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Google ammette: ascoltiamo le conversazioni captate da Google Assistant

Google ammette: ascoltiamo le conversazioni captate da Google Assistant

Un paio di mesi fa ricevette conferma ufficiale un sospetto in circolazione da un po’: ogni volta che si parla con Alexa– l’assistente vocale di Amazon – ci sono buone probabilità che una persona ascolti ciò che viene detto.

Ora giunge la certezza che Amazon non è la sola ad adottare questa pratica. Un giornalista di VRT News ha avuto accesso a oltre mille registrazioni di comandi impartiti a Google Assistant, ottenute da un’azienda che lavora per Google, e ha scoperto che ciò che accade per Amazon accade anche per Google.Migliaia di dipendenti della Grande G (o di aziende a essa collegate) non fanno altro che ascoltare i comandi captati dagli smartphone e dagli altoparlanti intelligenti e anche le conversazioni captate per caso, all’interno delle quali si possono trovare dettagli personali quali indirizzi e altri elementi che permettono di identificare le singole persone.
Lo scopo di tutta questa attività di ascolto? Rendere sempre più preciso il riconoscimento vocale e insegnare a un sistema automatico a distinguere con precisione tra i vari accenti che si possono trovare all’interno di una stessa lingua.
Sebbene le finalità siano positive, i rischi per la privacy sono palesi. Per esempio, oltre 150 conversazioni delle mille ascoltate da VRT erano state registrate involontariamente.
Chi usa uno smartphone Android con Google Assistant avrà notato che l’assistente si attiva anche quando non viene esplicitamente dato il comando «Ok, Google» ma magari il microfono cattura una frase che vagamente vi assomiglia.
Così tra le registrazioni ci sono conversazioni registrate in camera da letto, dialoghi tra genitori e figli, chiamate di lavoro e altro ancora: tutti spezzoni naturalmente corredati da informazioni personali.
Google, dal canto proprio, afferma che solo lo 0,2% delle registrazioni viene ascoltato da esseri umani; ma si tratta comunque di un numero molto grande, considerato l’ampia diffusione della tecnologia di Google Assistant.
Inoltre, il gigante di Mountain Viewafferma che «questo lavoro è di importanza cruciale per sviluppare tecnologie che siano di supporto a prodotti come Google Assistant».
Insomma, la privacy degli utenti sembra essere considerata un prezzoda pagare obbligatoriamente per poter godere di un servizio e poco importa se, come qualcuno ha già fatto notare, sembrano esserci i margini per rilevare un’incompatibilità con la direttiva europea sulla privacy (GDPR).
 

Leggi l’articolo originale su ZEUS News – https://www.zeusnews.it/n.php?c=27465



GeckoWay

L’ospite di questa settimana è Marco Rinelli di GeckoWay, una startup innovativa che sviluppa, produce e commercializza prodotti e servizi IT ad alto valore tecnologico.

