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ADHD: IL BUSINESS DEL FARMACO


Si discute da anni dell’esistenza o meno dell’”epidemia” ADHD, ovvero del numero – cresciuto esponenzialmente negli anni – di bambini “iperattivi” degni di attenzione medica, trattati quasi sempre, specie in USA, ma non solo, con psicofarmaci la cui somministrazione precoce non è considerata eticamente e clinicamente opportuna da parte della comunità scientifica. Bambini certamente non solo “ vivaci”, bensì impulsivi, iper-agitati e cronicamente disattenti. 

Autorevoli luminari e specialisti sono pronti a giurare circa l’esistenza di questa “malattia” dell’infanzia, e si stracciano le vesti se messi in discussione dagli “oscurantisti medioevali”, che poi sono tutti coloro che hanno un punto di vista differente dal loro. Altrettanto loro autorevoli colleghi storcono la bocca, e criticano severamente un approccio che finisce per banalizzare problematiche ben più complesse. Chi ha ragione? Ma – cosa ben più importante – cosa dovrebbe fare chi si trova al bivio, con un figlio forse malato di iperattività, o forse no? E soprattutto: come si dovrebbe regolare chi il problema l’ha già in casa? Perché è facile parlare, quando non si è toccati direttamente dal disagio.

In questo balletto di cifre, dati e pareri, è necessario fare un po’ di chiarezza: quello che è certo, è che non esiste alcuna prova dell’esistenza dell’Adhd, alcun marcatore biologico è mai stato individuato, e per tante ricerche scientifiche che tentano di dimostrare l’esistenza della sindrome, altrettante la smentiscono. Ciò non deve portarci ad abbracciare la scriteriata tesi opposta, ovvero che non esistono disagi dell’infanzia o problemi comportamentali degni di sollecita attenzione. Il problema è: qual è la causa? Ed ancora: che tipo di risposta noi adulti siamo disposti a dare a queste delicate problematiche? Per molti specialisti, l’Adhd è una “costellazione aspecifica di sintomi”, ovvero un insieme di campanelli d’allarme, che segnalano problemi ben più profondi. È chiaro a tutti a quali rischi esponga il persistere nel voler curare un sintomo trattandolo come una malattia a sé stante: si finisce per sedarlo, il sintomo, lasciando sotto di esso inalterata la malattia. Sono infatti oltre duecento le vere patologie, spesso appunto trascurate, che generano iperattività: classificarle tutte quante sotto la generica voce “Adhd” è perlomeno ingenuo, ma molto di moda in questi ultimi anni.

Quel che è certo, e scientificamente provato, è che lo psicofarmaco non è mai di per se la soluzione definitiva, dal momento che si limita ad intervenire sui sintomi, raramente li risolve(1), non migliora il rendimento scolastico (2), senza considerare il problema degli effetti collaterali e iatrogeni, come dimostra la letteratura scientifica, che conferma “una possibile associazione tra metilfenidato e una serie di eventi avversi gravi e anche un elevato numero di eventi avversi non gravi in bambini e adolescenti”(3), puntualmente ignorata da chi, ignorante o in cattiva fede, nega l’esistenza di un problema di eccessiva medicalizzazione dei minori.

L’Adhd com’è definita oggi è più che altro una moda, le diagnosi sono inconsistenti e vaghe, e per come vengono perfezionate non si possono e non si devono fare”,


dice Emilia Costa, già 1^ cattedra di Psichiatria dell’Università di Roma “La Sapienza”, incalzata dal Professore di Pediatria William Carey, uno dei massimi esperti di sviluppo comportamentale del bambini in USA, che afferma:

“I questionari che vengono utilizzati per diagnosticare questi disagi dell’infanzia sono altamente soggettivi ed impressionistici: nonostante il fatto che le scale di valutazione utilizzate non soddisfino i criteri psicometrici di base, i sostenitori di questo approccio pretendono che questi questionari forniscano una diagnosi accurata, ma così non è”.


Insomma, una storia che si spaccia per già scritta, mentre in realtà nella comunità scientifica la discussione è tutt’altro che chiusa. Ma mentre si discute, il marketing del farmaco si fa sempre più aggressivo, ed è forse questo il vero problema: l’infanzia rappresenta un nuovo e molto redditizio segmento di business per le multinazionali del farmaco, le quali finanziano circa l’80% della ricerca mondiale, e – se è vero che ci salvano la vita con molti prodotti utili – è altrettanto vero che tendono a non pubblicare mai le ricerche scientifiche con esito negativo, così da non nuocere al profilo commerciale dei propri brevetti.

