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Sovraccarico cognitivo: ricchi di informazione ma poveri di attenzione

Sovraccarico cognitivo: ricchi di informazione ma poveri di attenzione

Parliamo di sovraccarico cognitivo (information overload) quando, come scrive il premio Nobel Herbert Simon, la ricchezza di informazioni genera una povertà d’attenzione. Il termine viene coniato nel 1964, dal sociologo Bertram Gross.

BOMBARDAMENTO SENSORIALE. Non è sorprendente che sul tema esista una gran mole di ricerche: di fatto,  stiamo affrontando un bombardamento sensoriale (e di conseguenza cognitivo) che non ha precedenti nella storia. Per dire: già nel 2008 L’università della California calcola che l’individuo medio sia esposto a 34 gigabyte di contenuti ogni giorno. E a un diluvio di oltre centomila parole.
SOLO 120 BIT. Consideriamo che la mente umana può elaborare un massimo di 120 bit di informazione al secondo. Non è poco, ma una normale conversazione da sola consuma circa un terzo di questa potenza di elaborazione. Che succede a tutto il resto dell’informazione, e a noi?
PRESTARE ATTENZIONE, FORSE. Sovraccarico cognitivo vuol dire che più cose abbiamo a cui stare attenti, meno riusciamo a prestare attenzione. Più cose abbiamo di cui tenere conto, più cerchiamo scappatoie che ci mettano al riparo dall’intollerabile fatica di dover prendere in considerazione troppi elementi con troppe variabili.
Infine, più cose ci sono che confliggono per catturale la nostra attenzione, più rischiamo di prestare attenzione a quelle non rilevanti.
TROPPI DATI A DISPOSIZIONE. Parliamo di sovraccarico cognitivo anche quando facciamo fatica a capire e a prendere la decisione giusta perché i dati da valutare sono troppi. E il nostro cervello non ce la fa a considerarli e valutarli tutti, e a farlo in tempo utile.
ANDARE A SBATTERE. Il sovraccarico cognitivo pregiudica la nostra capacità di recepire, selezionare e comprendere gli stimoli che veicolano informazioni importanti per noi. Ed ha delle conseguenze. Per dire: scegliamo di dar retta agli (incalzanti e attraenti ) stimoli visivi dello schermo del cellulare. E andiamo a sbattere contro il palo della cui noiosa presenza non ci siamo accorti.
OTTO SECONDI. Ma anche quando le conseguenze non sono così gravi, sembra che, mentre la quantità di stimoli cresce, la nostra capacità di stare attenti diminuisca. Uno studio svolto da Microsoft nel 2016 attesta che, rispetto all’anno 2000, la finestra temporale d’attenzione per chi sta in rete si è ridotta di un terzo: se in precedenza di trattava di 12 secondi, oggi smettiamo di stare attenti dopo soli 8 secondi. Per dire: un pesce rosso, che arriva a 9 secondi, avrebbe più tenuta di noi. Anche se il dato è stato ripreso da molte fonti autorevoli, BBC lo mette in discussione. Un dato empirico che però confermerebbe la riduzione dell’attitudine a prestare attenzione è la progressiva riduzione della lunghezza della maggior parte dei contenuti in rete.
RABBIA E PAURA PER COMPETERE. Questo fenomeno, per inciso, ne innesca un altro: se la capacità di prestare attenzione ha dei limiti, e se contemporaneamente cresce la disponibilità di informazione, la competizione per catturare la scarsa attenzione delle persone si intensifica a dismisura.  E si gioca su emozioni forti come rabbia e paura, su titoli urlati, sulla tossica capacità di sorprenderci delle notizie false.
STIMOLI-SPAZZATURA. Così, una quantità di stimoli-spazzatura, che sono molto più potenti ed efficaci della media (ce l’ha detto il Mit nel 2018) intasa il nostro già provato sistema sensoriale. L’ulteriore conseguenza è che, permettendo agli stimoli più prepotenti (non a quelli più importanti) di catturare la nostra scarsissima attenzione, ci esponiamo a una percezione distorta e ansiogena di quanto ci circonda.
RICHIESTE INCALZANTI. Ed ecco un’altra conseguenza di cui tener conto: molti degli stimoli che recepiamo contengono un’esplicita richiesta di retroazione: guarda! Scopri! Impara! Ridi! Arrabbiati! Scandalizzati! Condanna! Commenta! Condividi! Partecipa! Iscriviti! Compra! Non perdere l’opportunità! Risparmia!
DECIDI, DECIDI, DECIDI! Così, ci tocca decidere se aderire o meno a ciascuna di queste richieste: altra fatica cognitiva che intossica la nostra mente obbligandoci ad aggiungere all’infinità di decisioni grandi e piccole che la vita ci domanda di prendere ogni giorno un’infinità di ulteriori decisioni, tanto minute quanto irrilevanti.
MENO COINVOLTI. C’è un dato ulteriore: la consuetudine tossica e la condivisione di stimoli altamente drammatici può renderci più insensibili e meno coinvolti. È l’effetto spettatore che, secondo lo psicologo sociale Staley Milgram, si può (un po’ sbrigativamente) riassumere così: se tutti vedono e nessuno fa niente, anch’io mi sento autorizzato a non far niente. Su, fatevi venire in mente qualche esempio, che in giro ce ne sono diversi.
ESTERNALIZZARE IL SOVRACCARICO COGNITIVO. In sostanza: più aumenta l’informazione disponibile, più aumenta la fatica preliminare e aggiuntiva di analizzare e selezionare ciò che ci serve, più aumenta la quantità di decisioni da prendere, più aumentano la fatica, il senso di inadeguatezza, l’indifferenza. Per resistere alla fatica del decidere, cerchiamo di esternalizzarla, e di lasciarla, quando è possibile, agli algoritmi.
QUANDO A DECIDERE È L’ALGORITMO. Se cerchiamo qualcosa con Google, e ci accontentiamo dei primi risultati che la prima parola chiave che abbiamo scritto ha prodotto, in realtà lasciamo che sia un algoritmo a decidere  quali sono le informazioni a cui dobbiamo esporci. Se dobbiamo decidere un percorso e lo costruiamo con Maps, sarà un algoritmo a dirci  che strada dobbiamo prendere. La stessa cosa succede con le pantofole da comprare in rete, o con la serie da guardare stasera. O con le notizie che troviamo sui social media.
TECNOLOGIA E LIBERO ARBITRIO. Certo: avendo a disposizione quantità crescenti di dati che ci riguardano, gli algoritmi imparano a conoscerci sempre meglio (ricordo l’inquietante promessa fatta dai fondatori di Cambridge Analytica: con 300 like su Facebook, l’algoritmo ti conosce meglio di tua madre).
La tecnologia distrugge ogni parvenza di libero arbitrio, scrive Yuval Noah Harari (l’articolo esce, con una diversa traduzione, anche su Repubblica), proponendoci una prospettiva che sembra tratta da Black Mirror ma, a pensarci bene, è meno distopica di quanto potrebbe sembrare.
Questo articolo, aggiornato il 23 febbraio 2019, esce, in una versione più breve, anche su internazionale.it, ed è il secondo di una serie. Leggete anche Attenzione: come funziona, perché si modifica, quanto è preziosa




