1

L’attivismo di Lush: azienda etica ma non solo…

L’attivismo di Lush: azienda etica ma non solo…

L’efficacia delle pratiche di CSR

Quando un consumatore pensa a Lush, una delle prime cose che gli viene in mente è il prezzo dei suoi prodotti. Se ci riflette più a fondo si ricorderà di certo anche di tutto il suo impegno e attivismo in materia di eticasostenibilità ambientale e commercio equosolidale, e improvvisamente il mero valore economico dei prodotti, pur essendo una delle determinanti nelle scelte d’acquisto del consumatore, passa in secondo piano.
Questo perché, come già detto nell’articolo di Federico Santini Qual è l’opinione dei consumatori della CSR? Una ricerca empirica, un consumatore è sempre più influenzato dalle tematiche di sostenibilità e responsabilità sociale intorno alle quali ruota buona parte delle politiche e delle iniziative messe in atto ormai da numerose aziende. Ed è più disposto ad acquistare i prodotti che osservano determinate regole ambientali sociali e quant’altro.
L’implementazione della Corporate Social Responsibility da parte delle aziende porta, tra gli altri vantaggi, ad un miglioramento dell’ immagine aziendale, incrementando quello che è il valore percepito dai consumatori del prodotto finale, ma anche del brand nel suo complesso.
Per migliorare la qualità della brand reputation non basta comportarsi in maniera etica e sostenibile, bensì bisogna che l’azienda si serva degli adeguati strumenti di comunicazione per rendere noto a tutti gli stakeholders aziendali il proprio impegno in merito agli ambiti di cui sopra.

I valori condivisi dal brand

Lush, in questi termini, è una delle aziende più talentuose. Riesce a distinguersi dai suoi concorrenti per la sua originalità. In primis per la sua strategia di marketing non convenzionale, poiché non investe in pubblicità e comunicazione tradizionale, ma è costantemente attiva sui social network, strumento con il quale riesce a coinvolgere i consumatori nella creazione di valore che, sentendosi parte di una community, si riconoscono nei valori promossi dal brand e partecipano attivamente supportando le iniziative e lo sviluppo del brand stesso. La promozione dei prodotti infatti, viene fatta unicamente tramite il passaparola e dagli addetti alla vendita nelle varie botteghe.
In secondo luogo Lush, oltre a promuovere iniziative, sostiene e supporta economicamente associazioni che sono attive in ambito sociale, ambientale e di sostenibilità.
In uno degli articoli in primo piano presenti sul sito ufficiale di Lush Italia, l’azienda definisce il proprio atteggiamento nei confronti dell’eticità dichiarando:

“Non ci è mai piaciuto definirci ‘azienda etica’. (…) L’obiettivo che ci siamo prefissati è quello di condurre la nostra attività in modo tale da consentire a tutti quelli che entrano in contatto con noi – i nostri fornitori, i dipendenti e i clienti – di trarre beneficio da Lush, sentendosi arricchiti.”

Lush fin 1995, anno della sua fondazione, ha delle policy atte a rispettare le persone con cui entra in contatto, sia esterne che interne all’azienda.

L’impegno nel sociale

Per quanto riguarda i fornitori delle materie prime, che sono tutte naturali o quasi, e l’approvvigionamento presso gli stessi, è tanto l’impegno che Lush mette nei confronti delle comunità e delle aree da cui acquista gli ingredienti per i propri prodotti. All’interno dell’azienda è presente un “Ethical Buying Team” che viaggia in tutto il mondo alla ricerca delle materie migliori e più sicure e, prima di ogni singolo acquisto, fa delle considerazioni etiche in merito ai diritti dei lavoratori, all’ambiente, alla distanza di trasporto della merce. In più, recandosi di persona sul luogo, cerca di capire la storia che si cela dietro ad ogni singolo ingrediente acquistato, quali problemi lavorativi o ambientali potrebbero presentarsi e cosa potrebbe influire sul costo dei materiali.
Lush attribuisce rilevanza anche all’aspetto sociale interno, impegnandosi a mettere in risalto il lavoratore prima di tutto come persona. Infatti, agli artigiani che producono i cosmetici con le loro mani, spetta la riconoscenza di vedere il proprio volto e nome stampato sopra le confezioni dei prodotti. L’impegno di Lush è stato riconosciuto anche pubblicamente tramite molteplici premiazioni negli ultimi anni per essere una delle migliori imprese nelle quali lavorare. Lo scorso 11 ottobre è stata l’occasione più recente in cui le è stato assegnato un riconoscimento. 

