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Amazon.it si concentra sulla scuola, dalla csr all’assortimento

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Amazon.it si concentra sulla scuola, dalla csr all’assortimento
#takeaction #iofacciodipiù | Amazon donerà alle scuole che aderiranno all’iniziativa di csr un credito virtuale pari a una percentuale degli acquisti


Amazon.it si avvicina alle famiglie attraverso la scuola con una serie di nuove iniziative che ricordano i player tradizionali della gdo italiana. Il colosso dell’online ha ad esempio annunciato per l’Italia l’iniziativa di csr “Un click per la Scuola”, rivolta a tutte le scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo e di secondo grado del territorio nazionale.
Con il progetto Amazon devolverà il 2,5% del valore degli acquisti effettuati dai clienti che si registrano sul sito Unclickperlascuola.it proprio all’istituto scolastico selezionato dal cliente. Le scuole potranno poi utilizzare il credito virtuale accumulato per richiedere gratuitamente i prodotti di cui hanno bisogno, scegliendo da un catalogo di oltre 1.000 referenze tra cui attrezzature elettroniche, cancelleria, articoli sportivi, giochi, strumenti musicali, complementi d’arredo, accessori e altro ancora.
Come sottolinea in una nota Giorgio Busnelli, responsabile della categoria media per Amazon in Italia e in Spagna: “Ad ulteriore conferma del nostro impegno a favore di studenti, famiglie e istituti scolastici, quest’anno parteciperemo al #DonoDay2019 Scuole realizzato dall’Istituto Italiano Donazione, in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, supportando il primo roadshow del dono che coinvolgerà le scuole su tutto il territorio nazionale. Un’iniziativa itinerante a cui ci uniremo per promuovere la formazione scientifica e informatica tra i ragazzi e soprattutto ragazze delle scuole primarie e secondarie”.
Uno store dedicato al back to school
Amazon.it ha anche raccolto in un unico store dedicato una selezione sempre più ampia di prodotti per tutti gli studenti: dagli zaini alle calcolatrici scientifiche, dai diari ai tablet e computer per lo studio, dall’abbigliamento per le attività sportive a quello per tutti i giorni. Lo store è disponibile su Amazon.it/scuola.
Inoltre, Amazon.it offre un’ulteriore opportunità di risparmio per il ritorno a ccuola: tutti i clienti che acquistano un libro di testo insieme ad un’ulteriore spesa di almeno 20 euro di prodotti idonei, riceveranno un buono regalo da 5 euro (l’offerta è valida fino alle ore 23:59 del 31 agosto 2019). In aggiunta alla sezione “Ritorno a Scuola”, come ogni anno, è inoltre disponibile il sito adozionilibriscolastici.it, che consente di trovare e acquistare direttamente in un “solo click” su Amazon tutti i testi adottati e consigliati in ognuna delle classi d’interesse, senza selezionare più i libri singolarmente.




I big della moda riuniti su clima, oceani e biodiversità: 32 aziende firmano il Fashion Pact

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I big della moda riuniti su clima, oceani e biodiversità: 32 aziende firmano il Fashion Pact

L’impegno sull’ambiente sottoscritto a Parigi con il presidente Macron. La presentazione ufficiale al G7 di Biarritz


