizzonti-esperienze-dal-carcere/

Cosa c’è di nuovo

Restituire dignità sociale, fornendo un’occasione di riscatto a chi si è trovato a scontare una pena detentiva è il presupposto di questa iniziativa che coniuga l’azienda agricola al birrificio artigianale.
I detenuti ed ex detenuti hanno la possibilità di seguire un percorso di formazione e lavoro, prendendo parte a tutte le fasi di lavorazione, dalla coltivazione delle materie prime, alla produzione di Birre Agricole a km 0, fino alla distribuzione.




Riflessioni personali su come sia vivere da immigrati nell’America di Trump

Di Helio Fred Garcia
Titolo originale: Personal reflectionon being an immigrant in Trump’s America

Sono un immigrato, un americano per scelta. Ho scelto di essere un americano perché di tutti i posti del mondo – e ho avuto la fortuna di aver visitato o lavorato in dozzine di paesi in sei continenti – questo è uno dei pochi posti in cui le circostanze della tua nascita non determinano il resto della tua vita. E dove l’aspirazione nazionale, ancora in corso d’opera, ci incoraggia a essere noi stessi migliori. Sono stato in grado di costruire una buona vita qui. Ho sposato una persona meravigliosa e insieme abbiamo cresciuto due giovani donne straordinarie. Mi sono laureato in due delle migliori università del paese e sono professore in entrambi. Ho lavorato con o per alcune delle migliori aziende del mondo. Passo come un americano e porto con me tutte le manifestazioni del privilegio bianco.
Ma non è stato sempre così.


Benvenuto in America – Ora vattene a casa o altrove!

Quando sono arrivato dal Sud America da bambino, ero diverso dagli altri bambini. Sono stato un bersaglio facile. Pelle e ossa. Con un nome imprecisabile, un forte accento straniero e una padronanza molto debole della lingua inglese.
Ero l’altro. Ero un bersaglio. Sono stato tormentato per anni da un branco di ragazzi che hanno visto in me l’opportunità di sentirsi superiore. Mi è stato costantemente detto di tornare da dove vengo. Ma ciò che è iniziato con insulti, insulti e insulti si è trasformato in violenza fisica e umiliazione sessuale. Sono stato picchiato. Sono stato trattenuto da ragazzi che a turno mi pisciavano addosso per poi scappare ridendo. Più di 50 anni dopo porto cicatrici intorno agli occhi, dove sono stato preso a calci con un pesante stivale. Ora che non ho più i capelli, si notano molte altre cicatrici, specialmente nella parte superiore e posteriore della mia testa, dove sono stato colpito con bastoni, pietre e in almeno un caso con un mattone. Ho anche cicatrici sulla mia anima.
Ma sono stato anche molto fortunato. Avevo un certo numero di insegnanti premurosi e dotati che mi hanno fatto il loro “progetto”, investendo tempo e amore non solo a scuola ma anche oltre l’aula. Grazie a loro sono diventato maggiorenne nella Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, come Paggio, osservando la Camera dibattere gli atti di impeachment contro il presidente Richard Nixon. Da allora ho incontrato presidenti e primi ministri, un re, diversi principi, un papa e centinaia di leader religiosi della maggior parte delle tradizioni di fede del mondo. Ho consigliato centinaia di amministratori delegati e funzionari pubblici. Ho visitato la Casa Bianca per lavoro tre volte, sotto tre presidenti.
Ma nel mio settimo decennio ho ancora la paura viscerale di trovarmi da solo con uomini con i quali non ho un rapporto di autorità. Evito eventi sportivi; non esco con gruppi di uomini. Ho solo una manciata di amici maschi. Il mio terapista mi conferma che quasi 50 anni dopo gli assalti soffro ancora di una forma di disturbo post traumatico da stress. Sono ancora il ragazzino rannicchiato terrorizzato dai bulli.
 

Semper Fi!

