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I compiti del "nuovo" CCO a sostegno degli obiettivi aziendali

I compiti del "nuovo" CCO a sostegno degli obiettivi aziendali

COMUNICAZIONE D’IMPRESA
Il “nuovo” CCO (Chief Communication Officer) si trova oggi a operare in un terreno nel quale poderose forze trasformative alimentano stakeholder informati, consapevoli e abilitati a organizzare, mobilitare ed esercitare influenze e pressioni affinché le imprese siano indotte a  contribuire alla soluzione di pressanti questioni economiche, politiche e sociali. Fra queste forze trasformative si annoverano le dinamiche tecnologiche, i nuovi modi di lavorare, le questioni emergenti legate a privacy e sicurezza, ma soprattutto quelle della “discussione nello spazio pubblico”, che ha visto l’esplosione digitale ridefinire come gli individui interagiscono, si scambiano opinioni, formano comunità e dialogano, fra loro e con le organizzazioni economiche, politiche e sociali.
Da decenni attento osservatore delle dinamiche socio-culturali e politico-ambientali e comunicatore ufficiale dell’impresa, il “nuovo” CCO vive giorno per giorno tre macro-fenomeni relativamente recenti:

  1. la destinazione delle risorse disponibili appare sempre più orientata al coinvolgimento diretto degli stakeholder in un dialogo su questioni e contenuti di specifico interesse dell’organizzazione, anche se sovente di impatto più allargato (+30% negli ultimi 5 anni, secondo gli oltre 200 partecipanti al Page Jam[1]);
  2. con sempre maggiore intensità il CCO si trova a lavorare in stretto contatto con altre funzioni direttive dell’impresa, assumendo co-responsabilità con il CIO, il CMO, CFO, CRO etc. su questioni come la diversità, la cultura organizzativa, il marketing, la promozione e la creazione di sistemi digitali;
  3. la sfida del coinvolgimento continuativo degli stakeholder richiede al CCO esperienza nel progettare, produrre, alimentare piattaforme e spazi di dialogo (reali e digitali) e coinvolgimento con gli altri; nonché nozioni avanzate di strategia digitale e capacità di analisi dei comportamenti e delle dinamiche culturali.

Dal rapporto The New CCO  – prodotto dalla Page Society nel corso di un decennio di lavoro passato attraverso tre tappe intermedie (2007 con The Authentic Enterprise; 2012 con Building Belief; 2016 con The New CCO) – emerge chiaramente che il ruolo del CCO, prima ancora che nella sua rappresentazione pubblica (immagine, reputazione), si esercita nel processo stesso di definizione delle caratteristiche identitarie[2] dell’impresa.
Gli autori Page[3] riconoscono tuttavia che per con-vincere[4] lo stakeholder ad agire a sostegno di un qualsiasi obiettivo condiviso, perfino i migliori esercizi di envisioning non sono più sufficienti, anche perché da questi testi non emerge a sufficienza il vero (autentico?) Dna dell’impresa, quello per cui il singolo stakeholder viene invitato a valutare e decidere se ignorare, interagire, criticare o sostenere: innescando quella che la Page definisce advocacy at scale.
Il CCO opera quindi anche per assicurare che l’impresa si comporti in modo coerente con quel “carattere” e il modello Page propone anche una stimolante cornice operativa per determinare come l’organizzazione appare, quello che dice, quello che pensa e quello che fa. Un approccio che non si propone soltanto di formare o modificare le opinioni dei pubblici e degli individui, ma anche di indurli ad agire a sostegno dell’impresa stessa. E questo ovviamente richiede al CCO anche di comprendere come individui e/o gruppi assumano decisioni, e non soltanto come acquisiscano consapevolezza o distribuiscano informazione.
Del resto, è anche verosimile pensare che più diventa specifica e dettagliata la descrizione del Dna dell’impresa più emergano potenziali divari fra i comportamenti effettivi e la comunicazione. Ne consegue che il ruolo del CCO implica anche, e forse soprattutto, esperienza nel coltivare e facilitare l’azione collaborativa fra le diverse funzioni (intesa come stewardship prima ancora che leadership), riprendendo peraltro quella funzione “riflessiva ed educativa” che era già stata formalizzata in Europa nel 2002 dal Bled Manifesto[5].
Si allargano in tal modo le abilità e le competenze richieste al CCO:

  • è integratore, perché assicura che l’insieme dell’impresa pensi e agisca in coerenza con il “carattere’” condiviso;
  • è designer, ma non più solo di sistemi di comunicazione o di marketing, bensì anche di come questi interagiscono con i sistemi operativi e di management;
  • è analista di dati, che comprendono le aspettative di clienti, collaboratori, investitori, cittadini e singoli individui, e non più soltanto semplici segmenti di pubblici più o meno influenti;
  • è editore e co-editore di media, propri o in condivisione con altri per produrre e distribuire storie, informazione ed esperienze che abilitino il singolo stakeholder per l’azione di advocacy at scale;
  • è studioso di scienze del comportamento per innescare con altri, singoli o gruppi, processi di credibilità, di azione, di comportamento e di argomentazione.

