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Ambiente, diversità, inclusione: brand sull’orlo di una crisi di scopo

Ambiente, diversità, inclusione: brand sull’orlo di una crisi di scopo

L’era del purpose. Sette consumatori su dieci fanno fatica a riconoscere concretamente le aziende virtuose.ma il disorientamento potrebbe diventare opportunità, anche se al momento manca una risposta adeguata

«Quali sono quei nostri prodotti che possono migliorare la condizione del pianeta?». Se l’è chiesto la nuova guida mondiale di Unilever Alan Jope, succeduto quest’anno a Paul Polman.
E ha fatto il giro del mondo l’interrogativo di questo top manager scozzese, che in trent’anni ha scalato le vette della multinazionale in parte olandese e in parte britannica (era entrato agli esordi della carriera come stagista neolaureato in marketing). Perché se non sostenibili alcuni business possono anche sciogliersi come gelati al sole. Letteralmente. Infatti sul banco degli imputati sono saliti alcuni prodotti, tra cui il Magnum. Unilever avverte che cederà marchi che danneggiano il pianeta o la comunità: così ha titolato il Guardian a fine luglio. «I consumatori vogliono acquistare da aziende che hanno uno scopo. Oggi non basta proporre uno shampoo per capelli ancora più lucenti, se quel prodotto non è sostenibile. E i principi sono tali soltanto se non scendi a compromessi», ha precisato Jope. Infondo tutto dipende da cosa si è disposti a perdere. E il nuovo Risiko è far quadrare il business con i valori non negoziabili e con una reputazione che incarna una nuova consapevolezza d’acquisto, quella che condiziona soprattutto i millennial: nel giro di qualche anno questo cluster costituirà il 40% degli acquirenti attivi soltanto nel mercato americano. Così il purpose, letteralmente la ragion d’essere o anche scopo, diventa la parola dell’anno.
Una missione che ha segnato anche le dichiarazioni dei 181 capi d’azienda americani della Businss Roundtable, che nel caldo d’agosto hanno ridefinito lo scopo di una impresa. Investimenti nei dipendenti, valore per i consumatori, gestione etica delle relazioni coi fornitori e sostegno alle comunità locali dove si opera. Con gli azionisti considerati alla pari rispetto a tutti gli altri. È questa la nuova definizione, una presa di posizione forte negli anni segnati dal “Ceo activism”, l’attivismo sociale e politico dei top manager. «Investire nel personale e nelle comunità è l’unico modo per avere successo nel lungo termine», ha commentato Jamie Dimon, Ceo di JPMorgan e presidente della Business Roundtable.

Alla ricerca del brand purpose

Pensare alla società, raccontando al meglio e in modo autentico ciò che si fa. Una priorità certificata anche da un recente studio promosso da Ipsos.Dalle interviste effettuate a 20mila consumatori in 28 Paesi emerge come il 62% oggi pretenda che le marche diano un contributo fattivo alla comunità. Un dato che scende al 50% per il mercato italiano. Ma c’è di più: tra le priorità svettano la riduzione di emissioni e il minor impatto ambientale (77%). A seguire il miglioramento delle condizioni dei lavoratori (50%), la qualità dei prodotti e servizi (37%), l’inserimento nel tessuto sociale con iniziative rivolte al territorio (24%).
«Crescono le aspettative dei cittadini nei confronti delle aziende. Si va alla ricerca di brand che permettono di fare la differenza nel mondo», afferma Nicola Neri, amministratore delegato di Ipsos in Italia. Sul purpose incombe il climate change. «Temi come il global warming sono ai vertici delle preoccupazioni delle società. Anche perché i cittadini dimostrano una diversa consapevolezza sullo stato di salute del pianeta: negli ultimi quattro anni abbiamo registrato un significativo aumento nel numero di persone che dichiarano di avere una conoscenza qualificata del tema ambientale», precisa Neri. Ma attenzione: quasi 7 su 10 fanno fatica a riconoscere – e quindi di fatto a scegliere in fase di acquisto – le aziende virtuose. Un disorientamento che potrebbe diventare opportunità, anche se al momento manca una risposta adeguata. Per 8 consumatori su 10 i brand non stanno facendo abbastanza quando si parla di ambiente. «Di contro l’aspettativa dei consumatori è che siano proprio le aziende, sostenute da comportamenti virtuosi di amministrazioni e consumatori, a doversi far carico di trovare una soluzione per ridurre la quantità di materiale utilizzato nelle confezioni dei prodotti venduti», conclude Neri.
 Oltre il business c’è di più
utenticità, coerenza, concretezza. Oltre gli slogan, oltre le campagne patinate, oltre i video emozionali. «Stiamo respirando una nuova sensibilità nelle marche, che sono costrette a prendere posizione su tematiche che non avevano fino ad oggi considerato e che sono entrate nel mindset delle generazioni più giovani. Diversità, inclusione, ambiente non sono più un’opzione. Questo comporta però un ripensamento del business e della comunicazione», afferma Paolo Iabichino, direttore creativo e autore di “Scripta Volant”, edito da Codice. Così il purpose oggi diventa scelta obbligata per chi vuole stare sul mercato in maniera contemporanea. «Quelle che riescono a fare meglio sono le realtà che non fanno del purpose un oggetto di comunicazione, ma lo portano nel proprio modello di business e lo integrano nel lungo periodo. Abbiamo vissuto un’estate memorabile per la quantità di campagne e iniziative che sembrano segnare una svolta», precisa Iabichino, che fa un viaggio in questa nuova sensibilità. Così Mattel ha messo in commercio due modelli di Barbie con disabilità, Lego ha reso nota l’intenzione di utilizzare bioplastiche ecologiche e di origine naturale per fabbricare i suoi mattoncini, la tavoletta di cioccolato Cadbury ha celebrato il giorno dell’indipendenza in India con un’edizione speciale di quattro gusti in una barretta, emblema dei colori delle diverse etnie locali. Campagne coraggiose, divisive, quasi in contrasto col proprio business.
Ha fatto il giro dei social l’orgoglioso saluto di Diesel ai quattordicimila follower persi dopo l’adesione al Pride. O la scelta controcorrente della compagnia aerea KLM, che ha avuto il coraggio di lanciare l’iniziativa “fly responsibly”. L’invito per i passeggeri è a considerare altre forme di trasporto rispetto all’aereo.
L’effetto Greta Thunberg va ben oltre le pratiche più spietate e consolidate di overbooking.