Mio padre ha lavorato per quasi 30 anni per l’esercito degli Stati Uniti, insegnando a graduati e soldati in addestramento. Lui e mia madre, che non sono mai diventati cittadini, sono sepolti nel cimitero di West Point. Mio padre mi ha sempre detto che non c’è onore più grande che insegnare alle persone che indossano l’uniforme delle forze armate degli Stati Uniti.
A 21 anni sono diventato cittadino americano. Ho prestato giuramento affermando che avrei protetto e difeso la costituzione e servito la nazione. L’ho fatto. Anche se io personalmente non ho mai indossato l’uniforme, per quasi 30 anni ho insegnato e consigliato alti ufficiali dell’esercito degli Stati Uniti – principalmente marines. Ho insegnato a dozzine di generali e migliaia di alti ufficiali e sottufficiali, nonché membri di alto livello di ciascuno degli altri servizi armati. Quasi tutti questi insegnamenti sono stati proposti su base pubblica pro bono. È la mia forma di servizio nazionale.
Gran parte della mia carriera è stata una forma di sovra-compensazione per essere inarticolato e impotente. Ho lavorato per alcune delle migliori società di consulenza di comunicazione. Per quasi 20 anni ho posseduto e gestito una società di consulenza e coaching per la gestione delle crisi e la comunicazione della leadership. Il nostro lavoro aiuta i leader a diventare leader migliori sfruttando il proprio potere con umiltà ed empatia, costruendo fiducia collegandosi in modo significativo con gli altri. Ho scritto quattro libri su come usare il potere della comunicazione al meglio.
Ma sono stato anche profondamente consapevole dell’uso della comunicazione per ferire, danneggiare e umiliare. E di come il linguaggio disumanizzante e demonizzante possa portare alcune persone a commettere atti di violenza.
 

Il tono dall’alto

Il Centro Simon-Skjodt per la prevenzione del genocidio del Museo dell’Olocausto definisce i “discorsi pericolosi” come discorsi di odio che, nelle giuste condizioni, possono influenzare le persone ad accettare, perdonare e commettere violenza contro i membri di un gruppo.
E stiamo vedendo quel tipo di discorso in questo momento storico. Il 14 luglio il presidente Trump ha twittato su quattro nuovi membri del Congresso, tutte donne di colore. Una di essi, On. Ilhan Omar, è rifugiata dalla Somalia, che è venuta in America da bambina, è diventata cittadina americana e ha scelto una carriera nel servizio pubblico. Gli altri sono tutti cittadini americani.
Tweet di Trump:

“È interessante vedere le donne democratiche e progressiste, che originariamente provenivano da paesi i cui governi sono una catastrofe completa e totale, la peggiore, la più corrotta e inetta in qualsiasi parte del mondo (anche se hanno un governo funzionante), ora ad alta voce e dire ferocemente al popolo degli Stati Uniti, la più grande e potente nazione sulla terra, come deve essere gestito il nostro governo. Perché non tornano indietro e aiutano a riparare i luoghi totalmente distrutti e infestati dal crimine da cui provengono? Dopo, tornino a mostrarci ciò che hanno ottenuto”

Naturalmente, tre dei quattro non provenivano da paesi diversi dagli Stati Uniti. Ma che lo abbiano fatto o meno, “tornare da dove vieni” è un’esperienza familiare di molti immigrati. È persino incorporato nella legge degli Stati Uniti, come primo esempio di razzismo. La Commissione per le pari opportunità nell’occupazione degli Stati Uniti, sul suo sito web sui diritti del lavoro degli immigrati, la elenca come un esempio esplicito del tipo di linguaggio che può violare le leggi federali sul lavoro:

“Esempi di condotta potenzialmente illegale includono insulti o epiteti etnici, come prendere in giro l’accento straniero di una persona o commenti come ‘Torna da dove vieni’, sia da parte di supervisori che da colleghi”.

