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Crisi del 737 Max: si dimette Muilenburg, amministratore delegato della Boeing

L’azienda in una nota: Boeing deve «ripristinare la fiducia» e «riparare i rapporti con le autorità di regolamentazione, i clienti e tutte le altre parti interessate»


Si è dimesso l’amministratore delegato di Boeing, Dennis Muilenburg. Al suo posto la società ha nominato ceo David Calhoun. Boeing ha spiegato che un cambiamento era necessario, nel tentativo di ripristinare la reputazione del gruppo dopo la crisi del 737 Max. Smith fungerà da amministratore delegato ad interim durante il breve periodo di transizione prima che Calhoun, attuale presidente, assuma la guida della società.
Boeing deve «ripristinare la fiducia» e «riparare i rapporti con le autorità di regolamentazione, i clienti e tutte le altre parti interessate», sottolinea la stessa società, che si impegna a «operare con un rinnovato impegno per la piena trasparenza, compresa la comunicazione efficace e proattiva con la Faa», Federal Aviation Administration, agenzia federale dell’aviazione, «con gli altri regolatori globali e i suoi clienti». Il quadro finanziario del colosso aerospaziale rimane nebuloso dopo gli incidenti mortali che hanno riguardato i modelli 737 Max.

La difficile storia del 737 Max

«Siamo stati umiliati». Dennis Muilenburg, l’algido ingegnere, amministratore delegato della Boeing, la settimana scorsa in un’imbarazzante intervista è sceso dal suo piedistallo e ha fatto mea culpa. «Siamo stati umiliati da questi due incidenti – ha detto – stiamo apportando mutamenti alla nostra azienda e anch’io sto cambiando come leader».
Tutto è iniziato nell’ottobre 2018, con il primo schianto in Indonesia di un 737 Max, il nuovo aereo di punta della compagnia. A marzo del 2019 lui era nella sua casa di Chicago quando è stato chiamato durante la notte da un centro operativo Boeing, che lo ha avvisato del secondo incidente in Etiopia. Complessivamente 346 tra passeggeri e personale di bordo hanno perso la vita nei due incidenti. A quel punto le autorità mondiali e per ultima la Faa, hanno deciso la messa a terra del velivolo. Niente più voli di aerei 737 Max finché non si fossero capite le cause dei disastri. Boeing ha accettato con riluttanza la decisione, ha chiesto scusa con molto ritardo, ha sempre unicamente pensato a rimettere gli aerei in volo, entrando apertamente in contrasto con le autorità di controllo. Per mesi Muilenburg ha solo cercato di placare le preoccupazioni, di calmare gli animi, citando dati sui guasti tecnici, spesso errati, annunciando, in contrasto con le autorità di controllo, date sul ritorno in volo degli aerei, minimizzando i difetti tecnici.

La traccia del volo Boeing 737 caduto in mare in Indonesia

Da marzo Boeing ha continuato a produrre quaranta 737 Max al mese, benché quelli già consegnati, 383, fossero fermi a terra, chiusi negli hangar, in attesa di capire cosa non fosse andato bene. E sono ben 400 i 737 pronti per la consegna che sono stati bloccati. Insomma, per Boeing è una vera disgrazia, tanto più che a dicembre, l’azienda di Seattle ha deciso lo stop sine die della produzione, una mossa choccante, con grandi implicazioni per la vasta rete di fornitori e dipendenti Boeing e per l’economia americana. L’azienda ha assicurato che non ci saranno ripercussioni negative sul piano occupazionale, anche se è difficile dire quanto durerà lo stop. Lo stesso presidente Usa Donald Trump ha chiamato Muilberg alla Casa Bianca per avere chiarimenti. Secondo il Wsj nessuno si aspetta che la Faa revochi il divieto dei voli almeno fino a febbraio, ma si tratta solo di ipotesi, in realtà c’è incertezza assoluta sulla ripresa dei voli.

Dal decollo agli ultimi istanti prima dell’incidente: la ricostruzione del disastro dell’Ethiopian airlines



Ridurre gli sprechi alimentari è possibile e conveniente

Secondo quanto riportato a seguito degli studi del progetto
‘’reduce 2018’’, portati avanti dall’università di Bologna e dal ministero
dell’ambiente, in Italia gli sprechi alimentari ammontano a 15 miliardi
all’anno, di cui 12 miliardi rappresentano il valore del cibo gettato dalle
famiglie e la restante parte agli scarti di filiera. L’1% della popolazione
italiana ha dichiarato di aver buttato del cibo ogni giorno nel 2018, dato
inferiore rispetto al 2014 quando a gettare cibo quotidianamente era un
italiano su due. Nonostante il miglioramento, il valore del cibo buttato rimane
molto alto, 15 miliardi infatti corrispondono a circa l’1% del Pil del nostro
paese.

