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Twitter: “Da novembre blocchiamo tutte le inserzioni pubblicitarie politiche a livello globale”

L’annuncio dal profilo dell’amministratore delegato Jack Dorsey:
 “La pubblicità su internet è molto potente ed efficace – ha scritto – ma comporta significativi rischi laddove può essere usata per influenzare voti”. Una scelta che provoca Facebook, che nei giorni scorsi ha dichiarato di non volere intervenire sulle inserzioni politiche anche se diffondono fake news

“Abbiamo preso la decisione di bloccare tutte le inserzioni pubblicitarie politiche a livello globale”. Twitter annuncia dall’account del suo amministratore delegato Jack Dorsey una decisione storica e in controtendenza rispetto a Facebook, che ha recentemente precisato di non volere intervenire su questo aspetto, anche se comporta la diffusione di fake news. La scelta della piattaforma di microblogging, che sarà attiva dal 22 novembre, ha però avuto un effetto immediato su Wall Street, dove il titolo è calato fino al 2,28%. “La pubblicità su internet è molto potente ed efficace – ha aggiunto ancora Dorsey – ma comporta significativi rischi politici laddove può essere usata per influenzare voti. Questo – ha proseguito – non ha nulla a che fare con la libertà di espressione. Ha a che fare con il pagare” per raggiungere il pubblico più ampio possibile e “questo ha significative ramificazioni che l’architettura democratica di oggi potrebbe non essere in grado di gestire”.
Dorsey spiega in particolare che un messaggio politico ottiene un pubblico più ampio grazie ai follower di un account o ai retweet. “Pagare per avere un pubblico annulla questa scelta e impone alla gente dei messaggi politici perfettamente ottimizzati e mirati“, afferma, aggiungendo: “Riteniamo che questa decisione non debba essere inquinata dal denaro”. Poi sembra rispondere direttamente a Zuckerberg: “Per noi non è credibile dire ‘lavoriamo duramente per impedire alla gente di aggirare le regole dei nostri sistemi per diffondere delle informazioni false ma se qualcuno ci paga per prendere di mira e costringere la gente a vedere la loro pubblicità politica allora possono dire ciò che vogliono’!”. Twitter, come pure Facebook e Google, trae la maggior parte delle loro entrate dalla pubblicità, spesso mirata in modo molto sottile grazie ai dati raccolti.

Il suo fuoco di fila di domande ha lasciato spiazzato Zuckerberg, che non è riuscito a dare delle risposte esaustive. Lo scambio fra i due è diventato virale sui social. A Ocasio-Cortez che gli chiedeva di rispondere con un “semplice sì o no” alla domanda se Facebook avesse intenzione di rimuovere o meno bugie, Zuckerberg ha risposto evadendo la domanda. “In molti casi, in una democrazia, ritengo che la gente debba essere in grado da sola di vedere cosa i politici dicono e giudicare” ha detto. “Quindi non le rimuovete?” ha incalzato Ocasio-Cortez. “Beh, dipende dal contesto in cui appaiono” ha risposto Zuckerberg, evasivo anche quando incalzato sulle sue recenti cene con esponenti di destra.




Le vacanze? Quest'azienda te le paga

Le vacanze? Quest'azienda te le paga

Un bonus regalato con un’unica regola: nessuna distrazione digitale lavorativa. Perché un lavoratore soddisfatto è il vero investimento per l’azienda