Qualche ostinato incompetente carente di onestà intellettuale continua a negare l’evidenza, sostenendo che non vi è stato negli anni un incremento delle diagnosi e – guarda caso – della prescrizione e vendita di psicofarmaci per “curare” questo disagio, nonostante i dati dimostrino il contrario (4): le aziende dal canto loro sono più schiette, e parlano di “mercato globale”, come potete leggere dalla presentazione dell’inquietante rapporto pubblicato in calce a questo articolo (5).

In questo scenario molto poco rassicurante, l’imperativo può essere uno solo: la prudenza e l’applicazione del principio di precauzione. È necessario prestare la massima attenzione affinché la scuola non diventi l’anticamera dell’ASL, come sta succedendo sempre più spesso anche in Italia, dove assistiamo a una sempre più marcato tentativo di medicalizzazione del disagio. Riflettiamo piuttosto sul rapporto di noi adulti con i bambini: quasi sempre, per ogni bambino che lancia un allarme e manifesta il proprio disagio profondo, c’è un adulto che non vuole o non può ascoltarlo, e che trova maggiore serenità nella certezza di una diagnosi e nella soluzione “facile” di una pastiglia miracolosa, piuttosto che nel doversi mettere lui stesso in discussione, oppure c’è un sistema scolastico depotenziato nella sua capacità pedagogica e di gestione delle differenze, o ancora un ambiente attorno al bambino per qualche motivo ostile o inadeguato a valorizzarne le specifiche peculiarità.



Bibliografia:

  1. Riddle et altri, “The Preschool Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder Treatment Study (PATS) 6-Year Follow-Up” – Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, Volume 52, Issue 3, March 2013, Pages 228-230
  2. THERAPEUTICS INITIATIVE Evidence Based Drug Therapy – “Stimulants for ADHD in children: Revisited” – Therapeutics letter, January/February 2018
  3. Storebø OJ, Pedersen N, Ramstad E, KielsholmML, Nielsen SS, Krogh HB, Moreira-Maia CR, Magnusson FL, Holmskov, M, Gerner T, SkoogM, Rosendal S,Groth C, GilliesD, Buch Rasmussen K,GauciD, ZwiM, Kirubakaran R,Håkonsen SJ, Aagaard L, Simonsen E, Gluud C. – “Methylphenidate for attention deficit hyperactivity disorder (ADHD) in children and adolescents – assessment of adverse events in non-randomised studies”. Cochrane Database of Systematic Reviews 2018, Issue 5. Art. No.: CD012069. DOI:10.1002/14651858.CD012069.pub2.
  4. Rae Thomas, Geoffrey K Mitchell, Laura Batstra – “Attention-deficit/hyperactivity disorder: are we helpingor harming?” – BMJ 2013;347:f6172 doi: 10.1136/bmj.f6172 (Published 5 November 2013)
  5. Attention Deficit Hyperactivity Disorder (ADHD) Farmaci – Mercato 2019 –“Rapporto Di Ricerca Sull’analisi Dei Fattori Di Crescita, Dimensioni, Segmenti, Fattori di Crescita Globali del Settore”



Realtà? No, grazie. Il marketing dei fatti estesi e la non-campagna Nivea

Realtà? No, grazie. Il marketing dei fatti estesi e la non-campagna Nivea
Aziende e consumatori dialogano su fatti estesi che non sono accaduti ma che diventano lo stesso rilevanti. L’analisi di Andrea Fontana, presidente di Storyfactory
Ve la siete fatta la foto, vero? Quella per vedere – fra qualche anno – come starete con qualche ruga in più. Chissà dove sono andate a finire quelle foto! Ma al di là di questo, nulla di male nell’osservarsi nel futuro con FaceApp – l’applicazione per Android e iOS – che consente di viaggiare nel tempo, scrutando forme diverse del proprio volto. Un frame, un click, qualche secondo e la realtà futura (o passata) si manifesta. Ma è davvero la realtà quella? O è un gioco con le diverse sfaccettature del reale che non siamo ancora del tutto pronti a giocare? Dove aziende e consumatori dialogano su fatti estesi che non sono accaduti ma che diventano lo stesso rilevanti. Vediamo.

