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La mamma le sequestra il telefono, la 15enne twitta dal frigo e diventa virale

La mamma le sequestra il telefono, la 15enne twitta dal frigo e diventa virale

Una ragazzina le prova tutte per non perdere il contatto con i suoi follower. E vince la sfida con la madre diventando l’idolo degli utenti, che lanciano l’hashtag #FreeDorothy

Il pianeta Twitter ha un nuovo supereroe. Si chiama Dorothy, ha 15 anni, e da alcuni giorni combatte una battaglia per la libertà (più o meno) che appassiona migliaia di persone. Il «nemico» è sua madre, che le ha sequestrato il cellulare perché la ragazzina, grandissima fan di Ariana Grande, passava troppo tempo sui social insieme agli altri Arianator. Ma Dorothy — nickname @thankyounext, dal titolo di una canzone del suo mito — non si è data per vinta e non ha mai smesso di twittare, letteralmente in qualunque modo possibile. Anche nel più improbabile.

La simpatica sfida inizia il 5 agosto. «Vi lascio per sempre. Mia mamma mi ha preso il telefono. Mi mancherete tutti. Piango. Addio», twitta ironicamente la ragazzina mostrando che il messaggio proviene dal suo Nintendo 3DS, la console portatile: arrivano le prime migliaia di retweet entusiasti, 1-0 per la sua furbizia. La mamma non ci sta e pareggia i conti, twittando dall’iPhone sequestrato di Dorothy: «Ho visto che ha usato Twitter dal Nintendo. Questo profilo sarà chiuso da ora». 1-1. Ma è solo la fine del primo tempo.

Poche ore dopo Dorothy trova un altro sistema per non perdere il contatto con gli amici in rete: usare la WiiU, un’altra console. «Ciao, mia mamma mi ha preso il telefono e il Nintendo Ds quindi non ho scelta se non usare la Wii. Grazie a tutti del supporto!». Seguono quarantamila «mi piace» e un altro messaggio inviato dalla console: «Hei ragazzi, mia mamma è al lavoro quindi sto cercando il cellulare. Auguratemi buona fortuna». Ormai sono tutti dalla sua parte: l’account ufficiale di Twitter si schiera e scrive #FreeDorothy, definendo ironicamente la ragazza «un’icona». Ma la vendetta della mamma è dietro l’angolo: arriva il sequestro di tutti gli apparecchi elettronici della ragazza. È finita. O forse no.

Quando la partita sembra persa, Dorothy — che in pochi giorni è passata da 500 follower a quasi 30mila — estrae il coniglio dal cilindro. «Non so se questo coso twitterà, sto parlando con il mio frigo, che diamine, perché mia madre mi ha confiscato tutte le mie cose elettroniche di nuovo». L’app conferma al mondo che il tweet arriva proprio da uno «smart refrigerator». È un tripudio di viralità: anche l’azienda produttrice del frigo si unisce al movimento #FreeDorothy, mentre qualche saggio si schiera timidamente con la mamma (e altri sospettano sia tutto organizzato). La ragazza vince così la (prima?) partita dell’astuzia grazie all’«internet delle cose», inaugurando una lunga stagione di altri scontri adolescenziali, molti dei quali probabilmente si consumeranno sul terreno dell’uso dei social. Chissà se la madre alla fine le spegnerà anche il frigorifero.




ESTERI La bandiera schiavista sulle scarpe, Nike deve ritirare il modello pensato per il 4 Luglio

ESTERI La bandiera schiavista sulle scarpe, Nike deve ritirare il modello pensato per il 4 Luglio

Il vessillo fu usato fu usata negli Usa tra il 1777 il 1795. Tante le proteste, tra gli accusatori anche Kaepernick

Nike scivola sulla bandiera schiavista ed è bufera sulla multinazionale dell’abbigliamento sportivo. Nel maldestro tentativo di festeggiare patriotticamente il 4 luglio, l’Indipendence Day negli Usa, l’azienda ha commesso un passo falso, mettendo in vendita un modello di sneaker su cui campeggia l’immagine di una bandiera americana del passato: in pratica una versione legata ad una delle pagine più buie della storia americana. Tanto che dopo feroci polemiche Nike è stata costretta a ritirare le scarpe celebrative dal mercato.