Ecco, in sintesi, i tre ruoli fondamentali del CCO oggi espressi dal documento più recente della Page Society:

Strutturale:

  • contribuisce a definire il carattere autentico dell’organizzazione, sviluppando una funzione vocale fidata, informata e con-vincente, capace di identificare, interpretare e agire sui cambiamenti in corso, anticipando gli eventi, attento alle dinamiche emergenti dal discorso pubblico;
  • coinvolgendo regolatori, attori delle politiche pubbliche e organizzazioni inter e non governative e creando con loro relazioni di fiducia e durature; contribuisce ad assicurare che i comportamenti dell’organizzazione siano coerenti con la retorica comunicativa, che i valori annunciati siano praticati e che l’organizzazione si comporti con responsabilità e trasparenza, anche tenendo conto degli interessi di tutti gli stakeholder;
  • comunica con efficacia, dominando la continua proliferazione dei canali e modulando con sapienza l’ìnfluenza, sempre più indiretta, nella formazione delle percezioni degli stakeholder.

Integrato:

  • contribuisce a determinare i comportamenti quotidiani dell’organizzazione e a governarne i sistemi di relazione con gli stakeholder, stimolando e orientando l’azione all’interno di una collaborazione interfunzionale sulle priorità strategiche;
  • opera a stretto contatto con il CIO sulle tematiche digitali delle sicurezza e della privacy e sulla creazione di piattaforme di coinvolgimento degli stakeholder; con le Risorse Umane sul reclutamento, coinvolgimento e trattenimento delle persone; con il Legale sulla identificazione e mitigazione dei rischi; con il Marketing sulla progressiva intersezione fra paid, earned, shared e owned media (il modello p.e.s.o).

Architetto:

  • progetta e costruisce piattaforme complesse capaci di mappare gli stakeholder e interpretarne umori e comportamenti, sistematizzando il processo che ne attiva il coinvolgimento, anche come individui e non solo come segmenti di pubblico;
  • disegna sistemi digitali data-based adatti e abilitati alla distribuzione di contenuti personalizzati;
  • produce una nuova modalità di coinvolgimento guidato da contenuti che esemplificano il dna dell’organizzazione correlandolo agli interessi del singolo stakeholder; connessione potente che aiuta l’impresa a creare e mantenere relazioni solide con gli stakeholder ispirandoli e incentivandoli anche a coinvolgere i rispettivi network a sostegno di valori e obiettivi condivisi.

La credibilità complessiva dell’impianto di pensiero della Page suggerisce una verifica se e  fino a che punto sia operativamente possibile integrare utilmente  i  tre ruoli sopra descritti – ma soprattutto il terzo (quello dell’architetto)-  con il filone della rendicontazione continua  e integrata (integrated reporting). Un filone che in questi ultimi tempi ha investito come un ciclone la pratica quotidiana di chi si trova  a  dover comunicare  l’impresa per cui lavora. E’ un filone che tuttavia stenta a trovare soluzioni ove il pur necessario dialogo con lo stakeholder individuale (one-with-one) continuativo, multi stakeholder, multi canale e multi issue possa utilmente articolarsi grazie anche all’applicazione di big data e lo sviluppo di software abilitanti una interazione di realtà virtuale.
Circolano leggende metropolitane su esperimenti da parte di colossi globali ma se ne sa ancora troppo poco. Intanto  però, in attesa che esperienze innovative come quelle appena avviate di e-revalue e il suo datamaran possano maggiormente articolarsi verso il coinvolgimento con il singolo stakeholder, l’esperienza ‘aperta e pubblica’ di Guna, piccola e innovativa azienda milanese, rimane  a conoscenza di questo autore, la sola ad essere per ora convincente.

