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Sono napoletani i primi 4 studenti italiani con laurea in Green Economy

Sono napoletani i primi 4 studenti italiani con laurea in Green Economy

Il 23 luglio al Suor Orsola seduta di laurea con l’intervento delle aziende eccellenti del settore e presentazione corso di laurea magistrale sulla sostenibilità economica ed ambientale

Saranno quattro napoletani i primi laureati italiani in Green Economy. Martedì 23 luglio alle ore 16:30 nella Sala degli Angeli dell’Università Suor Orsola Benincasa Roberto Di Ruocco, Ludovica Famularo, Angelo Pettrone e Rosita Puca taglieranno il traguardo del loro percorso triennale alla prima sessione utile del terzo anno del primo corso di laurea italiano in Economia aziendale specificamente dedicato alla Green Economy.
Un corso che nei suoi primi tre anni ha attirato a Napoli molti studenti provenienti anche da diverse regioni italiane, dal Piemonte alla Calabria, dalle Marche alla Puglia.
Economia e gestione delle imprese green, la responsabilità sociale delle aziende, gli accordi internazionali sul clima e l’analisi costi – benefici degli interventi pubblici in tema di infrastrutture saranno tra i temi oggetto delle tesi di laurea alle quali gli studenti hanno lavorato con Marcello D’Amato, Presidente del corso di laurea in Economia Aziendale e Green Economy del Suor Orsola, Massimo Marelli, già Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e docente di Economia pubblica al Suor Orsola e Alessandra Storlazzi, docente di Strategia e comunicazione d’impresa e responsabile dei rapporti dell’Ateneo con le aziende.
Dalla TAV Torino – Lione ai grandi problemi climatici del pianeta: ecco i temi delle prime quattro tesi universitarie in Italia in Green Economy
Di grande attualità il lavoro di tesi di Angelo Pettrone che in tema di investimenti pubblici sulle infrastrutture ha analizzato anni di studi sul rapporto costi-benefici della realizzazione della TAV Torino – Lione.
Un’analisi ad ampio raggio che dimostra

quanto potrebbe essere controproducente non realizzare l’opera, dal momento che si presenta come un progetto che può comportare enormi benefici sia sul piano commerciale che sul piano del turismo, ma soprattutto in termini occupazionali.

Nel lavoro di tesi di Ludovica Famularo si analizza la responsabilità sociale delle aziende ma anche quella delle istituzioni universitarie e si evidenzia come anche e soprattutto

gli Atenei, quali enti di formazione posti in essere per volontà ed interesse collettivi, che coinvolgono un numero sempre maggiore di stakeholder, studenti con le rispettive famiglie, personale dipendente, imprese, enti della pubblica amministrazione, enti non profit, mass media, hanno la necessità di introdurre lo strumento del bilancio sociale come documento di legittimazione sociale che accentri la loro figura come fautori di miglioramento del tessuto locale in termini economico-sociali grazie al potere attrattivo di cui potenzialmente godono.

Roberto Di Ruocco, grazie ad una selezione dell’ARU, l’Agenzia Regionale per le Universiadi, indirizzata ai migliori laureandi e laureati dell’Università Suor Orsola Benincasa, è reduce dal lavoro svolto per le Universiadi 2019 proprio sui temi della valutazione dell’impatto economico – ambientale della manifestazione sportiva sul territorio campano. Il suo lavoro di tesi illustra l’EU ETS, Emission Trading System, il sistema di scambio di quote di emissione dell’UE che è alla base della politica europea per contrastare i cambiamenti climatici ed è essenziale per ridurre in maniera economicamente efficiente le emissioni di gas a effetto serra.
È il primo e più grande mercato mondiale della CO2, attivo in 31 Paesi e limita le emissioni prodotte da oltre 11mila impianti ad alto consumo di energia, centrali energetiche e impianti industriali, tra cui 1200 imprese che appartengono al settore manifatturiero italiano, e dalle compagnie aeree che collegano tali Paesi.
Rosita Puca, 21 anni appena compiuti è la più giovane del gruppo. Durante il corso di studi ha lavorato nel Centro di Biotecnologie dell’Azienda Ospedaliera Cardarelli e nel suo lavoro di tesi ha declinato in diversi settori il tema dei grandi problemi ambientali globali con un focus speciale sulle emissioni inquinanti delle automobili nelle grandi città italiane.
Al termine della loro sessione di laurea i ‘neo dottori green’ avranno già la possibilità di incontrare, insieme con il presidente dell’Unione Industriali di Napoli, Vito Grassi, alcune delle aziende italiane più importanti del settore ‘green’, Ambiente S.p.A., Deloitte & Touche S.p.A., RDR S.r.l. e Tecno S.r.l., che prenderanno parte alla presentazione del nuovo corso di laurea magistrale in Economia, Management e Sostenibilità, il primo in Campania specificamente dedicato alla sostenibilità economica, sociale ed ambientale delle imprese.
Il futuro occupazionale dei ‘neo dottori green’ del Suor Orsola
Dall’ecobrand manager al comunicatore del settore green, dall’esperto nella commercializzazione dei prodotti di riciclo all’esperto in green marketing. Ecco alcune delle professioni del futuro per le quali vengono preparati i laureati del comparto accademico ‘green’ dell’Università Suor Orsola Benincasa. E il recente dato sull’efficacia del titolo di studio del Suor Orsola, che secondo l’ultimo rapporto AlmaLaurea è superiore del 13% rispetto alla media nazionale degli altri Atenei, premia, come evidenzia il Rettore, Lucio d’Alessandro

proprio l’impostazione metodologica dei nostri percorsi didattici come quelli di Economia, che sono progettati insieme con le aziende del territorio per individuare ex ante le esigenze di un mercato del lavoro in continua evoluzione e sono strutturati con una spiccata vocazione pratica e professionalizzante che consente agli studenti di maturare, sin dal primo anno, significative esperienze on the job all’interno delle aziende.