La dichiarazione di Donald Trump su questi quattro membri della Camera dei Rappresentanti è semplicemente la più recente manifestazione di un fenomeno senza precedenti: l’uso del linguaggio da parte di un presidente degli Stati Uniti che ispira alcune persone a commettere violenza.
L’ex segretario del dipartimento della sicurezza nazionale Jeh Johnson, parlando del presidente Trump nel febbraio 2019, ha dichiarato: “Le persone ascoltano davvero i loro leader… La civiltà del nostro dialogo sta deviando verso il basso, in modo tale che gli individui … si sentono incoraggiati e, forse, hanno persino il diritto di prendere in mano la situazione e compiere atti di violenza”.
Tutte e quattro le donne congressuali segnalano aumenti significativi delle minacce di morte nei loro confronti. Ma vediamo anche la disinibizione che sottopone gli immigrati – e quelli percepiti come immigrati – a insulti, esclusione e violenza. Dieci giorni dopo i commenti di Trump’s Go Back, a uno dei miei ex studenti, dalla Cina, un uomo ben vestito ha sputato gridando: “Stupido asiatico, torna nel tuo paese”. Quando l’ho pubblicato su Facebook, un altro studente, dal Perù, ha commentato dicendo che il giorno prima un cliente – un cliente! – ha chiesto da dove veniva, e poi gli ha chiesto, “Perché non torni lì, allora?”
Molti altri miei amici, colleghi e studenti hanno riportato esperienze simili, con un notevole aumento questa settimana. Sono preoccupato per l’effetto del linguaggio di Trump, che può influenzare alcuni dei suoi seguaci a commettere violenza contro i suoi rivali e critici. Ma mi preoccupo di più dell’attuale generazione di immigrati, perchè per quanto brutta sia stata la mia esperienza – ed è stata piuttosto negativa – all’epoca non esisteva un Presidente degli Stati Uniti che ispirasse insulti, umiliazioni e violenza contro di me e altri immigrati.




100 anni di Save The Children, le iniziative di comunicazione ‘non convenzionali’ un modello per Rai

100 anni di Save The Children, le iniziative di comunicazione ‘non convenzionali’ un modello per Rai

La gloriosa Save The Children celebra i suoi primi 100 anni con iniziative comunicazionali “non convenzionali” (anche grazie all’agenzia Jungle), mentre la Rai non riesce a focalizzarsi sulla dimensione sociale del servizio pubblico (ed insegue Fabio Fazio).


Lunedì scorso 13 maggio, Save The Children ha celebrato a Roma i suoi primi 100 anni, con una stimolante kermesse policentrica organizzata presso il Maxxi – Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo (presieduto da Giovanna Melandri), iniziativa istituzionalmente benedetta dalla partecipazione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: ne scriviamo su queste colonne anche perché l’iniziativa ha provocato una ulteriore riflessione sul ruolo della Rai nella società italiana, e sulla funzione stessa del “public media broadcaster” (ovvero – come sempre più s’usa – “public media service”).
Partiamo dai dati, che sono tristi e sconfortanti: secondo le stime di Save The Children, 1 minore su 5 al mondo vive in aree di conflitto, e si tratta di oltre 420 milioni di bambine/i. Si calcola che almeno 27 milioni di bambini sfollati a causa della guerra non hanno più accesso alle scuole: solo nel 2017, ne sono state bombardate oltre 1.400.
Save The Children, forte della propria identità storica ed attuale, e forte del flusso di risorse che riesce a raccogliere, ha deciso di mettere in campo strumenti di comunicazione innovativi, e l’evento organizzata il 13 maggio al Maxxi può rappresentare un vero e proprio “caso di studio” di come una organizzazione no-profit può fornire un contributo ideologico-creativo nei territori della comunicazione cosiddetta (anche nello slang delle agenzie) “non convenzionale”.
Accantoniamo le ritualità istituzionali (sempre togliendoci il cappello di fronte al Presidente della Repubblica, “ça va sans dire”…), e ci concentriamo su due iniziative: un concorso aperto agli studenti delle scuole di tutta Italia (molto ben curato) ed una coinvolgente iniziativa esperienziale (molto toccante).