Le ferie sono sacrosante, eppure ci sono aziende che tendono a rendere la vita alquanto complicata ai dipendenti che desiderano andare in vacanza. Ma ce ne sono altre che incentivano i propri lavoratori a lasciare l’ufficio e godersi il meritato riposo. E l’incentivo è concreto e sostanzioso: con un bonus di ben 7.500 dollari. Bastano per una vacanza intercontinentale in posti esotici. Tutto questo bendidìo viene concesso a tutti i lavoratori a un patto: durante la vacanza occorre dimenticarsi di mail e messaggi dei clienti.
Succede negli Stati Uniti è l’illuminata azienda è una multinazionale, la FullContact, azienda che si occupa di customer care e servizi alle aziende, che da qualche tempo ha deciso di finanziare i propri collaboratori desiderosi di prendersi una vacanza. Secondo Bart Lorang, Ceo e fondatore di FullContact, questa policy aziendale aiuterebbe di fatto a rendere i dipendenti molto più produttivi.
Talmente tanto da compensare il costo annuale di circa 1 milione di dollari richiesto dall’iniziativa con ricavi stimati ben superiori. Un investimento che ripaga nel tempo, sia per le grandi soddisfazioni a livello umano sia anche a livello di risultati aziendali. Un approccio al lavoro che ha portato l’azienda a crescere costantemente, ottenendo numerosi riconoscimenti per le iniziative di «Work Life Balance».
Le condizioni per usufruire del bonus sono poche e chiare: il contributo viene versato solamente a chi accetta di non controllare mail e messaggi lavorativi vari ed eventuali durante il periodo di stop. In vacanza, si sta in vacanza. No mail di lavoro e distrazioni varie. Al contempo, l’azienda dei sogni non interferisce in alcun modo sul dove, sul come o sul quando il dipendente decida di andare in vacanza.
Dopo la vacanza al ritorno in ufficio la prassi vuole che le fotografie della vacanza vengono condivise con i propri colleghi. Il tutto per promuovere uno stile di vita sano e propositivo in cui le esperienza sono condivise con i colleghi. Una filosofia non nuova, quella di concepire il lavoro come una cosa positiva, dove chi lavora è felice di farlo perché il tempo trascorso dentro e fuori l’azienda è piacevole.




Il Brand Activism secondo Philip Kotler e Christian Sarkar

Il Brand Activism secondo Philip Kotler e Christian Sarkar

In passato la promozione di un brand avveniva sulla base delle caratteristiche del proprio prodotto:

“Il nostro dentifricio è quello che può darti l’alito più fresco” oppure “Siamo i più bravi a sbiancare i denti”, ecc. Il positioning era il nome del gioco nel brand marketing. Ma il positioning oggi non è più sufficiente nei nostri mercati altamente competitivi.Prendiamo in considerazione il marketing per i millennial, uno dei più grandi gruppi demografici di oggi. I millennial hanno grandi aspettative nei confronti dei brand rispetto ai problemi e alle emergenze sociali e ambientali, molti vorrebbero che i brand mostrassero preoccupazione non solo per i profitti, ma anche per le comunità in cui lavorano e per il mondo in cui viviamo.
The Body Shop è stata una delle prime aziende a trasmettere i suoi valori e le sue credenze etiche.
La sua fondatrice e CEO, Anita Roddick, non voleva produrre soltanto raffinate lozioni per la cura della pelle, ma desiderava anche occuparsi dei diritti degli animali, dell’ambiente e del commercio equo e solidale. Molti clienti del Body Shop affermavano di essere interessati ai prodotti ma molti altri sceglievano il brand per il suo attivismo.

Brand Activism: progressive o regressive?

Partiamo dalla definizione di Wikipedia:
L’attivismo è un’attività finalizzata a produrre un cambiamento sociale o politico ed è spesso intesa anche come sinonimo di protesta o dissenso. Le forme di attivismo vanno dalla scrittura di lettere ai giornali o ai politici, alla campagna politica, all’attivismo economico che si esprime con boicottaggi, manifestazioni, manifestazioni di piazza, scioperi, sit-in e scioperi della fame“.
Usando questa definizione come punto di partenza, possiamo immaginare un quadro che consenta alle aziende di sviluppare una strategia di attivismo: progressivo o regressivo.
 