Un elemento quest’ultimo evidenziato anche da un altro dato del Rapporto Almalaurea: durante il corso di studi il 75,1% dei laureati al Suor Orsola ha svolto tirocini professionali e il 69,2% ha sperimentato un’attività lavorativa. Due dati che sono superiori del 16% e del 4% rispetto alla media nazionale.
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Lo sviluppo sostenibile all’interno delle nuove forme di business

Lo sviluppo sostenibile all’interno delle nuove forme di business

Lo sviluppo sostenibile all’interno delle nuove forme di business
*Armando Agulini, LUMSA, armdagulini@hotmail.com

Introduzione

All’origine della crisi finanziaria che attraversiamo vi è una profonda crisi antropologica che riduce l’essere umano ad uno solo dei suoi bisogni, il consumo. Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che abbiamo stabilito con il denaro, poiché accettiamo il suo predomino su di noi e sulle nostre società.[1] Per capire l’importanza della sostenibilità ed il peso che hanno le aziende nella messa in discussione del modello attuale orientato al profitto bisogna ripartire dai valori, riportando sotto il controllo della società, l’economia.
La responsabilità sociale come termine entra nel linguaggio manageriale proprio per indicare il complesso di regole atte a definire i doveri morali delle aziende (economico, etico e ambientale). Un sempre maggior numero di imprese sanno che la capacità di apparire socialmente responsabili accresce la propria competitività e credibilità sul mercato, viceversa, il non assumere una condotta responsabile rischia di portare l’impresa alla corrosione del suo potere[2]. L’interesse sociale dell’impresa nasce infatti come la contrapposizione tra shareholder supremacy– l’attenzione al profitto e agli azionisti (Dodge vs Ford 1919)[3]– e lo stakeholder value[4]– l’attenzione ai dipendenti, ai fornitori e alla comunità. Il dibattito sulla responsabilità sociale d’impresa (RSI) fu nucleato da due illustri economisti, Berle e Means, i quali presupponevano la separazione di potere tra il management e la proprietà attraverso l’adempimento e divisione dei compiti, quali obiettivi economici da un lato e obblighi giuridici da un altro. Nel corso del tempo c’è stata un evoluzione di quelli che sono i valori economici, sociali e ambientali ai quali l’azienda deve mirare. Il livello base era la compliance, le aziende si dovevano adeguare alle richieste e agli obblighi imposti dalla legge e dallo stato. Poi, alcune aziende hanno introdotto la filantropia aziendale, attività con un impatto positivo per “gli altri”. Successivamente queste attività sono state integrate all’interno dell’azienda e ampliate tramite scelte di RSI.
Per fare business al giorno d’oggi la produzione di valore economico e quella di valore sociale vanno necessariamente tenute insieme. Per questa ragione sono sempre più numerosi gli esempi di convergenza dei soggetti for-profit verso la sfera non-profit, e viceversa[5]. Oggi, accanto alla dicotomia tra le aziende for-profit e le organizzazioni non-profit[6], si affianca una terza via, il modello ibrido d’impresa “for-benefit” o “for-purpose”, una nuova concezione di corporate social responsability con commitment che incorpora la dimensione sociale e ambientale nell’agire d’impresa come fattore strategico (Castellani et al. 2016).
E’ l’impresa che con il suo business deve cercare di generare un impatto positivo nel mondo, non è più solo compito dei governi.