Cos’è la Page Society

La Page Society nacque nel 1983 in ricordo di A.W. Page  (1883/1960). Laureato a Harvard nel 1905, fa il correttore di bozze e poi intraprende una rapida carriera alla editrice Doubleday & Page di proprietà del padre. In Europa per due anni durante la prima guerra come redattore di materiali di propaganda. Nel 1927, a seguito di un dissidio con Frank Doubleday, accetta l’offerta di lavoro del compagno di studi Walter Gifford, presidente della AT&T, a condizione di potere dirigere le relazioni pubbliche del monopolista telefonico, partecipando anche alla definizione e allo sviluppo delle strategie aziendali. Teorizza, e mette in pratica con i primissimi sondaggi di opinione l’ascolto degli stakeholder come funzione continuata e permanente della governance dell’impresa. Famose le sue frasi: «L’impresa è per il 90% quel che fa e per il 10% quel che dice di fare»;  «le relazioni pubbliche sono il modo di essere dell’organizzazione». Formula anche il concetto di “licenza di operare”, dicendo: «Ogni azienda nasce con il permesso del pubblico e vive con il suo consenso».
Oggi  Page Society è un think tank che raccoglie la partecipazione attiva di circa 300 CCO (Chief Communication  Officers) delle maggiori imprese e organizzazioni non profit, non solo americane. Da una decina di anni la Page è riuscita a integrare le migliori risorse intellettuali e accademiche con le più avanzate pratiche comunicative e professionali delle imprese a livello globale, ed è impegnata in un prolungato sforzo teso a razionalizzare, esplorare e anticipare quelle dinamiche organizzative in cui management, tecnologie, discorso pubblico, stakeholder e mercati trovano quel minimo di sintesi che consenta un progresso sociale, politico ed economico.
 

L’autore:

Toni Muzi Falconi è attivo da decenni sulla scena italiana e internazionale del dibattito accademico e professionale intorno alle dinamiche che mutano gli assetti culturali e organizzativi delle organizzazioni economiche, politiche e sociali. Senior Counsel di Methodos, divide il suo tempo di ricerca, consulenza e insegnamento fra New York e l’asse Roma-Milano. E’ autore di numerosi libri in italiano e in inglese e partecipa con frequenza a diversi social media.
 


Per una visione completa dei materiali del rapporto Page: http://www.awpagesociety.com/thought-leadership/the-new-ccco-transforming-enterprises-in-a-changing-world
[1] Il lavoro di ricerca alla base del rapporto Page consiste soprattutto nella raccolta e interpretazione di un ragguardevole insieme di dati  quantitativi e qualitativi, finalizzati a raccogliere una vasta gamma di prospettive e punti di vista di relatori pubblici senior insieme ai leader di altre funzioni dirigenziali appartenenti ad organizzazioni globali nel mondo. Le componenti chiave della ricerca consistono in un forum on-line della durata di 2 giorni (Page Jam) che ha coinvolto attivamente e in diretta oltre 200 leader di tre continenti; dozzine di interviste con dirigenti di altre funzioni e cacciatori di teste. Il tutto, integrato da una accurata analisi della letteratura accademica che ha valutato oltre 30 fonti recenti nel mondo.
[2] Di fronte alla crescente domanda di stakeholder (interni-esterni), è già da tempo invalsa l’abitudine di processi e predisposizione di documenti che i consulenti di direzione hanno battezzato con il termine di envisioning, con il quale si intende la definizione condivisa di missione (cosa facciamo), visione (dove vogliamo andare in un determinato periodo), valori guida (che ci impegniamo a rispettare nei nostri comportamenti nel cammino da missione a visione), strategia (il sentiero che intendiamo percorrere in questo cammino dalla missione alla visione) e gli obiettivi tattici intermedi (le singole diverse fasi operative del percorso strategico).
[3] Jon Iwata è stato l’ispiratore, stimolatore e co-autore dell’intero progetto. Oggi è Senior Vice President, Marketing and Communication dell’IBM a livello globale e principale architetto di iniziative IBM come Smarter Planet e Watson. Nel 2006 avviò nella Page Society un gruppo di lavoro di “teste pensanti”  a loro volta dotate di fior di collaboratori interni/esterni) con Gary Sheffer, allora Vice President, Strategic Communications, General Electric;  Mike Fernandez , Corporate Vice President della Cargill; e  Roger Bolton, allora Senior Vice President Aetna e oggi President della stessa Page Society.
[4] Con-vincere da vincere-cum: qui è importante sottolineare l’abbandono della strada uni-direzionale e persuasiva della comunicazione tradizionale.
[5] Il Bled Manifesto fu pubblicato, presentato e discusso a Bled, Slovenia – a cura dell’accademica olandese Betteke Van Rule e del professionista sloveno Dejan Vercic- nell’estate del 2002 a seguito di una ricerca Delphi con 200 accademici e professionisti europei durata due anni che si proponeva di identificare le caratteristiche specifiche di un approccio europeo alle relazioni pubbliche rispetto a quello consolidato statunitense. I quattro ruoli definiti allora furono il riflettivo, l’operativo, l’educativo e il manageriale. Quello riflettivo, insieme a quello educativo, sono assai simili a quello Page di 14 anni dopo…