150 miliardi di dollari: è questo il “costo” dell’assenza di etica…?

assenza di etica nel business

Ci risiamo: avidità, arroganza, supponenza, incompetenza e tradimento delle aspettative di azionisti e cittadini.  Risultato: l’assenza di etica nel business ha causato un ennesimo disastro economico-finanziario.

Maxi multa per Johnson & Johnson

“Multa da 572 milioni per Johnson & Johnson: la casa farmaceutica è responsabile dell’epidemia di oppioidi”, titolano i principali quotidiani internazionali, dopo che pochi giorni fa Thad Balkman, un Magistrato del distretto Cleveland County, ha emesso la prima pesante sentenza contro la multinazionale del New Jersey, condannandola a oltre mezzo miliardo di dollari di risarcimenti.
In secondo piano, purtroppo, scivola il fatto che l’utilizzo spregiudicato di farmaci anti-dolorifici in USA – indotto dalle aggressive e scriteriate campagne di marketing del settore pharma, mercato che qualcuno sostiene debba essere lasciato libero di auto-regolarsi (!) – abbia ucciso negli ultimi 20 anni oltre 500.000 di americani e rovinato altrettante famiglie, creando dolore e disperazione in nome del profitto esasperato.
Il Procuratore Balkman ha definito l’abuso di oppioidi come “la più grande crisi sanitaria mai affrontata in USA, nonché la quinta causa di morte tra gli americani, addirittura più comune degli incidenti stradali”; J&J è la prima produttrice degli ingredienti alla base dei farmaci oppioidi, non solo per i due blockbuster che vende – il Duragesic e il Nucynta – ma perché rifornisce anche i suoi competitor di circa il 60 per cento degli ingredienti contenuti in quei potenti antidolorifici.
 

Subdoli, disonesti e cinici, a fini di lucro

La condanna conferma che la multinazionale avrebbe “messo in piedi una macchina di marketing iper-aggressivo, divulgando notizie parziali e inducendo la filiera medico-paziente a utilizzare gli oppioidi, ignorando deliberatamente Il rischio dipendenza”. Hunter nell’ultima arringa di fine luglio ha aggiunto: “Quello che è veramente senza precedenti è notare come gli imputati si siano impegnati in uno schema subdolo, disonesto e cinico per creare surrettiziamente il bisogno di oppioidi tra la popolazione”. La difesa dell’azienda ha freddamente e squallidamente risposto che “in fin dei conti i medici stessi erano consapevoli dei rischi…”.
Per ironia, il titolo in borsa di J&J è salito, subito dopo la pubblicazione della notizia, perché la multa è stata assai più bassa di quella inizialmente richiesta dal Procuratore, che aveva richiesto una sanzione da 17 miliardi di dollari.
Tuttavia, pare non essere finita qui, e non solo perché sarebbero in arrivo 2.000 nuove cause legali contro J&J, ma perché – in uno scenario degno dell’avvincente romanzo “Il re dei torti” di John Grisham – molte nuove class-action si stanno attivando: il conto per “big-pharma” potrebbe presto salire, secondo le stime di Berenberg Capital Markets, fino a 100 miliardi di dollari, mentre per altri analisti finanziari di Wall Street le condanne potrebbero superare la cifra monstre di 150 miliardi, dal momento che 45 stati e migliaia di municipalità stanno intentando causa contro oltre 22 aziende farmaceutiche.
 

Il banco degli imputati si allarga

Secondo quanto riportato in queste ore dai quotidiani USA, i contenziosi oltre a J&J riguarderebbero Purdue Farma, Mallinckrodt, Teva Pharmaceutical – che ha già pagato oltre 80 milioni di risarcimenti – Endo International, Allergan e Insys Therapeutics; il fondatore di Insys è stato condannato con l’accusa di avere pagato tangenti ai medici per aumentare le vendite di oppioidi, e la società è stata multata con 225 milioni, mentre Purdue Farma, azienda che produce l’OxiContin, tra i farmaci sotto accusa per essere causa dei decessi, ha saggiamente offerto una somma tra 10 e 12 miliardi per chiudere tutti i contenziosi prima del processo, per poi ricorrere al “Chapter 11” della legge fallimentare USA, andando in bancarotta e avviando una successiva ristrutturazione per riuscire a pagare la somma miliardaria e cercare di riparare ai danni causati dalle proprie dissennate politiche di marketing.
In ogni caso, il prossimo processo, dopo quello di J&J, partirà in Ohio tra meno di 60 giorni, e vedrà sul banco degli imputati tutti i produttori USA di oppiacei: considerando che – secondo l’Agenzia federale per il controllo e la prevenzione delle malattie – il costo della crisi degli oppioidi per l’economia americana, calcolando il peso sul sistema sanitario, i costi sociali, la perdita di produttività e i costi per il sistema giudiziario, sfiora gli 80 miliardi all’anno, il contenzioso giudiziario non si preannuncia certo come una passeggiata per le multinazionali del farmaco. Nel mentre, a complicare le cose, anche la politica ha fatto il suo ingresso “con i mezzi pesanti” su questo già precario scenario: il Presidente Donald Trump che ha dichiarato l’abuso di farmaci oppiacei “un’emergenza sanitaria nazionale”, e ha raddoppiato il budget annuale per contrastarne la diffusione a oltre 7 miliardi di dollari l’anno.
 