Rispetto dell’ambiente, prodotti “messi a nudo”

Più di un terzo dei cosmetici Lush è stata “messa a nudo”, ossia senza packaging, questo per ridurre al minimo l’impatto ambientale e l’inquinamento dei mari e non solo. Gli altri imballaggi comunque sono riciclati al 100%, sulle confezioni di alcuni prodotti, infatti, ti propongono di conservare i contenitori e, una volta accumulatone un certo numero, riportarli in negozio per ottenere in cambio una maschera per il viso gratis. Lo scorso Giugno a Milano è stato aperto il primo “naked shop”, in cui la totalità della merce venduta è priva di packaging. I prodotti che solitamente sono nella forma liquida, dagli shampoo passando per i balsami corpo ai saponi, vengono resi solidi.

Operazione “save the animals”

Lush è attiva anche sul fronte della salvaguardia degli animali. Infatti, per testare l’efficacia e la sicurezza dei cosmetici non pratica test sugli animali, come la maggior parte delle aziende operanti nel settore, bensì  pratica tecniche in-vitro ossia tecniche per eseguire determinate procedure in un ambiente controllato esterno e non in un organismo vivente. Inoltre, finanzia lo sviluppo di metodi alternativi di sperimentazione non-animale. Dal 2012 ha istituito il “Lush Prize”, il più grande premio al mondo nel campo della sperimentazione non animale che ha l’obiettivo di supportare le eccellenze scientifiche che lavorano per trovare alternative ai test sugli animali, il cui fondo annuale ammonta a 350.000 £. Premio che nell’ultima edizione è stato vinto da due giovani ricercatori italiani.

“Testare sugli animali per noi è semplicemente inaccettabile. Riconosciamo che la sicurezza dei clienti sia fondamentale, ma può essere garantita senza dover sfruttare gli animali”. (Lush Italia)

Per l’azienda, una tale presa di posizione così netta su una delle questioni socialmente e politicamente più scottanti non è stata certamente una mossa priva di conseguenze: vi sono infatti Paesi in cui Lush non può aprire negozi perché le legislature locali richiedono test sugli animali per commercializzare i prodotti.

Sarà tutto vero?

“Ci sono molti modi in cui un’azienda può garantire che le proprie pratiche interne siano trasparenti e oneste – e uno dei modi migliori è consentirne la supervisione da parte di organi esterni.”(Lush Italia)

Per un cliente Lush avere la certezza che i valori del brand che appoggia siano portati avanti  seriamente e con costanza è molto rilevante affinché rimanga fedele all’azienda e continui ad acquistare, pagando anche profumatamente, i suoi prodotti.
Le policy e  le iniziative intraprese da Lush sono controllate e verificate da organi esterni all’azienda e imparziali, in modo da rassicurare maggiormente il consumatore sulla veridicità delle dichiarazioni ufficiali dell’azienda in merito al proprio operato: Ethical ConsumerVegan e Vegetarian SocietyFair Trade, sono solo alcune di queste organizzazioni.




MAMAVENTURE

MAMAVENTURE

L’ospite di questa settimana è Ndiaye Mamadou della start up MamaVenture.