Il VERO-FINTO E LA REALTÀ ESPANSA

La FaceApp Challenge, quel contest partito nelle settimane centrali di luglio 2019 e che ha visto molti di noi impegnati nel fotografarsi e condividere i propri volti manipolati da un software, è stata talmente coinvolgente che molti altri di noi hanno deciso di reagire e di contro-argomentare. Magari cavalcando l’onda del newsjacking.
Tra questi, alcune marche tra cui anche l’immancabile Taffo – l’azienda di onoranze funebri ormai celebrity – che con ironia ha commentato in alcuni suoi tweet di non esagerare con questa nuova smania dell’invecchiamento.
In mezzo a tanto rimbalzarsi di post, tweet e immagini ha avuto un certo eco anche la campagna
Stay original” di Nivea – additata come esempio di real time marketing e presa di posizione – che è circolata su diversi social media: da Facebook a Twitter, persino Linkedin.
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L’avete vista, no?
Personalmente, mi è capitato di intercettarla prima sul mio profilo Linkedin e poi su quello Facebook. Lì per lì mi aveva colpito il modo apparentemente up to date dell’azienda di utilizzare la FaceApp Challenge come evento socialmente rilevante di contro-argomentazione reputazionale.
La maggior parte dei miei contatti era in visibilio per questa campagna, tra cui molti esperti di comunicazione. Anche io ero sulla soglia del commento positivo e della condivisione entusiasta. Ma c’era qualcosa che mi tratteneva dal farlo. Sapete quando avete quel sentore di “qualcosa non quadra”.
E siccome ormai ho imparato – anche a mie spese – che tutto quello che osserviamo nella nostra esistenza onlife può essere vero-finto, mi sono preso qualche minuto di approfondimento. Sono andato sui profili social ufficiali di Nivea Italia e non c’era traccia della campagna. Così come non c’era traccia sui diversi siti di advertising che di solito riportano campagne innovative.
Nel mio “giro in giro” ho però notato che alcuni utenti condividevano questa card visiva non solo con il brand sotto a destra ma anche con una firma in alto a sinistra:
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Di chi era? Forse che la firma nella card era stata tagliata, omessa o ri-sagomata nei diversi passaggi onlife? Questo mi ha quindi insospettito.
Così ho rifatto il giro sui profili ufficiali dell’azienda, stavolta in Europa, e in effetti Nivea Espana dava una traccia – su Twitter – dichiarando:“Nel Team Nivea in questo momento siamo così. Questo sì che è iniziare la giornata con umorismo. Grazie di cuore ai nostri utenti per essere stati così creativi e per averlo condiviso con noi. Senza dubbio, hai tirato fuori un sorriso”. nivea twitter
Ecco fatto. Ero di fronte al vero-finto nella sua espressione compiuta.
Una campagna non ufficiale vissuta dai diversi pubblici europei, e non solo, come autentica. Non la “realtà specifica” di un gesto pubblicitario pensato dall’azienda ma la “realtà espansa” di un percepito pubblico immaginato da un singolo individuo, diventato – per un momento – detentore e driver del racconto di marca.
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Pochi minuti ancora ed ero sulla pagina Facebook del designer che aveva creato questo unofficial ads: l’artista visivo Hamza Haddam – il quale ricordiamolo: aveva comunque firmato il visual originale, cancellato ed omesso poi da chissà chi, nei vari passaggi mis-informativi della rete.

IL MARKETING DEI FATTI ESTESI

La vicenda della unofficial ads di Nivea ci mostra che non possiamo farci più nulla.
Viviamo in un tempo di messa in scena del reale in tutti i settori: politico, economico, commerciale. E sempre più spesso – in questa attività di costruzione della verità collettiva (per approfondire vedi qui e qui) – sono le audience a compiere operazioni di marketing esteso – al di là della ownership aziendali e/o politiche.
Oggi in qualità di pubblici viviamo in un nostro “campo di realtà”, sempre più portato dai media mobili. All’interno di questo campo di realtà vediamo accadere fatti che non possiamo verificare (non ne abbiamo il tempo e le risorse) e che percepiamo automaticamente come veri, oggettivi, realistici. Anche quando non lo sono.
Questi fatti non sono più semplici accadimenti lineari che possiamo constatare con i nostri occhi e la nostra esperienza diretta – nell’esempio riportato: c’è un presunto post promozionale on line di una azienda – ma possiamo definirli fatti estesi perché nel vero-finto estendono la loro pertinenza. Non sono completamente oggettivi ma – incontrando le convinzioni soggettive dei pubblici – lo diventano.
fatti estesi infatti non hanno nulla a che fare con l’esperienza diretta ma con l’adesione consensuale del possibile accadimento alle nostre credenze (per approfondire vedi qui). Possiamo misurarli e valutarli in termini di:

  • rilevanza: quanto il fatto è importante per chi lo vive (nel nostro caso: quanto è rilevante che una azienda o una istituzione racconti “temi caldi” per i pubblici e non suoi freddi key-message?)
  • posizionamento sociale: come il fatto si colloca nel dibattito socio-culturale di una collettività (nel nostro caso: quanto è importante vedere che una azienda o una istituzione contrasta una moda potenzialmente nociva?)
  • attualità valoriale: come il fatto aderisce o meno al senso del vissuto attuale di una comunità ed esprime i valori di quel collettivo (nel nostro caso: come l’azienda o l’istituzione si fa percepire “vicina” alle vite e ai valori concreti dei pubblici?

Così abbiamo voluto credere che Nivea abbia trattato un tema caldocontrastando una moda forse pericolosa, facendosi sentire attenta ai valori della nostra attualità sociale.
Nel momento in cui molti di noi hanno condiviso quella card, non aveva nessuna importanza che l’autore fosse Hamza Haddad, era rilevante solo sentirsi parte in causa dell’espressione di una narrazione di marca che ci piaceva e coinvolgeva. E a cui aderivamo valorialmente. Anche adesso molti di quelli che hanno condiviso quella card rimarranno convinti del gesto fatto.

CREDENZE E DEEP MEDIA

È questa la potenza del marketing dei fatti estesi. E a questa potenza – come marketer, comunicatori, e giornalisti, ci dobbiamo risvegliare, imparando a gestirla e – se necessario – smascherarla.
Il marketing dei fatti estesi – sia in economia che in politica – si basa e si baserà sempre di più sull’espansione e gestione delle nostre credenze e percezioni. Così come la stessa FaceApp Challenge ci ha dimostrato: crediamoci e percepiamoci più vecchi o più giovani … vediamo cosa succede, se estendiamo la nostra percezione oltre il tempo attuale; saremo più belli o più brutti?
Sappiamo che è un gioco, ma è un gioco che ha conseguenze reali nelle nostre vite, perché qualcuno ha preso dati-biometrici dai nostri volti. E noi glieli abbiamo regalati.
Con l’Artificial Intelligence, l’Internet of Thing e i nuovi device di realtà aumentata non potremo più basarci sul motto cartesiano del: “crediamo solo in quello che possiamo vedere, sperimentare e toccare”. Perché i deep media truccano il tavolo e amplificano e modificano costantemente il nostro reale. Tutto diventa ri-toccatto, ri-sperimentato, ri-formulato, ri-sentito, ri-pensato in un costante processo di oggettività-soggettività, o se volete: concretezza-finzione.
In questo senso, quale è il valore oggi di un brand se possono concorrere a costruirlo gli stessi pubblici in operazioni di marketing esteso?
Così, le nostre credenza diventano e diventeranno sempre di più la nuova frontiera su cui misurarci e sfidarci tutti. E chi saprà estendere i fatti – in economia come in politica (e già lo vediamo) – avrà una grande responsabilità nei nuovi territori della comunicazione presente e futura. Non possiamo più credere in quello che vediamo. Piuttosto dobbiamo essere consapevoli che è quello che vediamo che ci porta a credere.




