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Da guida turistica a miliardario che sogna di andare in vacanza: la storia di Mr. Alibaba

Da guida turistica a miliardario che sogna di andare in vacanza: la storia di Mr. Alibaba

Ha conquistato le prime pagine della stampa d’Occidente quando ha annunciato di voler mollare l’impero del web da lui fondato per dedicarsi alla vita vera, ma ha anche lasciato di stucco gli ospiti dell’evento benefico Clinton Global Initiative di New York affermando che “se siete ancora poveri a 35 anni lo meritate”. Jack Ma è indicato spesso come il prototipo dell’imprenditore illuminato che vuole scardinare i modelli di business, ma ha anche una visione del successo spietata e diretta. Ecco la sua storia.

Dal basso e con determinazione

L’uomo più ricco della Cina ha cominciato molto presto a costruire il proprio impero. Nato nel 1964 nella provincia orientale dello Zhejiang, in piena rivoluzione culturale, decide già a 12 anni di puntare sull’inglese per provare a migliorare la sua condizione familiare. Per quasi otto anni, pedala 40 minuti al giorno con qualsiasi temperatura e condizione meteo per raggiungere l’hotel dove prelevava i turisti da portare in giro come guida volontaria. Un’esperienza che gli ha permesso di migliorare la sua padronanza della lingua, ma soprattutto di intravedere modi di vivere molto diversi da quello cinese. Si laurea proprio in inglese e inizia una carriera come insegnante universitario di tale materia.
Nel 1995, a 31 anni, va a Seattle come interprete di una delegazione commerciale e negli Usa viene folgorato da Internet. L’idea di sfruttarlo per un nuovo modo di far commercio si fa strada immediatamente nella sua mente. Decide di provarci: “Non importa ciò che si fa, – dirà più avanti – a prescindere dal fallimento o del successo, l’esperienza è una forma di successo in sé. Devi continuare a provare e se non funziona, si può sempre tornare a quello che stavi facendo prima”.
Nel 1999 fonda Alibaba, il più grande e-commerce del mondo, con l’aiuto (e i soldi) di 17 persone che convince a diventare suoi soci con un finanziamento iniziale di 60mila dollari. Adesso la capitalizzazione della società si aggira intorno ai 440 miliardi di dollari e gli analisti stimano che possa raggiungere i 1000 miliardi entro il 2020.
Nel primo anno di vita, la neonata società raccoglie 25 milioni di dollari da diverse altre istituzioni di credito; la redditività arriva nel dicembre 2001. Nel 2003, Ma fonda anche la piattaforma di vendita online Taobao, e nel dicembre del 2004 inaugura Alipay, il servizio di pagamento online a cui si appoggia Alibaba.
Con un valore di 25 miliardi di dollari, lo sbarco del 2014 a Wall Street del colosso online cinese è ormai nella storia e sembra pronto a un bis: entro l’anno il gruppo potrebbe ottenere nuovo supporto dal mercato con una seconda Ipo sulla borsa di Hong Kong. La speranza è di raccogliere almeno 20 miliardi per sostenere nuova innovazione tecnologica con cui minimizzare gli effetti della guerra commerciale tra Pechino e Washington.

L’annuncio choc

Jack Ma non sarà alla guida di Alibaba quando ci sarà la quotazione a Hong Kong. Sta lavorando alla sua uscita dal gruppo da diversi mesi, da quando ha pubblicamente promesso: “Mi ritirerò ancora giovane per godermi la vita. Non voglio morire in ufficio, è meglio morire in spiaggia, sotto un ombrellone”.
Già lasciato il ruolo di Ceo nel 2013 in favore del fedelissimo Daniel Zhang, dovrebbe rinunciare anche alla carica di presidente esecutivo il 10 settembre 2019. “Dieci anni fa – ha raccontato al South China Morning Post, uno dei suoi giornali – mi sono riunito con i massimi dirigenti e ci siamo chiesti che cosa avrebbe fatto Alibaba senza di me. Oggi sono orgoglioso del fatto che Alibaba abbia la struttura, la cultura aziendale, la governance e i sistemi per coltivare talenti che mi consentiranno di fare un passo indietro senza causare problemi alla compagnia”. E questa solidità non è frutto di un lavoro fatto di recente: “Oggi abbiamo ottenuto questo successo, non perché abbiamo fatto un ottimo lavoro oggi, ma perché il nostro sogno è nato 15 anni fa”.
Sul modello di Bill Gates, farà della filantropia nel campo dell’istruzione il suo nuovo lavoro. Vuole restituire ai giovani quello che ha imparato creando Alibaba: “Bisogna aiutare i giovani perché i ragazzi un giorno diventeranno grandi e se li cresceremo bene avranno la forza e l’intelligenza per cambiare il mondo”.