brand-activism
 
L’attivismo regressivo è quello che abbiamo visto nelle pubblicità delle compagnie di tabacco che per anni, decenni, hanno negato che il tabacco fosse dannoso per la salute, anche quando le loro stesse ricerche dimostravano il contrario.
E hanno, anzi, promosso le “virtù” del fumo in modo tale da danneggiare i consumatori.  Anche le aziende che fanno pressioni sui nostri politici per politiche regressive sono attivisti del brand.
Il Brand Activism è regressivo quando le aziende perseguono attivamente politiche che danneggiano il Bene Comune:
 
Big Tobacco Brand Activism Prof.Kotler
Come abbiamo detto in precedenza, il Brand Activism è un nuovo imperativo per il business, perché, ora, più che mai, i consumatori chiedono alle aziende di fare la cosa giusta.
Ecco un’immagine che illustra bene gli effetti del Brand Activism di tipo regressivo a confronto con quello di tipo progressivo.
Brand-Activism-shaming-evangelist
Un Brand Activism di tipo progressivo, è quello delle aziende che compiono scelte che tengono in considerazione il Bene Comune. Queste aziende hanno uno scopo più ampio della semplice ricerca del profitto e sono viste sempre più come leader nei loro settori.
In una classifica stilata nel 2015 dalla Harvard Business Review sui CEO con le migliori prestazioni al mondo spicca, in cima un nome che non è familiare ai più: Lars Rebien Sørensen, CEO di Novo Nordisk, la società farmaceutica danese al primo posto. Intervistato, Sørensen ha affermato:

“La responsabilità sociale delle imprese è tutt’altro che massimizzare il valore della vostra azienda per un lungo periodo. A lungo termine, le questioni sociali e ambientali diventano questioni finanziarie”.

Le classifiche valutano i risultati finanziari a lungo termine all’80% e le prestazioni ESG (ambientali, sociali e di governance) al 20%. Sulla base di parametri puramente finanziari, Jeff Bezos di Amazon guiderebbe tutti gli altri CEO, ma il punteggio ESG relativamente debole di Amazon lo colloca al numero 87 nella classifica.

Quando il Brand Activism è diventato un aspetto così rilevante?

Come affermano Philip Kotler e Christian Sarkar nel loro libro Brand Activism: from purpose to action l’attivismo dei brand è la naturale evoluzione dei programmi di Corporate Social Responsibility (CSR) e Environmental, Social and Governance (ESG) che sta investendo le aziende in tutto il mondo. Se prima l’impegno delle aziende si identificava come marketing-driven o corporate-driven, oggi si parla di society-driven o values-driven:
 

 
Il Brand Activism è guidato dalla preoccupazione fondamentale per i problemi più grandi e più urgenti che la società deve affrontare.
Ma significa in primis che non si può affermare di essere un’azienda values-driven e poi ignorare la società: i dipendenti, i clienti, la comunità in cui si lavora, e il mondo.
La prova del proprio attivismo sta nelle scelte che si compiono, non nelle affermazioni che si fanno. E la forza che guida il progresso oggi è un senso di giustizia ed equità per tutti.

Le categorie di Brand Activism

Philip Kotler e Christian Sarkar identificano sei aree di Brand Activism:
 
Brand Activism Categories
 

  • L’attivismo sociale comprende aree come l’uguaglianza – di genere, LGBT, etnia, età, ecc. – Include anche questioni sociali e comunitarie come ad esempio l’istruzione.
  • L’attivismo legale si occupa delle leggi e delle politiche che incidono sulle aziende, come le tasse, il posto di lavoro e le leggi sull’occupazione.
  • L’attivismo aziendale riguarda la governance: organizzazione aziendale, retribuzione degli amministratori delegati, retribuzione dei lavoratori, relazioni sindacali ecc.
  • L’attivismo economico può includere politiche salariali minime e fiscali che incidono sulla disparità di reddito e sulla ridistribuzione della ricchezza.
  • L’attivismo politico riguarda lobbismo, voto, diritto di voto e politica.
  • L’attivismo ambientale si occupa di leggi e politiche in materia di tutela dell’ambiente, uso del suolo, inquinamento dell’aria e dell’acqua.

 
pagelle-brand-activism
 
Sarebbe un esercizio interessante e significativo misurare e classificare tutte le imprese settore per settore con chiari indicatori della loro posizione. Potrebbe essere ancora più interessante misurare anche il loro successo a lungo termine sul mercato.

