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Se la lotta alla plastica è folklore ambientalista*

Se la lotta alla plastica è folklore ambientalista*

La direttiva europea 2019/904 mette al bando alcuni oggetti di plastica monouso. È apprezzabile, ma sembra un provvedimento preso sull’onda delle emozioni più che basato sui dati. La plastica è infatti lo 0,7 per cento dei rifiuti prodotti in Europa.

La direttiva contro la plastica

Il Parlamento europeo ha di recente approvato la direttiva 2019/904 sulla “riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente”. La riforma contiene, tra l’altro, il bando di alcuni oggetti di plastica monouso: posate e piatti di plastica, cannucce, bastoncini cotonati, sacchetti di plastica osso-degradabili e contenitori per alimenti in polistirolo espanso.
La decisione ha avuto molto risalto sui mezzi di comunicazione, mentre sono passate sotto silenzio altre disposizioni importanti della stessa direttiva, per esempio sui target di raccolta e riciclo delle bottiglie di plastica.
La risonanza ottenuta dal provvedimento si deve probabilmente a quello che molti definiscono “folklore ambientalista”: si tratta di una sorta di distorsione cognitiva per cui molti dei nostri comportamenti sono guidati da false percezioni su ciò che è bene o male per l’ambiente.
Siamo però davvero sicuri di sapere cosa sia sostenibile e cosa no? Per esempio, quando in un negozio ci chiedono se preferiamo un sacchetto di carta o di plastica, siamo istintivamente orientati a scegliere la carta, perché, più o meno inconsapevolmente, associamo la plastica a immagini di tartarughe marine imprigionate nei sacchetti. Ma è veramente possibile definire un materiale amico o nemico dell’ambiente? Non dovremmo invece considerare il ciclo di vita di un prodotto, come viene disegnato, prodotto, consumato e smaltito? Uno studio del ministero dell’Ambiente danese lo ha fatto per diverse tipologie di sacchetti disponibili nei supermercati, arrivando alla conclusione che quelli in polietilene a bassa densità hanno un minore impatto ambientale rispetto ai sacchetti di carta o di stoffa.
La disposizione della direttiva europea arriva di fatto in risposta a un flusso di informazioni legate agli effetti deleteri della plastica dispersa nell’oceano, che rafforzano l’associazione mentale “plastica=male”. Contribuirà però a migliorare il sistema di gestione dei rifiuti e ridurre il problema della plastica negli oceani? Oppure siamo vittima di folklore ambientalista? Per rispondere, la strategia migliore è fare riferimento ai dati.