Trentadue marchi leader nel settore della moda uniti in uno sforzo collettivo sulla sensibilizzazione dei temi ambientali con un focus su clima, difesa degli oceani e della biodiversità. È lo spirito del Fashion Pact, l’impegno che alcuni dei maggiori player del settore hanno sottoscritto a Parigi alla presenza del presidente francese Emmanuel Macron e che verrà presentato ufficialmente al G7 di Biarritz in programma nei prossimi giorni.  All’incontro all’Eliseo hanno partecipato anche il ministro dell’Economia e delle finanze Bruno Le Maire, del Lavoro Muriel Pénicaud, ed il vice ministro della Transizione ecologica e solidale Brune Poirson.
Gli obiettivi del Fashion Pact si basano sull’iniziativa science-based target (Sbt1), che si focalizza su tre aree principali per la salvaguardia del pianeta: arrestare il riscaldamento globale (global warming), creando e implementando un piano d’azione per azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050, al fine di mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1.5 gradi, tra adesso e il 2100. Ripristinare la biodiversità, raggiungendo gli obiettivi indicati dai parametri stabiliti dall’iniziativa science-based target, per ristabilire gli ecosistemi naturali e proteggere le specie. Proteggere gli oceani, riducendo l’impatto negativo del settore della moda sugli oceani stessi,mediante iniziative concrete, quali ad esempio la riduzione graduale della plastica monouso.
Ad aprile scorso, in previsione del vertice del G7, Emmanuel Macron aveva affidato a François-Henri Pinault, Presidente e ceo di Kering, il compito di riunire e coinvolgere gli attori più importanti nel campo della moda e tessile, con la finalità di definire obiettivi concreti per ridurre l’impatto ecologico causato dal proprio settore.
Nella schiera dei sottoscrittori marchi del lusso, della sport ma anche aziende del retail. Questo l’elenco completo: Adidas, Bestseller, Burberry, Capri Holdings, Carrefour, Chanel, Ermenegildo Zegna, Everybody & Everyone, Fashion3, Fung Group, Galeries Lafayette, Gap, Giorgio Armani, H&M, Hermes, Inditex, Karl Lagerfeld, Kering, La Redoute, Matchesfashion.Com, Moncler, Nike, Nordstrom, Prada, Puma, Pvh, Ralph Lauren, Ruyi, Salvatore Ferragamo, Selfridges, Stella Mccartney, Tapestry.




Il social nuoce gravemente alla salute: ve lo dicono le top model con un selfie

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I selfie delle top model sono degli avvertimenti sulla pericolosità dei social network. La cover scelta da Kaia Gerger, Gigi Hadid e molte altre modelle da sfilata e copertina tra le più influenti sui social network, lancia un messaggio chiaro contro Instagram – sul quale le top model sono delle vere e proprie celebrità – e gli altri social.
Con un font pulito e facilmente comprensibile, su sfondo bianco, compare la scritta: “I social media danneggiano seriamente la tua salute mentale”. La frase, stampata sul retro di una custodia trasparente per cellulare, appare ultimamente sui social attraverso i loro selfie allo specchio o nelle foto in cui compare il telefono.
Oltre a Kaia Gerger e Gigi Hadid, si sono immortalate con dei selfie che mostrano questo avvertimento anche altre modelle, come Madison Beer, Hailey Bieber, Delilah Belle e dozzine di utenti Instagram. 

I selfie delle top model che vogliono sovvertire Instagram
Nelle foto alcuni dei selfie su Instagram delle top model che hanno scelto la cover con l’avvertimento contro i social network

Alcuni studi hanno scoperto che l’uso prolungato del social media è legato alla depressione e alla solitudine e alleviare le pressioni che derivano dalla connessione costante è stata al centro della preoccupazione dei giganti dell’hi-tech negli ultimi anni.
Secondo The Verge, che ha fatto emergere questo caso, la popolarità di questa semplice custodia per iPhone, suggerisce che anche le persone con molto successo sui social, come le supermodelle con milioni di follower e le cui carriere dipendono anche da Instagram, si preoccupano dell’effetto che i social media hanno sulla mente e sull’autostima, propri e di chi le segue. 
I selfie delle top model che vogliono sovvertire Instagram
La custodia del telefono con l’avvertimento sulla salute mentale è di Urban Sophistication, un marchio che da quattro anni si è specializzato in abiti e accessori con loghi e frasi ironiche. La custodia con la frase sui social media, sul mercato dal 2017, costa 35 dollari ed è un bestseller. 
Da anni si parla dei danni per la salute mentale dell’uso dei social network: nel 2017 si parlava di come l’uso di Facebook diminuisca la salute fisica e mentale e nel 2019 l’esperimento di un fotografo faceva emergere l‘ansia da foto ritocco degli adolescenti, ma anche in passato la salute mentale e l’uso dei social (ma anche dei videogiochi) è stata al centro di ricerche e studi.