L’incredibile passo falso di Alitalia, che ha usato la blackface per pubblicità

L’incredibile passo falso di Alitalia, che ha usato la blackface per pubblicità

Dopo il caso di Gino Sorbillo, che l’aveva fatto per esprimere la sua “solidarietà” al calciatore del Napoli Koulibaly, questa volta è Alitalia a incappare nell’utilizzo “inconsapevole” di blackface.

Le virgolette sono d’obbligo, siamo pur sempre nel 2019 e non è facile capacitarsi di un passo falso del genere, tanto più da parte della compagnia di bandiera che, per pubblicizzare il volo diretto Roma-Washington DC, sceglie di assoldare un attore nordafricano e di “scurirlo” per farlo assomigliare a Barack Obama, come se il trucchetto potesse far ridere qualcuno. Il video, stigmatizzato pure dal New York Times, è stato poi prontamente cancellato (come segnalato dall’azienda a Studio dopo la pubblicazione di questo articolo, ndr), e Alitalia si è prontamente scusata pubblicamente sui suoi canali social, riconoscendo l’errore e ribadendo le proprie ferme posizioni sul tema.

Non si tratta, qui, di essere troppo sensibili o particolarmente inclini all’offesa, quanto piuttosto di rilevare la devastante mancanza di consapevolezza culturale da parte di un’azienda di queste dimensioni. Eppure non è certo una novità in Italia, dove spesso il razzismo viene giustificato come scherzo, ha scritto Davide Coppo su Undici a proposito dei tanti episodi razzisti accaduti nel mondo dello sport. Lo ha spiegato anche il ricercatore Leonardo De Franceschi alla giornalista italiana Nadeesha D. Uyangoda su Al Jazeera, infatti, che «I video come quello di Alitalia costituiscono una rappresentazione comune nella pubblicità e nell’industria televisiva mainstream italiana. Penso ai cinepanettoni popolari e anche a film più recenti che riproducono stereotipi e pratiche – come la blackface – che in altri Paesi, dagli Stati Uniti al Regno Unito, non sarebbero tollerati». La pubblicità di Alitalia era razzista, insomma, e il fatto che nessuno tra chi ci ha lavorato se ne sia accorto per tempo rimane l’aspetto più incredibile (e triste) dell’intera vicenda.




Perché le persone di potere badano solo a se stesse

Perché le persone di potere badano solo a se stesse

Che cosa frulla nella mente delle persone di potere? Ce lo domandiamo – e capita non di rado – quando i loro comportamenti ci appaiono contraddittori, o poco comprensibili, o così arroganti da essere difficili da sopportare. Un recentissimo articolo uscito sull’Atlantic ci invita a porci la domanda in termini più radicali: che cosa accade al cervello delle persone di potere?