Business is business

Ma non di soli oppiacei soffre la reputazione di Big Pharma: anche Novartis, Eli Llly, Glaxo, Shire, Gilead paiono anche loro in varia misura coinvolte in qualcosa di simile ai “disturbi dissociativi d’identità”, dal momento che sui loro bilanci sociali si fa un gran parlare di parole chiavi quali “solidarietà”, “salute”, “attenzione alle fasce deboli”, “mission al servizio della collettività”, keyword poi tradite dai loro quotidiani e concreti comportamenti.
Ad esempio, il redditizio business della produzione e vendita di psicofarmaci per bambini, genera profitti per oltre 20 miliardi di dollari di incassi all’anno, grazie a politiche di marketing aggressive e di disease mongering, tali da “stimolare il bisogno” della terapia, ovviamente a base di farmaci. Ma anche questa strategia di business è costata cara, come dimostra il caso Paxil, antidepressivo blockbuster della multinazionale pharma Glaxo: venne poi fuori a distanza di anni – con l’azienda tutt’altro che collaborativa con la Magistratura – che il famigerato “Studio 329”, sul quale era stata basato l’ottenimento dell’autorizzazione alla messa in commercio del farmaco, era stato manipolato nella sua essenza, non senza l’aiuto di “ghostwriter” pagati dalla multinazionale stessa, adattando lo studio ai risultati desiderati dall’azienda. Glaxo, dopo un estenuante battaglia legale – promossa forse dall’azienda per rivendicare il proprio diritto a stimolare idee suicidarie nei giovani pazienti, bambini e adolescenti, al fine di fare più soldi – pagò la più alta multa mai comminata a una farmaceutica, oltre 3 miliardi di dollari, con buona pace dei familiari dei malati poi deceduti che, sulla base delle evidenze scientifiche disponibili, avevano optato per una strategia terapeutica a base di Paroxetina.
In India, Medici Senza Frontiere denuncia che le più grandi aziende del comparto farmaceutico e le associazioni di medici e pazienti sono schierati da anni su fronti contrapposti – benché le multinazionali del pharma dichiarino sempre di essere “dalla parte di medici e pazienti” – in quanto la legge indiana permette di rifiutare alle grandi aziende le richieste di esclusive di brevetto per quei farmaci che non presentano “caratteristiche di forte innovazione e unicità”. Le aziende farmaceutiche amano infatti “manipolare” i brevetti cambiando appena due virgole per dare ulteriori 20 anni di vita a galline dalle uova d’oro che diversamente finirebbe sul mercato libere da brevetti e a disposizione di tutti. In India le piccole aziende locali fabbricanti di farmaci generici – medicinali i cui brevetti sono scaduti, e che quindi costa molto meno produrre, non dovendo pagare stratosferici diritti a nessuno – lavorano alacremente per mettere medicine a disposizione di pazienti di fasce povere della società a prezzi 10, 20 a volte 50 volte inferiori a quelli delle grandi case produttrici. Silvia Mancini, di Medici senza frontiere, ha denunciato: “Presto probabilmente non potremo più disporre di medicine a basso costo da distribuire nelle zone più povere del mondo”, con buona pace di chi verrà semplicemente condannato a morte da questa scelta di business, e le cui storie probabilmente non troveranno spazio sui patinati bilanci sociali delle grandi multinazionali farmaceutiche in questione, per altri versi molto attente allo Storytelling.
 

Farmaci o vendite online, per me pari sono

Ma la malattia dello shortermismo, come il Prof. Stefano Zamagni ha definito l’incapacità dei manager di costruire valore nel medio-lungo termine, non colpisce solo il comparto farmaceutico. Tempo fa, un’eclatante inchiesta del New York Times mise a fuoco il tema degli impiegati usa e getta nel colosso delle vendite online, Amazon: ritmi di lavoro estenuanti, capi ufficio che penalizzano gli impiegati che non rispondono alle email di lavoro durante la notte o nei giorni di ferie, un sistema informatico che permette di fare delazioni anonime a danni dei colleghi, dipendenti malati di cancro a rischio licenziamento in quanto “le difficoltà della vita privata non devono interferire con le prestazioni lavorative”, o donne vittime di aborto spontaneo mandate in viaggio di lavoro il giorno dopo l’intervento con note del tipo “se hai tutta quest’intenzione di metter su famiglia, come sembra, sappi che questo non è il posto giusto per te”. L’elenco delle vessazioni in Amazon è lungo pagine e pagine, e tutto ciò fa a pugni con le roboanti dichiarazioni di intenti pubblicate online dall’azienda sui documenti di rendicontazione sociale, tanto che l’amministratore delegato Jeff Bezos – che ogni anno secondo la Harvard Business Review si contende con il CEO della Apple il primo posto come CEO più performante nel mondo – ha dichiarato al New York Times, “Questa non è l’Amazon che conosco”. Eppure le due realtà paiono convivere in perfetto stile Giano bifronte: un’azienda apparentemente attenta al rispetto dei diritti dei dipendenti e al clima di lavoro interno, e nel contempo la stessa azienda bulimicamente proiettata verso un modello di business che prevede guadagni, sempre più guadagni, a qualunque costo.
 

