Eidoo è tra gli sponsor di Diversity Media Awards 2019, l’iniziativa ideata e promossa dalla no-profit Diversity fondata da Francesca Vecchioni.
Natale Ferrara, founder di Eidoo, ha spiegato così questa decisione:
“Le crypto sono nate per eliminare le diversità tra i popoli e le barriere territoriali e linguistiche, così abbiamo voluto sostenere questo evento perché in linea con gli obiettivi del settore delle criptovalute che, inoltre, grazie anche a Diversity potrebbe così diventare sempre più mainstream”.
Giunto alla quarta edizione, l’evento valorizza i temi della diversità nell’informazione e nell’intrattenimento anche grazie ad una collaborazione di Diversity con l’Osservatorio di Pavia, istituto di ricerca indipendente specializzato nell’analisi dei media.
Ha spiegato Vecchioni:
“Chi fa comunicazione ha una grandissima responsabilità perché contribuisce a costruire il nostro immaginario collettivo. Saper rappresentare e dar voce a tutte le persone serve a ridurre la distanza tra noi e gli altri ed è il presupposto essenziale per la crescita e il benessere di tutta la società. Una rappresentazione inclusiva, non solo rispetta la reale composizione sociale, ma fa emergere le differenze promuovendo la conoscenza e contribuendo così a ridurre i pregiudizi”.
Insieme a Eidoo sono partner e sponsor di questa edizione di Diversity Media Awards anche Google, Carrefour, Jack Daniel’s, Lierac, YAM 112003, Esther Burton e Carpeneta.
I Diversity Media Awards 2019 saranno consegnati nel corso di uno show che si terrà il prossimo 28 maggio a Milano presso l’Alcatraz. L’evento sarà condotto dallo showman RAI Fabio Canino, anche direttore artistico, e Melissa Greta Marchetto.
Come ha spiegato Thomas Bertani, CEO di Eidoo,
“Abbiamo deciso di aderire immediatamente alla richiesta di sostegno di Diversity: la diversità è un valore assoluto e prezioso sia in natura che nel mondo della tecnologia, un settore fortemente competitivo dove i fattori di differenziazione diventano elementi sostanziali per vincere queste sfide: i Diversity Media Awards sono a nostro avviso un contesto straordinario per ribadire con forza questi concetti”.
Le iniziative dei brand per i Gay Pride 2019 hanno avuto un solo leit motiv: celebrare l'inclusione
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Quali sono state e qual è stato lo spirito delle iniziative dei brand per i Gay Pride 2019? Da H&M a Instagram, le trovate più creative.
Quasi il 75% degli acquisti della comunità LGTBQ+ sarebbe influenzato da quanto e in che modo le aziende si dimostrano sensibili al tema e ne supportano concretamente i membri. Un dato come questo spiega perché, nel tempo, si sia sviluppata una sorta di gay economy la cui manifestazione più evidente sono, forse, collezioni ed edizioni speciali pensate per occasioni come il giugno dei Pride (manifestazioni che ogni anno mettono sotto i riflettori i diritti di gay, lesbiche, trans, queer). Bastano, però, versioni arcobaleno dei propri prodotti cult perché le aziende possano dirsi davvero gay-friendly? Le iniziative dei brand per i Gay Pride 2019 sembrano suggerire qualcosa a proposito.
COSÌ IL MONDO DELLA MODA OMAGGIA DIRITTI E RIVENDICAZIONI DELLA COMMUNITY LGTBQ+
Sono stati soprattutto i brand di moda che hanno deciso di celebrare, quest’anno, i cinquant’anni dalle prime rivendicazioni della community LGTBQ+ al Green Village di New York. Non è certo casuale: se abiti e accessori sono sempre acquisti simbolici, la comunità omosessuale ha spesso fatto proprio della moda e dei suoi prodotti una chiara dichiarazione d’intenti, trovando in capi e nuance veri e propri elementi di riconoscimento. Da fast fashion e apparel ai brand di lusso, così, le iniziative dei brand per i Gay Pride 2019 hanno giocato proprio su questo piano. H&M, per esempio, ha reso disponibile online e in store per tutto il mese di giugno una capsule collection ispirata alla bandiera arcobaleno simbolo delle rivendicazioni LGTBQ: “Love for all” è il nome della collezione che comprende felpe, t-shirt e accessori unisex.