Progressive Brand Activism: Patagonia

Un brand che viene citato come modello è Patagonia, che sta portando il brand activism a nuovi livelli.
Patagonia è orgogliosa dell’impegno e dell’etica nella tutela dell’ambiente come afferma nel Patagonia’s Mission Statement: We’re in business to save our home planet.
Ma l’impegno del brand per la giustizia sociale e ambientale va molto oltre:

  • The Refuge: Patagonia promuove un cortometraggio sul suo sito web su “uno degli ultimi luoghi selvaggi d’America e sulle persone che lo chiamano casa”. Per centinaia di generazioni, i Gwich’in popolazione dell’Alaska e del Canada settentrionale sono dipesi dal caribù che emigra attraverso il Rifugio Artico. Con la loro cultura tradizionale ora minacciata dall’estrazione di petrolio e dai cambiamenti climatici, le donne di Gwich’in stanno portando avanti una lotta per proteggere la loro terra e il loro futuro con un video e una petizione.
  • $ 10 milioni per il pianeta: Per il Black Friday nel 2016, Patagonia ha donato il 100% delle vendite alle organizzazioni sociali che lavorano per creare un cambiamento positivo per il pianeta. Dichiarando: “In questi tempi di divisione, proteggere ciò che tutti abbiamo in comune è più importante che mai.”
  • radically///resourceful: Patagonia introduce una nuova linea chiamata re/collection – stili realizzati con tutti i tipi di materiali riciclati, tra cui il 100% di lana riciclata e il 100% di poliestere riciclato con l’85% di etichette in poliestere riciclato, l’80% di cerniere riciclate e 50% di bottoni riciclati.
  • Commercio equo e solidale: Patagonia paga un premio per ogni articolo certificato del commercio equo e solidale che porta la sua etichetta. Quel denaro extra va direttamente ai lavoratori della fabbrica e loro decidono come spenderli. Il programma promuove anche la salute, la sicurezza, la conformità sociale e ambientale dei lavoratori e incoraggia il dialogo tra lavoratori e dirigenti.
  • Agricoltura biologica: Patagonia sta lavorando per integrare le pratiche organiche rigenerative nella sua catena di approvvigionamento e collaborare con altre società e organizzazioni per promuovere questo importante lavoro. Per capire come funziona l’agricoltura biologica rigenerativa, date un’occhiata al corto Dirt Cheap. Per un’immersione più profonda, c’è Unbroken Ground, un film di 25 minuti pubblicato di recente da Chris Malloy che racconta la storia di quattro gruppi pionieri nel campo dell’agricoltura rigenerativa, del pascolo rigenerativo, dello sviluppo diversificato delle colture e della pesca rigenerativa.

Come diventare Brand Activist

Oggi non c’è alcuna giustificazione per cui 62 persone nel mondo possiedano la stessa ricchezza di metà del mondo.
C’è un mito persistente nel mondo degli affari contemporaneo secondo cui lo scopo finale di un’azienda è massimizzare il profitto per gli investitori dell’azienda. Tuttavia, la massimizzazione del profitto non è uno scopo; invece, è un risultato. Sosteniamo che il modo migliore per massimizzare i profitti a lungo termine sia quello di non renderli l’obiettivo principale.

È invece necessario che i brand prendano posizione sui temi sociali e sulle emergenze che affliggono il pianeta. Questo è quello che i consumatori oggi cercano: comprendere da che parte sta un’azienda per scegliere se supportarla o boicottarla, per scegliere se essere evangelisti del brand o oppositori.