Il modello «Air Max 1 Quick Strike Fourth of July» reca sul retro la Betsy Ross Flag, usata in Usa tra il 1777 il 1795. A differenza dell’attuale bandiera con 50 stelle, quanti sono gli stati americani, la Betsy Floss ha invece 13 stelle disposte a cerchio. Le stelle rappresentano le Tredici colonie che formarono il primo nucleo degli Stati Uniti a seguito della rivoluzione americana e proclamarono la loro indipendenza il 4 luglio 1776. La bandiera in questione è stata usata anche negli anni recenti da gruppi di estrema destra che inneggiano alla supremazia dei bianchi.

Il primo a puntare il dito contro il colosso delle scarpe sportive è stato proprio uno dei suoi testimonial, Colin Kaepernick, l’ex quarterback dei San Francisco 49ers, diventato famoso per aver dato origine alla protesta dell’inno prima dell’inizio delle partite di football americano. Fu lui il primo a rifiutare di stare in in piedi mentre veniva intonato The Star-Spangled Banner, per protestare contro le ingiustizie e le violenze da parte della polizia subite dalla minoranza nera negli Stati Uniti. Kaepernick senza mezzi termini ha detto che la Nike non dovrebbe mai vendere delle scarpe con un simbolo considerato offensivo per tutti gli afroamericani e le persone civili.

L’azienda è corsa subito subito ai ripari. «Nike – si legge in una dichiarazione – ha scelto di non vendere Air Max 1 Quick Strike Fourth of July con una vecchia versione della bandiera americana». Tuttavia il danno è ormai fatto, e alcuni modelli già in circolazione sono finiti all’asta battuti per oltre duemila dollari contro un prezzo di vendita di 140 dollari. Le conseguenze per la Nike si sono fate sentire anche a livello di borsa, con un calo di oltre l’1% a Wall Street. Mentre il governatore dell’Arizona, il repubblicano Doug Ducey, ha annunciato che ritirerà gli incentivi alla Nike per la costruzione di un nuovo stabilimento nel suo stato. «Non ci sono parole per esprimere il mio disappunto per questa terribile decisione – ha scritto su Twitter – Sono in imbarazzo per Nike». La Nike aveva in programma di investire 185 milioni di dollari per aprire una fabbrica nella località di Goodyear che impiegherebbe 500 persone.




MONDO "Gaffe" Versace su Hong Kong, chiede scusa anche Donatella

"Gaffe" Versace su Hong Kong, chiede scusa anche Donatella

Per scusarsi con i clienti cinesi dopo la gaffe delle t-shirt che non attribuiscono Hong Kong e Macao alla Cina, il brand italiano della moda ha messo in campo anche la stilista, Donatella Versace.
Sono profondamente dispiaciuta per lo sfortunato recente orrore commesso dalla nostra Compagnia e che è attualmente discusso su diversi canali social media”, ha scritto in un comunicato Donatella Versace, ripubblicato anche sulla pagina Facebook della casa di moda. “Non ho mai voluto – ha aggiunto – mancare di rispetto alla Sovranità Nazionale Cinese ed è per questo che io ho voluto chiedere personalmente scusa per questa inaccuratezza e per ogni disagio che può aver provocato”. Le scuse combinate del brand e della sua personalità più rappresentativa sono arrivate dopo che l’azienda ha messo in vendita t-shirt e felpe che hanno suscitato la furia dei netizer cinesi.
Sulle t-shirt e felpe da 380 dollari l’una sono elencati nomi di città del mondo in cui possono essere vendute, con il paese  in cui queste città si trovano. Per esempio: “Milan-ITALY” oppure “Berlin-GERMANY”. Ci sono anche città cinesi, come Pechino e Shanghai, collocate giustamente in Cina. Ma quando si arriva all’ex colonia britannica e all’ex colonia portoghese, le scritte sono “Hong Kong-HONG KONG” e “Macau-MACAO”.
Immediatamente le foto dei capi d’abbigliamento in questione sono circolate sui social media cinesi, per giunta in un momento di alta tensione attorno a Hong Kong, attraversata da tre mesi  a manifestazioni pro-democrazia che hanno suscitato la furia di Pechino, la quale sospetta che dietro queste dimostrazioni ci siano mani straniere. Uno dei primi effetti della gaffe di Versace è stato la perdita della testimonial più importante, l’attrice Yang Mi, la quale ha detto che intende interrompere il rapporto perché “estremamente offesa” come “cittadina della Repubblica popolare cinese”.
A oggi il trending hashtag su Weibo, visto oltre 400 milioni volte, è “Versace sospettato di sostenere la secessione di Hong Kong e Macao”, segnala il SCMP. Il danno insomma è fatto. Versace, in un comunicato postato sul social network cinese Weibo, dal canto suo ha presentato “profonde scuse” e ha detto di aver ritirato i prodotti e di averli distrutti. “Noi rispettiamo la Cina e risolutamente rispettiamo la sovranità territoriale della Cina”, si legge nel comunicato.
La gaffe di Versace richiama alla mente quella dello scorso anno di Dolce&Gabbana, di cui un video mostrava una modella cinese incapace di usare le bacchette. In seguito, la situazione era stata aggravata dalla diffusione di uno scambio di messaggi in cui uno dei due stilisti insultava la Cina. Dolce&Gabbana dovettero registrare un video di scuse nei confronti della Cina. Ma le polemiche rispetto ai marchi di moda non riguardano solo l’Italia. A maggio dello scorso anno nel mirino finì l’americana Gap che stampò su alcune t-shirt cartine della Cina che non includevano Taiwan e gran parte del Mar cinese meridionale, rivendicate da Pechino come proprie.