British Petroleum, Volkswagen, Deutsche Bank ed ENEL

Per non parlare di British Petroleum, la società petrolifera “green” i cui impianti hanno causato danni ambientali irreparabili nel Golfo del Messico, per i quali è stata condannata a 18,7 miliardi di dollari di multa; o della grande banca tedesca “attenta alle persone”, Deutsche Bank,  che poi vende obbligazioni tossiche e derivati per decine di miliardi di Euro, rovinando centinaia di migliaia di risparmiatori e lasciando a casa 20.000 dipendenti per tentare di sanare una crisi causata dalle scelte improvvide del suo stesso management; o ancora Volkswagen, costretta a rivedere bruscamente le sue policy di responsabilità sociale in occasione del Dieselgate, anche a seguito delle decine di miliardi di euro persi in borsa proprio a causa delle menzogne raccontate al mercato e ai propri clienti, truffati biecamente circa le emissioni nocive in atmosfera prodotte dalle autovetture del colosso tedesco dell’automotive, che per due anni ha taciuto consapevolmente i fatti, dei quali era al corrente, fino allo scoppio dello scandalo.
D’altra parte, anche un colosso nostrano come ENEL ha qualcosa da dire circa l’inserimento di preoccupazioni di carattere etico nel business, al fine di costruire valore nel medio-lungo termine. Ne troviamo conferma dalle parole di Francesco Starace, amministratore delegato della nostra azienda elettrica nazionale, che ha illustrato il suo pensiero durante un incontro tenuto a Roma qualche tempo fa con gli studenti dell’Università LUISS, dove ha spiegato come “generare cambiamento nelle aziende”. In risposta all’innocente domanda di uno studente, che chiedeva “quanto contano i propri collaboratori, e quali sono gli ingredienti di successo per un cambiamento”, Starace ha risposto: “È facile. Alla gente non piace soffrire. Per spingere all’obbedienza e al cambiamento i sottoposti è necessario distruggere chi ha idee diverse da quelle del leader. Per farlo ci sono alcune cose abbastanza semplici da fare: innanzitutto ci vuole un gruppo di persone fedeli all’idea del capo; successivamente, si devono distruggere fisicamente i centri di potere che all’interno di un’azienda si oppongono al volere del leader, inserendo persone fedeli all’interno dei gangli dell’organizzazione dove lavorano coloro che hanno idee diverse (…), e creando malessere. Appena questo malessere diventa sufficientemente manifesto, si colpiscono le persone opposte al cambiamento nel modo più plateale e manifesto possibile, in modo da ispirare paura agli altri”. Chissà da quale capitolo dei manuali sul rispetto della diversità e della dignità dei dipendenti l’illuminato manager ha tratto questi illuminanti principi ispiratori.
 

Coerenza vs. marketing

C’è da chiedersi allora quanto spazio separa la verità dalla finzione: quanto è sottile la patina di smalto verde che le aziende si danno compulsivamente per apparire più eco e trendy agli occhi del mondo, al solo fine di orientare in modo più profittevole i comportamenti di acquisto dei cittadini? Quanto è fragile e traballante l’impalcatura di bugie della quale si circondano? Quanto è ampio il solco tra l’unità interna che si occupa di politiche sociali, di sostenibilità e di rendicontazione ambientale, e il top management che poi prende realmente le decisioni strategiche? E ancora: che ruolo hanno i “complici” di questi “delitti”, ovvero i consulenti, i comunicatori e i relatori pubblici, i Mandrake dei nostri giorni, che truccano le carte “migliorando il percepito”, e aiutando le grandi aziende nella loro opera di lifting”, chiudendo tutti gli occhi possibili in nome della pubblicità, del marketing e del business?
“Solidarietà”, “salute”, “attenzione alle fasce deboli”, “mission al servizio della collettività”: a leggere cosa raccontano di sé sui propri siti web e nei bilanci di sostenibilità, tutte queste multinazionali – e molte altre – sono “straordinarie”, con un clima interno di lavoro piacevole e orientate al bene della comunità. A leggere di queste vicende, invece, viene da chiedersi quante di queste “parole chiave” hanno poi un concreto riscontro nelle loro attività quotidiane: e dire che il valore della coerenza è notoriamente uno dei pilastri della buona reputazione, capace da sola di orientare positivamente i comportamenti di acquisto, e aumentando quindi vendite ed utili.
Non sono passati neppure 15 giorni, mentre scrivo, da quando duecento tra le più grandi aziende americane hanno pubblicato un documento in cui sconfessano il mantra “prima gli azionisti” che per anni ha guidato le politiche societarie; per creare valore bisogna guardare anche all’impatto ecologico, al rispetto dei clienti e alle condizioni dignitose offerte ai dipendenti, dicono i CEO di tutte queste multinazionali USA. Le scelte spregiudicate non sono più un vantaggio, ma si stanno trasformando in elementi negativi e a lungo andare danneggiano il business, dicono le aziende, mentre il dibattito – iniziato a livello di fondi etici e finanza sostenibile – si allarga anche agli investitori più tradizionali: “le aziende devono proteggere l’ambiente e trattare i dipendenti con dignità e rispetto”, si legge nel documento per come lo ha riportato il Financial Times.
E dire che l’Università di Harvard ha – già da anni, inascoltata – messo la pietra tombale sulla presunta alternativa “etica versus profitto”, spiegando e documentando scientificamente che la sola introduzione di preoccupazioni etiche nel business a livello strategico incrementa il valore medio della capitalizzazione di borsa delle aziende del 25 per cento.
 