Ciao Marco e benvenuto sul mio blog. Quando nasce GeckoWay?
Ciao Rossella e grazie dell’invito. Ti racconto brevemente di noi. GeckoWay viene fondata nel febbraio 2017 da me e mia moglie Eugenia. Abbiamo voluto unire i nostri percorsi universitari (io in ingegneria informatica e lei in gestione delle risorse umane) per creare un team in grado di portare innovazione ai clienti ma soprattutto alle persone. Dopo circa un anno abbiamo inserito un nuovo socio finanziatore che ha creduto in quello che vogliamo fare e speriamo ci aiuti a raggiungere i traguardi che ci siamo prefissati.
Come è composto il vostro team?
Oltre a me, Eugenia e il nuovo consigliere oggi collaborano con noi una decina di ragazzi con esperienze e competenze diverse, dagli sviluppatori alla comunicazione e grafica, passando per una ampia rete di consulenti che ci aiutano dalla parte amministrativa a quella legale, tutti pieni di energia e idee innovative per far crescere ogni giorno la nostra realtà.
Il rapporto con il mondo della ricerca è molto stretto: ci fai qualche esempio?
Proprio perché vogliamo essere sempre più capaci di portare soluzioni nuove nelle nostre idee di startup e nei progetti per i nostri clienti abbiamo un programma di formazione per giovani universitari che possono collaborare su temi innovativi con noi mentre completano gli studi. Un modo nuovo di far crescere giovani talenti riuscendo a capire così le loro capacità valorizzandone le competenze in modo da prepararli per il mondo del lavoro prima della conclusione degli studi. Oltre ai rapporti con le principali università romane stiamo aprendo collaborazioni anche con università straniere per lavorare su nuovi progetti di ricerca molto interessanti ampliando di molto i nostri orizzonti.
Recentemente avete creato BeeInclusion, una piattaforma che vuole essere un motore di ricerca per il sociale. Ci spieghi come funziona?
BeeInclusion è solo il primo esempio di startup su cui GeckoWay ha voluto investire. Si tratta del primo motore di Ricerca per il Sociale a 360 gradi che permette a persone, amici e famiglie di trovare servizi accessibili geolocalizzati sul territorio e in base alle necessità specifiche sia singole che di gruppo. A dicembre 2018 in concomitanza con un tour organizzato con BNL per Telethon è stato lanciato con la classificazione di oltre 200.000 servizi in tutto il mondo suddivisi in varie categorie: terzo settore, sport, soggiorno, svago, ristorazione, noleggio, salute, trasporti e molto altro.
È possibile così costruire esperienze prenotando e acquistando servizi accessibili in un’unica piattaforma secondo ciò di cui si ha bisogno in modo totalmente inclusivo.
Dall’altra parte è anche uno strumento utile per chi offre servizi accessibili siano essi aziende, professionisti, associazioni non profit. È totalmente gratuito e solo se usato a fini commerciali tratteniamo un percentuale sulle transazioni effettuate. Ricco di funzionalità speriamo diventi il punto di riferimento nel trovare ciò di cui si ha bisogno per chi oggi vive direttamente o indirettamente delle difficoltà o disabilità.
Programmi per il futuro?
Sicuramente continueremo a far crescere BeeInclusion a livello nazionale e internazionale con eventi, interviste e molte altre attività magari inserendo anche nuovi investitori. Parallelamente continuiamo a costruire nuovi prodotti per i nostri clienti e abbiamo avviato da poco un nuovo importante progetto nel settore turismo…insomma sicuramente non ci annoiamo




Deutsche Bank, ovvero l’etica protestante e lo spirito della truffa

Deutsche Bank, ovvero l’etica protestante e lo spirito della truffa

Caso Deutsche Bank, crisi finanziaria (che verrà?) e reputazione delle banche: alcune riflessioni su questo modello, che pare non essere così graniticamente etico e teutonicamente efficiente come i tedeschi ci hanno sempre raccontato…

 
Chissà come Karl Emil Maximilian Weber, sociologo e filosofo tedesco, avrebbe commentato certi scenari truci che hanno scosso negli ultimi anni il mondo del capitalismo tedesco.

Alcuni – recenti – precedenti

Potremmo parlare di Volkswagen, che con l’ormai tristemente celebre “DieselGate” ha tradito le aspettative di azionisti e risparmiatori truffando sulle emissioni nocive dei diesel delle proprie autovetture, presentandosi inoltre del tutto impreparata all’appuntamento con le giustizia, dal momento che da oltre un anno e mezzo i suoi vertici erano al corrente di un inchiesta della UE a carico dell’azienda ma nessuno, pare, aveva predisposto un crisis communication plan degno di questo nome, al punto che l’inettitudine dei vertici del colosso automobilistico di Wolfsburg è all’origine dell’evaporazione di circa un terzo della capitalizzazione di borsa dell’azienda; ma sarebbe come sparare sulla Croce Rossa.
Parliamo allora di un tema che è vicino a ogni famiglia borghese che si rispetti: le banche, che dovrebbero amministrare con la diligenza media del buon padre di famiglia (cit. dal Codice Grandi del 1942) i nostri risparmi.
Germania: sinonimo di affidabilità e di “cose fatte bene”; ma la morale è un’altra cosa. Come un disallineamento tra etica e vita d’impresa possa distruggere valore per un’azienda è cosa nota, illustrata in tutti i migliori testi di crisis management al mondo; ma si sa, i tedeschi no, loro non hanno bisogno di nessuno, e nulla devono imparare.