COMUNICAZIONE POLITICA E MANIPOLAZIONE DEL CONSENSO: CHI PAGA IL CONTO?

COMUNICAZIONE POLITICA E MANIPOLAZIONE DEL CONSENSO: CHI PAGA IL CONTO?

In un suo recente articolo dal titolo “Downing Street’s communications revolutionary”, il collega Stephen Waddington ha riepilogato l’inquietante situazione relativa alla manipolazione del consenso operata in Gran Bretagna occasione della campagna per il voto sulla Brexit.
Mentre Londra continua a navigare a vista verso l’ignoto, con un nuovo rozzo populista dalle soluzioni facili al timone della nazione, i burocrati di Bruxelles attendono il cadavere del “No Deal” (Brexit senza accordo) scorrere sul fiume.
Waddington definisce, non a torto, quella per la Brexit “una delle più grandi campagne di marketing e pubbliche relazioni mai realizzate”.
La campagna “Leave” ha infatti vinto con un margine del due percento, in larga parte grazie all’utilizzo di dati, storytelling e targeting a pagamento tramite Facebook, sfidando – e a mio avviso ampiamente oltrepassando – i limiti etici che dovrebbero regolare la nostra professione.
Carole Cadwalladr ha studiato il dossier per tre anni, per conto del quotidiano inglese The Guardian, e la Commissione parlamentare digitale, cultura, media e sport (DCMS) del Governo inglese, guidata da Damian Collins, ha esaminato nel dettaglio la campagna referendaria, pubblicando a febbraio 2019 un rapporto chiamato “Disinformazione e Fake news”. Anche la settima arte si è occupata della faccenda: la storia del Brexiters è stata recentemente raccontata nel documentario di Netflix “The Great Hack”.
La strategia e il pensiero alla base della campagna “Vote Leave” sono spiegati senza remore sul blog personale di Dominic Cummings, il principale architetto della campagna: il blog di Cummings – scrive Waddington – esplora il potenziale che la tecnologia ha oggi di sconvolgere e sovvertire le gerarchie tradizionali e migliorare la capacità di un’organizzazione di raggiungere i propri scopi.
Cummings ha un approccio a prima vista spregiudicato: ad esempio, ha scarso rispetto delle strutture organizzative e politiche esistenti e per le leggi che le proteggono, e il suo disprezzo per le classi politiche e i “civil servant” del Regno Unito non potrebbe essere più chiaro. Critica l’incapacità di utilizzare dati e strumenti moderni e critica anche i processi antiquati normalmente utilizzati: per lui, in sintesi, un fine – lecito o meno è da capire, -dovrebbe giustificare pressoché qualunque mezzo.
Cummings è stato anche convocato dalla Commissione Parlamentare inglese che sta indagando sulle dinamiche propagandistiche relative alla Brexit: semplicemente non si è presentato.
Venendo al dunque, Cummings e Cambridge Analytica hanno utilizzato mezzi di sicura efficacia ma di dubbia etica per identificare ben 7 milioni di elettori le cui opinioni avrebbero potuto essere – in tutto o in parte – manipolate, e prendendo di mira quegli elettori con ben 1,5 miliardi di post sui Social negli ultimi dieci giorni della campagna elettorale. Le prove raccolte hanno dimostrato che i canali dai quali sono arrivati i finanziamenti per pagare gli annunci online non erano trasparenti e che la paternità degli annunci stessi non era chiaramente rintracciabile (si trattava di ADV “lanciate nel web”, e non di post che apparivano su specifiche pagine ben identificabili).
In definitiva, questo genere di spregiudicata campagna pare essere stata ben efficace, se pensiamo che l’elettorato britannico ha votato per il 51,9% (17.410.742) pro Brexit, e per il 48,1% (16.141.241) contro, condizionando quindi le successive scelte del Governo inglese.