A risentire dello spreco alimentare è anche l’ambiente, in
quanto gli scarti devono esser portati nelle discariche e negli inceneritori e
poi smaltiti. Non sprecare cibo ancora
commestibile, inoltre, significa risparmiare le energie e le risorse
normalmente impiegate nella catena che dal campo porta gli alimenti fino alle
tavole e dare una mano alla propria comunità.

Con quest’ottica si è sviluppata
MyFood, startup italiana che ha vinto il bando food waste reduction finanziato
dalla fondazione Unicoop Firenze. MyFoody nasce con la missione di
combattere gli sprechi alimentari. Lo fa utilizzando una piattaforma web e un’app
che permette al consumatore di acquistare prodotti a rischio spreco a un
prezzo ridotto, prenotandoli online e recandosi per il ritiro e il pagamento
nei punti vendita più vicini a lui. Utilizzando l’app e acquistando i prodotti
prossimi alla scadenza si riesce a risparmiare circa il 50% sulla spesa. My
food ha riscosso, sin dalla sua fondazione nel 2015 un grande successo e al
momento vanta tra i partner alcuni dei supermercati più forti in italia come
Lidl e Coop. Al momento disponibile nelle principali città, myfood ha
dimostrato come anche nel piccolo è possibile fare qualcosa.




Lego sta facendo fatica a trovare un’alternativa alla plastica

Lego bioplastiche

Nonostante le ricerche, non ha ancora trovato una formula adatta perché i suoi mattoncini rimangano quelli che conosciamo

Da ormai sette anni Lego sta studiando un modo per produrre i suoi mattoncini con la plastica di origine vegetale. È un progetto ambizioso: la società danese lo ha adottato perché la sua storia e il suo immaginario le impongono, in un certo senso, di posizionarsi come attenta alle questioni ambientali. Ma è anche molto complicato, come ha raccontato di recente il Wall Street Journal, e finora non ci è riuscita se non nel caso di alcuni pezzi secondari. Nello specifico alberi, cespugli e foglie, introdotti sul mercato lo scorso anno e derivanti dalla canna di zucchero coltivata in Brasile. Il resto dei 50 miliardi di mattoncini che Lego produce ogni anno continua a essere prodotto con la plastica tradizionale.
Definire le “bioplastiche” non è semplice, perché al momento sono diversi i materiali che ricadono in questa categoria, più o meno impropriamente: sono in generale quelle plastiche prodotte completamente o in parte con biomasse vegetali, che possono essere biodegradabili ma possono anche non esserlo, e che possono essere prodotte a partire da fonti rinnovabili ma anche fossili. In genere derivano dalla canna da zucchero, ma possono anche essere ricavate da amido di mais, grano, scarti alimentari o fecola di patate. Sono generalmente considerate un’alternativa molto più ecosostenibile della plastica tradizionale, anche se non sono – perlomeno non ancora – un materiale propriamente a basso impatto ambientale. Anche per questo è sconsigliato utilizzare il termine “bioplastiche”, a cui viene spesso preferito “polimeri a base biologica”.
Soprattutto, i problemi delle plastiche di origine vegetale riguardano le loro capacità di sostituire le plastiche tradizionali, derivanti dal petrolio. Lego ha infatti bisogno che i suoi mattoncini si incastrino bene tra di loro, che facciano CLACK, ma che possano anche essere separati facilmente; che siano sufficientemente robusti e che mantengano il loro colore e la loro forma a diverse temperature e soprattutto a lungo. «Se costruisci un castello con i Lego vuoi che sia ancora in piedi dopo cinque anni, dopo dieci, senza che i mattoncini cambino forma o che le torrette cadano», ha spiegato Tim Guy Brooks, a capo del dipartimento di Lego che si occupa di sostenibilità ambientale.
Nel 2012 Lego si impegnò a trovare un modo per iniziare a impiegare alternative sostenibili alla plastica tradizionale entro il 2030, e per farlo investì 150 milioni di dollari in ricerca e sviluppo. Finora ha testato oltre 200 materiali diversi, ma a oggi soltanto il 2 per cento dei suoi prodotti è di origine vegetale. Ha provato a partire dal mais, ma i mattoncini uscivano troppo morbidi; quelli a base di grano non assorbivano come si deve il colore; altri ancora erano troppo difficili da separare, troppo fragili o si “allentavano” col tempo negli incastri. «È un po’ come andare sulla Luna», ha spiegato Brooks. «Quando Kennedy disse di voler mandarci l’uomo, molta della tecnologia e delle attrezzature necessarie non esistevano ancora». Ricorrere alla plastica riciclata per ora non è un’opzione, visto che Lego ha bisogno di mantenere un certo standard di qualità – alto, e soprattutto omogeneo – nelle materie prime.
Lego non è sola in questo tentativo. Coca-Cola, per esempio, nel 2013 aveva promesso di includere una percentuale di materie prime vegetali in tutte le sue bottiglie (in parte lo fa già, fin dal 2009), ma ha poi dovuto spostare gli obiettivi sull’utilizzo di plastica riciclata. Quattro anni fa l’azienda aveva sviluppato una bottiglia di origine vegetale, ma non ha trovato il modo di portarne la produzione ai livelli necessari per metterla sul mercato, spiega il Wall Street Journal. Per sviluppare nuovi materiali industriali su questa scala serve che le aziende investano moltissimi soldi, e perciò Lego ha coinvolto altri gruppi come Nestlé, Procter & Gamble e McDonald’s per unire le forze e trovare materie prime che siano sostenibili non solo a livello ambientale, ma anche economico. La stessa Coca-Cola ha iniziato a condividere le sue tecnologie nel settore con altre aziende, sperando di trovare un modo per rendere l’utilizzo di polimeri biologici sostenibile.
Nonostante se ne parli da decenni, le plastiche di origine vegetale costituiscono meno dell’1 per cento dei 359 milioni di tonnellate di plastica che produciamo ogni anno, secondo European Bioplastics, l’associazione che rappresenta il settore in Europa. Anche se in futuro potrebbero arrivare incentivi e obblighi imposti dai governi, per ora Lego si sta impegnando di sua iniziativa. Come dice Brooks, «non possiamo dire che ispiriamo i costruttori di domani, se distruggiamo il pianeta».