La schiavitù moderna è il nuovo rischio reputazionale (e legale) per i manager

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La crescente sensibilità sociale dei consumatori obbliga le aziende a controllare con attenzione la supply chain, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, per evitare violazioni dei diritti dei lavoratori


I consumatori sono perennemente alla ricerca dei prezzi più bassi ma, allo stesso tempo, sono sempre più sensibili a temi quali le violazioni dei diritti dei lavoratori, soprattutto se compiute nei Paesi in via di sviluppo. Le aziende non possono però far notare la contraddizione di queste due richieste perché “il cliente ha sempre ragione”. Ricade dunque su di loro la responsabilità di trovare un giusto equilibrio, con il rischio da una parte di perdere compratori perché i suoi prezzi sono troppo alti e, dall’altra, di subire un pesante danno d’immagine, se non addirittura potenziali azioni legali.
A lanciare l’allarme su questi rischi sono gli esperti di Allianz Global Corporate & Specialty che rilevano come il Global Slavery Index 2018 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) stimi che, a livello globale, circa 40,3 milioni di persone vivano in una condizione di moderna schiavitù. Inoltre, i Paesi del G20 importano prodotti a rischio di provenienza da lavoro forzato per un valore totale di 354 miliardi di dollari, un dato che riguarda soprattutto l’elettronica (pc, cellulari, ecc.) con 200 miliardi di miliardi, seguita dall’abbigliamento (127,7 miliardi), la pesca (12,9 miliardi), il cacao (3,6 miliardi) e la canna da zucchero (2,1 miliardi). La schiavitù moderna non riguarda però solo il Terzo Mondo ma anche l’Italia dove, sempre secondo le stime dell’Ilo ben 145mila persone risultano esserne vittime.
“La principale minaccia che un’impresa deve affrontare a causa dello sfruttamento degli esseri umani nella supply chain, oltre ai potenziali rischi di responsabilità civile quando opera con fornitori, è proprio il danno reputazionale – scrivono gli esperti del colosso tedesco – Una situazione, quest’ultima, sempre più probabile per le aziende che non rispettano gli standard richiesti, soprattutto a seguito dell’accresciuta difesa dei consumatori e persino dei cosiddetti esempi negativi di casi resi di pubblico dominio, molti dei quali guidati da organizzazioni non governative per sensibilizzare l’opinione pubblica“.
Lo sfruttamento degli esseri umani nella supply chain sta dunque diventando una preoccupazione e un importante elemento di esposizione per i consigli di amministrazione, dirigenti e funzionari delle aziende con sede nel Regno Unito, negli Stati Uniti, nell’Unione Europea ed in Australia. “In un momento in cui le autorità di regolamentazione e quelle investigative stanno concentrando un’attenzione senza precedenti sulla responsabilità personale dei dirigenti aziendali, questioni come la schiavitù nella supply chain potrebbero creare problemi importanti per i manager senior – spiega Shanil Williams, Global head of commercial financial lines di Allianz Global Corporate & Specialty – Prevediamo una maggiore applicazione delle norme in materia di diritti umani ed è quindi necessario responsabilizzare i dirigenti nell’essere trasparenti nell’effettuare i controlli delle attività della catena dei fornitori. Le aziende che non adottano misure adeguate per eliminare lo sfruttamento degli esseri umani dalla catena dei loro fornitori possono dover affrontare cause legali”.
Per mettersi al sicuro da questi rischi, le aziende devono impegnare contrattualmente i venditori e i fornitori su salari equi, orari di lavoro e trattamento umano giusti prima di fare affari con loro, implementando inoltre i necessari controlli per affrontare le violazioni. Quando viene scoperta un’infrazione, è importante agire rapidamente e dichiarare pubblicamente che non verranno tollerate violazioni del codice di condotta da parte dei loro fornitori. Esistono infine delle soluzioni assicurative efficaci di risposta alle crisi, che possono contribuire a mitigare l’impatto dei sinistri “reputational”.