La Camera dei deputati vieta la plastica, l’acqua sarà in vetro o del rubinetto

La Camera dei deputati vieta la plastica, l’acqua sarà in vetro o del rubinetto

Presso i ristoranti, i bar e la buvette di Montecitorio si potrà consumare acqua solo in bottiglie di vetro o proveniente dalla rete idrica pubblica

La Camera dei deputati diventa «plastic free». Entra in vigore la decisione, adottata dal Collegio dei Questori, che prevede l’eliminazione dei contenitori di plastica monouso per l’acqua da tutte le aree di ristoro dei palazzi della Camera. Presso i ristoranti, i bar e la buvette di Montecitorio si potrà consumare acqua solo in bottiglie di vetro o proveniente dalla rete idrica pubblica. E’ stato così tradotto in atto anche l’intendimento di rendere plastic free la Camera dei deputati, manifestato sin dall’inizio della legislatura dal Presidente Roberto Fico.

Per incentivare gli utenti all’utilizzo dell’acqua proveniente dalla rete pubblica è stato rinnovato e reso più funzionale l’impianto di spillatura che eroga acqua presso il self service di Palazzo Montecitorio, è stato installato un analogo impianto al quinto piano di Palazzo del Seminario e ne saranno installati, entro il mese di luglio, altri due al piano ammezzato semicircolare dell’Aula in sostituzione degli attuali erogatori, che dispensano acqua contenuta in recipienti in plastica.

«Un’ottima notizia». Così il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha commentato il fatto che la Camera dei Deputati è diventata plastic free. «Ringrazio il presidente della Camera Roberto Fico – ha detto – per la sensibilità dimostrata nell’aver subito accolto il mio appello ad aderire alla campagna #plasticfree. Dopo un lavoro portato avanti in questi mesi, il traguardo è stato raggiunto anche a Montecitorio». «Non posso chiedere ai cittadini – ha aggiunto Costa – di diventare plastic free se le istituzioni non danno per prime il buon esempio. Noi l’abbiamo dato in ottobre, quando il ministero dell’Ambiente si è liberato della plastica monouso. In tanti – ministeri, Regioni, Comuni, imprenditori, associazioni, scuole, stabilimenti balneari – ci hanno seguito. Un ‘virus’ che spero continui a diffondersi».



Google ammette: ascoltiamo le conversazioni captate da Google Assistant

Google ammette: ascoltiamo le conversazioni captate da Google Assistant

Un paio di mesi fa ricevette conferma ufficiale un sospetto in circolazione da un po’: ogni volta che si parla con Alexa– l’assistente vocale di Amazon – ci sono buone probabilità che una persona ascolti ciò che viene detto.

Ora giunge la certezza che Amazon non è la sola ad adottare questa pratica. Un giornalista di VRT News ha avuto accesso a oltre mille registrazioni di comandi impartiti a Google Assistant, ottenute da un’azienda che lavora per Google, e ha scoperto che ciò che accade per Amazon accade anche per Google.Migliaia di dipendenti della Grande G (o di aziende a essa collegate) non fanno altro che ascoltare i comandi captati dagli smartphone e dagli altoparlanti intelligenti e anche le conversazioni captate per caso, all’interno delle quali si possono trovare dettagli personali quali indirizzi e altri elementi che permettono di identificare le singole persone.
Lo scopo di tutta questa attività di ascolto? Rendere sempre più preciso il riconoscimento vocale e insegnare a un sistema automatico a distinguere con precisione tra i vari accenti che si possono trovare all’interno di una stessa lingua.
Sebbene le finalità siano positive, i rischi per la privacy sono palesi. Per esempio, oltre 150 conversazioni delle mille ascoltate da VRT erano state registrate involontariamente.
Chi usa uno smartphone Android con Google Assistant avrà notato che l’assistente si attiva anche quando non viene esplicitamente dato il comando «Ok, Google» ma magari il microfono cattura una frase che vagamente vi assomiglia.
Così tra le registrazioni ci sono conversazioni registrate in camera da letto, dialoghi tra genitori e figli, chiamate di lavoro e altro ancora: tutti spezzoni naturalmente corredati da informazioni personali.
Google, dal canto proprio, afferma che solo lo 0,2% delle registrazioni viene ascoltato da esseri umani; ma si tratta comunque di un numero molto grande, considerato l’ampia diffusione della tecnologia di Google Assistant.
Inoltre, il gigante di Mountain Viewafferma che «questo lavoro è di importanza cruciale per sviluppare tecnologie che siano di supporto a prodotti come Google Assistant».
Insomma, la privacy degli utenti sembra essere considerata un prezzoda pagare obbligatoriamente per poter godere di un servizio e poco importa se, come qualcuno ha già fatto notare, sembrano esserci i margini per rilevare un’incompatibilità con la direttiva europea sulla privacy (GDPR).
 