Ciao Ndiaye e benvenuto sul mio blog.  So che la vostra start up ha come vocazione il sostegno a giovani imprenditori immigranti. Ci spieghi meglio?
Come sappiamo è sempre più difficile raccogliere i capitali necessari per avviare idee imprenditoriali e la cosa diventa ancora più complessa quando si tratta di un migrante che tradizionalmente è considerato un cattivo pagatore e incapace di fornire garanzie reali.
MamaVenture è nata per rispondere a un bisogno reale, un problema di tanti, perché attraverso la risoluzione dei problemi si possono cambiare le cose.
Diamo sostegno ai giovani imprenditori migranti attraverso un processo articolato in diverse fasi:
– raccolta di idee innovative tramite candidature on-line ed eventi per dare opportunità al talento di emergere e per individuare nuove e concrete soluzioni alle diverse sfide sociali
– accesso ad un percorso di accelerazione per supportare i potenziali imprenditori nella fase di sviluppo e lancio sul mercato
– aiuto a definire le metriche di business e convalidare o modificare il prodotto/servizio in base alle conoscenze del mercato
– erogazione del capitale necessario per trasformare in impresa le idee imprenditoriali con il contributo della comunità senza scadenze e senza garanzie.
Uno dei vostri obiettivi è valorizzare il community engagement e supporto a startup ad alto impatto sociale: ci fai qualche esempio?
Uno dei problemi più grandi della comunità dei migranti è l’assenza di soluzioni valide per risolvere i problemi della comunità stessa. MamaVenture, grazie alla collaborazione con i rappresentanti locali delle comunità migranti organizza eventi nelle maggiori città italiane al fine di individuare i problemi più sentiti dalla comunità e poter intervenire nelle aree di maggior necessità. Selezioniamo i membri della comunità più brillanti per formare team di lavoro specifici su ogni problema con l’obiettivo di sviluppare soluzioni concrete. Al termine della call for ideas viene fatta una prima selezione delle soluzioni da parte del board of advisor e della comunità dei migranti tramite voto diretto. Si tratta di un processo innovativo ed equo di ideazione, selezione e validazione dei progetti. Questi passaggi ci permettono di coinvolgere le persone nelle scelte e nelle attività di MamaVenture creando engagement di tutti i componenti della comunità dei migranti.
Qual è il rapporto con Primo Miglio e quali sono i vostri programmi per il futuro?
Siamo il primo fondo di investimento a supporto della comunità migrante che fornisce assistenza e formazione per affrontare ostacoli legati alla mancanza di familiarità con la cultura e l’ambiente normativo del paese ospitante e all’assenza di un network sociale e industriale locale. In quest’ottica è importante la collaborazione con acceleratori/incubatori come Primo Miglio con cui abbiamo un legame particolare perché è grazie anche a loro se ci siamo costituiti. Con Primo Miglio poi abbiamo appena chiuso la prima call di idee imprenditoriali, fatto votare ben 2500 persone che si sono espresse dando il voto alle idee imprenditoriali più promettenti, di cui tra pochi giorni pubblicheremo i risultati definitivi. In programma abbiamo il lancio della seconda call di idee imprenditoriali per dare opportunità anche a chi è rimasto senza supporto.
Quali sono gli aspetti della vostra attività che ritieni più innovativi?
MamaVenture è il primo fondo di investimento interamente dedicato ad idee imprenditoriali di talenti migranti e fornisce un servizio innovativo in quanto, a differenza di incubatori e acceleratori tradizionali, offre un supporto personalizzato e continuativo che accompagna le startup in tutte le fasi dello sviluppo: dall’ideazione fino al capital raising. È un modo di fare innovazione sociale in quanto si pone come obiettivo la promozione dell’imprenditorialità tra i migranti, individuando i veri problemi delle loro comunità e supportando i migliori talenti nello sviluppo di soluzioni concrete per risolverli.