Anche Converse ha fatto un’operazione simile con “Show Your Pride”. Chiunque voglia comprare online o in negozio le iconiche Chuck Taylor ne troverà per tutto il mese versioni speciali, anche in questo caso ispirate alla bandiera arcobaleno della comunità LGTBQ+ che è finita dritta anche su magliette, cappellini, underwear del brand. Per la prima volta quest’anno, però, Converse ha reso omaggio soprattutto alla comunità trans scegliendo il rosa, l’azzurro e il bianco della sua bandiera per customizzare alcuni modelli della collezione ispirata ai Pride.
Parte della collezione che Converse ha dedicato ai Gay Pride 2019.
Tra gli altri brand sportivi, anche Adidas e Nike hanno rilasciato versioni speciali, con dettagli arcobaleno, dei propri prodotti di punta per celebrare quest’anniversario importante per la comunità gay: sono prodotti come le classiche Adilette, in vendita ora con una fascia arcobaleno, o le Air Max 720 che si colorano con sfumature dal rosso al rosa.
Le Adilette in versione arcobaleno fanno parte della collezione speciale dedicata da Adidas ai Pride 2019.
Per celebrare i cinquant’anni delle rivendicazioni LGTBQ+, Nike ha lavorato con la Gilbert Baker Estate. Il risultato è la collezione 2019 BETRUE, di cui fanno parte anche una versione speciale delle Air Max 720 con tomaia dai colori della Pride Flag.
Sempre dal mondo della moda viene una collezione come quella di Diesel fatta di t-shirt, pantaloncini, giubbotti che non solo hanno dettagli in arcobaleno ma, soprattutto, rileggono in chiave Pride anche una delle tagline classiche del brand (per questa edizione limitata, infatti, la tradizionale scritta “Denim Division” è stata sostituita su alcuni capi proprio da “Pride“).
Anche Levi’s ha voluto omaggiare il giugno dei Pride con una collezione speciale che strizza l’occhio a una certa estetica degli anni Settanta.
Gap, invece, sembra aver puntato più su una campagna di comunicazione e su commercial dal forte impatto emotivo per celebrare il mese dei Pride che non su collezioni speciali o edizioni limitate dei propri prodotti: “Chosen Family” è il titolo della serie di spot che ha per protagoniste vere famiglie non convenzionali e le loro vite.
INIZIATIVE DEI BRAND PER I GAY PRIDE 2019: IL MONDO DEL BEAUTY
Anche se si guarda al mondo di bellezza e benessere non sono mancate le iniziative dei brand per i Gay Pride 2019. Mac, per esempio, ha supportato e non solo economicamente oltre venti manifestazioni in città diverse.
Sephora invece ha messo in commercio una edizione speciale di uno dei suoi lipstick di punta, donato parte del ricavato della vendite ad associazioni che si occupano di supporto alla comunità LGTBQ+, coinvolto il proprio team in workshop dedicati ai temi dell’inclusione e, soprattutto, organizzato in alcuni punti vendita delle lezioni di “Bold Beauty”dedicate a transgender e non-binary people che possano trovare nel trucco e nella cosmetica un modo per esprimere pienamente se stessi.
Niente di molto diverso dal messaggio che Gillette prova a dare, ormai da tempo, con la campagna “It takes a real man” che, ultima in ordine di tempo, ha visto anche la partecipazione della drag queen Rubén Errebeene.
Dal lipgloss di Marc Jacob dedicato ai Pride 2019 alle proposte ecologiche e amiche dell’ambiente di un brand giovane come YTTP, non è secondario che anche da un settore fortemente gendered come la cosmetica venga un segnale di supporto a forme diverse di sessualità, che è, poi, anche un segnale di apertura verso bisogni di mercato nuovi.