Facebook ha pagato centinaia di collaboratori per far trascrivere ciò che ci diciamo nelle chat audio

Facebook ha pagato centinaia di collaboratori per far trascrivere ciò che ci diciamo nelle chat audio

Il social network di Menlo Park ha pagato centinaia di collaboratori esterni per far trascrivere le chat audio fra gli utenti di Messenger


Facebook ci ascolta. Il social network di Menlo Park ha pagato centinaia di collaboratori esterni per far trascrivere le chat audio fra gli utenti di Messenger, in modo da avere un testo (quindi dei dati trascritti) anche quando un testo non c’era. Lo ha rivelato l’agenzia Bloomberg, e la stessa Facebook è stata costretta ad ammettere la pratica. Un portavoce della società californiana ha comunque garantito che il tutto è stato interrotto circa una settimana fa, e non vi è intenzione di riprendere questa strada.
Per un tempo abbastanza ignoto, dunque, Facebook ha di fatto ascoltato le conversazioni dei suoi utenti. Ed è giusto ricordare che poco più di un anno fa, davanti al Congresso Usa, Mark Zuckerberg aveva negato questa possibilità. Rispondendo a un senatore, il Ceo di Facebook aveva detto: «lei sta parlando di questa teoria della cospirazione che noi ascoltiamo quello che passa per il microfono degli utenti e lo usiamo per la pubblicità. Non lo facciamo». Zuckerberg era stato perentorio, insomma.
Oggi, però, i fatti potrebbero dargli torto. Ciononostante, è difficile parlare di violazione della privacy degli utenti. Da quanto si apprende, infatti, Facebook ha fatto trascrivere esclusivamente le chat vocali degli utenti che hanno scelto questo tipo di opzione. Difficile, dunque, configurare un’ipotesi di reato. Tuttavia, la policy sull’uso dei dati di Facebook – ampiamente rivista negli ultimi mesi – non fa cenno ai file audio e al fatto che persone terze in carne e ossa possano accedere alle informazioni contenute lì dentro.