Nel corso della giornata, si sono tenute le premiazioni di “TuttoMondo Contest”, concorso dedicato agli “under 21” sul tema “La pace oltre la guerra”, al quale hanno partecipato oltre 1.400 studenti:: abbiamo avuto il piacere di assistere ad una premiazione degna di una qualità “broadcast”, intesa nel senso non soltanto tecnico (tempistica e gestione della scaletta ed altri aspetti tecnici), ma intellettuale (ovvero artistico e creativo). Abbiamo dato per scontato che la kermesse venisse videoregistrata al fine di produrre un’opera assolutamente degna della trasmissione in prima serata sulla rete regina della Rai: a fronte della nostra domanda, Michele ProsperiSenior Media Officer di Save The Children, ha manifestato quasi stupore, sostenendo che l’associazione è, complessivamente, soddisfatta del rapporto che ha con la radiotelevisione pubblica italiana, e che non avevano proprio pensato ad una coproduzione con Viale Mazzini. Siamo stati tentati dal porre la stessa domanda (“perché non farne un prodotto da prima serata?!”) alla Rai, ma abbiamo poi ritenuto che né il Presidente Marcello Foa né l’Amministratore Delegato Fabrizio Salini avrebbero apprezzato il senso (strategico, ci si consenta) di una simile “provocazione”. E d’altronde, in questi giorni, il futuro del Direttore della Comunicazione e delle Relazioni Istituzionali della Rai, Giovanni Parapini, è incerto… ed altresì dicasi della ri-allocazione della struttura “Responsabilità Sociale” di Viale Mazzini, diretta da Roberto Natale. Si riproduce il noioso e penoso spettacolo del “balletto delle nomine”, nelle quali la logica vecchia della lottizzazione partitocratica sembra riprodursi, subordinando il “merito” tecnico alla “relazione” politica.
Insomma, se è vero che Rai sta cercando di ottimizzare la propria funzione “social”, è altrettanto vero che la dimensione “sociale” (nota bene: la “e” finale è fondamentale) della Rai non appare certo ai primi punti dell’ordine del giorno del “public media service” italico.
Si veda, in argomento, come è stato (mal)trattato uno strumento virtualmente prezioso qual è il “bilancio sociale” (si rimanda a “Key4biz” del 10 maggio 2019, “Tempi di bilanci in Rai, approvato quello di esercizio e quello sociale. Quello che non torna”).
Abbiamo anche compreso che Save The Children vuole mantenere una immagine che confermi la propria identità, autonomia, forza, e quindi una ipotesi di co-produzione con la Rai non viene ritenuta particolarmente intrigante: abbiamo percepito un legittimo senso di orgoglio che va “oltre” la Rai insomma… D’altronde abbiamo a che fare con un’organizzazione internazionale – fondata da Eglantyne Jebb – che dal 1919 lotta per salvare la vita dei bambini e garantire loro un futuro dignitoso, e che ormai opera in quasi 120 Paesi in tutto il mondo, con uno staff di circa 25mila persone, e realizza progetti che solo nel 2017 hanno raggiunto 56 milioni di beneficiari… L’ufficio italiano di Save the Children ha invece aperto ufficialmente i battenti alla fine del 1998 per iniziare le attività l’anno successivo, e, da allora, l’organizzazione ha vissuto una crescita che attualmente la annovera tra le prime associazioni italiane in termini di raccolta fondi, con 113 milioni di euro raccolti nel 2018 (più del doppio rispetto al 2012). Fondi grazie ai quali Save the Children Italia, solo nel 2018, ha potuto raggiungere quasi 5 milioni di beneficiari, di cui oltre 3,3 milioni di bambini, sia nel nostro Paese che nel resto del mondo, con progetti di salute e nutrizione, protezione, educazione, contrasto alla povertà e sicurezza alimentare, promozione di diritti e partecipazione… Lo staff di Save The Children Italia è formato da 315 persone, di cui circa la metà dipendenti a tempo indeterminato (da segnalare che il 71% è formato da donne, e l’età media di tutti i dipendenti di Stc è 38 anni).