DA IKEA A STARBUCKS: GRANDI AZIENDE, GRANDI INIZIATIVE CONTRO L’OMO-TRANSFOBIA
Se Ikea ha distribuito a degli influencer una versione speciale, in arcobaleno ovviamente, dell’iconica busta blu e celebrato il Pride 2019 con la campagna #FateloACasaVostra, anche il brand Starbucks sembra essersi dato al merchandising con una versione speciale e riutilizzabile del suo bicchiere, ovviamente in arcobaleno e con le scritte “orgoglio”, “amore” e “diversità”, disponibile prima nei punti vendita americani e canadesi e poi nel resto del mondo al prezzo di circa 17 dollari.
Neanche Starburcks ha rinunciato al merchandising arcobaleno per celebrare il Gay Pride 2019, ma non è l’unica iniziativa del brand.
Il brand ha voluto offrire, comunque, un #ExtraShotofPride (questo l’hashtag scelto da Starbucks per la campagna), alla propria community Instagram raccontando le storie normali di dipendenti coinvolti in storie d’amore con persone dello stesso sesso o membri attivi della comunità LGTBQ+.
La catena, del resto, è tra quelle che più investono in programmi di CSR proprio a favore della questione gay: da tempo sostiene, infatti, associazioni che danno supporto anche legale a vittime di omo-transfobia e, più recentemente, avrebbe destinato dei fondi a copertura dell’assistenza sanitaria per gli interventi di riassegnazione del sesso.
PERCHÉ UN BRAND HA BISOGNO DI PIANI DI INCLUSIONE CHE TENGANO CONTO ANCHE DELL’ORIENTAMENTO SESSUALE DEI DIPENDENTI
Ad accomunare la maggior parte delle iniziative dei brand per i Gay Pride del 2019, del resto, è proprio un certo (auspicabile) impatto sociale. Che sia stato nella forma di donazioni dirette, di partnership finalizzate a obiettivi specifici – come quello di una migliore inclusione degli atleti LGTBQ+ nel mondo dello sport a cui punta, per esempio, la collaborazione di Puma con associazioni e realtà internazionali che operano in questa direzione – o di campagne di crowdfunding, aziende e brand hanno provato a sostenere nel concreto e nel quotidiano le realtà omo-transessuali. Tra l’altro lo hanno fatto spesso per ovviare alle critiche che negli scorsi anni erano piovute su versioni speciali, collezioni arcobaleno e altre forme di merchandising ispirate al Pride, considerate dalla stessa community LGTBQ+ come un mero tentativo di sfruttare economicamente e per il proprio tornaconto un proprio simbolo identitario.
La maggiore sensibilità al tema, comunque, ha portato le aziende ad avere all’attivo non solo iniziative di corporate social responsibility ma, anche e soprattutto, programmi interni che mirano all’inclusione e alla valorizzazione di sessualità altre: bagni e spogliatoi senza separazioni per genere, la possibilità di utilizzare anche per la firma e nelle email il pronome che si preferisce, registri familiari che non tengono conto solo dei matrimoni tradizionali ma anche di altre forme di unioni di coppia sono tra le misure che i brand hanno intrapreso per migliorare la soddisfazione dei propri dipendenti, quando non si sono dotate di un vero e proprio diversity team con l’obiettivo di migliorare l’ambiente di lavoro e il benessere delle persone al suo interno.
COSÌ I BIG DEL DIGITALE SI DIMOSTRANO SENSIBILI ALLA CAUSA LGTBQ+
Per tornare comunque a come brand e aziende hanno deciso di celebrare i cinquant’anni di rivendicazioni LGTBQ+, non può certo sfuggire il commitment dei big del digitale. Google, per esempio, ha disegnato un Doodle che ripercorreva la storia delle rivendicazioni della comunità gay, lesbica, trans e queer a partire proprio dalle prime rivolte al Green Village. In collaborazione con LGTB Community Center, poi, a Mountain View hanno partecipato alla costruzione di Stonewall Forever, un monumento «vivente al Pride» (così lo hanno chiamato direttamente da Google) alla cui costruzione hanno contribuito le voci dei primi attivisti gay, materiali e documenti storici digitalizzati, un documentario di Ro Haber e che è visitabile sia online, attraverso un’esperienza immersiva, sia fisicamente e con l’aiuto della realtà aumentata nel caso ci si trovi a New York. Parola d’ordine: non dimenticare.