Perché ci ascoltano

Se Facebook ha deciso di far trascrivere i messaggi vocali dei suoi utenti, investendo del denaro per assoldare un team di collaboratori ad hoc, un motivo dovrà pur esserci. La posizione che trapela da Menlo Park è orientata all’innovazione: la trascrizione sarebbe servita a capire quanto l’intelligenza artificiale usata per trascrivere l’audio fosse performante.
L’ipotesi meno ortodossa, invece, spinge a pensare che Facebook possa averlo fatto per avere dati da dare in pasto al suo potente algoritmo. Che il gigante di Menlo Park analizzi in modo maniacale il comportamento degli utenti sulla sua piattaforma, per ricavarne dati utili a scopi di marketing, non è un mistero. Dai like, ai commenti ai messaggi, tutto ciò che avviene su Facebook è oggetto di profilazione. Con la trascrizione degli audio messaggi, potrebbe essere stata aggiunta un’altra casella a questa giostra di dati.

Lo fa anche Amazon

Qualcosa di simile riguarda anche Amazon. Qualche mese fa, infatti, è esploso il caso degli speaker intelligenti del colosso di Seattle. Amazon impiega migliaia di persone in tutto il mondo per rendere più efficiente l’assistente Alexa che gira sui suoi altoparlanti Echo. Il team ascolta le registrazioni vocali catturate nelle case e negli uffici dei proprietari di Echo, le trascrive, le annotate e quindi le inserisce nel software per eliminare le lacune nella comprensione del linguaggio umano da parte di Alexa e aiutarlo a rispondere meglio ai comandi. Il team comprende aziende appaltatrici e impiegati a tempo pieno di Amazon che lavorano un po’ in tutto il mondo: da Boston alla Costa Rica, fino all’India e alla Romania. Persone che lavorano nove ore al giorno, analizzando fino a mille clip audio a testa per turno. Un lavoro per lo più banale durante il quale si utilizzerebbe una chat interna per condividere file quando c’è bisogno di aiuto per analizzare una parola confusa o una registrazione divertente.
Il fatto che un team “umano” ascolti un campione di registrazioni di Alexa, seppur a scopi migliorativi, ha aperto un nuovo dibattito sulla protezione dei dati personali. È francamente difficile, però, parlare di privacy violata. Perché che Amazon registri la cronologia di ciò che diciamo al suo speaker è cosa nota (ma lo stesso fa Google e tutti gli altri player del settore). E ogni utente ha espressamente acconsentito. Nessuno ci ha però detto che altri umani potessero ascoltare le conversazioni col cilindro di Jeff Bezos. Ma in fondo neanche il contrario.