Leggi l’articolo originale su ZEUS News – https://www.zeusnews.it/n.php?c=27465



GeckoWay

L’ospite di questa settimana è Marco Rinelli di GeckoWay, una startup innovativa che sviluppa, produce e commercializza prodotti e servizi IT ad alto valore tecnologico.

Ciao Marco e benvenuto sul mio blog. Quando nasce GeckoWay?
Ciao Rossella e grazie dell’invito. Ti racconto brevemente di noi. GeckoWay viene fondata nel febbraio 2017 da me e mia moglie Eugenia. Abbiamo voluto unire i nostri percorsi universitari (io in ingegneria informatica e lei in gestione delle risorse umane) per creare un team in grado di portare innovazione ai clienti ma soprattutto alle persone. Dopo circa un anno abbiamo inserito un nuovo socio finanziatore che ha creduto in quello che vogliamo fare e speriamo ci aiuti a raggiungere i traguardi che ci siamo prefissati.
Come è composto il vostro team?
Oltre a me, Eugenia e il nuovo consigliere oggi collaborano con noi una decina di ragazzi con esperienze e competenze diverse, dagli sviluppatori alla comunicazione e grafica, passando per una ampia rete di consulenti che ci aiutano dalla parte amministrativa a quella legale, tutti pieni di energia e idee innovative per far crescere ogni giorno la nostra realtà.
Il rapporto con il mondo della ricerca è molto stretto: ci fai qualche esempio?
Proprio perché vogliamo essere sempre più capaci di portare soluzioni nuove nelle nostre idee di startup e nei progetti per i nostri clienti abbiamo un programma di formazione per giovani universitari che possono collaborare su temi innovativi con noi mentre completano gli studi. Un modo nuovo di far crescere giovani talenti riuscendo a capire così le loro capacità valorizzandone le competenze in modo da prepararli per il mondo del lavoro prima della conclusione degli studi. Oltre ai rapporti con le principali università romane stiamo aprendo collaborazioni anche con università straniere per lavorare su nuovi progetti di ricerca molto interessanti ampliando di molto i nostri orizzonti.
Recentemente avete creato BeeInclusion, una piattaforma che vuole essere un motore di ricerca per il sociale. Ci spieghi come funziona?
BeeInclusion è solo il primo esempio di startup su cui GeckoWay ha voluto investire. Si tratta del primo motore di Ricerca per il Sociale a 360 gradi che permette a persone, amici e famiglie di trovare servizi accessibili geolocalizzati sul territorio e in base alle necessità specifiche sia singole che di gruppo. A dicembre 2018 in concomitanza con un tour organizzato con BNL per Telethon è stato lanciato con la classificazione di oltre 200.000 servizi in tutto il mondo suddivisi in varie categorie: terzo settore, sport, soggiorno, svago, ristorazione, noleggio, salute, trasporti e molto altro.
È possibile così costruire esperienze prenotando e acquistando servizi accessibili in un’unica piattaforma secondo ciò di cui si ha bisogno in modo totalmente inclusivo.
Dall’altra parte è anche uno strumento utile per chi offre servizi accessibili siano essi aziende, professionisti, associazioni non profit. È totalmente gratuito e solo se usato a fini commerciali tratteniamo un percentuale sulle transazioni effettuate. Ricco di funzionalità speriamo diventi il punto di riferimento nel trovare ciò di cui si ha bisogno per chi oggi vive direttamente o indirettamente delle difficoltà o disabilità.
Programmi per il futuro?
Sicuramente continueremo a far crescere BeeInclusion a livello nazionale e internazionale con eventi, interviste e molte altre attività magari inserendo anche nuovi investitori. Parallelamente continuiamo a costruire nuovi prodotti per i nostri clienti e abbiamo avviato da poco un nuovo importante progetto nel settore turismo…insomma sicuramente non ci annoiamo