Da employer branding a employer reputation

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Perché -oggi più che mai- la reputazione è una leva determinante anche per le “Human Resources” delle Aziende


Reputation Institute ha battezzato il 2019 come “Reputation Judgement Year” per enfatizzare l’urgenza imposta alle aziende di incontrare le crescenti aspettative degli stakeholder in uno scenario che sta cambiando e che impone una rinnovata centralità di un racconto “Corporate”.
Globalizzazione e media digitali hanno drammaticamente accelerato la domanda di partecipazione degli stakeholder non solo rispetto alle grandi questioni sociali ma anche nelle relazioni con le aziende: la reputazione delle imprese, oggi, è continuamente sottoposta al giudizio dei suoi pubblici grazie alle straordinarie possibilità di accesso alle informazioni. Questo oggi non vale solo nelle scelte di acquisto dei consumatori (dove il prodotto/servizio è sempre meno importante di “chi c’è dietro” quel prodotto/servizio), ma anche nella scelta dell’azienda in cui lavorare: oggi la reputazione è uno delle leve di talent attraction & retention. Ed è un giudizio che va oltre il tradizionale concetto di “datore di lavoro” e si arricchisce di nuove e crescenti aspettative legate soprattutto a credibilità e leadership dell’impresa anche al di fuori del contesto aziendale interno.
La Comunità HR oggi si trova, quindi, costretta ad aggiornare strategie e leve per vincere le due sfide principali che la Reputation Economy impone con forza: (1) trasformare i dipendenti in ambasciatori della reputazione verso l’esterno dell’azienda; (2) attrarre (e trattenere) i talenti migliori, soprattutto in un mercato alla ricerca di nuove competenze, dove la crescente competizione per i talenti tra “agili” start up e “grandi” aziende, annulla,  di fatto, ogni differenza dimensionale e di capacità di investimenti.
In questo contesto, partendo dal presupposto che la reputazione è un legame emotivo che spinge le persone a voler lavorare per un’azienda, Reputation Institute ha analizzato la reputazione di 100 aziende operanti in Italia nella loro veste di datore di lavoro presso un campione selezionato di job seeker.
Che cosa influenza la scelta di una persona di lavorare per un’azienda (“work for”)? Secondo lo studio di Reputation Institute non è sufficiente la capacità dell’azienda di farsi riconoscere come un datore di lavoro “attraente” (Employer Brand Stregth Index). La leva dell’Employer Branding – oggi utilizzata da molte Direzioni HR per riuscire ad attrarre talenti – è sicuramente utile, ma non spiega esaustivamente le ragioni alla base della scelta delle persone. Esiste, infatti, secondo i dati analizzati da Reputation Institute, una correlazione ancora più forte tra “work for” e reputazione dell’azienda, perché – a differenza dell’Employer Branding – quest’ultima rappresenta un asset capace di costruire equity in maniera molto più durevole. Non basta essere riconosciuti, quindi, occorre saper costruire un legame emotivo molto più forte e duraturo.
“Le tematiche legate alle persone, dipendenti e potenziali candidati, diventano quindi una priorità che non coinvolge più soltanto il mondo HR, ma la totalità dell’organizzazione. I confini dei ruoli della comunicazione esterna e quella interna si sono fusi e stanno dando origine a una nuova sinergia e partnership organizzativa.” – ha affermato Michele Tesoro-Tess. “La comunità HR oggi deve munirsi di nuove metriche di monitoraggio e di valutazione per prendere delle scelte riconosciute strategiche anche dai CEO, oggi sempre più attenti ad accaparrarsi nuove competenze coerenti con le strategie necessarie ad affrontare un mercato sempre più competitivo”.
Come si può integrare Employer Branding ed Employer Reputation? Esiste una “equazione di valore” da sviluppare per accelerare la capacità dell’azienda di attrarre nuovi lavoratori: all’aumentare della capacità dell’azienda di farsi riconoscere, cresce più che proporzionalmente la sua reputazione con impatti significativi sulla propensione delle persone a voler lavorare per quella stessa azienda.