Kotler e Sarkar si interrogano anche sulla necessità di trovare un modo per riconoscere e premiare quelle aziende che praticano una gestione aziendale sostenibile e orientata agli stakeholder. Forse dobbiamo istituire un Brand Activist Award for Business e ogni anno premiare le aziende che si distinguono come modelli di brand activism, in modo che i consumatori possano scegliere di supportare quei brand che si stanno prendendo cura del bene comune e degli interessi della popolazione, attraverso pratiche commerciali illuminate.
 
Fonte: The Marketing Journal




Novartis, “corrotti decine di migliaia di medici per prescrivere farmaci inutili”. Alla tv svizzera la testimonianza di tre ex manager

NOvartis corruzione medici Grecia FBI
Nel documentario di Falò in onda giovedì 18 ottobre parlano per la prima volta i whistleblower che collaborano all’inchiesta dell’Fbi contro la multinazionale elvetica. Secondo l’accusa, medicinali dai prezzi proibitivi sono stati omologati in Grecia, e pazienti sani sarebbero stati sottoposti a cure inutili



TESI DI LAUREA: LE CRISI D’AZIENDA: IL CASO DEL PONTE MORANDI

Università Commerciale Luigi Bocconi, Milano – Facoltà di Economia
Corso di Laurea in Economia Aziendale e Management, Anno Accademico 2018 – 2019

LE CRISI D’AZIENDA: IL CASO DEL PONTE MORANDI

Tesi di Laurea di Federica Damonte Prioli – Relatore Prof. Andrea RURALE

A questo link, il testo integrale della Tesi (41 pagine), qui di seguito, il testo dell’Introduzione della tesi:


INTRODUZIONE

Secondo Paul A. Argenti una crisi è “una rilevante calamità che può verificarsi sia in modo naturale sia come risultato di un errore o di un intervento umano, anche maligno. Ciò può includere danni materiali come ad esempio la perdita di vite umane o di beni, o danni immateriali, come ad esempio la perdita di credibilità dell’organizzazione o di altri danni alla reputazione”.

Al giorno d’oggi gestire una crisi aziendale è diventata una priorità per ogni realtà aziendale; ancora più importante è il saperla prevenire. Questo è dovuto al fatto che le notizie vengono divulgate molto velocemente tramite i media sia tradizionali che digitali. Saper comunicare alla propria audience in modo efficace e tempestivo è una necessità per le aziende che si trovano all’interno di una crisi, anche per il fenomeno che va sempre più sviluppandosi delle fake news.

Una crisi è come una tempesta per un’azienda, da cui può uscirne più forte o nettamente indebolita. Per creare una forte immagine aziendale possono essere necessari molti anni e in pochi minuti la stessa può essere rovinata.

Questo è quello che è successo ad Autostrade per l’Italia, nell’agosto 2018, dopo il crollo del ponte Morandi. Una cattiva gestione della comunicazione immediatamente dopo i fatti ha impattato negativamente sull’immagine aziendale con forti conseguenze.

Secondo un’attenta analisi, nel primo capitolo verrà presentata l’azienda Autostrade per l’Italia, e l’importante azionista di riferimento, la famiglia Benetton.

Nel secondo capitolo seguirà una presentazione del ponte e i tragici fatti accaduti il 14 agosto 2018.

Nel terzo capitolo verranno illustrate le principali conseguenze per tutti gli enti coinvolti, sia dal punto di vista economico che commerciale e turistico.

La parte fondamentale sarà illustrata nel capitolo 4, in cui, secondo l’analisi svolta da Luca Poma e Giampietro Vecchiato nella loro guida al Crisis Management, verrà analizzato il comportamento dell’azienda secondo le tre fasi di research, response e recovery.

Infine, si cercherà di capire nel quinto capitolo quali sono stati gli errori commessi dall’azienda e dunque la situazione attuale per la città e per l’azienda coinvolta.