La “Pesce Palla Strategy” sui social media: fine di un ciclo

La “Pesce Palla Strategy” sui social media: fine di un ciclo

Che i social media abbiano cambiato il mondo è cosa ormai assodata. Lo vediamo da tante piccole cose: i food bloggers hanno riscritto parte del galateo per cui oggi non è più buona educazione “cominciare a mangiare prima che tutti abbiano fotografato e condiviso sui social il proprio piatto”. Il più buono sarà quello che ha preso più like. Vestirsi non è più una questione di stile ma, stando ai fashion bloggers, una questione di scatto-acchiappa-like per cui il valore degli abbinamenti lo decide il numero di “mi piace” che riceverà la foto.
Prima dell’avvento dei social media, o lavoravi o cercavi lavoro. Oggi o lavori o fai l’Influencer. Non importa se hai un seguito di 100 o 100mila followers: tutti hanno il diritto di autoproclamarsi influencer senza dare troppo peso a quanti realmente sono in grado di influenzare.
E qui arriviamo al punto: in una società 2.0 in cui il valore individuale sembra essere il numero di followers e di likes, tutti, chi più chi meno, ricorrono ad aiutini per gonfiare i propri numeri cercando di apparire più influenti di quanto non siano realmente.
Io la chiamo “Pesce Palla strategy”. Ti gonfi per sembrare più grosso di quel che sei. Ma il pesce palla lo conosciamo tutti e, più che influenzarci, ci fa un po’ sorridere perché solo lui pensa di far paura a qualcuno.
E così, per fare come lui, chi desidera prendere la via veloce per apparire influente sui social, acquista nell’ordine:
Fake followers:
profili del tutto finti creati da algoritmi e rivenduti a migliaia per poche decine di dollari;
Likes:
gli stessi profili fake metteranno migliaia di like alle foto/video di chi paga per riceverli;
Servizi di automazione:
attraverso delle attività di follow/unfollow, like bombing e visualizzazioni delle instagram stories, chi usufruisce di questi servizi aumenta i numeri del proprio profilo senza che questo dipenda direttamente dalla qualità dei contenuti pubblicati o dalla strategia applicata.
Queste attività, col passare del tempo, hanno creato danni incalcolabili sia alle piattaforme social che vedono dirottare volumi di denaro per nulla indifferenti verso terze parti, sia a singoli e aziende che lavorano sulla propria crescita in modo organico, ossia senza ricorrere ad artifizi. Ecco che oggi, un seguito di 5mila followers reali, passa per un risultato poco soddisfacente, i soldi che dovrebbero entrare nelle casse delle piattaforme per promuovere i post con ADS a pagamento vanno invece a riempire quelle di chi vende followers e likes oppure ai finti influencers che, gonfi come il pesce palla, vendono post sul proprio profilo ad aziende che intendono promuoversi. Nemmeno a dirlo, il risultato di tali campagne è e sarà sempre ben al di sotto delle attese.
Infine, l’esperienza social, quella a cui tanto tengono Zuckerberg & Soci (mezzo mondo considerato il numero di shares di Facebook – e quindi Instagram e Whatsapp), perde completamente di appeal passando da interazione genuina tra utenti al nulla cosmico.
E’ notizia dello scorso novembre che Instagram ha dichiarato guerra a questo tipo di attività mettendo in campo le machine learning tools, strumenti di intelligenza artificiale in grado di individuare i comportamenti scorretti e di interromperli. Lo scorso febbraio, tra il 13 e il 14, le famigerate “machines” fecero la loro prima uscita ufficiale creando non poco scompiglio a livello mondiale. I followers finti per un giorno sparirono dai profili. Ne abbiamo parlato in questo articolo. 
Ad aprile escono le prime indiscrezioni relativamente alla rimozione dei like su Instagram: è possibile che nelle prossime versioni della app non si vedano più. “Vogliamo che i tuoi followers si concentrino su ciò che condividi, non su quanti like ottengono i tuoi post” – tuona Instagram in una preview che chi scrive ha potuto vedere.
Arriviamo quindi al 4 giugno con l’entrata in vigore del nuovo algoritmo, attualmente l’ultimo e il più difficile da interpretare anche per i più qualificati social media manager.
Impossible continuare a crescere con gli automatismi, acquistare followers è un terno al lotto poiché possono arrivare tutti, solo alcuni o nessuno e nei giorni successivi non sai mai se ci saranno ancora. Il prezzo dei like invece è cresciuto tantissimo perché per mandarli le procedure sono molto più complesse e i filtri di Instagram ne bloccano la maggior parte. Il mercato parallelo della notorietà a basso costo comincia fortemente a scricchiolare e i pesci palla cominciano a sgonfiarsi.
Nel mese di luglio, per chi credeva che Instagram scherzasse, arriva il colpo finale: via ai test in 7 paesi tra i quali l’Italia: una mattina ti svegli, guardi i profili dei tuoi idoli e non trovi più i like sulle foto. Non puoi metterli e non ne visualizzi il numero. Sta succedendo veramente e sta succedendo ora.
E’ una questione psicologica quella di mettere con più facilità un like su una foto che ne ha già migliaia, condizionati dal fatto che sia già stata apprezzata da molti prima di noi. Ma se questo numero non è visibile, ci si concentrerà sul valore del contenuto, la qualità della foto e il messaggio del testo che la accompagna così che questa abbia davvero la potenzialità di condizionare le scelte di acquisto di chi ci si imbatte.
Tutto questo, a detta di molti, sarà la tomba degli influencers che, senza poter sfoggiare i loro tanto impressionanti quanto finti numeri, perderanno appeal sul loro seguito. Finiti gli influencers finiranno anche le piattaforme su cui operano. Ma questo scenario è davvero realizzabile?
La posizione di chi scrive è che invece questo giro di vite sulle attività contrarie alla policy di Instagram non solo non danneggerà le ultrasensibili dinamiche, ma ci restituirà anche un network che di social non ha solo il nome ma anche la forma.
I finti influencers via via spariranno lasciando spazio a figure di riferimento in grado, prima ancora di influenzare, di informare e selezionare le migliori proposte sul mercato. Tutto in favore del mercato e della user experience.
Non essendoci alternative, gli investimenti di profili personali e brand saranno riservati quasi esclusivamente alla produzione di contenuti di qualità e alla promozione di questi ultimi attraverso l’advertising a pagamento offerto dalle piattaforme che li ospitano.
Felici gli utenti, che riceveranno informazioni mirate e con contenuti di qualità;
felici Zuckerberg, soci e azionisti che rimpingueranno le proprie casse;
felici gli influencers veri che trarranno benefici concreti dal loro lavoro;
felici i brand che intendono investire sugli influencer, questa volta con meno rischio di sbagliare;
felici i social media manager professionisti, che rimangono a tutti gli effetti l’ultimo asso nella manica per chi vuole crescere in modo organico indirizzando il proprio messaggio al mercato di riferimento.
E il pesce palla? Fortunatamente lui potrà continuare a gonfiarsi quando lo ritiene opportuno. Instagram non ne ha fatto – ancora – specifica menzione.