Che è lo stesso spirito, tra l’altro, con cui Instagram ha realizzato diverse installazioni in giro per New York dedicate ad attivisti e veterani LGTBQ+ non molto conosciuti e lanciato un hashtag, #UntoldPride, da utilizzare per rendere virali le loro storie anche sui social.
Per tutto il mese di giugno, tra l’altro, utilizzando gli hashtag più popolari legati alla causa – come #loveislove, #pride2019 o semplicemente #lgtbq – si colora di arcobaleno il cerchio che nel profilo dell’utente indica la presenza di nuove storie, non ancora viste. La piattaforma starebbe rinnovando, tra l’altro, le sue policy per quanto riguarda le informazioni personali da indicare all’iscrizione, prevedendo opzioni personalizzate per quanto riguarda il sesso e che sfuggono alla logica binaria del maschio o femmina.
Anche il “cerchio” delle Storie di Instagram si tinge di arcobaleno se si utilizzano hashtag come #loveislove o #pride2019, a supporto della causa LGTBQ+.
Anche Netflix ha voluto celebrare il mese dei Pride con quel pizzico di ironia e quei toni giocosi che, da qualche tempo, caratterizzano il suo stile di comunicazione, online soprattutto. Voce narrante del video per il Gay Pride 2019 è infatti Spadino, uno dei protagonisti di “Suburra”, che gioca di doppi sensi e ambiguità con il termine “lobby”: mentre si susseguono immagini di altri protagonisti di serie e prodotti Netflix famosi e molto amati proprio in virtù della loro sessualità diversa, infatti, si delineano i contorni di una lobby che, se ha qualche elemento distintivo, è quello di essere «la più colorata» e l’unica «lobby esclusiva in cui c’è posto per tutti».
AZIENDE E GAY PRIDE IN ITALIA
Solo piccoli gesti simbolici? Non si direbbe, soprattutto in un tempo in cui prendere posizione è diventato un imperativo a cui nessuno può sottrarsi. Lo evidenziano bene due iniziative dei brand per i Gay Pride 2019 come quelle di Barilla e Protect & Gamble. Che c’entrano una storica azienda di pasta e una multinazionale di beni di largo consumo con i diritti LGTBQ+? Il dubbio è legittimo ma, se la prima ha deciso di sostenere la manifestazione milanese e la seconda di sfilare al Roma Pride 2019 una ragione c’è e ha a che vedere, appunto, con messaggi valoriali e simbolici che l’azienda è desiderosa di veicolare. Nel caso di Barilla si tratta di continuare a svecchiare la propria immagine, di affrancarla dall’idea di famiglia tradizionale e di renderla più d’appeal per consumatori giovani e che vivono in maniera decisamente più fluida affetti e relazioni personali, come ha già provato a fare del resto la collezione co-disegnata con il brand di urban wear GCDS. P&G Italia ha sfilato, invece, a Roma al grido di “We see equal” in omaggio a valori come l’inclusione e la valorizzazione delle differenze che da sempre fanno parte non solo di storia, mission e cultura aziendale ma anche dei programmi di employment e di welfare aziendale.
Non erano, comunque, gli unici brand presenti e protagonisti dei Pride italiani: da Skipper con il suo succo «senza pregiudizi aggiunti», a Deliveroo che ha cambiato temporaneamente logo e lettering in «Deloveroo» lasciando che la parola amorefosse colorata di arcobaleno, passando per Jack Daniel’s che, oltre a un cocktail speciale dedicato ai Pride, ha customizzato la fermata della metropolitana di Lima a Milano con una piccola operazione di ambient marketing che ricordava l’importanza di vivere la propria vita in maniera «più libera», molte aziende hanno voluto dare il proprio sostegno alla comunità LGTBQ+ italiana.
Gli italiani non sono mai stati così intolleranti online
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La mappa pubblicata dall’Osservatorio Vox descrive un paese incattivito, leggermente meno omofobo ma più razzista e antisemita. E la responsabilità, nel bene o nel male, è della politica
L’Italia sul web odia di più e con un linguaggio più estremo, esasperato dalla politica per fini elettorali, ma le leggi influiscono positivamente sulle pratiche dell’intolleranza online. Questo, in sintesi, il quadro offerto dalla quarta edizione della Mappa dell’Intolleranza, il rapporto annuale elaborato da Vox, l’Osservatorio italiano dei diritti, in collaborazione con l’università Statale di Milano, la Sapienza di Roma, l’università di Bari e il dipartimento di sociologia dell’università Cattolica di Milano.