Deutsche Bank: gigante con i piedi di argilla?

Richiamiamo allora un esempio paradigmatico: Deutsche Bank, il colosso bancario, il simbolo stesso della solidità tedesca, il cui CdA si è riunito proprio ieri per varare un piano “lacrime e sangue” al fine di salvare una banca i cui fondamentali risultano da tempo significativamente compromessi (l’istituto di ricerca tedesco Zew ha già in passato calcolato che per poter reggere in una nuova situazione di generalizzata crisi finanziaria globale, Deutsche Bank avrebbe bisogno di rafforzare il suo capitale per circa 20 miliardi euro, rispetto ai valori attuali; è il gap più alto d’Europa nel mondo bancario tra situazione reale e situazione ottimale).
Deutsche oggi vale in borsa 11 miliardi di euro contro i 30 miliardi del non lontano 2015 (!). Perché? Come è stato bruciato tutto questo valore? È solo la sfortuna, che ha centrato un bersaglio nel movimentato scenario della crisi economica globale? A mio avviso no: è stata bulimia e avidità, condite con un pizzico di arroganza, supponenza e incompetenza; ricetta fatale, indigeribile anche per un istituto di credito di grande prestigio come Deutsche Bank.
Le sue strette interconnessioni con il sistema bancario e assicurativo teutonico e con i big della finanza globale fecero supporre che se la situazione fosse degenerata irrimediabilmente, sarebbe intervenuto il governo tedesco, sebbene i politici in verità hanno sempre smentito la volontà di varare un aiuto di Stato diretto verso il colosso bancario, anche a causa della vigilanza attenta e severa del watchdog Mario Draghi; fatto sta che già nel 2016 schizzarono verso l’alto i “Credit Default Swap”, le polizze con le quali gli investitori si assicurano contro il fallimento di un ente creditizio, mente il prezzo dei suoi bond convertibili, che sarebbero i primi a essere colpiti in caso di default o di pesante ristrutturazione, è rapidamente precipitato. Il segnale più preoccupante è stata però la decisione di dieci diversi hedge fund di ritirare la liquidità investita in Deutsche Bank, e ridurre conseguentemente la propria esposizione verso la banca tedesca.
In compenso alcune dismissioni succedutesi nel tempo (prima tra tutte la cessione della controllata assicurativa Abbey Life, che fruttò l’incasso di oltre 1 miliardo di Euro) hanno garantito un poco di ossigeno; che si trattasse però di pause effimere dall’apnea nella quale era sprofondata la Deutsche, è risultato chiaro quando il Dipartimento di Giustizia USA ha annunciato una possibile sanzione da 14 miliardi di dollari per comportamenti scorretti legati alla vendita spregiudicata di obbligazioni legate ai mutui subprime durante la crisi del 2008, multa negoziata poi dalla banca tedesca – pochi mesi dopo – a “soli” 7.2 miliardi, a fronte dei 5,5 miliardi di euro accantonati quell’anno da Deutsche per far fronte ad eventuali contenziosi.

DB “spacciatore” di titoli tossici?