Etica nel business: le aziende moderne come Giano Bifronte

Concludo con una riflessione: Giano bifronte era un’antica e importante divinità romana, rappresentata con una testa bicefala: era il protettore di tutto ciò che concerne “una fine e un nuovo inizio”, ma – sicuramente a causa delle sue “due facce” – nella cultura popolare iniziò presto a essere simbolo di doppiezza, “di una cosa del suo opposto”.
Ho citato i Disturbi dissociativi dell’identità, o disturbi da personalità multipla, fenomeni di forte disagio la cui caratteristica essenziale, seconda la psichiatria, è la presenza di due o più distinte identità o stati di personalità che in modo ricorrente assumono il controllo del comportamento dell’individuo, con incapacità di ricordare notizie importanti troppo estesa per essere spiegata con una banale tendenza alla dimenticanza, e con pensieri ed emozioni della cosiddetta “personalità secondaria” che risultano assai differenti da quelli da quelli della “personalità principale”.
Ebbene, le aziende sono gruppi umani organizzati per raggiungere uno scopo comune; probabilmente ne riflettono in qualche modo le patologie, il che riporterebbe di stringente attualità le straordinarie intuizioni di Adriano Olivetti, grande estimatore dello psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung, al punto da creare con lo psicologo Cesare Musatti già negli anni Sessanta uno dei primi e più importanti gruppi di ricerca di psicologia del lavoro in Italia, che aveva come centro di sperimentazione proprio la grande fabbrica Olivetti di allora.
Ma questi ragionamenti non toccano evidentemente i manager, lanzichenecchi del XXI secolo, pagati solo per generare profitti immediati “a qualunque costo”, con contratti di breve termine, e interessati a gonfiare quanto più possibile i numeri, dal momento che da essi dipendono i loro benefit; chiusa un’avventura aziendale, e incassato il “golden parachute”, ci si fa assumere da un’altra parte, e pazienza se ci si lascia dietro una scia di macerie.
Il problema nel prossimo futuro sarà quindi capire come mettere le multinazionali “sul lettino”: c’è da chiedersi quante accetteranno di farlo spontaneamente, prima che si renda necessario un “Trattamento sanitario obbligatorio” con camicia di forza, stante la distruzione – in termini di valore di borsa, e non solo – che i loro dissennati comportamenti continuano a causare all’intero Pianeta.
 
Edit, 04/09/2019 h. 17.02




ADHD: IL BUSINESS DEL FARMACO


Si discute da anni dell’esistenza o meno dell’”epidemia” ADHD, ovvero del numero – cresciuto esponenzialmente negli anni – di bambini “iperattivi” degni di attenzione medica, trattati quasi sempre, specie in USA, ma non solo, con psicofarmaci la cui somministrazione precoce non è considerata eticamente e clinicamente opportuna da parte della comunità scientifica. Bambini certamente non solo “ vivaci”, bensì impulsivi, iper-agitati e cronicamente disattenti. 

Autorevoli luminari e specialisti sono pronti a giurare circa l’esistenza di questa “malattia” dell’infanzia, e si stracciano le vesti se messi in discussione dagli “oscurantisti medioevali”, che poi sono tutti coloro che hanno un punto di vista differente dal loro. Altrettanto loro autorevoli colleghi storcono la bocca, e criticano severamente un approccio che finisce per banalizzare problematiche ben più complesse. Chi ha ragione? Ma – cosa ben più importante – cosa dovrebbe fare chi si trova al bivio, con un figlio forse malato di iperattività, o forse no? E soprattutto: come si dovrebbe regolare chi il problema l’ha già in casa? Perché è facile parlare, quando non si è toccati direttamente dal disagio.

In questo balletto di cifre, dati e pareri, è necessario fare un po’ di chiarezza: quello che è certo, è che non esiste alcuna prova dell’esistenza dell’Adhd, alcun marcatore biologico è mai stato individuato, e per tante ricerche scientifiche che tentano di dimostrare l’esistenza della sindrome, altrettante la smentiscono. Ciò non deve portarci ad abbracciare la scriteriata tesi opposta, ovvero che non esistono disagi dell’infanzia o problemi comportamentali degni di sollecita attenzione. Il problema è: qual è la causa? Ed ancora: che tipo di risposta noi adulti siamo disposti a dare a queste delicate problematiche? Per molti specialisti, l’Adhd è una “costellazione aspecifica di sintomi”, ovvero un insieme di campanelli d’allarme, che segnalano problemi ben più profondi. È chiaro a tutti a quali rischi esponga il persistere nel voler curare un sintomo trattandolo come una malattia a sé stante: si finisce per sedarlo, il sintomo, lasciando sotto di esso inalterata la malattia. Sono infatti oltre duecento le vere patologie, spesso appunto trascurate, che generano iperattività: classificarle tutte quante sotto la generica voce “Adhd” è perlomeno ingenuo, ma molto di moda in questi ultimi anni.