Modelli Aziendali

Benefit Corporation e Social Purpose Companies

L’alternativa più popolare per le aziende che desiderano operare secondo uno standard di responsabilità sociale è sempre di più riconosciuto nelle Benefit Corporation. Una Benefit Corporation è uno stato giuridico ammesso in alcuni stati americani e in Italia, che usa la forza delle imprese per creare valore, sancendo tale finalità nell’oggetto sociale del proprio statuto come vincolo di missione. In generale, l’espressione Benefit Corporation identifica quelle imprese che allargano le proprie responsabilità al rispetto e all’interesse per i propri dipendenti, i consumatori, la collettività e l’ambiente[7].
Nell’aprile 2010 il Maryland divenne il primo Stato americano ad approvare e a completare l’iter legislativo per la definizione di una specifica forma giuridica che si affianca a quelle di profit e non-profit, innovando il diritto societario USA: le Benefit Corporation (US Law 2010). Diventare una Benefit Corporation legalmente riconosciuta, non preclude la possibilità all’azienda di poter ricevere il marchio di certificazione; anzi, perseguire un approccio orientato alla sostenibilità d’impresa sul modello societario Benefit facilita notevolmente il raggiungimento dei requisiti per aggiudicarsi il Marchio B Corp, ma in ogni caso si può essere una Benefit Corporation senza essere certificati B Corp (Nigri 2016).
La certificazione e il movimento, attivo dal 2006, prima del framework legale, nasce dall’idea di tre imprenditori: Jay Coen Gilbert, Bart Houlahan e Andrew Kassoy. Gilbert e Houlahan fondarono nel 1993 un’azienda di abbigliamento sportivo, AND1. Questa si dimostrò subito un’azienda socialmente responsabile con codici di condotta all’avanguardia, welfare aziendale e integrazione locale. I dipendenti- che erano in parte proprietari- e i fornitori, erano felici e orgogliosi di lavorare per AND1 e avevano benefit oltre la media del mercato. In meno di 10 anni il fatturato dell’azienda arrivò a superare i 250 milioni di dollari facendola diventare la seconda società più importante nel mondo delle calzature per giocare a basket degli Stati Uniti, alle spalle soltanto della Nike[8]. Nel 2005, dopo un credit crunch ed alcuni licenziamenti però, decisero di cederla a American Sporting Goods, vedendo vanificare, nel giro di pochi mesi, tutti i loro sforzi di responsabilità sociale (Dent 2016).
Fondarono quindi- grazie anche a Andrew che era stato solo un investitore nel progetto AND1 ed era ora pronto a sostenerli pienamente, dopo aver trascorso 16 anni in private equity- e  alla loro membership all’interno della Henry Crown Fellows of The Aspen Global Leadership Network (AGLN) (McNulty Foundation 2015) B Lab, facendo nascere un nuovo modo di fare business. “B Lab”, come sostiene Houlahan, “è stata fondata per incoraggiare le imprese ad agire come agenti di cambiamento sociale e ambientale, in quanto, il problema principale che stavamo cercando di risolvere era la necessità che il business fosse più impegnato nell’affrontare le grandi sfide a livello internazionale, che né i governi e né il settore non-profit sono in grado di fronteggiare.” La community delle Certified B Corp™ oggi conta oltre 2000 società in ben 50 paesi in tutto il mondo e 130 industrie. Ciò sta a significare che non esiste un tipo di azienda for-profit che possa essere esclusa da questo movimento.
Le leggi sulle Società Benefit trasformano la triple bottom line in un contratto esecutivo. Viene richiesto agli amministratori di portare a termine una mission profit & purpose e dà agli azionisti potere esecutivo se non riescono a portarla a termine. L’alternativa più permissiva alla legge sulle Benefit è denominata flexible purpose, prima, e social purpose corporation (SPC), poi. Lo statuto delle SPC consente alle aziende di designare uno o più scopi sociali. Sebbene richieda ai propri direttori di prendere in considerazione questi scopi sociali quando prendono decisioni di gestione e di pubblicare un rapporto sociale annuale, non impone loro di considerare i loro impatti ambientali, assumere un revisore o rilasciare la relazione al pubblico. Le leggi che autorizzano le SPC sono passate a Washington, dove sono circa 156 le SPC attive, in Texas, in Florida e in California (in California e in Florida sono presenti anche le leggi per le SB) e i legislatori in Ohio, Georgia e molti altri stati stanno considerando entrambe le alternative (Levillain and Segrestin, 2019)[9].
Le aziende possono diventare SPC e ottenere la certificazione B Corp, validando il loro percorso tramite B Lab. Fred Whittlesey, fondatore e proprietario del Compensation Venture Group SPC di Seattle, che è anche certificata B Corp, cura la certificazione e pubblica il benefit report: “la distinzione tra SPC e Benefit Corporation“, afferma, “è altamente tecnica e poco significativa“.[10]