Proprio su questi aspetti occorre soffermare la nostra attenzione: la disputa con il Tesoro USA è stata solo l’ultima di una serie di problematiche legate a comportamenti scorretti della banca e dei suoi manager, che sono già costati a Deutsche oltre 20 miliardi di dollari, tra perdite dirette e multe, ad esempio, per essere stata parte attiva in una serie di operazioni finanziarie che hanno consentito a società e miliardari russi di trasferire denaro all’estero aggirando le sanzioni emesse dall’Unione Europea contro Mosca per il conflitto in Ucraina.
Morale: miliardi di ricavi, tra l’altro sempre in crescita, “bruciati” da comportamenti discutibili: come scrivevo poc’anzi, avidità, arroganza, supponenza e incompetenza. Il peccato più grave per Deutsche è stato probabilmente quello dei derivati: titoli ad alto rischio, vere e proprie scommesse, con un grado di aleatorietà tanto alto da renderne difficile anche solo la quotazione. La banca tedesca avrebbe in pancia derivati ad alto rischio in grado di impattare negativamente sul proprio bilancio per circa 32 miliardi (stima assai ottimistica secondo alcuni analisi finanziari indipendenti, tra cui Alfonso Scarano), mentre pare che Deutsche Bank avrebbe emesso, per poi collocarli vendendoli a parti terze in giro per il mondo, derivati con un sottostante di complessivi 75.000 miliardi di euro: una somma pari a circa 20 volte il PIL della Germania, che conferma la fama del colosso tedesco come vero e proprio “spacciatore” sistemico di titoli tossici.In una corrispondenza tra lo stesso Scarano e il Presidente della BCE Mario Draghi, leggiamo: Dal punto di vista tecnico appare incomprensibile l’attuale discriminazione di trattamento tra la puntuale analisi dei rischi del credito commerciale da un lato e, dall’altro, la mancata puntuale analisi del rischio insito nei derivati finanziari in possesso delle banche”; Deutsche Bank aleggia sullo sfondo del “non detto” tra i due.
Inoltre, come ho già accennato, le fortissime ed estese interconnessioni che la banca tedesca ha in essere con tutte le altre principali banche e istituzioni finanziarie del mondo, ne fanno uno dei soggetti con il più elevato rischio sistemico al mondo, e in caso di bancarotta, le conseguenze per il sistema finanziario internazionale sarebbero devastanti: Allianz, Munich Re, Hannover Re, HSBC, Barclays, UBS, Credit Agricole, BNP Paribas e Unicredit sarebbero le prime società ad essere travolte da un eventuale terremoto con epicentro Berlino.

La – solita – ricetta

Soluzione? Innanzitutto, neanche a dirlo, licenziare: il Consiglio di Amministrazione riunito ieri ha deciso quindi drastici tagli, ovvero 18.000 dipendenti a casa, la creazione di una “bad bank” dentro la quale stivare tutta la spazzatura, dal momento che i bilanci sono attualmente così compromessi che anche l’annunciata possibile fusione con Commerzbank non si può realizzare. E poi, sempre al fine di “dimagrire”, uscita dal mercato USA, taglio della maggior parte delle attività in equity in Asia e nell’area Pacifico, forte ridimensionamento delle attività di Corporate e Investment Banking worldwide, e tagli dei top manager a capo delle business-unit principali. Nuovamente, macerie.
Ma queste misure straordinarie, prima tra tutte la cessione alla bad bank di circa 50 miliardi di titoli tossici, sarà sufficiente a far cambiare strada alla banca tedesca? In una nota di Credit Suisse riportata già qualche tempo fa da Il Fatto Quotidiano, la risposta parrebbe essere no. Gli analisti della banca svizzera hanno calcolato che se l’operazione di dimagrimento fatta nel 2012 dal gruppo tedesco era pari al 25% degli asset a rischio, questa volta toccherebbe solo il 10-15% di essi. La domanda allora sorge spontanea: quanti sono realmente i titoli tossici nella pancia di Deutsche? Stante le difficoltà di inquadramento e di calcolo relative a questi titoli, in realtà pare non vi sia una risposta esatta che possa confermarsi realmente affidabile.