Delle altrettanto spregiudicate manovre per indirizzare il consenso durante la campagna elettorale dell’ex conduttore di reality-show televisivi prestato alla politica, Donald Trump, con oltre 230.000.000 di Americani raggiunti da messaggi che per essere educato non esiterei a definire quantomeno “estremamente polarizzanti”, si è già ampiamente parlato, come anche delle attività online poco chiare in occasione della campagna per l’indipendenza della Catalogna dalla Spagna: senza nulla voler togliere all’importanza del momento elettorale, i cui esiti posso essere solo nelle mani del popolo, appare comunque lecito riflettere se – e come – tali momenti possano essere stati condizionati in termini di libera costruzione del consenso con iniziative palesemente eterodirette.
In ogni caso, meno si è parlato delle sfacciate “incursioni” estere in casa nostra, in occasione delle elezioni di marzo 2018: una tale sequenza di fake news orchestrate ad arte da non essere riassumibile in un breve articolo come questo; ciò che è certo, è che risalendo la “bava informatica” lasciata da chi ha materialmente effettuato le attività distorsive online, si arriva ad account come @DoctorWho74. @lucamedico, @FrancoSuSarellu, e altri, e di li a una rete organizzata di BOT che porta dritti come una freccia, ancora una volta, alla celebre fabbrica di Troll Pietroburgese Ma lo slogan di chi si è giovato di queste ingerenze straniere nelle dinamiche elettorali nazionali non doveva essere “L’Italia agli italiani”…?
Una domanda potrebbe sorgere spontanea, amara, triste e forse provocatoria: “Questi soggetti non hanno altri strumenti per comunicare se non quelli basati sulla diffusione a pagamento di bugie?”. Vero è che la propaganda politica esiste da sempre (un amico mi ha ricordato, per non andar troppo lontani, gli “inviti” pro Democrazia Cristiana dei parroci italiani di mezzo secolo fa, al grido di “In cabina elettorale Stalin non ti vede, Dio sì”…?), il tema casomai è quello relativo all’esponenziale incremento di potenza degli strumenti oggi giorno utilizzati. In tal senso, la questione importante è ben più sostanziale: chi paga il conto? Chi ha firmato gli assegni per centinaia di milioni di euro/dollari/sterline/rubli che hanno finanziato campagne di comunicazione fortemente distorsive come ad esempio quella per la Brexit, che ha ottenuto come eclatante risultato l’uscita dall’Unione Europea di uno degli Stati più influenti del continente?
È sconcertante infine notare come queste “manovre” non abbiano destato allarme, sconcerto e sdegno da parte delle varie organizzazioni di Relazioni pubbliche, come ancor più da parte dei Governi che avrebbero dovuto vigilare sulla trasparenza dei processi democratici di propaganda elettorale, come giustamente denunciato da Michele Mezza nel suo ultimo saggio.
Lo stesso Collins ha dichiarato a un giornalista che

L’attuale legge elettorale è irrimediabilmente obsoleta, e che si dovrebbe esaminare l’ipotesi di una legislazione di emergenza per aggiornarla, almeno per stabilire i principi di base per i quali un post sui Social dovrebbe essere ne più ne meno parificato a un poster o a un opuscolo elettorale.

Chissà cosa ne pensano di questa proposta coloro i quali si sono svenduti per denaro architettando una delle più eclatanti manovre di manipolazione dell’opinione pubblica degli ultimi decenni.
Tante e tali sono le preoccupazioni per le regole di carattere etico a Londra (sic!), che Dominic Cummings è stato appena nominato Consigliere senior del Primo Ministro inglese Boris Johnson, a Downing Street. Il nuovo Premier e il Partito conservatore intendono evidentemente giammai normare, e anzi ulteriormente implementare queste spregiudicate pratiche di comunicazione. Come si suol dire, quando i cafoni si accorgono di aver raggiunto il pavimento, imperterriti iniziano a scavare: più in basso di così, si può sempre scendere.
 