Teal Organization e Flourishing Enterprise

Il merge tra i modelli for-profit e non-profit fa si che la nozione di sostenibilità faccia un ulteriore passo avanti, da sostenibilità a prosperità. Flourishing– l’aspirazione che gli esseri umani prospereranno per sempre sul pianeta- diventa l’obiettivo a cui deve mirare l’azienda. La flourishing enterprise aggiunge agli sforzi strategici, organizzativi e operativi per essere sostenibile, pratiche riflessive; coltiva la salute emotiva e spirituale, sviluppando internamente queste competenze chiave, focalizzandosi allo stesso tempo sulla sua attività: redditizia e sostenibile. La flourishing mira a maggiori risultati di business, benessere personale e a un pianeta più sano. L’idea di flourishing si basa quindi su di un nuovo paradigma di reinvenzione- di fare del bene facendo bene- non quello di fare meno male.
Tramite un processo di rinforzo positivo vengono raggiunti scopi più alti di benessere sociale all’interno dell’impresa. L’obiettivo principale diventa quello di far aumentare la prosperità, così come la salute dei sistemi umani e naturali. Laszlo (Laszlo 2014) sostiene che la trasformazione deve iniziare dagli individui, le aziende devono integrare pratiche per migliorare il benessere dei dipendenti aumentando così il loro senso di connessione. Nella sua nuova ricerca con Tsao (2019), afferma anche che, ciò che possiamo fare per evitare circoli viziosi che si traducono in una mancanza di creatività e collaborazione a tutti i livelli aziendali, è intervenire sulla mentalità o sul paradigma da cui nasce il sistema (Meadows 1997). Trasformare la nostra coscienza è lo strumento più efficace che abbiamo per apportare un cambiamento. Alcune delle singole pratiche di trasformazione che identificano nel loro libro comprendono la meditazione, azioni e flusso consapevoli, il journaling, l’immersione nella natura, l’arte e l’estetica, la poesia e la musica. Incorporare queste pratiche apporta cambiamenti fondamentali nel pensiero e la percezione delle persone portando le aziende in vetta.
Aggiungere pratiche riflessive agli sforzi commerciali esistenti non richiede più lavoro; semplicemente cambia il modo in cui il lavoro viene fatto e, cosa più importante, gli effetti. Le imprese, iniziando questo percorso a sostegno della sostenibilità integrata, contribuiranno a grandi cambiamenti sistemici. Ridisegnare la strategia guiderà la creazione di valore condiviso e i risultati positivi verranno percepiti dall’intera società.
Porter e Kramer (2015) sostengono che questa potrebbe essere la forma più elevata di capitalismo perché i profitti implicano uno scopo sociale. In effetti, il modo migliore in cui un’impresa può iniziare a creare valore condiviso è partendo dal proprio business di riferimento. Tuttavia, la creazione di valore condiviso non deve essere vista solo come un tipo diverso e innovativo di strategia ma come parte della strategia. Per comprendere e mettere in atto le best practice servono dei leader che fungano da ispirazione costante per l’azienda nell’affrontare i processi decisionali e la pianificazione strategica.
Le Teal come le Flourishing agiscono in un quadro teorico ibrido e ricco di teorie organizzative dove la distinzione tra profit e non-profit e tra economia e psicologia sfuma ancora di più. Sono organizzazioni che credono e si fidano delle persone che lavorano al loro interno, investono sulle loro capacità, premiano la diversità e l’integrità, creano ambienti stimolanti per tutti coloro che vi lavorano e mirano a rendere le risorse umane come esseri presenti e come esseri interi e completi. In questo modo le imprese sono in grado di produrre risultati incredibili a tutti i livelli. Non solo soddisfano le aspettative dei loro clienti, ma hanno personale felice che raramente si assenta dal lavoro. Il primo a parlare di questa tipologia di organizzazione è Frederic Laloux (2014), che nel suo libro “Reinventare le Organizzazioni” descrive le tappe dell’evoluzione dei modelli organizzativi. “Nelle Teal non esiste un processo di strategia. Nessuno al vertice stabilisce un corso da seguire per gli altri (…). Le persone in queste aziende hanno un senso molto chiaro e acuto dello scopo dell’organizzazione e un ampio senso della direzione in cui l’organizzazione potrebbe essere chiamata ad andare.” Secondo l’autore è dai limiti e dalle sconfitte del presente che comincia a delinearsi un nuovo stadio di coscienza, che egli contrassegna con il colore Teal (il colore delle foglie di thè).
L’agire dell’organizzazione deve essere personale e collettivo insieme. La crescita di ciascuno è contestualmente crescita dell’organizzazione e il perseguimento della propria vocazione personale incontra ciò che l’organizzazione aspira a realizzare. Il compito del leader in questo contesto è creare le condizioni perché questo accada. Attraverso l’ascolto, asseconda il cammino dell’organizzazione. Quando le persone passano all’approccio Teal imparano ad avere fiducia, a perseguire ciò che è veramente significativo, come il tempo, considerando forme di lavoro part-time, freelance ed altro, essendo però felici.
Con le organizzazioni Teal, servire lo scopo diventa più importante che servire l’organizzazione, e ciò apre nuove possibilità di collaborazione attraverso i confini organizzativi. Un’organizzazione potrebbe unirsi a un’altra per un progetto; un team di colleghi potrebbe decidere di passare a un’altra organizzazione, su base temporanea o permanente; una società potrebbe condividere il suo capitale intellettuale o alcune attività con un’altra organizzazione o donarlo. Lo stesso è vero internamente. Non è necessaria l’approvazione da parte delle risorse umane o dalla gerarchia, se si decide per qualsiasi motivo di lavorare meno ore, a patto che si trovi un modo per trasferire gli impegni che si sono presi ai colleghi. Se si vuole tornare e lavorare più ore, è possibile esplorare con i colleghi quali nuovi ruoli e impegni si possono assumere che portino un valore aggiunto per l’organizzazione. Le persone potrebbero non solo ridurre o aumentare il numero di ore lavorate come dipendenti. Potrebbero passare dal lavoro impiegatizio (a tempo pieno e/o part-time) al lavoro autonomo; in altri momenti potrebbero scegliere di fare del volontariato, di donare soldi o temporaneamente potrebbero decidere di non aver alcun coinvolgimento con l’organizzazione, per poi tornarci più avanti.
È plausibile che in futuro lo scopo, anziché l’organizzazione, diventi l’entità attorno alla quale le persone si raccoglieranno. Le persone si collegheranno secondo modalità diverse e le organizzazioni uniranno le loro forze o si scioglieranno, a seconda di ciò che meglio serve in un dato momento.

Conclusioni

Se definiamo lo sviluppo sostenibile come la necessità per le generazioni future di soddisfare i propri bisogni, allora le attività economiche possono essere considerate sostenibili se il loro impatto sull’ambiente naturale è non-negativo (Laszlo 2011). Per poter vivere in un mondo sostenibile, bisogna generare circoli virtuosi in cui le aspettative, le disposizioni e il comportamento positivo si rafforzano a vicenda.
Le organizzazioni possono quindi prosperare utilizzando i loro punti di forza per aumentare e sostenere il benessere comune, aumentando allo stesso tempo i loro interessi personali.
 