Quel che è certo, e scientificamente provato, è che lo psicofarmaco non è mai di per se la soluzione definitiva, dal momento che si limita ad intervenire sui sintomi, raramente li risolve(1), non migliora il rendimento scolastico (2), senza considerare il problema degli effetti collaterali e iatrogeni, come dimostra la letteratura scientifica, che conferma “una possibile associazione tra metilfenidato e una serie di eventi avversi gravi e anche un elevato numero di eventi avversi non gravi in bambini e adolescenti”(3), puntualmente ignorata da chi, ignorante o in cattiva fede, nega l’esistenza di un problema di eccessiva medicalizzazione dei minori.

L’Adhd com’è definita oggi è più che altro una moda, le diagnosi sono inconsistenti e vaghe, e per come vengono perfezionate non si possono e non si devono fare”,


dice Emilia Costa, già 1^ cattedra di Psichiatria dell’Università di Roma “La Sapienza”, incalzata dal Professore di Pediatria William Carey, uno dei massimi esperti di sviluppo comportamentale del bambini in USA, che afferma:

“I questionari che vengono utilizzati per diagnosticare questi disagi dell’infanzia sono altamente soggettivi ed impressionistici: nonostante il fatto che le scale di valutazione utilizzate non soddisfino i criteri psicometrici di base, i sostenitori di questo approccio pretendono che questi questionari forniscano una diagnosi accurata, ma così non è”.


Insomma, una storia che si spaccia per già scritta, mentre in realtà nella comunità scientifica la discussione è tutt’altro che chiusa. Ma mentre si discute, il marketing del farmaco si fa sempre più aggressivo, ed è forse questo il vero problema: l’infanzia rappresenta un nuovo e molto redditizio segmento di business per le multinazionali del farmaco, le quali finanziano circa l’80% della ricerca mondiale, e – se è vero che ci salvano la vita con molti prodotti utili – è altrettanto vero che tendono a non pubblicare mai le ricerche scientifiche con esito negativo, così da non nuocere al profilo commerciale dei propri brevetti.

Qualche ostinato incompetente carente di onestà intellettuale continua a negare l’evidenza, sostenendo che non vi è stato negli anni un incremento delle diagnosi e – guarda caso – della prescrizione e vendita di psicofarmaci per “curare” questo disagio, nonostante i dati dimostrino il contrario (4): le aziende dal canto loro sono più schiette, e parlano di “mercato globale”, come potete leggere dalla presentazione dell’inquietante rapporto pubblicato in calce a questo articolo (5).

In questo scenario molto poco rassicurante, l’imperativo può essere uno solo: la prudenza e l’applicazione del principio di precauzione. È necessario prestare la massima attenzione affinché la scuola non diventi l’anticamera dell’ASL, come sta succedendo sempre più spesso anche in Italia, dove assistiamo a una sempre più marcato tentativo di medicalizzazione del disagio. Riflettiamo piuttosto sul rapporto di noi adulti con i bambini: quasi sempre, per ogni bambino che lancia un allarme e manifesta il proprio disagio profondo, c’è un adulto che non vuole o non può ascoltarlo, e che trova maggiore serenità nella certezza di una diagnosi e nella soluzione “facile” di una pastiglia miracolosa, piuttosto che nel doversi mettere lui stesso in discussione, oppure c’è un sistema scolastico depotenziato nella sua capacità pedagogica e di gestione delle differenze, o ancora un ambiente attorno al bambino per qualche motivo ostile o inadeguato a valorizzarne le specifiche peculiarità.



Bibliografia:

  1. Riddle et altri, “The Preschool Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder Treatment Study (PATS) 6-Year Follow-Up” – Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, Volume 52, Issue 3, March 2013, Pages 228-230
  2. THERAPEUTICS INITIATIVE Evidence Based Drug Therapy – “Stimulants for ADHD in children: Revisited” – Therapeutics letter, January/February 2018
  3. Storebø OJ, Pedersen N, Ramstad E, KielsholmML, Nielsen SS, Krogh HB, Moreira-Maia CR, Magnusson FL, Holmskov, M, Gerner T, SkoogM, Rosendal S,Groth C, GilliesD, Buch Rasmussen K,GauciD, ZwiM, Kirubakaran R,Håkonsen SJ, Aagaard L, Simonsen E, Gluud C. – “Methylphenidate for attention deficit hyperactivity disorder (ADHD) in children and adolescents – assessment of adverse events in non-randomised studies”. Cochrane Database of Systematic Reviews 2018, Issue 5. Art. No.: CD012069. DOI:10.1002/14651858.CD012069.pub2.
  4. Rae Thomas, Geoffrey K Mitchell, Laura Batstra – “Attention-deficit/hyperactivity disorder: are we helpingor harming?” – BMJ 2013;347:f6172 doi: 10.1136/bmj.f6172 (Published 5 November 2013)
  5. Attention Deficit Hyperactivity Disorder (ADHD) Farmaci – Mercato 2019 –“Rapporto Di Ricerca Sull’analisi Dei Fattori Di Crescita, Dimensioni, Segmenti, Fattori di Crescita Globali del Settore”



Realtà? No, grazie. Il marketing dei fatti estesi e la non-campagna Nivea

Realtà? No, grazie. Il marketing dei fatti estesi e la non-campagna Nivea
Aziende e consumatori dialogano su fatti estesi che non sono accaduti ma che diventano lo stesso rilevanti. L’analisi di Andrea Fontana, presidente di Storyfactory
Ve la siete fatta la foto, vero? Quella per vedere – fra qualche anno – come starete con qualche ruga in più. Chissà dove sono andate a finire quelle foto! Ma al di là di questo, nulla di male nell’osservarsi nel futuro con FaceApp – l’applicazione per Android e iOS – che consente di viaggiare nel tempo, scrutando forme diverse del proprio volto. Un frame, un click, qualche secondo e la realtà futura (o passata) si manifesta. Ma è davvero la realtà quella? O è un gioco con le diverse sfaccettature del reale che non siamo ancora del tutto pronti a giocare? Dove aziende e consumatori dialogano su fatti estesi che non sono accaduti ma che diventano lo stesso rilevanti. Vediamo.