Mercenari del XXI Secolo

Fine dei numeri, e lo scenario appare chiaro. Passiamo ora a una breve riflessione stimolata da questo preoccupante scenario. In una mia intervista pubblicata sull’Harvard Business Review l’economista Stefano Zamagni dichiarò: “Nell’ultimo quarto di secolo si è assistito ad un processo di crescente ‘managerializzazione’ delle imprese; cioè oggi le imprese sono guidate da managers e non più da imprenditori. Il manager – dice Zamagni – è una specie molto raffinata di ‘mercenario’. Nel Medioevo i mercenari combattevano per chi pagava meglio. Ora un manager, se qualcuno gli fa un’offerta vantaggiosa, abbandona quell’impresa e passa a un’altra; l’imprenditore no. Ferrero ha fondato la sua impresa, e la famiglia non passerà mai a un’altra impresa. Fino agli anni ’50 del secolo scorso c’erano più imprenditori e troppi pochi manager: allora si sono fatti investimenti nelle Business School, ma ora si è superato un limite, abbiamo troppi manager e troppo pochi veri imprenditori. Ecco allora la prima ragione: a un manager non interessa nulla di ciò che garantisce vantaggio competitivo nel medio lungo termine, perché lui tra ‘x’ anni – o magari mesi – non ci sarà più in quell’impresa”, conclude l’economista.
La spregiudicatezza dei top manager: ecco uno dei principali motivi per i quali la reputazione del sistema bancario è in crisi profonda, dal momento che come ha brillantemente ricordato Toni Muzi Falconi, “guru” delle Relazioni pubbliche in Italia e non solo, per certi analisti le banche “Hanno nel nostro paese una reputazione peggiore dell’ISIS”.
Il Reputation Institute dice che fino al 80% del valore di borsa di una grande azienda dipende da asset intangibili, e tra essi la reputazione è sicuramente il più “pesante”. La domanda provocatoria nasce spontanea: nel mondo bancario, cosa c’è di più “tangibile”, oggi come oggi, della reputazione? Orienta i comportamenti di acquisto e di risparmio, costruisce valore vero per gli azionisti, rafforza il brand, crea gli anticorpi per le crisi che rischiano di pregiudicare la business continuity degli istituti di credito.
Allora possiamo dire che il manager che non preserva la reputazione dell’impresa per la quale lavora, che spinge solo sui profitti per far contento chi aspetta il dividendo – pronto pure lui a mettersi la benda davanti agli occhi finché gli farà comodo e continuerà a incassare – è un manager traditore.
Ebbene: ai traditori, durante la guerra, si sparava, per giunta girati di spalle, e il mondo della finanza in particolare negli ultimi 10 anni ha preso le sembianze proprio di un campo di battaglia; forse allora è questa la fine che meritano molti top manager di grandi banche, stante il fatto che hanno – per sola avidità – generato macerie, disoccupazione, crisi, famiglie rovinate.
E basta con la “deresponsabilizzazione”: è sempre colpa del “sistema”, del “mercato”, di enti astratti, mentre invece ci sono dei nomi e cognomi, delle responsabilità oggettive, personali, degli individui che compiono scelte, che firmano documenti, che omettono azioni che sarebbero opportune, oppure che non agiscono (anche) per il bene generale, e che – non sapendo o non volendo badare alla propria stessa reputazione nel medio-lungo periodo, convinti di non dover rendere conto a nessuno e di poter sempre in ultima istanza “aggiustare le cose” – creano poi distruzione diffusa: a queste persone, demolitrici di reputazione e di valore, qualcuno prima o poi dovrebbe chiedere conto, mentre il plotone di esecuzione carica i fucili.
 
Ultimo edit: 08/07/2019, h. 12.10




20 piccole cose che possiamo imparare dal Catalogo IKEA 2019

20 piccole cose che possiamo imparare dal Catalogo IKEA 2019

Aspettando il catalogo IKEA 2020, ho recuperato un pezzo scritto qualche tempo fa.

Ho iniziato a leggere il catalogo IKEA negli ultimi anni, e mai ne ho letto uno così bello come quello del 2019. Una scrittura agile, godibile, così reale e concreta. Racconta la nostra vita quotidiana, e lo fa con grande naturalezza. Non c’è una sbavatura, non una forzatura: una lettura che vale più di qualsiasi manuale di copywriting, una guida etnografica su come sono cambiati i nostri spazi casalinghi.

1. Addio suddivisioni per cucina, zona giorno, camera da letto, bambini, bagni e ufficio. Il nuovo format è molto semplice: hanno pensato a sette case, dal monolocale minuscolo all’appartamento ecosostenibile. E ci fanno entrare a scoprirle come se fossimo graditi ospiti.