References

Castellani, Giovanni, Dario De Rossi, and Andrea Rampa. 2016. Le Società Benefit: la nuova prospettiva di una Corporate Social Responsability con commitment. Fondazione Nazionale dei Commercialisti.
Dent, Mark. 2016. What happened to AND1? The Wharton grad who sold the clothing brand has a new idea. Billy Penn.
Laloux, Frederic, and Ken Wilber. 2014. Reinventing organizations: A guide to creating organizations inspired by the next stage in human consciousness. Nelson Parker.
Laszlo, Christopher, Judy Brown, John Ehrenfeld, Mary Gorham, Ilma Barros-Pose, Linda Robson, Roger Saillant, Dave Sherman, and Paul Werder. 2014. Flourishing enterprise: the new spirit of business. Stanford, California: Stanford Business Books, an imprint of Stanford University Press.
Laszlo Zsolnai. 2011. Environmental ethics for business sustainability, International Journal of Social Economics, 38(11), pp.892-899, https://doi.org/10.1108/03068291111171397.
Levillain, Kevin, and Blanche Segrestin. 2014. The Blind Spot of Corporate Social Responsibility: Changing the legal framework of the firm. EURAM, Jun 2014, Valence, Spain.
McNulty Foundation. 2015. How three successful entrepreneurs redefined business as a force for good.
Meadows, Donatella H. 1997. Places to Intervene in a System. Whole Earth Winter.
Nigri, Giorgia, Laura Michelini, Cecilia Grieco, and Gennaro Iasevoli. 2016. B Corps and their Social Impact Communication Strategy: Does the Talk Match the Walk? In SIM Conference 2016. Università di Cassino.
Porter, Michael E., and Mark R. Kramer. 2015. Creating Shared Value. How to reinvent capitalism—and unleash a wave of innovation and growth. http://www.coherence360.com/praxis/wp-content/uploads/2015/08/Michael_Porter_Creating_Shared_Value.pdf 2015.
Tsao, Frederick Chavalit, and Christopher Laszlo. 2019. Quantum leadership: new consciousness in business. Stanford, California: Stanford Business Books, an imprint of Stanford University Press.
US Law. 2010. The Benefit Act. Maryland Code.
[1] Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium del Santo Padre Francesco ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi alle persone consacrate e ai fedeli laici sull’annuncio del vangel nel mondo attuale, 55.
[2] Vedi K. Davis. Can Business Afford to Ignore Social Responsibilities?. California Management Review, n°2, 1960, pp.60-70.
[3] https://www.law.illinois.edu/aviram/Dodge.pdf
[4] Vedi J. Tirole. Corporate Governance Econometrics. Vol. 69, No. 1, 2001, pp. 1-35.
[5]  Vedi Rago S. e Venturi P. Teoria e modelli di organizzazioni ibride presenti all’interno dell’imprenditorialità sociale, in Venturi P., Zandonai F. Ibridi organizzativi. L’innovazione sociale generata dal Gruppo Cooperativo CGM. Bologna, il Mulino, pp. 17-51, 2014.
[6] Vedi Robson, R. A new look at Benefit Corporations: Game Theory and Game Changer. American Business Law Journal Vol. 52, issue 3, pp. 501-555, 2015.
[7] Vedi Andrè R. Journal of business ethics, vol. 110, 133-150, september 2012.
[8] Vedi Honeyman R. 2016.
[9] http://leginfo.legislature.ca.gov/faces/billNavClient.xhtml?bill_id=201320140SB1301
[10] https://www.triplepundit.com/2016/03/social-purpose-vs-benefit-corporations-small-distinction-big-difference/
 




Sul profilo Facebook di Salvini è vietato parlare di 49 milioni di euro

Sul profilo Facebook di Salvini è vietato parlare di 49 milioni di euro

Il ministro dell’Interno usa una funzione riservata al mantenimento di un linguaggio rispettoso nei commenti per censurare le citazioni delle magagne della Lega


La paranoia, scrisse una volta in un suo libro Thomas Pynchon, è l’aglio nella cucina della vita: non si esagera mai. E una buona dose di paranoia deve aver colto anche il ministro dell’Interno Matteo Salvini, se sul suo visitatissimo profilo Facebook – poco meno di 4 milioni di fan, engagement stellari, spese per la promozione dei post impegnative, eccetera – ha messo al bando una serie di termini considerati sensibili dallo stesso leader della Lega e dal suo stratega, il domatore della Bestia, Luca Morisi. Tra questi, ovviamente, c’è la cifra-tormentone che più ha tolto il sonno al salvinismo: 49 milioni di euro, ovvero l’ammontare di denaro pubblico indebitamente incassato dal 2008 al 2010 (e poi dal 2011 al 2014) sotto forma di rimborsi elettorali dal fu partito padano, che dovrà essere restituito in comode rate nei prossimi ottant’anni (perché la legalità è importante, come spiega spesso lo stesso Salvini).

Ma andiamo con ordine

Di una serie di parole blacklistate – cioè indicate dall’amministratore della pagina Facebook come termini il cui uso è proibito nei commenti, pena la mancata approvazione del messaggio – sulla pagina di Salvini si era iniziato a parlare nel corso del weekend, e la questione è diventata virale grazie – soprattutto – a un post della seguita community di Socialisti Gaudenti e a un tweet dell’autore Massimo Mantellini, il quale ha provato a commentare una diretta salviniana usando il passepartout dei 49 milioni. Risultato: “Your comment contains a blacklisted word”, e commento cassato.

massimo mantellini

@mante

Ho voluto provare e in effetti è vero. Se commenti sulla bacheca di Matteo Salvini “49 milioni” il commento viene blacklistato. Il massimo tecnologico che possa organizzare la famosa bestia.

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Non solo i 49 milioni, anzi

A seguire, diversi tentativi indipendenti e report hanno confermato la mesta policy del canale del ministro dell’Interno, precisando che si tratta di una blacklist adottata solo per le (frequentissime) dirette di Salvini, che il leader della Lega è solito usarle per commentare live i fatti del giorno.
Chiara Severgnini sul Corriere della Sera è andata più a fondo nella questione, scoprendo che in realtà i termini proibiti dal ministero dei Bacioni – qui in una versione a metà tra l’orwelliano e il farsesco – non si limitano ai rimborsi indebitamente intascati dalla Lega: a essere proibito nelle dirette del Capitano è anche l’uso di “Siri” o “Armando Siri”, il sottosegretario leghista allontanato dal governo dopo essere stato invischiato in accuse di corruzione. E, spiega Severgnini, a rientrare nei termini-tabù c’è addirittura “Legnano”, la città lombarda il cui sindaco della Lega, Gianbattista Fratus, si trova attualmente agli arresti domiciliari per una storia di possibile corruzione e turbativa d’asta.
Di norma, i filtri in dotazione alle pagine Facebook si utilizzano permantenere un linguaggio bastantemente civile e rispettoso – il che non è sempre facile, soprattutto in pagine come quella di Salvini, su cui passano giornalmente centinaia di migliaia di utenti. Il ministro, tuttavia, ha deciso di optare per un uso avanguardistico del mezzo: perché limitarsi a censurare il turpiloquio, si sarà detto, quando si possono mettere a tacere quei rosiconi che tirano in mezzo vecchie storiacce di malapolitica fonti di imbarazzo?
La soluzione al ban, già proposta da più parti, potrebbe essere inventarsi modi creativi per arrivare alla somma-che-non-deve-essere-nominata di 49 milioni: equazioni, moltiplicazioni, addizioni, logaritmi. Cercate di vedere il bicchiere mezzo pieno: commentare sulla pagina del ministro dell’Interno della Repubblica italiana diventerà un piacevole ripasso delle vostre conoscenze matematiche.