Il VERO-FINTO E LA REALTÀ ESPANSA

La FaceApp Challenge, quel contest partito nelle settimane centrali di luglio 2019 e che ha visto molti di noi impegnati nel fotografarsi e condividere i propri volti manipolati da un software, è stata talmente coinvolgente che molti altri di noi hanno deciso di reagire e di contro-argomentare. Magari cavalcando l’onda del newsjacking.
Tra questi, alcune marche tra cui anche l’immancabile Taffo – l’azienda di onoranze funebri ormai celebrity – che con ironia ha commentato in alcuni suoi tweet di non esagerare con questa nuova smania dell’invecchiamento.
In mezzo a tanto rimbalzarsi di post, tweet e immagini ha avuto un certo eco anche la campagna
Stay original” di Nivea – additata come esempio di real time marketing e presa di posizione – che è circolata su diversi social media: da Facebook a Twitter, persino Linkedin.
nivea01
L’avete vista, no?
Personalmente, mi è capitato di intercettarla prima sul mio profilo Linkedin e poi su quello Facebook. Lì per lì mi aveva colpito il modo apparentemente up to date dell’azienda di utilizzare la FaceApp Challenge come evento socialmente rilevante di contro-argomentazione reputazionale.
La maggior parte dei miei contatti era in visibilio per questa campagna, tra cui molti esperti di comunicazione. Anche io ero sulla soglia del commento positivo e della condivisione entusiasta. Ma c’era qualcosa che mi tratteneva dal farlo. Sapete quando avete quel sentore di “qualcosa non quadra”.
E siccome ormai ho imparato – anche a mie spese – che tutto quello che osserviamo nella nostra esistenza onlife può essere vero-finto, mi sono preso qualche minuto di approfondimento. Sono andato sui profili social ufficiali di Nivea Italia e non c’era traccia della campagna. Così come non c’era traccia sui diversi siti di advertising che di solito riportano campagne innovative.
Nel mio “giro in giro” ho però notato che alcuni utenti condividevano questa card visiva non solo con il brand sotto a destra ma anche con una firma in alto a sinistra:
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Di chi era? Forse che la firma nella card era stata tagliata, omessa o ri-sagomata nei diversi passaggi onlife? Questo mi ha quindi insospettito.
Così ho rifatto il giro sui profili ufficiali dell’azienda, stavolta in Europa, e in effetti Nivea Espana dava una traccia – su Twitter – dichiarando:“Nel Team Nivea in questo momento siamo così. Questo sì che è iniziare la giornata con umorismo. Grazie di cuore ai nostri utenti per essere stati così creativi e per averlo condiviso con noi. Senza dubbio, hai tirato fuori un sorriso”. nivea twitter
Ecco fatto. Ero di fronte al vero-finto nella sua espressione compiuta.
Una campagna non ufficiale vissuta dai diversi pubblici europei, e non solo, come autentica. Non la “realtà specifica” di un gesto pubblicitario pensato dall’azienda ma la “realtà espansa” di un percepito pubblico immaginato da un singolo individuo, diventato – per un momento – detentore e driver del racconto di marca.
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Pochi minuti ancora ed ero sulla pagina Facebook del designer che aveva creato questo unofficial ads: l’artista visivo Hamza Haddam – il quale ricordiamolo: aveva comunque firmato il visual originale, cancellato ed omesso poi da chissà chi, nei vari passaggi mis-informativi della rete.

IL MARKETING DEI FATTI ESTESI

La vicenda della unofficial ads di Nivea ci mostra che non possiamo farci più nulla.
Viviamo in un tempo di messa in scena del reale in tutti i settori: politico, economico, commerciale. E sempre più spesso – in questa attività di costruzione della verità collettiva (per approfondire vedi qui e qui) – sono le audience a compiere operazioni di marketing esteso – al di là della ownership aziendali e/o politiche.
Oggi in qualità di pubblici viviamo in un nostro “campo di realtà”, sempre più portato dai media mobili. All’interno di questo campo di realtà vediamo accadere fatti che non possiamo verificare (non ne abbiamo il tempo e le risorse) e che percepiamo automaticamente come veri, oggettivi, realistici. Anche quando non lo sono.
Questi fatti non sono più semplici accadimenti lineari che possiamo constatare con i nostri occhi e la nostra esperienza diretta – nell’esempio riportato: c’è un presunto post promozionale on line di una azienda – ma possiamo definirli fatti estesi perché nel vero-finto estendono la loro pertinenza. Non sono completamente oggettivi ma – incontrando le convinzioni soggettive dei pubblici – lo diventano.
fatti estesi infatti non hanno nulla a che fare con l’esperienza diretta ma con l’adesione consensuale del possibile accadimento alle nostre credenze (per approfondire vedi qui). Possiamo misurarli e valutarli in termini di:

  • rilevanza: quanto il fatto è importante per chi lo vive (nel nostro caso: quanto è rilevante che una azienda o una istituzione racconti “temi caldi” per i pubblici e non suoi freddi key-message?)
  • posizionamento sociale: come il fatto si colloca nel dibattito socio-culturale di una collettività (nel nostro caso: quanto è importante vedere che una azienda o una istituzione contrasta una moda potenzialmente nociva?)
  • attualità valoriale: come il fatto aderisce o meno al senso del vissuto attuale di una comunità ed esprime i valori di quel collettivo (nel nostro caso: come l’azienda o l’istituzione si fa percepire “vicina” alle vite e ai valori concreti dei pubblici?