I dati dell’inquinamento marino

Iniziamo dalla plastica nei mari. L’analisi condotta da alcuni ricercatori tedeschi mostra che il 90 per cento della plastica negli oceani proviene dai dieci fiumi più grandi al mondo, 8 in Asia e 2 in Africa. Ne intuiamo il motivo: milioni di persone, che fino a pochi anni fa vivevano in completa povertà, oggi possono indossare vestiti di fibre sintetiche, usare detergenti, mangiare cibo conservato, bere acqua in bottiglia; in altre parole, possono godere di uno stile di vita simile al nostro. Ma sulle sponde di questi fiumi non esistono ancora sistemi di raccolta e di gestione dei rifiuti, perciò buona parte delle materie plastiche finisce dispersa nell’ambiente, nei corsi d’acqua e, infine, in mare. Ben poco potrà fare la decisione europea per ridurre questo fenomeno.
Quanto al mar Mediterraneo, lo studio di Arcadis ha rilevato che la spazzatura dominante è la plastica (63 per cento), seguita da carta, cartone e mozziconi di sigaretta (22 per cento), rifiuti sanitari (7 per cento) e vetro (4 per cento). Il dato più interessante, però, è che solamente il 13 per cento arriva da lontano: la maggior parte dei rifiuti è abbandonata direttamente sulla spiaggia da bagnanti e turisti. E, dunque, forse non esistono materiali buoni o cattivi, ma comportamenti giusti o sbagliati. La dispersione dei rifiuti, in molti casi, è un problema di scarso senso civico e va affrontato educando i cittadini e migliorando i sistemi di raccolta. Certo non basta autodefinirsi “plastic free” come hanno iniziato a fare molte località balneari e molte istituzioni, contribuendo così indirettamente all’idea che la plastica sia da rifuggire come male assoluto. Per esempio, la Sicilia è una delle regioni più arretrate sul fronte della gestione dei rifiuti: con il 21,7 per cento ha il coefficiente regionale più basso d’Italia per la raccolta differenziata. Eppure, studia una normativa che le permetta di darsi la patente di prima regione “plastic free”.
Ma qual è l’incidenza della plastica sul totale dei rifiuti generati in Europa? Nel 2016 nell’Unione sono stati prodotti oltre 2,5 miliardi di tonnellate di rifiuti (fonte Eurostat). Di questi, la plastica rappresenta lo 0,7 per cento, poco più di 17,5 milioni di tonnellate. Eppure, si moltiplicano le misure rivolte a questa categoria mentre poco si fa, per esempio, per migliorare gestione dei rifiuti definiti “minerari”, derivanti principalmente dal settore edilizia e costruzioni, una categoria che da sola costituisce in Europa il 70 per cento del totale.
Qualsiasi iniziativa volta a ridurre l’inquinamento, nelle sue varie forme, è sicuramente da apprezzare. Dovremmo però riflettere sulle priorità. Tanto più che l’industria italiana di stoviglie monouso in plastica è la più importante in Europa, con una quota di export superiore al 30 per cento, 1 miliardo di fatturato per circa 30 aziende e 3 mila addetti diretti.




L’epica dell’errore nella nuova campagna di brand dell’Inter

L’epica dell’errore nella nuova campagna di brand dell’Inter
Le aziende oggi si trovano ad affrontare un nuovo marketing narrativo. Non più la rappresentazione dell’eroe e della soluzione di un problema, ma la condivisione di ferite reciproche che uniscono il pubblico, rendendolo parte del brand. L’esempio di “Not For Everyone” targata Inter


Ditemi la verità. Non vi piacciono più i brand che si rappresentano sempre vincenti, giusto? I “leader di mercato” trionfanti. C’è un motivo? Può darsi.
Siamo cresciuti – soprattutto in Italia – con l’idea che una marca debba sempre portare delle soluzioni ai problemi. Nella convinzione che ciò che un’organizzazione dichiara attraverso le sue attività di branding debba essere per forza positivo, solare, cristallino.
Il motto più o meno di ogni marketer e comunicatore finora era: “Il mio mondo è bellissimo: entraci”. Al centro sempre lei: l’azienda, la marca, l’organizzazione. In mostra a discapito dei suoi pubblici o fan. Ma oggi tutto questo lo disapproviamo. Ci fa un po’ tristezza vedere il “wow” a tutti i costi.
Così da alcuni anni assistiamo al movimento contrario. Siamo noi pubblici questo movimento.
Se prima era la soluzione ad attrarci, con l’eroe vittorioso, ora è il problema a motivarci, con l’eroe o l’eroina che sbagliano, indugiano, provano dolore. È il racconto che condivide con noi il “mostro”, il nuovo motivo che ci appassiona.