2. I testi ci parlano non dei mobili o degli oggetti, ma di cosa possiamo fare con loro intorno. L’isola in cucina è il punto di incontro per chiacchierare mentre si è ai fornelli, ed è così piacevole questo ambiente che è impossibile rimanere a corto di argomenti. Le parole ci proiettano nelle situazioni più comuni e quotidiane, ci ricordano quanto sia importante apprezzare i piccoli momenti.

3. E ancora, l’accogliente divano al centro regala a mamma e figlia irrinunciabili momenti tutti per loro. I mobili IKEA sono complici delle nostre relazioni famigliari, sono compagni del giorno e della notte, ci affezioniamo a loro perché diventano custodi della nostra tranquillità. È la nostra personalità che li trasforma, non il contrario: non sono più gli oggetti che ci definiscono, ma noi che definiamo loro.

4. Ci racconta qualcosa che non vediamo. Il testo non è didascalico, ma va oltre. Ci parla di qualcosa che è nascosto e non ce lo mostra, giustamente. Ce lo fa immaginare con una descrizione esatta, precisa e allo stesso tempo ammiccante.

5. Accettare che la casa non sia “deliberatamente finita” ci porta a vivere meglio e più serenamente la vita quotidiana. Così in casa, come nella vita. Dobbiamo accettare che è tutto in trasformazione, in cambiamento, in miglioramento. È un divenire che deve divertirci, non metterci ansia. Sono testi che ci aiutano a capire che la flessibilità aiuta a vivere meglio. La casa è viva, e cresce con noi.

6. I bambini! Nel catalogo ci sono tantissimi bambini, anche di poche settimane. Sono loro le persone più preziose al mondo, dalla nascita al momento in cui metteranno tutto in discussione.

7. Un unico spazio, una soluzione per tutti. Ogni componente della famiglia ha una propria esigenza, di spazio e di tempo, e questo IKEA lo sa bene. Convivere significa lasciare la libertà a ciascuno di essere se stessi, senza compromessi o malumori, il ché a volte passa da spazi condividi, altre volte da spazi personali. Non ci sono scuse per non andare d’amore e d’accordo.

8. Spesso associamo IKEA al minimalismo: linee simmetriche, pochi pezzi giusti, funzionalità. Qualcosa, in questo catalogo, cambia. Lo noterete subito, sfogliandolo. Sono tutte case vissute, a volte disordinate, sicuramente non da museo. Sono rappresentate così come potremmo trovarle andando a trovare un amico senza tanto preavviso e cerimonie. Tra i mobili in vendita, ci sono oggetti, ricordi, sogni.

9. Una postilla sul sonno. Mica si parla di quanto sia figo il nuovo materasso a molle, no no. Si parla di quanto sia diventato un lusso raro e prezioso dormire bene. Sedici ore dopo il consueto risveglio è il momento giusto per andare a dormire. Inizia a rallentare un paio d’ore prima, evitando di lavorare e di stare davanti agli schermi. Il testo è un inno al sonno e al benessere. Chapeau.

10. Questo catalogo è anche un buon testo di educazione civica. Perché anche i bambini possano contribuire alla racconta differenziata.

11. Mettersi comodi ad ascoltare i racconti dei tuoi bambini. Come, in una breve passaggio, sia possibile racchiudere tanta poesia e dolcezza. Ve lo state immaginando, quel momento? E non è forse un’immagine stupenda quella che si crea nella mente di noi lettori?

12. I romanzi gialli in alto. Non libri. Romanzi in giallo. Il testo è specifico, autentico. Disinvolto. Genuino.

13. IKEA prende posizione. E la prende in uno dei passaggio più belli del catalogo. A pagina 63 ci parla di questa generazione nata da pochi anni: “una generazione che non crede nei muri, comunque”. Trump, ci sei? Più sotto, continua: “un giorno ricorderà con tenerezza i momenti in cui aveva paura dei mostri sotto il letto. Ma nel frattempo, i suoi amici peluche e una rassicurante lampada possono aiutare a vincere la paura di dormire da soli“.