Vivere nell’Area 51. Il nuovo ruolo politico del fantastico

Vivere nell’Area 51. Il nuovo ruolo politico del fantastico
Appuntamento via Facebook il 20 settembre prossimo per “invadere” la misteriosa Area 51. Ma dietro questo tipo di comunicazione cosa si cela? È come se all’improvviso ci trovassimo a vivere in un mondo che mescola costantemente fantastico e reale. Ma perché?


Ci andate a settembre? Sono ormai 2 milioni le persone che il 20 settembre 2019 invaderanno l’Area 51.
Almeno, sono 2 milioni quelle che hanno deciso di aderire all’evento Facebook: “Storm Area 51”, creato dalla pagina “Shitposting cause im in shambles” – curata dall’australiano Jackson Barnes.
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J. Barnes avrebbe anche un piano di “pacifica” invasione. E le forze dell’ordine in Nevada hanno già informato che si potrebbe arrivare all’uso della forza se ci fossero intrusioni in aree militari top-secret.
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Per molti tutto questo è pura goliardia. Ma intorno all’evento si è creato la solita sospensione emotiva che sta facendo precipitare gli eventi. Per esempio: Keemstar, sviluppatore indipendente, ha creato un videogame a tema dal titolo appunto Storm Area 51 o – come riporta anche MondoFox – alcuni Chef, per esempio, Guy Fieri propongono di regalare costolette di maiale “radioattive” agli “invasori”.
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IL FANTASTICO CONQUISTA IL REALE

Fino a qui la cronaca di queste settimane. Ma adesso la domanda vera e seria: e se non fossimo noi a dover invadere l’Area 51 – detta Dreamland? Sì, proprio così, se fosse invece Dreamland ad averci già invaso tutti, cambiando per sempre il nostro paradigma di realtà?
Oggi, infatti, è il pensiero fantastico ad irrompere e conquistare completamente il nostro immaginario, allargando le maglie stesse di quello che crediamo e sentiamo come reale.
Il pensiero fantastico è una delle forme con cui pensiamo (oltre al pensiero razionale e a quello immaginativo). Solitamente, il pensiero fantastico è:
• creativo: perché inventa mondi, informazioni, notizie e le porta nel reale;
• incoerente: perché la sua logica fa viaggiare oltre lo spazio tempo, può condurti nell’Antico Egitto o sull’Enterprise con Spock;
• contro-fattuale: perché i fatti oggettivi non hanno nessun senso per “lui”, anzi trova sempre un modo per raccontarli alternativamente;
• sovversivo: perché cambia le regole della realtà, sovverte ordini logici consolidati, dogmi duraturi e regimi di verità costituiti;
• nervoso: quando entri nel suo reame ciò che conta è la tenuta emotiva, puoi trovarti in zone terrificanti così come angelicamente appaganti.
La cosa interessante del pensiero fantastico – come hanno approfondito diversi studiosi come Todorov o Caillois – è che porta sempre con sé lo “strano” e il “meraviglioso” (positivo o negativo). Quando lo adoperi e ne subisci le conseguenze sei sempre all’interno di un mondo eccentrico.

GLI EFFETTI STRANIANTI DEL FANTASTICO

Oggi siamo tutti sotto l’effetto strano e straniante del pensiero fantastico. Per questo, è possibile che i fantasiosi tweet di personalità politiche possono cambiare i destini di una nazione e i post Instagram di influencer basati sulla pura fiction, possono generare profitti e business.
Pensiamo alla campagna #MyTruth di Calvin Klein, lanciata nel maggio 2019, che tra i tanti testimonial, ha coinvolto anche Lil Miquela, fictional character e digital art project. O per dirla in parole povere: personaggio-influencer inventato, (parto della pura fantasia di un team di creativi e storyteller) che però fattura. Puro pensiero fantastico – creatore di mondi – all’opera che si diverte a mescolare soggettività con oggettività. Nella foto sotto vediamo Lil Miquela con una modella in carne e ossa: Bella Hadid.
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Oppure guardiamo la recentissima querelle tra il brand Ferrari e Philippe Plein, stilista tedesco, che ha postato sul suo profilo Instagram auto Ferrari in co-branding di suoi prodotti (nella fattispecie scarpe). Ferrari, mandandogli una lettera legale, ha diffidato privatamente lo stilista dal fare questo tipo di associazioni, soprattutto perché i valori dell’azienda non vengono rappresentati nei post dello stilista, piuttosto sessisti. E per tutta risposta Plein ha messo on line l’intera vicenda avviando una “battle of narrative” veramente aggressiva. Altro esempio del potere sovversivo e nervoso del fantastico. Che in questo caso crea un meraviglioso negativo.
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Così, tutti all’improvviso ci troviamo a vivere e abitare in Dreamland con i suoi complotti, i suoi misteri, le sue dinamiche di salvezza, i suoi meta-personaggi e bizzarri anti-eroi, le sue nervose querelle, in un miscuglio costante tra immaginativo e reale.