Così abbiamo voluto credere che Nivea abbia trattato un tema caldocontrastando una moda forse pericolosa, facendosi sentire attenta ai valori della nostra attualità sociale.
Nel momento in cui molti di noi hanno condiviso quella card, non aveva nessuna importanza che l’autore fosse Hamza Haddad, era rilevante solo sentirsi parte in causa dell’espressione di una narrazione di marca che ci piaceva e coinvolgeva. E a cui aderivamo valorialmente. Anche adesso molti di quelli che hanno condiviso quella card rimarranno convinti del gesto fatto.

CREDENZE E DEEP MEDIA

È questa la potenza del marketing dei fatti estesi. E a questa potenza – come marketer, comunicatori, e giornalisti, ci dobbiamo risvegliare, imparando a gestirla e – se necessario – smascherarla.
Il marketing dei fatti estesi – sia in economia che in politica – si basa e si baserà sempre di più sull’espansione e gestione delle nostre credenze e percezioni. Così come la stessa FaceApp Challenge ci ha dimostrato: crediamoci e percepiamoci più vecchi o più giovani … vediamo cosa succede, se estendiamo la nostra percezione oltre il tempo attuale; saremo più belli o più brutti?
Sappiamo che è un gioco, ma è un gioco che ha conseguenze reali nelle nostre vite, perché qualcuno ha preso dati-biometrici dai nostri volti. E noi glieli abbiamo regalati.
Con l’Artificial Intelligence, l’Internet of Thing e i nuovi device di realtà aumentata non potremo più basarci sul motto cartesiano del: “crediamo solo in quello che possiamo vedere, sperimentare e toccare”. Perché i deep media truccano il tavolo e amplificano e modificano costantemente il nostro reale. Tutto diventa ri-toccatto, ri-sperimentato, ri-formulato, ri-sentito, ri-pensato in un costante processo di oggettività-soggettività, o se volete: concretezza-finzione.
In questo senso, quale è il valore oggi di un brand se possono concorrere a costruirlo gli stessi pubblici in operazioni di marketing esteso?
Così, le nostre credenza diventano e diventeranno sempre di più la nuova frontiera su cui misurarci e sfidarci tutti. E chi saprà estendere i fatti – in economia come in politica (e già lo vediamo) – avrà una grande responsabilità nei nuovi territori della comunicazione presente e futura. Non possiamo più credere in quello che vediamo. Piuttosto dobbiamo essere consapevoli che è quello che vediamo che ci porta a credere.




ENERGIA GIOVANI

L’ospite di questa settimana è Andrea Brugora responsabile del progetto “Energia Giovani” di Milano.
Ciao Andrea e benvenuto sul mio blog. Quando è nata l’idea di “Energia giovani”?
L’idea di affrontare il tema dell’equità generazionale è maturato a Milano tra un gruppo di amici. Poi abbiamo scelto l’approccio di cominciare dalle scuole, che sono il luogo dove si costruiscono le persone del futuro, quelle che dovrebbero essere più interessate a questi temi ma che spesso lo ignorano. In questo senso il nostro impegno, totalmente volontario, assume un valore di vera e propria educazione civica integrativa. Siamo ragazzi che hanno avuto tanto e vogliamo restituire alla società e in particolare ai nostri coetanei e ai più giovani.
La vostra missione è sensibilizzare il pubblico sul tema dell’equità generazionale e della sostenibilità: come pensate di organizzare l’attività?
Da un lato proponiamo agli studenti delle scuole superiori, e presto anche delle università, dei moduli interattivi di alcune ore di introduzione al tema, per renderli consapevoli che esiste nel nostro Paese una questione generazionale e che è un problema la cui soluzione dipende in buona parte da loro. Tuttavia non ci limitiamo alle scuole: lo scorso 30 marzo abbiamo organizzato il primo evento pubblico a Milano che ha visto la partecipazione di oltre 200 persone. Stiamo anche lavorando per creare dei moduli di approfondimento su temi specifici, come le prospettive di lavoro, la difficoltà a formare una famiglia, le carenze del nostro sistema formativo, l’empowerment delle nuove generazioni.
Quali sono i vostri programmi per i prossimi mesi?
Abbiamo in programma di ampliare la nostra attività aprendo dei “focolari” di volontari in molte altre città italiane. Per ora siamo attivi, oltre a Roma e Milano, anche a Verona e Genova. Vorremmo arrivare a 10 città entro fine anno, e in ciascuna di queste città ampliare il bacino di scuole fino a una decina per ciascuna città. Oltre a questo vogliamo organizzare in ciascuna città eventi pubblici e nelle università, per creare consapevolezza in tutti i segmenti di cittadinanza.
Più in generale, quali sono i vostri programmi per il futuro?
Per l’anno successivo la prospettiva è quella di continuare a crescere, e strutturarci come un’organizzazione che diventi il riferimento su questi temi a livello nazionale, con un team di esperti sui temi dell’equità intergenerazionale che possa formulare proposte di policy e farsi ascoltare. Dopo questo potremmo anche pensare a dei servizi per aiutare i nostri coetanei a costruire il loro percorso, siamo un gruppo attivo e di grande vitalità e continuiamo a ideare nuovi progetti. La nostra certezza è che vogliamo avere un impatto positivo.