14. Siamo noi, eccoci. Davanti alla televisione. Stravaccati sul divano. Davanti alla televisione e stravaccati sul divano con il cellulare in mano.

15. I dettagli, i dettagli prima di tutto. Uno spazio lo racconto dal micro al macro, dal cappello a cilindro comprato al mercatino delle pulci all’appendiabito IKEA. E sono proprio i dettagli che ci parlano di chi abita la casa; ci facciamo una chiara idea di chi sono, cosa amano, come vivono.

16. Nella botte piccola c’è il buon vino. Qualsiasi sia la superficie della vostra casa, chissenefrega, perché da IKEA l’unica misura che conta è il metro cubo. Si ribalta la percezione, un po’ come Esselunga con i suoi prezzi corti, anziché bassi.

17. Non ci sono solo famiglie bellissime, creativi con i capelli lunghi e cani (tanti cani). Ci sono anche le signore più anziane (ed estrose). Ed è davvero divertente notare questa trasversalità, che abbraccia tutti, senza alcuna distinzione, come è giusto che sia. Ah, il buon senso.

18. Nostalgia canaglia. Ci sono grandi ritorni quest’anno, perché non tutto ciò che è del passato è da buttare. Alcuni pezzi tornano dopo decine e decine di anni, come la poltrona qui sotto testata e approvata per la vita moderna.

19. Il mondo nascosto degli adolescenti. Che rivendicano la loro identità, proteggono la loro privacy, e non rinunciano ad aprire le porte agli amici del cuore.

20. La Settimana Enigmistica. Venti orizzontale, cinque lettere: BRAVI.




Sostenibilità. Aeroporti europei: accordo per zero emissioni entro il 2050

Sostenibilità. Aeroporti europei: accordo per zero emissioni entro il 2050

Zero Co2 entro il 2050. È il programma ambientalista messo in atto da Aci Europe, l’Associazione dei gestori aeroportuali europei, nel corso del 29° Congresso Annuale e Assemblea Generale tenutisi a Cipro, annunciando ufficialmente la Risoluzione NetZero2050, con cui appunto l’industria aeroportuale europea si impegna a raggiungere un livello di emissioni nette di CO2 pari a zero, al più tardi entro il 2050. La risoluzione è stata sottoscritta, ad oggi, da 194 aeroporti di 24 Paesi europei, con il supporto anche di diverse Associazioni nazionali dei gestori aeroportuali europei. Sulla base degli attuali volumi di traffico negli aeroporti europei, si stima che questo impegno porterà ad eliminare, nel 2050, 3.46 milioni di tonnellate di emissioni annue di Co2.

Per l’Italia, la risoluzione, supportata direttamente anche da Assaeroporti – l’Associazione italiana dei gestori aeroportuali – ha già
visto l’adesione di: Adb (Aeroporto di Bologna), Adr (Aeroporti di Roma Fiumicino e Ciampino), Gesac (Aeroporto di Napoli), Gesap (Aeroporto di Palermo), Sacbo (Aeroporto di Milano Bergamo), Sagat (Aeroporto di Torino), Save (Aeroporto di Venezia) e Sea (Aeroporti di Milano Linate e Malpensa).

«Sono diversi infatti gli interventi già realizzati dai nostri aeroporti in tema di sostenibilità ambientale: è aumentato l’utilizzo di energia derivante da fonti rinnovabili – Valentina Lener di Assaeroporti – sono stati realizzati all’interno dei sedimi impianti fotovoltaici e centrali di cogenerazione o trigenerazione». Diversi aeroporti italiani, infatti, hanno già ottenuto la certificazione internazionale “Airport Carbon Accreditation” ed ora, con la sottoscrizione della risoluzione NetZero2050 «l’intero sistema aeroportuale – aggiunge -si pone un obiettivo ancor più sfidante come quello di raggiungere un livello di emissioni nette di Co2 pari a zero, al più tardi entro il 2050».