Il progetto, modellato sull’esempio della Hate Mapdella Humboldt State University of California, è andato avanti per 4 mesi e ha riguardato una produzione di oltre 200mila tweet, con l’obiettivo di isolare le principali categorie oggetto di discorsi d’odio e mappare le città maggiormente sensibili all’esasperazione del dibattito sui social network, così da creare uno strumento potenzialmente utile alle amministrazioni locali. Ci sono delle buone e delle cattive notizie, ma il punto di partenza è quello comune a molte analisi di questo tipo: l’Italia del 2019 è un paese più spaventato e incattivito.
Il peso della politica
Le (poche) buone notizie, innanzitutto: delle sei categorie di hate speech prese in considerazione dai curatori, una mostra i segnali di un leggero miglioramento. Si tratta dell’omotransfobia, un fenomeno che nell’ultimo anno ha riguardato 187 casi denunciati – e dunque un numero ben lontano dalla stima reale – in Italia e che i ricercatori hanno riscontrato in circa 7800 messaggi dei quasi 12mila riferiti alla comunità Lgbt+.
Secondo gli autori della mappa, le ragioni della flessione sarebbero riconducibili alla legge Cirinnà e all’influenza che la sua approvazione ha generato nel dibattito pubblico, una conseguenza diretta della buona politica che però fa il paio con gli effetti negativi di discorsi contrari alle unioni civili. “Le persone omosessuali sono le meno colpite dall’intolleranza via Twitter”, spiega l’Osservatorio Vox, “ma l’odio cresce quando scoppiano polemiche sulle famiglie arcobaleno e in occasione di appuntamenti controversi come il Congresso sulla Famiglia di Verona”. Il picco dei messaggi d’odio sul tema si registra infatti nella giornata del 23 marzo, nei giorni caldi delle polemiche sulla partecipazione del leader della Lega Matteo Salvini al Congresso di Verona.
La politica ha dunque il potere di agire sulla percezione di un tema – e indirettamente sulla vita delle minoranze – non solo con l’attività legislativa, ma anche e soprattutto con l’impostazione dell’agenda e con dichiarazioni pubbliche. Non a caso in cima alla classifica dell’odio online si piazza la xenofobia, con quasi un terzo dei messaggi d’odio complessivi e un’impennata del 15% rispetto al 2018, cui va a sommarsi l’ulteriore 15%dei tweet islamofobici (+7% rispetto al 2018). In entrambi i casi, tra le città più intolleranti spicca Milano, ma i messaggi che associano l’Islam al terrorismo sono particolarmente concentrati anche a Bologna, Torino e Venezia.
Le altre categorie sensibili
Anche quest’anno la lista delle categorie più odiate contiene le donne. Rispetto al 2018, la misoginia è in aumento dell’1,8% e si rileva tanto al nord quanto al sud, con Milano e Napoli capitali dell’intolleranza di genere. Nell’anno che ha prodotto un caso di femminicidio ogni 72 ore, la violenza verbale sui social network si è scatenata prevalentemente in concomitanza con i principali fatti di cronaca, ma tra i picchi ritroviamo anche le giornate tra il 20 e il 25 marzo, che gli autori della mappa riconducono al dibattito provocato dalle dichiarazioni di Matteo Salvini sull’utero in affitto.
Cresce anche l’odio nei confronti delle persone affette da disabilità – 17mila tweet, l’11% del totale – ma a preoccupare maggiormente è l’esplosione dell’antisemitismo, pressoché assente nelle scorse rilevazioni e che oggi si concentra soprattutto a Roma. Dei 20mila tweet estratti, il 76% ha un contenuto negativo che di nutre spesso e volentieri di stereotipi e fake news. Tra i picchi l’osservatorio Vox registra quello del 27 marzo 2019, il giorno del tweet in cui Giorgia Meloni definì George Soros “un usuraio”
Mascolinità tossica: quando il concetto di virilità fa male agli uomini
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La mascolinità tossica è un costrutto sociale che danneggia l’uomo, descrivendolo come violento, non emotivo, sessualmente aggressivo, lazzarone e così via.