Conserve Italia punta sui treni, 4mila t in meno di CO2 all'anno

Conserve Italia punta sui treni, 4mila t in meno di CO2 all'anno

Il Consorzio movimenta su rotaia 133mila t di prodotti alimentari all’anno


L’85% dei pelati, dei vegetali e dei succhi di frutta che Conserve Italia spedisce ogni giorno nelle Regioni del Sud Italia viaggia sui binari delle reti ferroviarie. Complessivamente in un anno vengono spedite via treno 87.750 tonnellate di merci verso il Mezzogiorno e altre 46mila all’estero, per un totale di oltre 133mila tonnellate. Risultato: il trasporto su rotaie dei prodotti alimentari a marchio Cirio, Valfrutta, Yoga, Derby Blue e Jolly Colombani, toglie dalla strada 3.375 camion all’anno, impedendo il rilascio nell’atmosfera di 4mila tonnellate di CO2.
La scelta ‘green’ del Consorzio cooperativo bolognese va nella direzione di un crescente utilizzo del sistema multimodale di trasporto, quello cioè che coniuga il trasporto su gomma con quello su rotaia, di cui l’azienda si avvale per portare i propri prodotti ai clienti del centro e del sud Italia: Lazio, Campania, Molise, Basilicata, Puglia e Sicilia
“Siamo tra i pochi in Italia ad aver adottato questa politica, e lo facciamo innanzitutto per assolvere alla nostra mission di Gruppo cooperativo che fa della sostenibilità ambientale e sociale uno dei cardini della sua azione – spiega il direttore generale Pier Paolo Rosetti – Abbiamo iniziato nel 1995 con gruppi di carri per la movimentazione e consegna delle merci, sino ad arrivare a treni completi che tuttora attraversano l’Italia da nord a sud e viceversa”.
Considerando il solo trasporto effettuato in Italia con Mercitalia Logistics, Società del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane, viaggiano in treno 87.750 tonnellate di merci, pari all’85% dei volumi spediti al Sud utilizzando mediamente un treno al giorno. Gli ordini vengono trasferiti via camion dai magazzini dell’azienda all’Interporto di Bologna, hub di aggregazione di Conserve Italia.
Da qui le merci proseguono, attraverso tre tratte ferroviarie ‘punto a punto’ su sette frequenze settimanali, verso sei Regioni del Sud Italia. Pomezia, Marcianise, Catania e Bari sono le quattro piattaforme di arrivo, dalle quali poi gli ordini vengono aggregati e consegnati ai clienti finali attraverso la rete stradale.
Alle 87.750 tonnellate di merce che viaggiano in Italia, si aggiungono 46mila tonnellate trasportate in multimodalità verso il mercato estero, di cui 17mila verso la Francia. E proprio per la destinazione francese, per la quale si segue la tratta ferroviaria ligure, le previsioni del 2019 parlano di un incremento del 35% del trasporto su rotaia. Nel complesso, il sistema di trasporto multimodale di Conserve Italia interessa circa il 19% delle merci spedite dal Gruppo in un anno.
“Conserve Italia intende estendere lo spirito green anche su aree dove la multimodalità non è praticabile – annuncia Rosetti – Dallo scorso anno utilizziamo per i nostri trasporti anche 2 camion a metano liquido che garantiscono un risparmio sugli agenti inquinanti pari al 70% in meno di emissioni Nox e una riduzione di CO2 del 90-95% rispetto ad un equivalente veicolo diesel. Sono i mezzi sui quali le merci viaggiano lungo l’asse della Via Emilia tra il magazzino di Pomposa (Fe) e il magazzino di San Polo di Podenzano (Pc). Quest’anno utilizzeremo altri 2 camion a metano liquido, portando il totale a 4”.




5 tormentoni di Marketing che ti assilleranno per tutto l’anno

5 tormentoni di Marketing che ti assilleranno per tutto l’anno

Dalla Digital Transformation ai nano influencer, dai Zillennial agli Shoppable post. Ecco tutte le parole che segnano le tendenze Marketing del 2019


Peggio dei tormentoni estivi, le sentiamo pronunciare a profusione dal primo all’ultimo dei marketer.

Dalla coniazione alla Treccani, è un attimo. Fino a ieri erano: startup, bitcoin e hashtag.
Di cosa parliamo? Delle parole di Marketing che sentirete nominare fino alla nausea in questo 2019: dalla Digital Transformation ai nano influencer. E quando pensate di averle sentite proprio tutte, ecco comparire i Zillennial.
Da innovative, affascinanti e orecchiabili, come SEO, a fastidiose, abusate e irritanti parole. Perché una volta scoperte le usiamo così tanto?
marketing
Vi siete mai trovati ad impiegare gli stessi termini in riunioni, presentazioni o nel corso di conversazioni con amici?
Per dimostrare di essere sul pezzo accade anche questo. Non c’è da stupirsi, quindi, se ogni anno, o comunque periodicamente, emergono nuove parole ad indicare concetti, fenomeni ma soprattutto tendenze.
Se già il 2018 è stato l’anno di intelligenza artificiale e realtà aumentata, il 2019 punta tutto sull’Influencer Marketing e le sue mille sfaccettature. Ma andiamo con ordine e vediamo insieme le 5 (odiose) parole di marketing che spopolano già nei primi mesi del 2019.