L’EPICA DELL’ERRORE

Così, in tempi iper-emotivi, il coinvolgimento e l’attivazione cognitiva: mente, cuore, anima, passa (anche) attraverso l’esaltazione dell’errore e la condivisione di temi esistenziali problematici; per creare una connessione sentimentale profonda tra marche e pubblici.
Ne è un esempio interessante, la recentissima campagna dell’Inter – per la diffusione del brand – “Not For Everyone” più o meno “Non è da tutti” o “Non è per tutti”.
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Una campagna che ricorda quella di Under Armour del 2017 “Unlike Any” o anche altre sulla scia del marketing narrativo contemporaneo.
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In “Non è da tutti”, infatti, non è la marca ad essere protagonista, ma cinque personaggi “arrivati a realizzare se stessi grazie all’audacia, al sacrificio e al coraggio di sbagliare:
• Airton Cozzolino, kite surfer – campione del mondo a 17 anni;
• Duan Jin Ting ballerina cinese – e fondatrice di un collettivo di danza contemporanea;
• Alessandro Avallone, detto “Stermy”, esponente nel settore dell’e-sport;
• Omer – street writers milanese;
• Jessica Kahawaty, modella di origine libanese – molto attiva e riconosciuta per le sue battaglie sui diritti umanitari;
Non solo recordman o superwoman, ma umanità messa in scena con le sue debolezze. Vizi e virtù.

NOT FOR EVERYONE

Il testo della campagna, ripreso anche in diversi modi sui social, mi pare poi degno di nota:
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Non importa cosa dicano.
Provarci non basta.
Chi prova può mollare.
Io, invece, volo.
Ho fallito, non ero in guardia.
Sono crollata, è stata dura.
Ho avuto torto troppe volte.
Questo mi ha reso più forte.
Una partita dopo l’altra.
Per la fama, questa è la via.
Se il dolore porta alla gloria
Non scorderete il mio nome
La mia anima è selvaggia.
Di alibi non ne ho.
I miei fratelli troverò.
Nessun muro è troppo alto.
La strada è lunga, coraggioso amico.
E non basterà camminare.
Dovrai correre.
Ma tutto questo non è da tutti.
Not For Everyone
L’insegnamento che possiamo trarre da una campagna simile? Una cosa semplice ma allo stesso tempo difficilissima da fare. È vitale comprendere le ferite dei pubblici e rappresentarle, mettendole in comune nel proprio racconto di marca, prodotto o vita.

LA CONDIVISIONE DELLE FERITE RECIPROCHE

Sono le grandi paure e i grandi drammi che ci connettono e ci portano a un risultato collettivo. Sono l’abbandono, il tradimento, la solitudine, la vergogna, la privazione, ecc. che ci coinvolgono più che mai nel nuovo marketing narrativo. Non serve a niente strillarsi “leader di mercato” se non si sono messi in comune – con le proprie audience – i buchi dell’anima. Che ci piaccia o no questo è uno dei nuovi processi di engagement.
Così, in Not For Everyone le frasi “ho fallito”, “non ero pronta”, “avevo torto” diventano echi profondi che fanno risuonare le nostre biografie – quella volta che anche noi avevamo torto o non eravamo pronti – e le polarizzano nel bene e nel male.
Chi amerà e chi odierà questo modo di mostrarsi.
E chi lo celebrerà con forza riconoscendosi ancora di più nella nuova immagine eroica del caduto che si rialza.