MENO CONSAPEVOLI DEI RISCHI. L’Atlantic cita un paio di pareri autorevoli. Secondo Dacher Keltner, docente di psicologia all’università di Berkeley, due decenni di ricerca e di esperimenti sul campo convergono su un’evidenza: i soggetti in posizione di potere agiscono come se avessero subito un trauma cerebrale. Diventano più impulsivi, meno consapevoli dei rischi e, soprattutto, meno capaci di considerare i fatti assumendo il punto di vista delle altre persone.
A proposito di traumi cerebrali e cambiamenti della personalità, vi viene in mente il caso di Phineas Gage (ne abbiamo parlato qui)? Beh, forse non avete tutti i torti.
IL PARADOSSO DEL POTERE. Sukhinver Obhi è un neuroscienziato dell’università dell’Ontario. Non studia i comportamenti, ma il cervello. Quando mette alcuni studenti in una condizione di potere, scopre che questa influisce su uno specifico processo neurale: il rispecchiamento, una delle componenti fondamentali della capacità di provare empatia.
Ed eccoci alla possibile causa di quello che Keltner definisce paradosso del potere. Quando le persone acquisiscono potere, perdono (o meglio: il loro cervello perde) alcune capacità fondamentali. Diventano meno empatiche, cioè meno percettive. Meno pronte a capire gli altri. E, probabilmente, meno interessate o disposte a riuscirci.
INTRAPPOLATI DAL RUOLO. Inoltre. Spesso le persone di potere sono circondate da una corte di subordinati che tendono a rispecchiare il loro capo per ingraziarselo, cosa che non aiuta certo a mantenere un sano rapporto con la realtà.
E ancora: è il ruolo stesso a chiedere che le persone di potere siano veloci a decidere (anche se non hanno elementi sufficienti per farlo, né tempo per pensarci), assertive (anche quando non sanno bene che cosa asserire. O quando sarebbe meglio prestare attenzione alle sfumature) e sicure di sé al limite dell’insolenza.
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LA SINDROME DEL POLLO. I top manager delle multinazionali girano freneticamente per il mondo come polli decapitati: decidono guidati dall’ansia, senza pensare, senza capire, senza vedere e senza confrontarsi. L’ho sentito dire nel corso di una riunione riservata ai partner di un’assai nota società internazionale di consulenza, dal relatore più anziano e autorevole. Mi sarei aspettata qualche brusio di sconcerto tra gli astanti, e invece: ampi segni di assenso.
Ho il sospetto che la sindrome del pollo possa appartenere non solo a chi governa le imprese, ma anche a chi governa le istituzioni e le nazioni.
Il fatto è che le persone di potere “devono” andare dritte per la loro strada, infischiandosene di tutto quanto sta attorno. Questo può aiutarle a raggiungere i loro obiettivi (il che è molto vantaggioso a breve termine) ma ne danneggia le capacità di decisione, di interazione e di comunicazione, che nel lungo termine sono strategiche.
TRACOTANZA E FALLIMENTO. Il potere logora chi non ce l’ha, diceva Andreotti, che di potere sapeva abbastanza, citando Maurice de Talleyrand. Ma la citazione medesima contiene una dose consistente di protervia.
C’è una parola molto antica che descrive bene tutto ciò: hýbris. Indica la tracotanza presuntuosa di chi ha raggiunto una posizione eminente e si sopravvaluta. È notevole il fatto che nel termine greco sia implicita anche la fatalità di una successiva punizione, divina o terrena: il fallimento, la caduta.
Si stima che il 47 per cento dei manager falliscano, scrive Adrian Furnham, docente di psicologia all’University College di Londra. È una percentuale molto alta. Uno dei principali motivi di fallimento è il narcisismo: un cocktail deteriore di arroganza, freddezza emozionale e ipocrisia.
LA HUBRIS SYNDROME. In realtà, una hubris syndrome è effettivamente stata registrata e descritta in termini clinici, come patologia della personalità connessa con il possesso del potere. Lo studio comprende diverse tabelle che esaminano in termini psichiatrici il comportamento dei presidenti americani e dei leader britannici (lo studio è del 2008 e no, non c’è il nome che vi è subito venuto in mente).
La hubris syndrome è tipica dei dittatori. Può affliggere politici, manager, militari, accademici. I quattordici sintomi che la distinguono  comprendono narcisismo, sociopatia e istrionismo. La cosa interessante è che la sindrome è stata studiata estesamente da David Owen, neurologo, psichiatra e politico di lunghissima esperienza e carriera. Insomma: uno che conosce bene i suoi polli.
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SAPPIAMO DISTINGUERE TRA CARISMA E NARCISISMO? C’è un paradosso: è facile ammirare e rispettare le persone carismatiche e fiduciose in se stesse. Ma non è così semplice distinguere il carisma dal narcisismo, che per molti versi ne è il lato oscuro. Sappiamo davvero individuare il confine che c’è tra assertività e prepotenza? Tra sicurezza e ostinazione? Tra fascino e manipolazione? Tra pragmatismo e cinismo?
C’è un ulteriore paradosso: prepotenza, ostinazione, manipolazione e cinismo possono perfino rivelarsi utili nelle battaglie per la conquista del potere, che sono spesso logoranti, sleali e feroci. Ma, una volta ottenuto il potere, per mantenerlo servirebbe proprio quella visione più aperta ed equilibrata che – l’abbiamo visto prima – il ruolo stesso sembra rendere difficilissima da procurarsi e mantenere. Il potere è l’afrodisiaco supremo, diceva Henry Kissinger.
MANTENERE IL CONSENSO. Ma “difficilissimo” non vuol dire “impossibile”. D’altra parte, almeno nelle democrazie occidentali e nelle imprese moderne, il potere si conserva nel lungo termine solo attraverso il consenso. E la capacità di mentenere il consenso è direttamente proporzionale alla capacità di comunicare, di ascoltare e di interagire mettendosi a confronto.
Ehi, si può fare! Persone di potere dotate di un carisma privo di narcisismo esistono. In oltre quarant’anni, mi è perfino capitato di incontrarne alcune, tra politica e impresa, ma posso contarle sulle dita di una mano. Ce ne vorrebbero molte di più.