#1 Digital Transformation

Si merita sicuramente il primo posto tra le buzz words del 2019.
È sulla bocca di troppi e spesso il suo utilizzo è inopportuno, fuori contesto e sicuramente abusato.
LEGGI ANCHE: Digital Transformation: 3 tecnologie che dovresti adottare per la tua PMI
Cos’è la Digital Transformation e perché ne sentiamo così tanto (fin troppo) parlare?  La Digital Transformation non è altro che la semplificazione della quasi totalità dei processi, riducendo le ridondanze e gli errori legati ad attività̀ manuali non strategiche. Significa più̀ integrazione tra tutti gli stakeholder aziendali.
I vantaggi della Digital Transformation, che sta coinvolgendo in vario modo il mondo della produzione e dei servizi, sono molteplici: maggiore efficienza, miglior operatività̀ e riduzione dei costi.
marketing
In poche parole è il futuro, ed è per questo che tutti vogliono farne parte. O, almeno, ci provano “riempendosi la bocca” con questo termine.
Viene utilizzato da imprenditori, manager, innovatori, ma anche da pubbliche amministrazioni che hanno deciso di dare una svolta al grigiore burocratico.
Siete già stufi di sentirla nominare in ogni luogo e in ogni lago? Arrendetevi! Le aziende hanno finalmente capito l’opportunità di sfruttare al meglio i loro nuovi prodotti attraverso soluzioni innovative e finché il processo non sarà ultimato nessuno mollerà l’osso della Digital Transformation.
In definitiva, questo processo è d’obbligo per ogni azienda che desideri crescere e allargare i propri orizzonti economici. È davvero arrivato il momento in cui ogni tipologia di business deve accettare il fatto che la Digital Transformation sia ormai obbligatoria quanto inevitabile.

#2 Nano Influencer

Prima c’erano i blogger, poi i youtuber, poi gli influencer, poi Giulia De Lellis e ora ecco i protagonisti social del 2019: i nano influencer.
No, non parliamo di minorenni: sono semplicemente influencer con un bacino di utenza minore rispetto ai navigati influencer, ma che negli ultimi mesi stanno catturando sempre più l’attenzione di follower e brand.
LEGGI ANCHE: Chi sono i nano Influencer e perché i brand cominciano a collaborare con loro
I nano influencer, sono la vicina di casa, il tuo amico super sportivo, le ancora poco note comparse televisive, la collega fashion addicted o l’estetista che si diletta nella consulenza beauty sui social. I nano influencer sono tra noi e ciò che li rende attraenti è la loro capacità di attrarre piccole ma vibranti e attive community.
marketing
Con un seguito che va da un minimo di 1000 ad un massimo di 10.000 follower, i nano influencer raccontano la loro quotidianità fatta anche di scelte di prodotti che amano, abitudini da condividere, ricette da provare, buoni sconto da utilizzare.
Creano, a loro insaputa, contenuti di valore fidelizzando i propri seguaci. Perché il Marketing del 2019 non può fare a meno di loro? Perché i nano Influencer si concentrano tendenzialmente su nicchie di mercato e queste nicchie sono sempre più ambite dai brand. Il fenomeno della coda lunga ha colpito ancora. Mi dispiace ma sentire parlare di loro ancora a lungo.

LEGGI ANCHE: Chi sono i nano Influencer e perché i brand cominciano a collaborare con loro