DAL BETTER LIFE INDEX DELL’OCSE IN GIÙ

DAL BETTER LIFE INDEX DELL’OCSE IN GIÙ

 i parametri per valutare la qualità della vita


Sono decenni che rincorriamo il benessere. Ma che cosa lo determina? Velocità e realizzazione economica erano le chiavi per la felicità in ogni spot pubblicitario. Negli anni ‘60 possedere una casa, la lavatrice, un’auto e poi i primi strumenti tecnologici era da molti descritto come successo. In quel periodo le classifiche sulla qualità della vita erano strettamente collegate con gli indicatori PIL delle nazioni. In pratica, in questa visione, più un paese produceva ricchezza, più era felice.
Come appare chiaro però questa equazione negli ultimi anni ha smesso di funzionare. Sindrome da burnout e ansia sono un problema per circa 84 milioni di europei. Se siete in una stanza con altre 5 persone una di voi soffre di un disturbo da stress.
Oggi la definizione di quello che è il vivere bene si è fatta più fluida ed è sempre meno legata a qualcosa di materiale. “Work less, live more!” è uno degli slogan adoperati spesso per descrivere il benessere contemporaneo. I fattori da considerare sono in costante aumento. Ma quali sono le chiavi della felicità? Il clima, il lavoro, i livelli di educazione, la sanità, la soddisfazione personale, la sicurezza, la casa, il reddito, le relazioni sociali, la governance e il life-work balance. Sono questi gli 11 parametri individuati dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) per misurare la ricchezza (sia materiale che relazionale e personale) attualmente.
Il Better life Index dell’Ocse in realtà non è una vera e propria classifica perché ciascuno può creare il proprio indicatore, la propria mappa del benessere. Ad esempio, se per voi la felicità si misura per relazioni umane, attenzione all’ambiente e soddisfazione, il paese ideale in cui vivere è l’Islanda, seguita da Norvegia e Finlandia. Basta però cambiare i fattori e il risultato sarà molto diverso. Se infatti come parametri del benessere sono selezionati abitazione, impegno civile e sicurezza, le tre nazioni migliori saranno Norvegia, Australia e Canada.
L’Italia ha registrato il punteggio più alto nella categoria life-work balance. Un aspetto considerato centrale in questa misurazione riguarda le ore trascorse a lavoro. Nel Bel Paese circa il 4% dei dipendenti ha orari di lavoro molto lunghi, una percentuale nettamente inferiore rispetto alla media OCSE dell’11%. Altro risultato oltre la media è stato quello del numero di ore dedicate alla cura della persona e al tempo libero: in Italia i lavoratori a tempo pieno dedicano in media più di 16 ore in attività di socializzazione con amici e famiglia o dedicandosi ad hobby, sport, rilassandosi, ecc. Questo non è che uno dei modi per leggere la qualità della vita.
L’Onu ha i suoi criteri per capire quale sia la nazione con il maggior benessere e sono 8: aspettativa di vita, Pil pro capite, supporto sociale, generosità, libertà di fare scelte, corruzione e i positive e negative affects. L’Average Happiness Across Countries Onu lo scorso anno ha incoronato la Finlandia come il paese più felice sui 156 paesi confrontati ma molti hanno criticato questa vittoria sottolineando come sia il terzo paese al mondo per possesso di armi e la nazione in cui la principale causa di morte tra gli uomini è l’alcool. L’Italia in questa classifica è risultata 36 esima, superata da paesi come Danimarca, Brasile, El Salvador, Repubblica Ceca e Messico.
Non sono state solo le valutazioni internazionali a essere cambiate profondamente, la stessa trasformazione di valori è avvenuta anche nella misurazione della vivibilità nelle città italiane. Dopo 29 anni Milano lo scorso anno è stata nominata dall’annuale ricerca sulla Qualità della vita del Sole 24 Ore come la città in cui si vive meglio in Italia. Ma attenzione: per l’indice del clima, che fotografa il benessere climatico nei 107 capoluoghi della Penisola, Milano è solo al 96° posto mentre le città del Sud e delle Isole sono in cima alla classifica.
Se, quindi, la qualità della vita ha tante chiavi di lettura, l’unico aspetto su cui sembrano concordare le nuove misurazioni è che non si può considerare solo il benessere materiale. Anzi, quelle che incidono maggiormente sulla nuova visione del vivere bene sono tutte le altre condizioni, a sottolineare come il lato umano stia riconquistando una centralità che negli ultimi 50 anni era progressivamente svanita.




Il fenomeno TikTok spiegato ai meno giovani

Cosa fa di TikTok un autentico fenomeno fra gli adolescenti capace di diventare in breve tempo l’app più scaricata del mondo? La domanda sorge spontanea, soprattutto fra chi – per ragioni di anagrafe o scarsa dimestichezza con il Web – fa ancora fatica a comprendere certe dinamiche del mondo social.
In linea di massima si potrebbe dire che TikTok abbia intuito prima degli altri che ci sono molti utenti che hanno bisogno di un mezzo più veloce e leggero per creare e condividere contenuti video online. “TikTok è nata per questo”, ci spiegano i responsabili di ByteDance, l’azienda cinese che ha creato TikTok dopo l’acquisizione di Musical.ly. “I video sono da sempre uno strumento potente per raccontare le storie, ma non sono così facili da realizzare: serve una fotocamera, un computer, delle competenze nel montaggio e soprattutto tempo. Da qui l’idea di provare ad abbassare le barriere di accesso attraverso un servizio fruibile tramite un comune telefono cellulare col quale fare tutto: creazione, produzione e distribuzione dei contenuti”.