La banalità dei media e il potere

La banalità dei media e il potere

Ruben Durante (Universitat Pompeu Fabra, Barcelona), Paolo Pinotti (Università Bocconi) e Andrea Tesei(Queen Mary University) hanno pubblicato su “American Economic Review” un articolo sull’influenza politica dei modelli culturali propugnati dalla tv commerciale: The Political Legacy of Entertainment TV. L’articolo è stato ripreso da moltissimi giornali. Ma l’analisi merita di essere ulteriormente discussa per le sue relazioni con la fase attraversata attualmente dal sistema mediatico.
Gli autori hanno cercato di scoprire le conseguenze cognitive e culturali di un’esposizione significativa alla tv commerciale. Hanno notato che nella popolazione precocemente esposta alla tv di Berlusconi si manifestano maggiori probabilità di comportamenti civicamente disimpegnati, di scelte elettorali populiste e di risultati peggiori ai test di intelligenza.
Ovviamente si tratta di correlazioni e non cause. Ma la ricerca ha il merito di porre l’accento sulla relazione tra la struttura commerciale della televisione, la banalità del divertimento che è logico proporre in quel contesto e i rischi per la qualità della formazione culturale che corre chi si immerge in quei contesti mediatici. I media sono ambienti nei quali si sviluppa la personalità degli umani, non solo e non tanto in base ai contenuti trasmessi ma anche e soprattutto in base alle strutture e alle logiche essenziali di quei media: la media ecology è una disciplina fondamentale per tener conto di tutto questo.
Ebbene: quali sono le relazioni tra le conseguenze cognitive e culturali della televisione commerciale degli anni Ottanta e Novanta e il mondo dei social network emersi negli anni Duemila? Le differenze sono enormi. Apparentemente, tra la scarsità di canali tv del mondo analogico e la quantità infinita delle alternative offerte dai social digitali, la distanza è incolmabile. Del resto, la quantità di dati di cui si può disporre oggi per indirizzare i messaggi e trovare i soggetti più influenzabili è infinitamente più grande e sofisticata di quella di cui disponevano i “persuasori” del mondo televisivo. Ma alcune analogie balzano agli occhi: in entrambi i casi la struttura mediatica era modellata dalla logica della pubblicità, in entrambi i casi l’innovazione mediatica “disintermediava” il controllo sui contenuti detenuto dai media precedenti e si presentava come liberatoria, in entrambi i casi gli utenti erano conquistati più con la banalità che con l’impegno culturale. Né la televisione né la rete digitale sono fatte per essere macchine della banalizzazione: possono anche essere interpretate invece come generatori di altissime opportunità culturali; ma non c’è dubbio che nei casi della tv commerciale e di Facebook a prevalere è stata la logica della conquista dell’attenzione e non la ricerca della qualità culturale.
In questi contesti, ci si concentra sull’interpretazione delle esigenze dei consumatori, che sono i principali destinatari della pubblicità. Ma, in questi contesti, i consumatori non possono essere detentori di gusti e bisogni indipendenti dalla pubblicità. Anche se ideologicamente si trattano i consumatori come esseri razionali in grado di valutare la propria utilità e dunque si esaltano le esigenze dei consumatori come se potessero essere il criterio di giudizio sociale fondamentale, in realtà si analizzano i consumatori per la loro influenzabilità e di fatto si propone loro tutto ciò che li può influenzare in maniera coerente con ciò che interessa al mondo degli inserzionisti pubblicitari. Le conseguenze di questa manipolazione potrebbero essere, come indicato dallo studio citato, in una correlazione tra l’esposizione ai media e una cultura del disimpegno civile, una preferenza per messaggi populisti, un peggiore quoziente di intelligenza.