Rai, a sua volta, non riesce proprio a cogliere (anche qui, si pecca di… orgoglio autoreferenziale?!) la potenzialità sinergica che potrebbe derivare da un rapporto più intenso (e denso) con le organizzazioni della società civile, del “terzo settore”, del volontariato… Sia ben chiaro, Viale Mazzini dedica una discreta attenzione a queste attività (non sono pochi i “promo” trasmessi nel palinsesto, anche per la raccolta fondi, e non sono poche le segnalazioni di iniziative delle associazioni durante le trasmissioni), ma tutto sembra essere confinato nel perimetro di una sorta di “obbligo” normativo (previsto genericamente dalla Convenzione e dal Contratto di Servizio), senza una spinta pro-attiva, creativa e politica, e giustappunto culturalmentesinergica. Si potrebbe fare di piùmolto di più. Si dovrebbe fare di piùmolto di più.
A proposito dei (tanti) deficit di sensibilità… sociale della Rai, non ci stancheremo di ripetere che è scandaloso che non vi sia in palinsesto una trasmissione dedicata alle problematiche dei migranti, che rappresentano ormai un decimo della popolazione residente in Italia: e va denunciato che la parola “immigrato” o “migrante” è completamente assente nel “Bilancio Sociale” della Rai (vedi supra!).
Il contest “TuttoMondo” promosso da Save The Children (senza sostegno Mibac Miur) è giunto nel 2019 alla sua sesta edizione, e deve il suo nome all’omonimo murale realizzato dall’artista Keith Haring sul lato posteriore della Chiesa di Sant’Antonio Abate di Pisa, nel quale sono raffigurate 30 figure concatenate che simboleggiano la pace universale e l’armonia umana.
Il Direttore Generale di Save The Children, Valerio Neri, ha ricordato che “Tuttomondo Contest ogni anno premia i ragazzi che attraverso diverse forme d’arte riescono ad esprimere il proprio punto di vista sulla realtà che ci circonda. L’incontro con la cultura svolge un ruolo di mediazione educativa con una forte potenzialità, capace di promuovere il pensiero critico dei più giovani, spingendoli a trovare il proprio percorso di conoscenza attraverso metodi non convenzionali. Ogni luogo di cultura può divenire un “ponte sociale” ed essere un potente strumento per l’inclusione di gruppi sociali particolarmente fragili”.
Abbiamo assistito ad una cerimonia di premiazione vivace, e tutt’altro che rituale, gestita con abilità da conduttrice televisiva dalla collega Valentina Petrini, giornalista d’inchiesta del gruppo “l’Espresso” (e peraltro co-conduttrice, insieme a Enrico Lucci, del programma “Nemo, nessuno escluso”, andato in onda in prima serata su Rai2).
È anche vero che la presenza e l’intervento di alcuni componenti della giuria ha contribuito ad arricchire l’iniziativa anche spettacolarmente. La giuria è stata formata infatti da esperti d’eccezione, come il regista Riccardo Milani, il fotografo Paolo Pellegrin,le scrittrici Margaret Mazzantini e Elisabetta Dami, il vignettista Marco Dambrosio in arte Makkox, il cantautore Ghali, lo storicoBruno Maida. Toccante l’intervento di Elisabetta Dami (che ha consegnato il premio “Generazione Alpha”) la creatrice del famosissimo Geronimo Stilton (uno dei rari casi di fenomeno editoriale “made in Italy” di successo internazionale), che ha raccontato come sia nata l’idea del suo personaggio: amante dell’avventura, a 20 anni ha preso il brevetto di pilota d’aereo e paracadutista, a 23 anni ha affrontato il giro del mondo viaggiando da sola (tra le altre avventure, ha scalato il Kilimanjaro) e dall’esperienza di volontariato in un ospedale pediatrico (così come dal non aver avuto figli) è scaturita l’idea di scrivere racconti d’avventura con protagonista il simpatico topo, che in prospettiva potrebbe competere con il disneyano topolino…