VIVERE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE

Come si fa a vivere in Dreamland, senza perdere la ragione, piuttosto cavalcando il potere meraviglioso del pensiero fantastico?
Beh ci sono alcune questioni da fare nostre.
• La prima è che il concetto di “informazione coerente” diventa inutile per descrivere la complessità dei diversi tipi di news e narrative contemporanee. Non possiamo essere ingenui. Non c’è più nulla di lineare… Una foto rimanda a un hashtag che è collegato a un meme che a sua volta può diventare un post… Che monta una battaglia narrativa. Non ci dobbiamo fermare al primo cancello di informazioni, ma chiederci cosa c’è dopo? Anche perché ogni news viene cambiata, ricombinata, modificata decine di volte prima di arrivare al lettore; che, a sua volta, ricodifica, manipola, cambia l’informazione che legge (chissà da qui a settembre dove ci porterà l’occupazione dell’Area 51?).
• La seconda cosa da realizzare è che raramente siamo in contatto diretto con la “realtà” oggettiva delle cose e dei fatti, ma quasi sempre sperimentiamo il “realistico”: cioè, il racconto mediato e filtrato del reale. Tutti gli spazi di comunicazione sociale, economica e politica sono filtrati da contenuti creati e condivisi da qualcuno che sta raccontando qualcosa dal suo specifico punto di vista. Per cui va compreso quello sguardo particolare e le motivazioni di cui è portatore (come mai Plein ha pubblicato la querelle con Ferrari, semplice reazione nervosa o intento sovversivo mirato di altro tipo?).
• La terza è capire che proprio perché c’è sempre qualcuno dietro una comunicazione, cioè un autore specifico (soggetto, istituzione, azienda che sia), va individuata l’intenzionalità per cui certi contenuti testuali e visivi sono creati e socializzati (perché J. Barnes si è messo in testa di occupare l’Area 51? È solo una goliardata o c’è dietro qualche altra questione che dobbiamo sapere?).

IL RUOLO SOCIALE DEL FANTASTICO

Se è tutto completamente caricato di pensiero fantastico ci dobbiamo trasformare in detective. Siamo in una immensa “fantasy-spy-story” collettiva e quindi a noi la grande responsabilità di diventare investigatori, capaci di analizzare le realtà, attraverso indizi, segni, tracce, prove e contro-prove.
Ricordando sempre che quello che si vede, legge, ascolta è solo una dose di realistico, ma il reale è sempre più ampio, complesso e problematico. Senza dare nulla per scontato. Il pensiero fantastico non lo fa mai. Soprattutto a livello politico.




L’inganno contemporaneo della conoscenza disintermediata

L’inganno contemporaneo della conoscenza disintermediata

La cultura, la sua trasmissione, è ancora, fondamentalmente, una questione di relazioni. L’inganno dell’accesso disintermediato all’informazione e al sapere è un inganno. L’intermediazione, il rapporto con chi ha potuto fare esperienza, accumulare conoscenze, metterle alla prova rimane ancora una spinta evolutiva potente, sia individuale che collettiva. Ce lo insegna la manioca

La manioca è un tubero ricco di vitamine, calcio e carboidrati; per millenni ha costituito la base alimentare di intere popolazioni nelle diverse aree tropicali del globo esposte a condizioni climatiche avverse alla coltivazione, dall’Amazonia alle isole del sud Pacifico. Cresce in maniera praticamente spontanea, è facile da reperire, è versatile da cucinare e saporita e, come abbiamo detto, ricca di nutrienti.

Ha solo un problema, è altamente tossica; contiene, infatti, glicosidi cianogenici che, una volta decomposti, liberano acido cianidrico; la base, per intenderci, dello Zyklon B, il veleno usato nelle camere a gas dei lager nazisti per le esecuzioni di massa. L’avvelenamento da cianuro cui può portare il consumo di manioca, provoca problemi neurologici, scompensi al sistema immunitario, alla tiroide, fino alla paralisi degli arti inferiori. Le popolazioni che utilizzano questa pianta, però, hanno imparato a neutralizzare il rischio di intossicazione attraverso diverse tecniche che rendono il cibo cucinato con la manioca totalmente sicuro.

I Tukanoan dell’Amazzonia colombiana, per esempio, utilizzano un processo che dura alcuni giorni nel quale i tuberi vengono prima raschiati, poi filtrati, infine lavati per separare le fibre dalla polpa liquida, che viene, poi, bollita e può essere bevuta, mentre il resto deve decantare ancora per alcuni giorni prima di poter essere cotto e mangiato. Questa complessa procedura riduce fino a quasi farlo scomparire il contenuto tossico della manioca.

Il fatto realmente interessante riguarda l’origine di tale procedura, che una singola persona non avrebbe mai potuto elaborare. L’avvelenamento da cianuro che si verifica a seguito del consumo di manioca non processata è particolarmente subdolo perché i suoi terribili sintomi appaiono, in realtà, solo dopo molti anni di consumo regolare. Questo fatto rende il nesso causale tra l’utilizzo della manioca e l’avvelenamento altamente opaco e quasi impossibile da individuare (cfr. Joseph Heinrich, 2015, “The Secret of Our Success”. Princeton University Press).

Lo sappiamo per certo, perché, quando all’inizio del XVII secolo, i “conquistadores” esportarono la manioca dal Sudamerica in Africa Occidentale, lo fecero trascurando di trasmettere in maniera precisa alle popolazioni africane tutte le conoscenze necessarie per il suo sicuro utilizzo alimentare. Ancora oggi, a distanza di secoli, l’avvelenamento cronico da cianuro costituisce un problema endemico in varie aree del continente africano.