Se i consumatori come entità sociale fondamentale diventano elettori e se gli elettori vengono trattati da consumatori la conseguenza politica è devastante. La politica che viene eletta dai consumatori sceglie di investire meno nella scuola e più negli incentivi al consumo, sceglie di investire meno nelle imprese e più nelle pensioni, e così via. Un loop negativo era avviato.
L’ideologia della razionalità del consumatore ha contagiato anche chi ha creduto nella razionalità dell’elettore. Il rispetto per l’elettore ha impedito ai partiti dell’élite più colta e meno esposta ai media della banalità di dire che i loro avversari erano votati da persone meno intelligenti. E meno male che non l’hanno detto. Anche perché nessuno è immune dalla banalità. Però l’analisi che occorre per uscire da questo loop resta ancora da sviluppare.
Dove si trova una nuova fase politica e culturale? Un’idea potrebbe essere di cercarla nel nuovo concetto di lavoro. Ma non basterà.
Nell’economia della conoscenza, chi si identifica in un lavoro culturalmente esigente e creativo è incentivato a investire sulla propria formazione e a valutare la propria esposizione ai media in funzione dei risultati di qualità culturale che ne ottiene. Questa categoria identitaria probabilmente è post-consumeristica ed è meno influenzabile dalla banalità dei messaggi manipolatori. Non potrebbe avere successo nell’economia della conoscenza senza un buon senso critico e un accesso crossmediale alla cultura.
Chi cresce in questa nuova cultura del lavoro però – in un contesto polarizzato – è solo una parte della popolazione. L’altra parte della popolazione resta confinata in un mondo nel quale il consumo è più importante e gratificante del lavoro. Probabilmente, in questo senso, i “lavoratori” oggi sono l’élite e i consumatori sono alla base della piramide sociale. (Si veda: Polarizzazione nel lavoro. È un mega-trend. Nuove evidenze dalla Germania).
È possibile che chi sta al vertice della piramide, si identifica con il lavoro e cresce culturalmente, si trovi ad essere sempre più diverso dagli altri che restano indietro. Ma se sono gli altri ad essere la maggioranza e se sono gli altri a decidere il governo, l’élite si trova in un contesto inadatto al proprio sviluppo. Quindi il problema dell’élite è quello di smettere di cavalcare la polarizzazione e cominciare a inventare una nuova redistribuzione. Questa volta non si tratta solo di redistribuire il reddito: si tratta di redistribuire la conoscenza.
L’élite non è più il ceto che domina gli altri e si avvantaggia dei suoi privilegi. L’élite diventa chi guarda più lontano e per poter conservare il proprio vantaggio deve dedicarsi al vantaggio anche degli altri. Esercita una leadership culturale per sé e per gli altri in una logica nella quale o si vince insieme o si perde insieme.
In questo contesto non basta parlare di lavoro del futuro. Occorre anche parlare di leadership del futuro.
Il potere non è certamente favorevole a tutto questo. Quindi una forma di ribellione va coltivata. Contro la banalità ci si può ribellare. Come? In maniera non-violenta. Con pazienza. Con rispetto degli altri. Con la ricerca e l’intelletto di chi vive oggi, non nel passato. Con l’altruismo di chi pensa a chi verrà dopo di noi. Chi ha detto che sarà facile?
Vedi:
The Political Legacy of Entertainment TV
Junky TV is actually making people dumber — and more likely to support populist politicians
You are what you watch: The social effects of TV
Polarizzazione nel lavoro. È un mega-trend. Nuove evidenze dalla Germania
Così Mediaset ha fatto vincere Berlusconi e i Cinque stelle
Televisione ad effetto immediato
La tv dei populisti
Vedi anche:
Così le reti Mediaset hanno creato il voto Pdl
LA TV DI BERLUSCONI AIUTA M5S?/ La “non notizia” mentre il Cav affonda nei sondaggi
L’Italia è il Paese che amo