Deutsche Bank, ovvero l’etica protestante e lo spirito della truffa

Deutsche Bank, ovvero l’etica protestante e lo spirito della truffa

Caso Deutsche Bank, crisi finanziaria (che verrà?) e reputazione delle banche: alcune riflessioni su questo modello, che pare non essere così graniticamente etico e teutonicamente efficiente come i tedeschi ci hanno sempre raccontato…

 
Chissà come Karl Emil Maximilian Weber, sociologo e filosofo tedesco, avrebbe commentato certi scenari truci che hanno scosso negli ultimi anni il mondo del capitalismo tedesco.

Alcuni – recenti – precedenti

Potremmo parlare di Volkswagen, che con l’ormai tristemente celebre “DieselGate” ha tradito le aspettative di azionisti e risparmiatori truffando sulle emissioni nocive dei diesel delle proprie autovetture, presentandosi inoltre del tutto impreparata all’appuntamento con le giustizia, dal momento che da oltre un anno e mezzo i suoi vertici erano al corrente di un inchiesta della UE a carico dell’azienda ma nessuno, pare, aveva predisposto un crisis communication plan degno di questo nome, al punto che l’inettitudine dei vertici del colosso automobilistico di Wolfsburg è all’origine dell’evaporazione di circa un terzo della capitalizzazione di borsa dell’azienda; ma sarebbe come sparare sulla Croce Rossa.
Parliamo allora di un tema che è vicino a ogni famiglia borghese che si rispetti: le banche, che dovrebbero amministrare con la diligenza media del buon padre di famiglia (cit. dal Codice Grandi del 1942) i nostri risparmi.
Germania: sinonimo di affidabilità e di “cose fatte bene”; ma la morale è un’altra cosa. Come un disallineamento tra etica e vita d’impresa possa distruggere valore per un’azienda è cosa nota, illustrata in tutti i migliori testi di crisis management al mondo; ma si sa, i tedeschi no, loro non hanno bisogno di nessuno, e nulla devono imparare.

Deutsche Bank: gigante con i piedi di argilla?

Richiamiamo allora un esempio paradigmatico: Deutsche Bank, il colosso bancario, il simbolo stesso della solidità tedesca, il cui CdA si è riunito proprio ieri per varare un piano “lacrime e sangue” al fine di salvare una banca i cui fondamentali risultano da tempo significativamente compromessi (l’istituto di ricerca tedesco Zew ha già in passato calcolato che per poter reggere in una nuova situazione di generalizzata crisi finanziaria globale, Deutsche Bank avrebbe bisogno di rafforzare il suo capitale per circa 20 miliardi euro, rispetto ai valori attuali; è il gap più alto d’Europa nel mondo bancario tra situazione reale e situazione ottimale).
Deutsche oggi vale in borsa 11 miliardi di euro contro i 30 miliardi del non lontano 2015 (!). Perché? Come è stato bruciato tutto questo valore? È solo la sfortuna, che ha centrato un bersaglio nel movimentato scenario della crisi economica globale? A mio avviso no: è stata bulimia e avidità, condite con un pizzico di arroganza, supponenza e incompetenza; ricetta fatale, indigeribile anche per un istituto di credito di grande prestigio come Deutsche Bank.
Le sue strette interconnessioni con il sistema bancario e assicurativo teutonico e con i big della finanza globale fecero supporre che se la situazione fosse degenerata irrimediabilmente, sarebbe intervenuto il governo tedesco, sebbene i politici in verità hanno sempre smentito la volontà di varare un aiuto di Stato diretto verso il colosso bancario, anche a causa della vigilanza attenta e severa del watchdog Mario Draghi; fatto sta che già nel 2016 schizzarono verso l’alto i “Credit Default Swap”, le polizze con le quali gli investitori si assicurano contro il fallimento di un ente creditizio, mente il prezzo dei suoi bond convertibili, che sarebbero i primi a essere colpiti in caso di default o di pesante ristrutturazione, è rapidamente precipitato. Il segnale più preoccupante è stata però la decisione di dieci diversi hedge fund di ritirare la liquidità investita in Deutsche Bank, e ridurre conseguentemente la propria esposizione verso la banca tedesca.
In compenso alcune dismissioni succedutesi nel tempo (prima tra tutte la cessione della controllata assicurativa Abbey Life, che fruttò l’incasso di oltre 1 miliardo di Euro) hanno garantito un poco di ossigeno; che si trattasse però di pause effimere dall’apnea nella quale era sprofondata la Deutsche, è risultato chiaro quando il Dipartimento di Giustizia USA ha annunciato una possibile sanzione da 14 miliardi di dollari per comportamenti scorretti legati alla vendita spregiudicata di obbligazioni legate ai mutui subprime durante la crisi del 2008, multa negoziata poi dalla banca tedesca – pochi mesi dopo – a “soli” 7.2 miliardi, a fronte dei 5,5 miliardi di euro accantonati quell’anno da Deutsche per far fronte ad eventuali contenziosi.