È italiana la nave anti-plastica più grande al mondo. Ha droni e sottomarino

Fincantieri l’ha costruita in Romania e presto veleggerà per gli oceani. Ricerca, studi e divulgazione sono gli obiettivi del progetto di un ex petroliere norvegese

Il Pianeta ha un nuovo alleato contro plastica e gas serra: una nave di 183 metri che solcherà gli oceani per proteggere e studiare gli ecosistemi marini. Rev Ocean è un gigante costruito da Fincantieri in Romania, a Tulcea, da dove è partita verso la Norvegia per un collaudo finale prima delle sue spedizioni in tutto il mondo. Sulla Revo Ocean sarà attivo anche un inceneritore in grado di trattare quasi tutti i rifiuti, anche la plastica, ed è stato pensato proprio per non scaricare tutta l’immondizia prodotta a bordo nei Paesi che verranno toccati dalla crociera . Le emissioni, garantiscono sul sito ufficiale, saranno ridotte al minimo ed ecologicamente sostenibili. La ciurma complessiva sarà di 35 membri dell’equipaggio e 55 scienziati per quanto riguarda i viaggi di ricerca, ma saranno possibili anche delle sorte di crociere con 28 passeggeri che potranno prendere parte a queste spedizioni green.

Foto: www.revocean.org

Perché una nave?

Rev Ocean è stata finanziata dal filantropo norvegese Kjell Inge Rokke, un imprenditore miliardario con un passato nell’industria petrolifera. L’investimento su un progetto green per il bene del Pianeta è stato un gesto per farsi “perdonare” i tanti anni passati in un settore resosi responsabile di disastri ambientali. Tanta la tecnologia a basso impatto su ambiente e fauna marina che è stata installata sulla nave, come quella che recupera il calore sfruttato poi per creare acqua dolce e il sistema di riduzione di suoni e vibrazioni. Sul sito ufficiale è possibile esplorare la nave.

Foto: www.revocean.org




Trust in Communicators: i risultati 2019

Conta più chi l’ha detto rispetto a ciò che viene detto e i soggetti esterni all’azienda riscuotono più fiducia dei professionisti della comunicazione. Sono alcune delle evidenze emerse da Trust in Communicators, la ricerca di Euprera che indaga la fiducia nei professionisti della comunicazione.