La sfida delle 5 R di Ferrero: meno plastica nel packaging

VIDEO La sfida delle 5 R di Ferrero: meno plastica nel packaging
Presentato a Milano il IX rapporto sulla responsabilità sociale


Il packaging per un gruppo globale come Ferrero, presente in oltre 170 Paesi del mondo con i propri prodotti, è un tema estremamente sensibile, tanto più se si parla di imballaggi in plastica, fondamentali per garantire la qualità dei prodotti e la sicurezza alimentare.
Di questo si è parlato a Milano in occasione della presentazione del IX rapporto sulla responsabilità sociale di impresa, alla presenza del presidente del gruppo di Alba, l’ambasciatore Francesco Paolo Fulci e di Paola Avogadro, Ferrero Global Packaging Design che ci racconta le sfide legate proprio alle ultime novità legislative.
“Protezione del prodotto e sicurezza alimentare sono alla base delle scelte di packaging di ferrero da moltissimi anni. Oggi se vogliamo la novità è quello che sta succedendo a livello normativo sul tema ambiente e plastica nello specifico dove quindi ci confrontiamo con legislazioni che non esistevano prima che mirano a regolamentare l’utilizzo della plastica che oggi è un pochino demonizzata e facciamo i conti con le nuove direttive”.
In questo contesto Ferrero ha adottato la cosiddetta strategia delle 5 R: riciclo, rimozione, riduzione, riutilizzo, e rinnovabilità, base per la progettazione dei propri imballaggi nell’ottica di una economia sempre più circolare. “Noi immettiamo circa 430mila tonnellate di imballi a livello mondo all’anno. Di questi solo il 20% è plastica, su questa abbiamo lavorato in ottica di 5 R: in 5 anni abbiamo ottenuto una riduzione di circa 6.500 tonnellate di plastica lavorando su imballi come le bottiglie di estathè, le confezioni delle praline e i tappi della Nutella”.
Non solo: grazie all’utilizzo per il 90% di materiale riciclato negli imballi non a diretto contatto col prodotto, come i vassoi dei mezzi espositivi, sono state risparmiate 10.000 tonnellate di materiale vergine in 5 anni. In questo direzione vanno anche alcune soluzioni più originali. “Quando pensiamo alla riduzione degli imballi pensiamo a una riduzione molto creativa – ha aggiunto Avogadro – e quindi abbiamo fatto un esperimento dove per un uovo di Pasqua abbiamo sostituito il piedistallo di plastica con uno di cioccolato eliminando una delle componenti di imballo e applicando alla lettera la R di rimozione”.
Al dibattito sulle sfide legate al packaging hanno preso parte anche il presidente del Conai, Giorgio Quagliuolo e Paolo Glerean, membro del board dell’associazione dei riciclatori di plastica europei. Per Quagliuolo, che ricorda come il 25% dei rifiuti urbani sia in plastica, il ruolo delle aziende nello sviluppo di una economia circolare è fondamentale:
“Se il packaging è progettato per avere una facilità di riciclo alla fine del suo utilizzo questo va nella direzione dell’economia circolare e di recupero delle materie. Io quello che dico sempre è che bisogna dare più retta agli uffici che si occupano di sostenibilità piuttosto che agli uffici marketing, perchè se per vendere più prodotto mi riduce un prodotto riciclabile in un prodotto irriciclabile non andiamo nella direzione in cui vogliamo”.
Per Paolo Glerean, che è a capo della RecyClass Platform, a cui ha aderito la stessa Ferrero, il punto centrale è la gestione del fine vita degli imballaggi:”E’ sicuramente un tema importante se pensiamo che le plastiche debbano diventare circolari, che è il traguardo che ci siamo dati in Europa. E’ assolutamente fondamentale e abbisogna di standard che oggi mancano. Come dico sempre dopo 70 anni di uso delle plastiche le cose non si creano in minuti o in ore ci vuole del tempo ed è quello che abbiamo fatto con l’associazione dei riciclatori europei creando questi tavoli di lavoro che occupano la value chain per creare questi standard che sono la parte fondante”.
In questo processo di cambiamento, tocca anche al consumatore italiano iniziare a fare scelte d’acquisto che tengano conto di questo fattore, oltre che del prezzo e della qualità del prodotto.