DB “spacciatore” di titoli tossici?

Proprio su questi aspetti occorre soffermare la nostra attenzione: la disputa con il Tesoro USA è stata solo l’ultima di una serie di problematiche legate a comportamenti scorretti della banca e dei suoi manager, che sono già costati a Deutsche oltre 20 miliardi di dollari, tra perdite dirette e multe, ad esempio, per essere stata parte attiva in una serie di operazioni finanziarie che hanno consentito a società e miliardari russi di trasferire denaro all’estero aggirando le sanzioni emesse dall’Unione Europea contro Mosca per il conflitto in Ucraina.
Morale: miliardi di ricavi, tra l’altro sempre in crescita, “bruciati” da comportamenti discutibili: come scrivevo poc’anzi, avidità, arroganza, supponenza e incompetenza. Il peccato più grave per Deutsche è stato probabilmente quello dei derivati: titoli ad alto rischio, vere e proprie scommesse, con un grado di aleatorietà tanto alto da renderne difficile anche solo la quotazione. La banca tedesca avrebbe in pancia derivati ad alto rischio in grado di impattare negativamente sul proprio bilancio per circa 32 miliardi (stima assai ottimistica secondo alcuni analisi finanziari indipendenti, tra cui Alfonso Scarano), mentre pare che Deutsche Bank avrebbe emesso, per poi collocarli vendendoli a parti terze in giro per il mondo, derivati con un sottostante di complessivi 75.000 miliardi di euro: una somma pari a circa 20 volte il PIL della Germania, che conferma la fama del colosso tedesco come vero e proprio “spacciatore” sistemico di titoli tossici.In una corrispondenza tra lo stesso Scarano e il Presidente della BCE Mario Draghi, leggiamo: Dal punto di vista tecnico appare incomprensibile l’attuale discriminazione di trattamento tra la puntuale analisi dei rischi del credito commerciale da un lato e, dall’altro, la mancata puntuale analisi del rischio insito nei derivati finanziari in possesso delle banche”; Deutsche Bank aleggia sullo sfondo del “non detto” tra i due.
Inoltre, come ho già accennato, le fortissime ed estese interconnessioni che la banca tedesca ha in essere con tutte le altre principali banche e istituzioni finanziarie del mondo, ne fanno uno dei soggetti con il più elevato rischio sistemico al mondo, e in caso di bancarotta, le conseguenze per il sistema finanziario internazionale sarebbero devastanti: Allianz, Munich Re, Hannover Re, HSBC, Barclays, UBS, Credit Agricole, BNP Paribas e Unicredit sarebbero le prime società ad essere travolte da un eventuale terremoto con epicentro Berlino.

La – solita – ricetta

Soluzione? Innanzitutto, neanche a dirlo, licenziare: il Consiglio di Amministrazione riunito ieri ha deciso quindi drastici tagli, ovvero 18.000 dipendenti a casa, la creazione di una “bad bank” dentro la quale stivare tutta la spazzatura, dal momento che i bilanci sono attualmente così compromessi che anche l’annunciata possibile fusione con Commerzbank non si può realizzare. E poi, sempre al fine di “dimagrire”, uscita dal mercato USA, taglio della maggior parte delle attività in equity in Asia e nell’area Pacifico, forte ridimensionamento delle attività di Corporate e Investment Banking worldwide, e tagli dei top manager a capo delle business-unit principali. Nuovamente, macerie.
Ma queste misure straordinarie, prima tra tutte la cessione alla bad bank di circa 50 miliardi di titoli tossici, sarà sufficiente a far cambiare strada alla banca tedesca? In una nota di Credit Suisse riportata già qualche tempo fa da Il Fatto Quotidiano, la risposta parrebbe essere no. Gli analisti della banca svizzera hanno calcolato che se l’operazione di dimagrimento fatta nel 2012 dal gruppo tedesco era pari al 25% degli asset a rischio, questa volta toccherebbe solo il 10-15% di essi. La domanda allora sorge spontanea: quanti sono realmente i titoli tossici nella pancia di Deutsche? Stante le difficoltà di inquadramento e di calcolo relative a questi titoli, in realtà pare non vi sia una risposta esatta che possa confermarsi realmente affidabile.