Edit alle h. 13.00 del 01/09/2019




Basta con i profitti a ogni costo: le multinazionali Usa guardano ad ambiente e lavoratori

Duecento tra le più grandi aziende americane pubblicano un documento in cui sconfessano il mantra “prima gli azionisti” che per anni ha guidato le politiche societarie. Per creare valore bisogna guardare anche all’impatto ecologico, al rispetto dei clienti e “alle condizioni dignitose offerte ai dipendenti”


MILANO – “Primo obiettivo di una azienda è creare valore per gli azionisti”. Un mantra, una sorta di credo al limite del dogma nel mondo delle imprese quotate in Borsa che ha dominato l’economia liberale negli ultimi decenni. Una regola aurea che ora viene messa in dubbio dallo stesso “cuore” del capitalismo finanziario mondiale. Duecento tra le principali aziende di Wall Street e colossi finanziari – da Jp Morgan ad Amazon, da BlackRock a General Motors – hanno reso pubblico un documento in cui sostengono che per creare valore di lungo periodo, le aziende non devono solo portare dividendi ai propri azionisti, costi quel che costi. L’attenzione al profitto deve rimanere, ma dovrà essere solo una delle linee guida: d’ora in avanti i manager devono considerare anche l’impatto sull’ambiente e sulle comunità locali, i rapporti corretti con i fornitori, il rispetto dei consumatori e le condizioni offerte ai propri dipendenti.
Le duecento imprese firmatarie fanno parte di “The Business Roundtable”, che come si intuisce dal nome è un tavolo di lavoro attorno al quale si siedono le grandi multinazionali per capire cosa può fare bene al loro business. Per decenni, seguendo le teorie degli economisti iperliberisti (in primis, Milton Friedman) i manager avevano come imperativo categorico la traduzione pratica del motto “prima gli azionisti”. A tutti i costi: di fronte a un calo dei consumi o dei profitti, non hanno esitato a tagliare personale, spostarsi dove si pagavano meno tasse, o dove le norme anti-inquinamento erano meno rigide.
Ora, sostiene il documento approvato falla “tavola rotonda degli affari”, scelte di questo tipo non sono più un vantaggio, ma si stanno trasformando in elementi negativi e a lungo andare danneggiano il business. Un cambio di rotta senza precedenti a questi livelli e narrata in questi termini. Ma il dibattito iniziato a livello di fondi etici e finanza sostenibile si sta allargando anche agli investitori più tradizionali, invertendo i rapporti di forza. “La società devono proteggere l’ambiente e trattare i dipendenti con dignità e rispetto”, si legge nel documento così come lo riporta il Financial Times.
Il quotidiano britannico mette, giustamente, l’accento sul fatto che l’iniziativa dei “duecento” può essere letta come una risposta politica alla crescita dei movimenti populisti e sovranisti che hanno attecchito puntando sul fatto che i governi hanno lasciato mano libera alle aziende a discapito delle condizioni sociali e ambientali. Ecco perché viene definito “capitalismo inclusivo”, perché si occupa di interagire con tutti coloro che in qualche modo vengono coinvolti nell’attività di un grande gruppo.
Allo stesso modo, il Financial Times sottolinea come il documento di “The Roundtable Business” sia una mossa politica per lanciare un messaggio ai candidati più radicali del Partito Democratico, da Elizabeth Warren a Bernie Sanders, che stanno conducendo una campagna attaccando le multinazionali come macchine di profitti, che guardano solo ai soci e non alle ricadute sociali delle loro scelte. E in qualche modo proporsi per cambiare le regole assieme ai politici che domani potrebbero essere alla Casa Bianca, invece di subirne le scelte. Lo stesso Jeremy Corbyn si è aggiudicato la leadership dei Laburisti nel Regno Uniti proponendo nuove regole per le imprese e le finanza.
Del resto, fu proprio Larry Fink, il numero uno di BlackRock, il più grande fondo di investimento del mondo, a chiedere alle grandi multinazionali giusto un anno fa di impegnarsi di più sul tema delle ricadute sociali e guardare meno alla creazione di valore per gli azionisti. E di recente, sempre “The Roundtable Business” ha chiesto alla Sec (la Consob americana) di introdurre limiti per arginare le pressioni degli azionisti – a cominciare dai fondi attivisti – che portano a iniziative che guardano esclusivamente alla creazione di profitti, senza preoccuparsi delle conseguenze. Ora, però, devono dimostrare che non sia solo una mossa politica, ma allargare il “tavolo” ai governi per cambiare veramente le regole.