#3 Zillennial

Millennial, Z Generation, Echo Boomers, Baby Boomers.
Se anche voi siete in piena crisi d’identità, state pure sereni perché il vostro momento di gloria è naufragato da tempo. Ora a dettare mode e tendenze sono i Zillennial. A quale razza apparterranno mai questi individui?
LEGGI ANCHE: Smart working, libertà e altre 5 cose che dovremmo sapere su lavoro e Millennials
In quale angolo del pianeta avranno creato le loro colonie? Probabilmente nel vostro stesso ufficio. È lo stagista a cui pensate di insegnare qualcosa, sono i troppo giovani (beati loro), quelli che mentre voi vi disperate per la morte di Luke Perry loro scoprono nuovi talenti su Instagram e Youtube.
Sono quelli che vi fanno sentire terribilmente vecchi, che per loro Stranger Things è una parata di carnevale. Ma chi sono e cosa vogliono veramente da noi? Presto detto. Con Zillennial si identificano le persone nate dopo i Millennials.
La generazione è generalmente circoscritta tra i nati dal 1997 fino al 2010. Questa generazione è stata la prima a poter usufruire di Internet sin dalla prima infanzia. Con la rivoluzione del web che ha caratterizzato gli anni novanta, la Generazione Z è stata esposta a una quantità di tecnologia impensabile per noi poveri comuni mortali.
marketing
Ma perché dovrebbero interessarci così tanto? Perché, grazie al loro background acquisito alla nascita, stanno letteralmente stravolgendo le strategie di marketing dei più famosi brand. Un esempio? I temporary store o pop up store, i negozi temporanei in cui vengono organizzati eventi che offrono una customer experience più intima e personalizzata. Veloce fruizione del servizio, vita breve ma un’altissima attenzione all’esperienza in store dell’utente.
Queste le regole dettate dai nuovi Zillennial. Fatevene una ragione, diventeranno vecchi anche loro, ma ora lasciateli dominare in pace.

#4 Customer-Centric Marketing

Target. Clienti. Customers. Pubblico. Audience. Users. Utenti. Acquirenti. Tanti modi diversi, tante etichette differenti utilizzate per definire le persone con le quali un’azienda o un brand entra in contatto e con cui deve necessariamente restare in contatto. Il Customer Centric Marketing è proprio questo, l’ossessione delle aziende e dei brand di sapere tutto ma proprio tutto sui propri clienti.
LEGGI ANCHE: Come accompagnare il cliente nell’esperienza digitale (senza parlare solo di customer journey)
Molti marketer sono troppo spesso iper concentrati sul brand, sui suoi valori, sull’impatto che può avere nella società, sulle caratteristiche che lo identificano e lo differenziano dai competitor fino a dimenticarsi dei consumatori. La comunicazione diventa più prodotto-centrica e meno attenta alle preferenze e agli interessi delle persone. Il risultato? Campagne sterili e autocelebrative che poco hanno a che fare con la customer experience.
Cosa significa, dunque, avere un approccio Customer Centric e perché è di fondamentale importanza adottare questo modello per migliorare il proprio business? Presto detto. Oggi gli utenti sanno navigare, sanno dove trovare le informazioni di cui hanno bisogno, non si fermano al primo risultato di ricerca, arrivano dove desiderano e si rivolgono esclusivamente a chi fa al caso loro. E voi dovete essere li pronti ad accoglierli fornendogli esattamente quello che chiedono.

Oggi più che mai il cliente deve essere al centro dei processi aziendali. Questo in sostanza è un approccio Customer Centric, un modello di business che, supportato da analisi, sa evolversi definendo nella centralità del cliente il vero valore aggiunto per sviluppare se stesso.

#5 Shoppable post

Quante volte, soprattutto su Instagram siete stati attratti da quel prodotto che necessariamente avreste voluto tra le vostre mani? Diciamo che spesso succede e questo i brand lo sanno benissimo.
Il 2019 è l’anno dei Shoppable post e state molto attenti perché a breve il vostro capo potrebbe chiedervi di inserirli nel piano editoriale.
Ma torniamo alla voglia incontrollata di quel prodotto visto in foto. Quello che fa la maggioranza delle persone è andare su Google e provare a ricercare quello stesso prodotto mettendo insieme una serie di parole chiave che potrebbero identificarlo. Attenzione, perché adesso, grazie alle nuove funzionalità di Instagram e Pinterest, le aziende possono semplificare il processo d’acquisto.
LEGGI ANCHE: Instagram vuole proprio diventare un eCommerce e lancia Checkout
I cosiddetti “shoppable post” sono dunque dei post che consentono ai brand di taggare prodotti specifici nei loro post, inserendo prezzo e disponibilità in primo piano. Inoltre, su Instagram i Shoppable Post ora consentono agli utenti di passare dalla visualizzazione del prodotto direttamente alla cassa senza mai uscire dall’app.
Non ne hai mai sentito parlare? Preparati perché presto inizieranno a sanguinarti le orecchie!