LADDOVE GLI ALTRI SOCIAL NON ARRIVANO

Il risultato è un’app scaricabile da qualsiasi dispositivo mobile che permette di girare video, editarli, condirlo con filtri, transizioni ed effetti speciali, il tutto nel giro di una manciata di secondi.

Il fine, insomma, giustifica un mezzo che a quanto pare è riuscito a infilarsi in un corridoio poco presidiato da Facebook e dagli altri social. Quello dei video rapidi (la maggior parte non supera i 15 secondi) e senza troppe pretese a livello tecnico (i più vengono girati in casa). “La gente è stanca di quel genere di social che ti obbliga ad avere comportamenti e look patinati, essere perfetti non è più divertente”, ci spiega ByteDance. “Vogliamo dare alle persone la possibilità di essere loro stessi ed essere ricompensate per questo. Sono soprattutto le giovani generazioni a chiedercelo: vogliono usare la propria voce per celebrare i momenti normali della propria quotidianità, senza seguire le celebrità”.

DALLA CAMERETTA ALLA POPOLARITÀ GLOBAL

Di celebrità però si deve necessariamente parlare se si considerano i numeri raggranellati dagli iscritti più seguiti: la 17enne Loren Gray, per dire, ha in questo momento più di 33 milioni di followers, Ariel Rebecca Martin, in arte BabyAriel, sfiora i 30 milioni, Faisal Shaikh, in arte Mr. Faisu, spopola in India (e non solo) con i suoi 22,8 milioni di seguaci.

In Italia il re delle visite si chiama Luciano Spinelli, performer da 7.1 milioni di followers, l’esperta di fashion Jessica Brugali arriva a 3.8 milioni di follower, Gabriele Vagnato a 1 milione e mezzo.
Molti delle celebrities di TikTok hanno iniziato su Musical.ly giocando con il lip sync, il sistema che permette di di cantare e recitare utilizzando la sincronia labiale su brani di artisti famosi, altri si sono accodati al fenomeno. Col tempo sono arrivati anche i VIP – come Fiorello, Michelle Hunziker e Bruno Barbieri – attratti dalle potenzialità di un mezzo che come pochi sa parlare ai giovanissimi.

LA VIRALITÀ PASSA DALLE CHALLENGE

Le interazioni sono il sale dell’esperienza di TikTok. Che vive i suoi picchi nelle cosiddette #challenge, le sfide tematiche a suon di video-performance che si scatenano quotidianamente sulla piattaforma. “Ci sono challenge che nascono per caso e che diventano virali nel giro di poche ore, altre proposte dal nostro team di curator su argomenti di tendenza, poi ci sono quelle promosse dai brand. Sono competizioni che premiano l’originalità e che, proprio per questo, rivelano un livello altissimo di engagement: con la challenge #footballisback abbiamo avuto oltre 120 milioni di views, un numero persino più elevato di quello di tutti i follower delle principali squadre di calcio”, racconta ByteDance.
A soffiare sulle dinamiche della viralità ci pensano anche gli algoritmi della piattaforma, calibrati a puntino per suggerire i contenuti più affini alle preferenze del singolo. “L’intelligenza artificiale non spinge solo i video delle persone più seguite ma lavora sulle tipologie di contenuti”, chiarisce la società. “È un sistema di suggerimenti basato su un content graph che rompe gli schemi instaurati nel mondo social tradizionali. Chi ama il calcio vedrà più contenuti correlati all’interno del tab personale, stessa cosa per gli appassionati di danza o qualsiasi altra categoria”.