The Impact of Corporate Sustainability on Organizational Process and Performance

The Impact of Corporate Sustainability on Organizational Process and Performance
Robert G. Eccles, Ioannis Ioannou, and George Serafeim compared a matched sample of 180 companies, 90 of which they classify as High Sustainability firms and 90 as Low Sustainability firms, in order to examine issues of governance, culture, and performance.

Findings for an 18-year period show that High Sustainability firms dramatically outperformed the Low Sustainability ones in terms of both stock market and accounting measures. However, the results suggest that this outperformance occurs only in the long term. Managers and investors who are hoping to gain a competitive advantage in the short term are unlikely to succeed by embedding sustainability in their organization’s strategy. Overall, the authors argue that High Sustainability company policies reflect the underlying culture of the organization, where environmental and social performance, in addition to financial performance, are important, but these policies also forge a strong culture by making explicit the values and beliefs that underlie the mission of the organization. Key concepts include:
  • Organizations voluntarily adopting environmental and social policies represent a fundamentally distinct type of modern corporation, characterized by a governance structure that takes into account the environmental and social performance of the company, in addition to financial performance, a long-term approach towards maximizing inter-temporal profits, and an active stakeholder management process.
  • Societal concern about sustainability, at both the level of the firm and society as a whole, has been growing from almost nothing in the early 1990s to rapidly increasing awareness in the early 2000s, to being a dominant theme today.
  • The High Sustainability firms in this study pay attention to their relationships with stakeholders—such as employees, customers, and NGOs representing civil society—through active processes of engagement.
  • The Low Sustainability firms, by contrast, correspond to the traditional model of corporate profit maximization in which social and environmental issues are predominantly regarded as externalities created by firm actions which only need to be addressed if required to do so by law and regulation.
  • The group of firms with a strong sustainability culture is significantly more likely to assign responsibility to its board of directors for sustainability and to form a separate board committee for sustainability. Moreover, High Sustainability companies are more likely to make executive compensation a function of environmental, social, and external perception (e.g., customer satisfaction) metrics.

Author Abstract

We investigate the effect of a corporate culture of sustainability on multiple facets of corporate behavior and performance outcomes. Using a matched sample of 180 companies, we find that corporations that voluntarily adopted environmental and social policies by 1993-termed as High Sustainability companies-exhibit fundamentally different characteristics from a matched sample of firms that adopted almost none of these policies-termed as Low Sustainability companies. In particular, we find that the boards of directors of these companies are more likely to be responsible for sustainability, and top executive incentives are more likely to be a function of sustainability metrics. Moreover, they are more likely to have organized procedures for stakeholder engagement, to be more long-term oriented, and to exhibit more measurement and disclosure of nonfinancial information. Finally, we provide evidence that High Sustainability companies significantly outperform their counterparts over the long-term, both in terms of stock market and accounting performance. The outperformance is stronger in sectors where the customers are individual consumers, companies compete on the basis of brands and reputation, and in sectors where companies’ products significantly depend upon extracting large amounts of natural resources.

Paper Information




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