La pubblicità ha due nuovi padroni, anzi tre

La pubblicità ha due nuovi padroni, anzi tre

Facebook e Google superano per ricavi i quattro grandi gruppi che per decenni hanno dominato il settore. Ma Amazon potrebbe complicare la partita

Nel mondo delle serie tv lo chiamano “jumping the shark”, il salto dello squalo (da una puntata di Happy Days), il momento in cui le idee originali sono finite e da lì in poi, al di là del successo di pubblico, la serie inizia il suo declino. Una linea di confine è stata superata e il cambiamento che è nell’aria da tempo sta davvero per compiersi. È quello che sta accadendo nel mercato dell’advertising.

Non è certo una novità che la disruption digitale abbia colpito anche il mondo della pubblicità con interi settori, ad esempio la stampa, retrocessi da protagonisti a semplici comparse nella suddivisione dei suoi ricavi.

In questo nuovo panorama le grandi holding che gestiscono tutta la filiera dell’advertising, dalle agenzie creative a quelle che pianificano le campagne pubblicitarie, hanno finora mantenuto il pieno controllo del mercato avendo in mano la quasi totalità dei budget che le grandi aziende investono per promuoversi.

Primi scricchiolii

Afine agosto, però, la holding pubblicitaria Wpp ha dovuto ammettere che la prima metà del 2017 era stata molto più dura del previsto e che le proprie previsioni di crescita dovranno essere riviste nettamente al ribasso (ovvero pari a zero o al massimo a un misero 1%).

Può succedere di dover rivedere i propri conti, ma la società fondata da Martin Sorrell a metà anni Ottanta del secolo scorso non è un attore qualunque: ha un peso specifico enorme nell’industria globale della comunicazione essendo l’azienda che più di ogni altra negli ultimi trent’anni ha ridisegnato la “geografia” del settore.

Ha dato vita al centro media più grande al mondo, GroupM; ha acquisito agenzie creative come la Ogilvy & Mather (fondata da una figura mitica del mondo della creatività pubblicitaria come David Ogilvy, che ha ispirato la figura del protagonista di Mad Men, tanto per citare un’altra serie tv), e nel 2016 ha gestito investimenti pubblicitari per 55 miliardi di sterline con un fatturato annuo sui 14 miliardi.

Dopo l’annuncio di Martin Sorrell il titolo della Wpp ha perso l’11% alla Borsa di Londra raggiungendo il prezzo più basso da almeno un anno (e guardando la sua attuale valutazione leggiamo che la differenza anno su anno è un pesante -21,42%). Che anche gli investitori abbiano fiutato per il mondo delle grandi agenzie pubblicitarie il momento “jumping the shark”?

I big spender non spendono più

Ibig spender pubblicitari stanno tagliando i loro budget. Il più grande di tutti, Procter & Gamble (P&G), ha ridotto pesantemente le spese per advertising, quelle messe a bilancio a chiusura (anno fiscale americano) del 2017 sono le più basse degli ultimi anni: 7,12 miliardi di dollari, erano 8,19 miliardi nel 2013. Tagli che fanno parte di un più ampio piano di alleggerimento dei costi di marketing di P&G, che toccherà anche le spese per i costi di agenzia (sfoltite di 300 milioni di dollari nel 2016, secondo la rivista AdAge).

E altri colossi del settore come la Unilever stanno seguendo la stessa strada, parliamo di multinazionali che rappresentano circa due terzi dei clienti delle grandi agenzie.

Non solo: lo scorso luglio Procter & Gamble ha anche annunciato di voler tagliare oltre 100 milioni di spesa in marketing digitale: troppa pubblicità online è risultata inefficace. Molti bot, con il rischio di finire su contenuti ritenuti inappropriati.

Il nodo dell’affidabilità dell’advertising digitale sta venendo al pettine, e a farne le spese sono soprattutto i “vecchi” banner e i siti che non hanno la capacità di fornire tutti quei dati che oggi gli uffici marketing delle grandi aziende richiedono. Un cambiamento di strategia che non tocca ovviamente colossi digitali come Google e Facebook.