IL PROBLEMA DEGLI UNDER 13

Gli algoritmi sono deputati anche a un’altra mansione: quella che riguarda l’individuazione dei contenuti inappropriati. ByteDance ammette: “A livello di moderazione e sicurezza ci sono molte lezioni che abbiamo imparato dalle altre piattaforme basate sui contenuti generati dagli utenti (UCG), come Facebook e YouTube. Per questo motivo ai computer abbiamo affiancato il lavoro di migliaia di supervisori in carne ed ossa. Sono loro ad avere l’ultima parola su ciò che viene pubblicato. Che non significa solo eliminare i video segnalati dall’intelligenza artificiale o da altri utenti ma anche valutare la criticità di certi contenuti che possono essere fraintesi da persona a persona. È un aspetto particolarmente complesso, crediamo che solo l’uomo abbia la capacità di discernere cos’è giusto e cosa no”.
Più difficile, senz’altro, gestire il rapporto con i bambini, da sempre presenti sulla piattaforma in maniera più o meno esplicita. Lo scorso febbraio la società ha ricevuto una multa da oltre 5 milioni di dollari dalla FTC americana per uso improprio dei dati personali degli under 13, qualche mese dopo è scattata l’indagine nel Regno Unito per possibile violazione del GDPR con particolare riferimento alla mancanza di presidi di sicurezza sul sistema di messaggistica.
Su questo punto l’orientamento della società pare chiaro: “Per registrarsi su TikTok bisogna avere 13 anni, chiarisce ByteDance, sottolineando come il target della piattaforma sia quello dei 18-25 anni. Ciò ovviamente non esclude possibili usi impropri della piattaforma. Da qui l’invito – rivolto ai genitori – a una conversazione aperta e diretta con i propri figli. Come dire, i limiti ci sono, ma andrebbero fatti rispettare, soprattutto dagli adulti. Sempre che siano consapevoli dei rischi che possono derivare da un’eccessiva esposizione in rete.




Piccole Star Il fenomeno dei baby influencer sta contagiando anche l’Italia, ma ci sono implicazioni per la privacy dei minori

Le social star sono sempre più piccole e qualcuno addirittura ha un profilo su Instagram già dalla nascita


Si può diventare re e regine del mondo digitale ancora prima di nascere o dopo pochi anni di vita, ma il concetto non cambia: i migliori influencer di oggi sono i bambini.
Non importa essere figli di persone famose o piccoli colti nella spontaneità della vita quotidiana, quello che conta è avere una community fedele e ampia da ispirare.
 

I baby influencer più amati su Instagram

Le gemelle Clements, Ava Marie e Leah Rose, vanno per i 9 anni e contano già 1,2 milioni di follower su Instagram. La madre le ha trasformate in piccole dive all’età di 7 anni.

Coco Pink Princess ha solo 9 anni e 687 mila follower al suo seguito. I genitori hanno un negozio vintage nel centro di Harajuko a Tokyo e lei si è innamorata della moda a 2 anni. Per gioco la madre ha iniziato a postare sul suo account le foto della figlia e, vedendone la popolarità, ha deciso di aprire un profilo tutto per lei. Coco posa per le migliori case di moda, compresa Gucci, la sua preferita.

Stella e Blaise sono i due fratellini di Huntington Beach (CA), che amano la vita da spiaggia, lo sport e disegnare. Il loro profilo IG registra 67 mila follower.

Mini Style Hacker (302 mila follower) nasce da un’idea di Colette Wixom che fotografa il figlio Riker mentre interpreta le ultime tendenze della moda maschile in modo spiritoso.

In Italia abbiamo Gaia De Leonardis (@gaiaburuburu). Nel suo profilo Instagram la mamma pubblica foto che colgono la baby endorser in piccoli ritratti della vita quotidiana. Ad oggi conta 5.500 follower. Segni particolari? Spontanea e divertente.