ENERGIA GIOVANI

L’ospite di questa settimana è Andrea Brugora responsabile del progetto “Energia Giovani” di Milano.
Ciao Andrea e benvenuto sul mio blog. Quando è nata l’idea di “Energia giovani”?
L’idea di affrontare il tema dell’equità generazionale è maturato a Milano tra un gruppo di amici. Poi abbiamo scelto l’approccio di cominciare dalle scuole, che sono il luogo dove si costruiscono le persone del futuro, quelle che dovrebbero essere più interessate a questi temi ma che spesso lo ignorano. In questo senso il nostro impegno, totalmente volontario, assume un valore di vera e propria educazione civica integrativa. Siamo ragazzi che hanno avuto tanto e vogliamo restituire alla società e in particolare ai nostri coetanei e ai più giovani.
La vostra missione è sensibilizzare il pubblico sul tema dell’equità generazionale e della sostenibilità: come pensate di organizzare l’attività?
Da un lato proponiamo agli studenti delle scuole superiori, e presto anche delle università, dei moduli interattivi di alcune ore di introduzione al tema, per renderli consapevoli che esiste nel nostro Paese una questione generazionale e che è un problema la cui soluzione dipende in buona parte da loro. Tuttavia non ci limitiamo alle scuole: lo scorso 30 marzo abbiamo organizzato il primo evento pubblico a Milano che ha visto la partecipazione di oltre 200 persone. Stiamo anche lavorando per creare dei moduli di approfondimento su temi specifici, come le prospettive di lavoro, la difficoltà a formare una famiglia, le carenze del nostro sistema formativo, l’empowerment delle nuove generazioni.
Quali sono i vostri programmi per i prossimi mesi?
Abbiamo in programma di ampliare la nostra attività aprendo dei “focolari” di volontari in molte altre città italiane. Per ora siamo attivi, oltre a Roma e Milano, anche a Verona e Genova. Vorremmo arrivare a 10 città entro fine anno, e in ciascuna di queste città ampliare il bacino di scuole fino a una decina per ciascuna città. Oltre a questo vogliamo organizzare in ciascuna città eventi pubblici e nelle università, per creare consapevolezza in tutti i segmenti di cittadinanza.
Più in generale, quali sono i vostri programmi per il futuro?
Per l’anno successivo la prospettiva è quella di continuare a crescere, e strutturarci come un’organizzazione che diventi il riferimento su questi temi a livello nazionale, con un team di esperti sui temi dell’equità intergenerazionale che possa formulare proposte di policy e farsi ascoltare. Dopo questo potremmo anche pensare a dei servizi per aiutare i nostri coetanei a costruire il loro percorso, siamo un gruppo attivo e di grande vitalità e continuiamo a ideare nuovi progetti. La nostra certezza è che vogliamo avere un impatto positivo.




Da guida turistica a miliardario che sogna di andare in vacanza: la storia di Mr. Alibaba

Da guida turistica a miliardario che sogna di andare in vacanza: la storia di Mr. Alibaba

Ha conquistato le prime pagine della stampa d’Occidente quando ha annunciato di voler mollare l’impero del web da lui fondato per dedicarsi alla vita vera, ma ha anche lasciato di stucco gli ospiti dell’evento benefico Clinton Global Initiative di New York affermando che “se siete ancora poveri a 35 anni lo meritate”. Jack Ma è indicato spesso come il prototipo dell’imprenditore illuminato che vuole scardinare i modelli di business, ma ha anche una visione del successo spietata e diretta. Ecco la sua storia.

Dal basso e con determinazione

L’uomo più ricco della Cina ha cominciato molto presto a costruire il proprio impero. Nato nel 1964 nella provincia orientale dello Zhejiang, in piena rivoluzione culturale, decide già a 12 anni di puntare sull’inglese per provare a migliorare la sua condizione familiare. Per quasi otto anni, pedala 40 minuti al giorno con qualsiasi temperatura e condizione meteo per raggiungere l’hotel dove prelevava i turisti da portare in giro come guida volontaria. Un’esperienza che gli ha permesso di migliorare la sua padronanza della lingua, ma soprattutto di intravedere modi di vivere molto diversi da quello cinese. Si laurea proprio in inglese e inizia una carriera come insegnante universitario di tale materia.
Nel 1995, a 31 anni, va a Seattle come interprete di una delegazione commerciale e negli Usa viene folgorato da Internet. L’idea di sfruttarlo per un nuovo modo di far commercio si fa strada immediatamente nella sua mente. Decide di provarci: “Non importa ciò che si fa, – dirà più avanti – a prescindere dal fallimento o del successo, l’esperienza è una forma di successo in sé. Devi continuare a provare e se non funziona, si può sempre tornare a quello che stavi facendo prima”.
Nel 1999 fonda Alibaba, il più grande e-commerce del mondo, con l’aiuto (e i soldi) di 17 persone che convince a diventare suoi soci con un finanziamento iniziale di 60mila dollari. Adesso la capitalizzazione della società si aggira intorno ai 440 miliardi di dollari e gli analisti stimano che possa raggiungere i 1000 miliardi entro il 2020.
Nel primo anno di vita, la neonata società raccoglie 25 milioni di dollari da diverse altre istituzioni di credito; la redditività arriva nel dicembre 2001. Nel 2003, Ma fonda anche la piattaforma di vendita online Taobao, e nel dicembre del 2004 inaugura Alipay, il servizio di pagamento online a cui si appoggia Alibaba.
Con un valore di 25 miliardi di dollari, lo sbarco del 2014 a Wall Street del colosso online cinese è ormai nella storia e sembra pronto a un bis: entro l’anno il gruppo potrebbe ottenere nuovo supporto dal mercato con una seconda Ipo sulla borsa di Hong Kong. La speranza è di raccogliere almeno 20 miliardi per sostenere nuova innovazione tecnologica con cui minimizzare gli effetti della guerra commerciale tra Pechino e Washington.