Mercenari del XXI Secolo

Fine dei numeri, e lo scenario appare chiaro. Passiamo ora a una breve riflessione stimolata da questo preoccupante scenario. In una mia intervista pubblicata sull’Harvard Business Review l’economista Stefano Zamagni dichiarò: “Nell’ultimo quarto di secolo si è assistito ad un processo di crescente ‘managerializzazione’ delle imprese; cioè oggi le imprese sono guidate da managers e non più da imprenditori. Il manager – dice Zamagni – è una specie molto raffinata di ‘mercenario’. Nel Medioevo i mercenari combattevano per chi pagava meglio. Ora un manager, se qualcuno gli fa un’offerta vantaggiosa, abbandona quell’impresa e passa a un’altra; l’imprenditore no. Ferrero ha fondato la sua impresa, e la famiglia non passerà mai a un’altra impresa. Fino agli anni ’50 del secolo scorso c’erano più imprenditori e troppi pochi manager: allora si sono fatti investimenti nelle Business School, ma ora si è superato un limite, abbiamo troppi manager e troppo pochi veri imprenditori. Ecco allora la prima ragione: a un manager non interessa nulla di ciò che garantisce vantaggio competitivo nel medio lungo termine, perché lui tra ‘x’ anni – o magari mesi – non ci sarà più in quell’impresa”, conclude l’economista.
La spregiudicatezza dei top manager: ecco uno dei principali motivi per i quali la reputazione del sistema bancario è in crisi profonda, dal momento che come ha brillantemente ricordato Toni Muzi Falconi, “guru” delle Relazioni pubbliche in Italia e non solo, per certi analisti le banche “Hanno nel nostro paese una reputazione peggiore dell’ISIS”.
Il Reputation Institute dice che fino al 80% del valore di borsa di una grande azienda dipende da asset intangibili, e tra essi la reputazione è sicuramente il più “pesante”. La domanda provocatoria nasce spontanea: nel mondo bancario, cosa c’è di più “tangibile”, oggi come oggi, della reputazione? Orienta i comportamenti di acquisto e di risparmio, costruisce valore vero per gli azionisti, rafforza il brand, crea gli anticorpi per le crisi che rischiano di pregiudicare la business continuity degli istituti di credito.
Allora possiamo dire che il manager che non preserva la reputazione dell’impresa per la quale lavora, che spinge solo sui profitti per far contento chi aspetta il dividendo – pronto pure lui a mettersi la benda davanti agli occhi finché gli farà comodo e continuerà a incassare – è un manager traditore.
Ebbene: ai traditori, durante la guerra, si sparava, per giunta girati di spalle, e il mondo della finanza in particolare negli ultimi 10 anni ha preso le sembianze proprio di un campo di battaglia; forse allora è questa la fine che meritano molti top manager di grandi banche, stante il fatto che hanno – per sola avidità – generato macerie, disoccupazione, crisi, famiglie rovinate.
E basta con la “deresponsabilizzazione”: è sempre colpa del “sistema”, del “mercato”, di enti astratti, mentre invece ci sono dei nomi e cognomi, delle responsabilità oggettive, personali, degli individui che compiono scelte, che firmano documenti, che omettono azioni che sarebbero opportune, oppure che non agiscono (anche) per il bene generale, e che – non sapendo o non volendo badare alla propria stessa reputazione nel medio-lungo periodo, convinti di non dover rendere conto a nessuno e di poter sempre in ultima istanza “aggiustare le cose” – creano poi distruzione diffusa: a queste persone, demolitrici di reputazione e di valore, qualcuno prima o poi dovrebbe chiedere conto, mentre il plotone di esecuzione carica i fucili.
 
Ultimo edit: 08/07/2019, h. 12.10