Protagonisti da milioni di visualizzazioni

Oggi il canale YouTube “Ryan ToysReview” vanta quasi 19 milioni di iscritti (alcuni dei suoi video raggiungono 800 milioni di visualizzazioni).
Ryan recensisce giocattoli, un bambino davvero simpatico e con una grandissima qualità: saper intrattenere davanti allo schermo bambini di tutto il mondo. È entrato nel Guinness World Records “Kids” come “canale più visto per i millennials”.

Anche Tiana di “ToysandMe” (10,5 milioni di iscritti al suo canale) si occupa di fornire opinioni sui giocattoli e, una volta svolto il lavoro, li dona in beneficenza. La baby creator ha iniziato la sua carriera a 7 anni.

Emily Tube (9,6 milioni di iscritti) realizza video divertenti e di apprendimento per i bambini, come imparare a colorare e a fare shopping. È stata selezionata dalla Disney per sponsorizzare un viaggio ispirato alle principesse.

Piccole star ancora prima di nascere

Non possiamo che iniziare con il baby shower organizzato da Mindy Weiss e Jeff leatham per Khloé Kardashian.
L’evento sponsorizzato Amazon accoglieva gli ospiti con un arco di rose e un tappeto di palloncini. Giraffe, elefanti e il colore rosa adornavano la sala.

Anche il bebè di casa Ferragnez era già famoso ancora prima di venire al mondo, grazie alle foto della mamma Chiara in dolce attesa, al momento del parto, al primo allattamento, al cambio del pannolino, fino ai primi mesi di vita di Leone Lucia, con tanto di torta e candeline ogni mese.
Siamo pronti a scommettere che presto anche lui avrà un profilo tutto suo.

Tiny fashionist figli di famosi

Alexis Olympia (557 mila follower) è la primogenita della tennista Serena Williams e Alexis Ohanian.

Nathan Leone Di Vaio (236 mila follower), figlio del più famoso fashion blogger italiano, possiede il suo profilo personale da quando è nato (4 anni fa).

Ioni James Conran è la figlia della top model Coco Rocha, con la quale ha sfilato a Parigi indossando abiti firmati Paul Gautier (74,5 mila follower).

Potere ai più piccoli

Instagram rappresenta la vetrina perfetta per scoprire ultime tendenze e prodotti più cool del momento. Oggi sono i bambini i migliori marketing influencer, grazie alla loro tenerezza e spontaneità.
Nonostante i limiti d’età previsti dalle piattaforme, è presente un gran numero di bambini nell’ambiente digitale.
I dati non mentono: il Kids Digital Avertising Report 2017 affermava già che il mercato pubblicitario rivolto ad un target infantile aumenta ogni anno del 25%. PwC ha stimato che “il mercato della pubblicità digitale per bambini potrebbe raggiungere circa 1,2 miliardi entro il 2019”.

Studi e ricerche su Generazione Alpha e tecnologia affermano che un 12% di bambini si fida maggiormente di influencer conosciuti in rete. Questo significa che il target delle piattaforme più famose (soprattutto di YouTube) è sempre più un pubblico di giovanissimi che vogliono essere guidati dalla loro generazione, sia nel campo della moda che in altri settori quali il mondo dei giocattoli, videogame e food.
I brand che utilizzano strategie di marketing con baby e kids influencer si sono adattati alla nuova audience dei più piccoli.
Da qualche anno anche Heinz e altre aziende importanti hanno scoperto la potenzialità di questa strategia in relazione al settore alimentare. Da sempre i bambini influenzano i genitori nella scelta dei prodotti alimentari, un fenomeno che prima si verificava attraverso la TV e che oggi, invece, avviene sempre di più tramite i social.

Privacy online

I baby influencer non godono della stessa tutela dei coetanei del mondo della TV e del cinema. La privacy online sui bambini in alcune occasioni necessita di un avvocato per essere rispettata. Molte volte sono gli stessi influencer a mostrare i propri figli in post sponsorizzati per un target adulto e non per un pubblico giovane, con tutti i rischi che ne conseguono.
Anche loro si batteranno per far rispettare la privacy dei loro pargoli in futuro? Staremo a vedere.