L’annuncio choc

Jack Ma non sarà alla guida di Alibaba quando ci sarà la quotazione a Hong Kong. Sta lavorando alla sua uscita dal gruppo da diversi mesi, da quando ha pubblicamente promesso: “Mi ritirerò ancora giovane per godermi la vita. Non voglio morire in ufficio, è meglio morire in spiaggia, sotto un ombrellone”.
Già lasciato il ruolo di Ceo nel 2013 in favore del fedelissimo Daniel Zhang, dovrebbe rinunciare anche alla carica di presidente esecutivo il 10 settembre 2019. “Dieci anni fa – ha raccontato al South China Morning Post, uno dei suoi giornali – mi sono riunito con i massimi dirigenti e ci siamo chiesti che cosa avrebbe fatto Alibaba senza di me. Oggi sono orgoglioso del fatto che Alibaba abbia la struttura, la cultura aziendale, la governance e i sistemi per coltivare talenti che mi consentiranno di fare un passo indietro senza causare problemi alla compagnia”. E questa solidità non è frutto di un lavoro fatto di recente: “Oggi abbiamo ottenuto questo successo, non perché abbiamo fatto un ottimo lavoro oggi, ma perché il nostro sogno è nato 15 anni fa”.
Sul modello di Bill Gates, farà della filantropia nel campo dell’istruzione il suo nuovo lavoro. Vuole restituire ai giovani quello che ha imparato creando Alibaba: “Bisogna aiutare i giovani perché i ragazzi un giorno diventeranno grandi e se li cresceremo bene avranno la forza e l’intelligenza per cambiare il mondo”.




L’incredibile passo falso di Alitalia, che ha usato la blackface per pubblicità

L’incredibile passo falso di Alitalia, che ha usato la blackface per pubblicità

Dopo il caso di Gino Sorbillo, che l’aveva fatto per esprimere la sua “solidarietà” al calciatore del Napoli Koulibaly, questa volta è Alitalia a incappare nell’utilizzo “inconsapevole” di blackface.

Le virgolette sono d’obbligo, siamo pur sempre nel 2019 e non è facile capacitarsi di un passo falso del genere, tanto più da parte della compagnia di bandiera che, per pubblicizzare il volo diretto Roma-Washington DC, sceglie di assoldare un attore nordafricano e di “scurirlo” per farlo assomigliare a Barack Obama, come se il trucchetto potesse far ridere qualcuno. Il video, stigmatizzato pure dal New York Times, è stato poi prontamente cancellato (come segnalato dall’azienda a Studio dopo la pubblicazione di questo articolo, ndr), e Alitalia si è prontamente scusata pubblicamente sui suoi canali social, riconoscendo l’errore e ribadendo le proprie ferme posizioni sul tema.

Non si tratta, qui, di essere troppo sensibili o particolarmente inclini all’offesa, quanto piuttosto di rilevare la devastante mancanza di consapevolezza culturale da parte di un’azienda di queste dimensioni. Eppure non è certo una novità in Italia, dove spesso il razzismo viene giustificato come scherzo, ha scritto Davide Coppo su Undici a proposito dei tanti episodi razzisti accaduti nel mondo dello sport. Lo ha spiegato anche il ricercatore Leonardo De Franceschi alla giornalista italiana Nadeesha D. Uyangoda su Al Jazeera, infatti, che «I video come quello di Alitalia costituiscono una rappresentazione comune nella pubblicità e nell’industria televisiva mainstream italiana. Penso ai cinepanettoni popolari e anche a film più recenti che riproducono stereotipi e pratiche – come la blackface – che in altri Paesi, dagli Stati Uniti al Regno Unito, non sarebbero tollerati». La pubblicità di Alitalia era razzista, insomma, e il fatto che nessuno tra chi ci ha lavorato se ne sia accorto per tempo rimane l’aspetto più incredibile (e triste) dell’intera vicenda.