Perché se è vero che i grandi investitori stanno rivedendo i loro piani, riducendo gli investimenti pubblicitari digitali, nel loro complesso questi non stanno affatto diminuendo. Anzi: secondo le previsioni dell’agenzia Magna gli investimenti pubblicitari negli Stati Uniti su mobile (49,5 miliardi di dollari) supereranno a fine 2017 quelli fatti sulle televisioni nazionali (42,4 miliardi). E a beneficiarne sarà ancora il duopolio Google-Facebook.

La disintermediazione mette in discussione lo status quo di chi fino ad oggi ha controllato il mercato e apre a nuovi consumatori. Facebook e Google (e tutto il loro universo di siti, app e servizi) con la pubblicità fai-da-te stanno attirando anche tutte quelle piccole e medie imprese che non potevano permettersi di pagare le commissioni delle grandi agenzie.

Allo stesso tempo, le grandi agenzie devono continuare ad acquistare spazi pubblicitari sui loro siti: del ricchissimo budget che Wpp investe su diversi mezzi ogni anno per conto dei propri clienti, Google è il primo beneficiario ormai da qualche tempo e — stando a quanto dichiarato dalla holding — quest’anno Facebook sarà la seconda forza superando per la prima volta anche la News Corp., ovvero l’impero di Murdoch che raggruppa testate come il New York Post e reti televisive come Sky. Altra data da segnare sul calendario.

Se Google vale più delle fab four

Seconfrontiamo i numeri di Alphabet-Google e Facebook con quelli delle maggiori holding pubblicitarie sembra che ormai non ci sia più partita: nei primi sei mesi del 2017, i ricavi pubblicitari dei due giganti della Silicon Valley ammontano a 61 miliardi di dollari mentre i ricavi complessivi, incluse quindi anche tutte le altre attività di marketing, delle quattro principali holding (Wpp, Ipg, Omnicom e Publicis, le cosiddette “Big Four”) sommano poco meno di 27 miliardi di dollari.

Il loro valore di capitalizzazione — a metà settembre 2017 — è stato complessivamente di circa 65 miliardi di dollari; quello di Facebook è intorno ai 495 miliardi e quello di Google di 646 miliardi di dollari (da sola Mountain View vale circa dieci volte le quattro holding pubblicitarie messe assieme). Il tutto con un numero di dipendenti nettamente inferiore: Alphabet e Facebook insieme arrivano a malapena a 100 mila dipendenti; quelli della sola Wpp sono intorno alle 200 mila unità.

Ma in questi mesi sta accadendo ancora qualcos’altro che potrebbe segnare l’inizio di una nuova era e, in futuro, rompere il duopolio Google-Facebook: Amazon sta pensando sempre più a incrementare i propri profitti pubblicitari.

Ancora Sorrell ha dichiarato a più riprese quest’anno che proprio Amazon — se solo lo volesse — sarebbe in grado di diventare nei prossimi anni il vero rivale di Google. D’altronde se oggi gli investimenti pubblicitari sono determinati dai dati, la piattaforma di Jeff Bezos possiede quelli più interessanti per le aziende: le nostre abitudini d’acquisto (carta di credito compresa). Circa la metà delle ricerche online per fare acquisti negli Stati Uniti oggi inizia da Amazon.

Il fattore Amazon

Bezos e soci per il momento non sembrano avere fretta. Hanno introdotto nuovi strumenti per fare pubblicità sul proprio sito, e i ricavi pubblicitari di Amazon crescono velocemente, ma gli 1,5 miliardi realizzati quest’anno sono ancora lontani da quelli fatti dai due giganti della Silicon Valley. Ad Amazon in questo senso hanno anche un altro vantaggio: possono permettersi di aspettare il momento giusto, l’azienda non vive di pubblicità come Facebook e Google, ha solidissimi ricavi in altri settori: punta semmai ad aggiungere ancora un nuovo mercato.

“Amazon sta tranquillamente lavorando per diventare una nuova potenza dell’advertising” titolava Quartz qualche settimana fa. Il tempo gioca a loro favore. Il salto dello squalo per Google e Facebook è sicuramente molto lontano ma forse nel mondo della pubblicità la disruption della disruption è già cominciata.