La qualità delle opere vincitrici è alta, veramente alta, sia per quanto riguarda la qualità estetica che l’intensità dei contenuti, passando dalle fotografie ai brani musicali.
La sala, affollata da centinaia di ragazze e ragazzi, ha tributato continui applausi ai selezionati ed ai premiati, ma confessiamo che in alcuni momenti la kermesse ci ha proprio commosso, per la forza e la bellezza di alcune opere e per l’energia positiva provocata da questi giovani entusiasti.
Particolarmente simpatici ci sono parsi Marco Dambrosio alias Makkox e soprattutto il rapper italo-tunisino Ghali, che ha consegnato a sorpresa anche il “Premio Speciale Eglantyne Jebb” assegnato da Save the Chidren al giovanissimo rapper (6 anni!) Tiziano Cesarini, con il brano “Mi fa male” (ancora non disponibile su YouTube o Vimeo, ma si può ascoltare qui in “Palazzi Colorati ”, co-interprete de I Ragazzi della Via, o in “Giocattoli distrutti”).
Peccato che la Rai abbia perso anche questa occasione, buttando creatività e danari per… inseguire – tra le tante dispersioni strategiche – Fabio Fazio ed i suoi stratosferici compensi!
Altrettanto merito va riconosciuto a chi ha deciso, in Save The Children, di aver proposto una “esperienza immersiva”, ovvero la performance “Tutti giù per terra”, evento per sensibilizzare sulle conseguenze della guerra soprattutto rispetto ai bambini.
Per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dei bambini in conflitto, ed in particolare sulla “generazione perduta”, che a causa delle guerre si vede negato il diritto all’educazione, dal 13 al 19 maggio presso il Maxxi è possibile vivere “sulla propria pelle” un esperimento emozionale coinvolgente. Si tratta di un’esperienza immersiva e ad alto impatto emotivo che consente di sperimentare “in prima persona” cosa significa essere un bambino in un Paese in guerra. Tutti abbiamo visto le immagini televisive (o fotografiche) di un bombardamento, tutti siamo abituati a leggere notizie di attacchi, vittime, distruzioni. Ma cosa significa vivere realmente una situazione del genere? E soprattutto farlo “dal punto di vista” di un bambino? Attraverso una performance teatrale, suoni, luci, odori e altre stimolazioni sensoriali, il pubblico viene trasportato in un’altra città, in un altro Paese. Guidati da una maestra, i partecipanti torneranno ad essere bambini, rivivendo le emozioni uniche del periodo scolastico, ma – allo stesso tempo – aprendo gli occhi, il cuore e la mente su una realtà drammaticamente possibile, e per nulla lontana. Possiamo testimoniare che si tratta di una esperienza che tocca nel profondo, pur nella sua assoluta semplicità e nella sua dichiarata simulazione. Un eccellente caso di teatro di ricerca.
Complimenti vivissimi all’ideatore e coordinatore artistico, il giovane (25 anni) teatrante-creativo Paolo Sacerdoti (già autore dello spettacolo immersivo “Roseline”), che cerca di “rendere il teatro di nuovo pop in Italia”, ed alla società che prodotto l’installazione coinvolgente “Tutti giù per terra”, ovvero l’agenzia milanese di “comunicazione non convenzionale” Jungle, fondata e presieduta da Lorenzo Fabbri. Il motto di Jungle è, non a caso, “We Make The Unexpected”.