Una nuova ricerca rivela alti livelli di sfiducia nei confronti dei portavoce delle aziende, mentre gli esperti esterni riscuotono più fiducia presso l’opinione pubblica. I sostenitori esterni delle organizzazioni riscuotono infatti più fiducia rispetto a dirigenti, professionisti delle relazioni pubbliche ed esperti di marketing da parte dell’opinione pubblica. Un team di ricercatori europei ha esplorato sia il significato di questo quadro mutevole per i professionisti della comunicazione sia il processo di costruzione della fiducia nelle organizzazioni.
Lo studio è stato condotto da rinomati ricercatori dell’Università di Lipsia, dell’Università di Leeds Beckett e dell’Università IULM di Milano, e supportato da Cision Insights e Fink & Fuchs. I ricercatori tedeschi, inglesi e italiani hanno condotto una serie di sondaggi rappresentativi in ​​ciascuno dei rispettivi Paesi. I sondaggi miravano a indagare i dati sulla fiducia del pubblico nei confronti dei dirigenti delle organizzazioni, dei giornalisti, dei professionisti delle relazioni pubbliche (RP) e del marketing e a confrontarli con il livello di fiducia negli altri sostenitori che parlano a nome delle organizzazioni. I ricercatori hanno anche condotto un sondaggio tra i professionisti della comunicazione negli stessi Paesi. Questo sondaggio mirava a capire come i professionisti valutano la fiducia del pubblico nella loro professione.
La ricerca ha evidenziato che i professionisti della comunicazione riscuotono più fiducia e sono riconosciuti maggiormente nel Regno Unito rispetto a Germania e Italia. Nonostante ciò, il pubblico rivela un alto livello di sfiducia nei confronti di questi professionisti (vedere la Figura 1). È stato individuato un divario di fiducia, che si sta colmando, tra professionisti della comunicazione e giornalisti, ma non così ampio come previsto.
(descrizione)
Le informazioni sulle organizzazioni sono spesso diffuse da persone che non sono professionisti della comunicazione, ad esempio da sostenitori dell’organizzazione come clienti (fan, brand ambassador), esperti del settore (accademici, consulenti) o attivisti con gli stessi interessi. Lo studio ha dimostrato che gli esperti del settore riscuotono più fiducia rispetto a questi sostenitori, ma sono comunque tutti più fidati rispetto ai professionisti della comunicazione (vedi Figura 2). Gli sforzi dovrebbero essere focalizzati sul consentire a questi gruppi di sostenitori di promuovere il processo di costruzione della fiducia.
(descrizione)
La ricerca ha rivelato che l’opinione pubblica percepisce in maniera confusa gli obiettivi e le attività dei professionisti delle relazioni pubbliche (vedi figura 3). Mentre i professionisti della comunicazione fraintendono il giudizio dell’opinione pubblica su di loro e ne sopravvalutano la fiducia. Questi professionisti, inoltre, giudicano erroneamente il loro ruolo nel processo di rafforzamento della fiducia e ignorano la fiducia del pubblico nei confronti dei sostenitori esterni.
(descrizione)
A commento del nuovo studio, la Prof. Stefania Romenti, responsabile della parte italiana della ricerca, afferma: “Questa ricerca è frutto della partnership che il Centro di ricerca per la comunicazione strategica, da me diretto presso l’Università IULM, ha stretto con l’European Communication Monitor (ECM), l’indagine più estensiva condotta in 46 paesi sul ruolo strategico giocato dalla comunicazione nelle organizzazioni. Dall’edizione 2019 dell’ECM era emerso che in particolare in UK, Germania e in Italia il livello di fiducia tra comunicatori, organizzazioni e opinione pubblica è più critico rispetto ad altri contesti culturali. Per questo motivo abbiamo deciso di realizzare una nuova ricerca incentrata sul ruolo della fiducia nelle diverse figure di comunicatori che a vario titolo rappresentano le organizzazioni. I risultati rappresentano uno spunto di riflessione operativo per i professionisti e li supportano nella selezione delle figure più adeguate a esprimersi in rappresentanza delle imprese”.


La ricerca
La ricerca “Trust in Communicators” è diviso in due parti.  Innanzitutto, abbiamo intervistato i comunicatori d’impresa attraverso uno studio quantitativo in tre Paesi: Germania, Italia e Regno Unito, per comprendere la percezione della fiducia nei confronti dei comunicatori. Successivamente, abbiamo confrontato le loro opinioni con le percezioni della fiducia nei confronti dei professionisti della comunicazione negli stessi Paesi da parte della popolazione complessiva.
Sulla base di ricerche precedenti e della letteratura esistente sulla fiducia nei professionisti della comunicazione, è stato costruito un elenco di dichiarazioni per rilevare il livello di fiducia o sfiducia in tutti i tipi di comunicatori che possono parlare a nome di un’organizzazione e dei giornalisti che si occupano delle organizzazioni. Inoltre, sono state delineate delle dichiarazioni relative alle attività delle relazioni pubbliche. Il sondaggio si basa su un campione rappresentativo di adulti di età compresa tra 16 e 64 anni provenienti da Germania, Italia e Regno Unito (intervistati tramite “omnibus” online nella primavera del 2019 da Kantar TNS). Inoltre, i professionisti della comunicazione sono stati esaminati contemporaneamente nell’ambito della ricerca annuale European Communication Monitor (communicationmonitor.eu).