Proviamo ad immaginare, ora, una giovane madre Tukanoan che, invece di spendere giorni e giorni per processare la manioca così come le hanno insegnato da bambina, decida solamente di bollirla per eliminarne il gusto amaro. Risolverebbe, in questo modo, i problemi del gusto amaro e contemporaneamente potrebbe liberare tempo prezioso, nelle sue giornate, da dedicare ad altre attività, come la cura dei figli e della casa. Solo dopo molti anni i membri della sua famiglia inizierebbero a manifestare gravi problemi di salute connessi all’avvelenamento che, a questo punto, sarebbero difficilmente ricondotti al cambiamento delle abitudini alimentari, una causa remota che ha prodotto degli effetti difficilmente associabili.

Cosa ha impedito, per millenni, ai Tukanoan e a tutte le altre popolazioni indigene che consumano abitualmente manioca, di assumere simili comportamenti che, se pure producono benefici nel breve e medio periodo, diventano letali dopo molti anni? Non può essere una forma di apprendimento per esperienza diretta, lo abbiamo visto. È in realtà, ci insegnano gli antropologi, la loro disponibilità ad agire “per fede”; a seguire, senza magari capirne bene il perché, gli insegnamenti tramandati di generazione in generazione.

Siamo una “specie culturale” soggetta ad una interessantissima forma di coevoluzione nella quale la genetica influenza la cultura e, viceversa, la cultura, modificando l’ambiente, influenza la nostra storia genetica. Circa due milioni di anni fa, probabilmente, l’evoluzione culturale cominciò ad essere la principale spinta alla nostra evoluzione genetica. La capacità di apprendere e di trasmettere un corpo di conoscenze che si acquisiscono in maniera cumulativa e vanno a costituire la cultura dei popoli, è ciò che ci ha resi la specie di maggior successo in questo piccolo pianeta. Ma, come la storia della manioca ci spiega bene, affinché questo successo si possa realizzare attraverso la trasmissione culturale, occorre essere disposti ad apprendere, occorre che alcune specifiche condizioni siano rispettate.

Guardando alle società tradizionali, scopriamo tratti comuni che mettono in evidenza i meccanismi necessari alla trasmissione intergenerazionale della conoscenza. Affinché la trasmissione di codici culturali e comportamenti acquisiti produca risultati favorevoli per chi li adotta è necessario capire bene chi imitare. Quando i problemi sono complessi, l’incertezza è grande e la posta in gioco è elevata, le persone tendono ad assumere atteggiamenti conformisti, cioè tendono ad imitare gli altri, ma non tutti gli altri. In genere i giovani si focalizzano sugli anziani ritenuti i più saggi, su coloro che in un certo gruppo hanno guadagnato prestigio in virtù della loro eccellenza in qualche ambito, e modelli che hanno ottenuto successi ragguardevoli proprio perché hanno applicato quegli stessi principi che tramandano.

Siamo in qualche modo programmati a far ciò. I neuroscienziati dello sviluppo ci spiegano come, ancora molto piccoli, siamo capaci di complesse attività di “social referencing”, di orientarci, cioè, nella nostra comunità alla ricerca dei modelli da cui imparare, di modelli da imitare. Questi modelli, dal canto loro, gli esempi di prestigio e saggezza che in genere scegliamo di imitare, hanno, nelle varie popolazioni e culture, tutti, qualità simili: sono generosi nel condividere il loro sapere, sono gentili nel trasmetterlo e pazienti; queste qualità non fanno altro che aumentare il loro prestigio e la stima che gli altri membri della comunità hanno di loro e quindi la loro “imitabilità”.

Nonostante i nostri computer, internet, i viaggi spaziali e le conquiste scientifiche, il nostro cervello, nelle ultime centinaia di migliaia di anni, non è cambiato poi molto e così il nostro bisogno degli altri, la nostra vulnerabilità e la dipendenza da un sapere che è costitutivamente comunitario e sociale. L’evoluzione, anche quella culturale, agisce, infatti, su altre scale temporali. Questo vuol dire che abbiamo, ancora oggi, bisogno di saggi gentili, di modelli cui riconoscere prestigio in cambio di conoscenze antiche e moderne.

La cultura, la sua trasmissione, è ancora, fondamentalmente, una questione di relazioni. L’inganno dell’accesso disintermediato all’informazione e al sapere si è rivelato per quello che è, appunto, un inganno. L’intermediazione, il rapporto con gli altri, soprattutto con chi ha potuto fare esperienza, accumulare conoscenze, metterle alla prova con successo e, così, allargare lo sguardo, rimane ancora oggi una spinta evolutiva potente, sia individuale che collettiva. Ma dove sono oggi questi saggi gentili? Qual è diventata oggi la metrica del successo con cui scegliamo gli “imitabili”? Che posto riserviamo loro nelle nostre comunità? Forse solo i margini, le periferie dell’Impero.

Ne è, probabilmente, un indizio il prestigio che socialmente attribuiamo agli insegnanti di ogni ordine e grado: praticamente nullo; così come il rapporto disfunzionale che, sempre più frequentemente, si instaura tra scuola e famiglia; per non dire della pretesa di una conoscenza autoprodotta e mal compresa, unita all’arroganza di chi si sente sempre all’altezza di ogni situazione. Sono tratti di un decadimento ormai iniziato, del sovvertimento di logiche evolutive antiche e necessarie, capaci, spesso, di farci, collettivamente, migliori di quanto, potremmo essere individualmente. Dovremmo spingerci, allora, verso quei margini e quelle periferie, come novelli Diogene, alla luce fioca della lanterna, alla ricerca di questi saggi gentili, di cui forse proprio oggi, abbiamo ancor più bisogno; per scovarli e convincerli a ritornare al centro delle nostre piazze, a riprendere la loro opera fondamentale di trasmissione, al tempo stesso fedele e creativa, della saggezza profonda della nostra specie: per imparare ad essere, sempre più, non solo “homo”, ma soprattutto “sapiens”.