Questa la “sinossi” di “Tutti giù per terra”: “Razan è una bambina di 8 anni, nata a Hodeidah, nello Yemen. Nel 2018, con il Paese coinvolto in una guerra civile infinita, viene sorpresa da un bombardamento aereo, che ne condiziona per sempre la vita. La sua innocenza viene irrimediabilmente violata in un lungo, doloroso attimo, che la catapulta in una nuova dimensione, un luogo e un tempo che nessuno di voi vorrebbe aver mai vissuto…”. Il resto qui non intendiamo “raccontarlo”, perché questa esperienza va vissuta (appunto!). Ci limitiamo a segnalare che, accedendo al piano -1 del parcheggio del Maxxi, i visitatori… usciranno lentamente da Roma, e saranno condotti in una scuola elementare intrisa di ricordi, suoni e odori lontani nel tempo; qui incontreranno il proprio “io” bambino, e saranno lentamente accompagnati in un’ambientazione nota, ma confusa; attraverso un sound design avvolgente ed una performance di attori professionisti, il pubblico perderà la percezione del luogo in cui si trova, e lentamente acquisirà consapevolezza del dolore acuto (anche soltanto spiritualmente inteso) che solo un attacco militare può causare… Abbiamo visto persone uscire dalla installazione con le lacrime agli occhi. La performance/installazione è fruibile gratuitamente su prenotazione. Si tratta di una iniziativa che è stata ideata e prodotta senza avvalersi di contributi pubblici: come dire?! a conferma che anche “fuori” del perimetro del Fondo Unico dello Spettacolo (Fus) gestito dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Mibac), c’è… vita! Eccome se c’è!!! Peccato che il dicastero competente non sempre le dedichi l’attenzione che merita…
Anche questa bella piccola ma spiazzante iniziativa di Save The Children rientra in quella idea di “cultura in movimento”, di cultura intesa come strumento dialettico di provocazione intellettuale ed emotivo, come agitatore di coscienza, come sensibilizzatore di cittadinanza, come agente di cittadinanza attiva. E non sono queste attività di cui la Radiotelevisione Italiana spa dovrebbe farsi promotrice con un impegno intenso, disseminato lungo tutti i suoi palinsesti?! Questo sì è “coesione sociale”, ovvero quella dimensione del sociale cui la Rai viene chiamata dalla Convenzione e dal Contratto di Servizio. Evitiamo che restino parole scritte sulla carta, ovvero sulla sabbia, anzi sull’acqua.
E speriamo infine che svanisca in una bolla di sapone la incredibile richiesta manifestata dalla Lega Salvini di togliere “il patrocinio” Rai al Festival Sabir di Lecce (definito il “festival delle ong”), manifestata dai parlamentari Daniele Belotti e Simona Pergreffi. Si tratta di una delle tante iniziative che affollano il panorama festivaliero italiano, in questo caso una kermesse promossa da Arci assieme a Caritas Cgil, alla quale Rai dedica una qualche (minima) attenzione (cos’è infatti, se non altro, giustappunto un… “patrocinio”?!). Crediamo che la sensibilità della Rai rispetto a queste iniziative dovrebbe invece intensificarsi, ovviamente nel massimo rispetto del pluralismo: e, se esiste un qualche festival culturale-artistico che propugna la cultura dei “muri” (piuttosto che dei “ponti”), Viale Mazzini saprà certamente dedicargli altrettanta attenzione, nel più assoluto rispetto della “par condicio” e del “pluralismo” informativo-culturale (sotto l’occhio sempre vigile di Agcom).
Clicca qui, per conoscere la storia di Save The Children, che ha celebrato a Roma al Maxxi il 13 maggio 2019 i suoi primi 100 anni
Clicca qui, per vedere un breve estratto della cerimonia di premiazione di “TuttoMondo”, organizzato da Save The Children il 13 maggio 2019 presso il Maxxi di Roma.