La mascolinità tossica è un nuovo modo di definire l’aspettativa nei confronti della virilità, o meglio, dello stereotipo maschile che ormai nutre da anni l’immaginario nostrano e non solo.
Spesso si parla della pressione che noi donne subiamo dai media e dalla cultura, ma altrettanta pressione ricevono i maschi che si vedono sempre descritti in modo ovvio: gli uomini sono quelli che non devono chiedere mai.
Siamo immersi e immerse in una cultura patriarcale che da sempre ha descritto le donne come asservite e assertive e il maschio come forte, dominante, quello che comanda, quello che lavora e porta a casa la pagnotta.
La mascolinità tossica è lo stereotipo della virilità: lui è quello che decide, l‘uomo nella stanza dei bottoni, quello su cui pesano oneri e onori, quello con le palle, insomma. La virilità come fattore dominante e di dominio, direttamente connesso al possesso. Intendiamoci: essere quelli che comandano rispetto a essere quelle a cui viene stampato il cognome dell’altro sulla scheda elettorale a molti fa comodo e ci sguazzano, del resto stare dalla parte di quelli che hanno sempre ragione a prescindere non deve essere poi tanto male.
Sta di fatto che anche loro, gli uomini, comunque, si trovano a dover sempre aderire a un modello, meno inarrivabile di quello femminile che ci vuole sempre giovani/belle/disponibili/assoggettate/pronte a sorridere esteticamente attraenti e a disposizione – ma comunque un modello mascolino che prevede irruenza e competitività, padronato e padronanza; nel loro immaginario spesso sono maschi ruspanti sulle ruspe, che scacciano non si sa che terribile nemico per tenersi le proprie femmine al focolare. Birra ghiacciata, rutto libero, e guai a parlare di sentimenti.
Virilità maschile: creiamone una nuova
Questo tipo di descrizione di virilità maschile ha tolto agli uomini la virilità emotiva, il diritto alla fragilità, alla gentilezza, alla sensibilità. L’empatia.
Mi è capitato di leggere dei meme ironici che dicono che gli uomini così esistono e si chiamano gay. Ora: non trovate tutto questo un attimo castrante?
Quanta ansia da prestazione mette il dover sempre aderire a quel modello? E ancora: quanto state facendo a cazzotti con una realtà che vede le vostre mogli/fidanzate/compagne altrettanto preparate carrieriste e giustamente capaci di rivendicare i loro ruoli e i loro spazi? Quanto vi disorienta?
Il ruolo maschile si sta ridefinendo non con qualche difficoltà: un dato per tutti – i femminicidi in continuo aumento sono un elemento a mio avviso chiaro, una cassa di risonanza di come molti non accettino il nuovo assetto femminile. L’incapacità di accettare l’indipendenza della compagna, il suo saper vivere senza un LUI al fianco.
Le donne si sono riscoperte, ridescritte, si stanno rivalutando e rimettendo in gioco.
Gli uomini arrancano dietro una visione di sé che non riescono a dare. Si vedono spodestare dal loro ruolo comodo e privilegiato, ma allo stesso tempo nessuno (o pochi) si sono presi la briga di dire loro: potete prendervi la libertà di essere anche altro.
Maschio non è solo quello del cielodurismo: maschio è un sacco di altre cose empatiche, responsabili, partecipate e partecipanti, belle e altrettanto gratificanti. Certo: tocca alzare il culo dal divano e fare fatica a metà con noi.
Il macho che rientra dopo il lavoro stanco e si mette in panciolle sul divano non ha diritti prioritari rispetto alla compagna che rientra a casa ed è stanca tanto quanto lui.
Quindi come si sentono gli uomini a cui chiediamo equità di diritti fuori e dentro le mura domestiche? Meno macho ma decisamente più uomo, nel senso alto del termine. Prendetevi la libertà di entrare più in contatto coi vostri sentimenti e sentitevi liberi di parlarne. Potreste scoprire che non è così male. E non c’è nulla di debole, di sconveniente o di sbagliato.
Gillette e la mascolinità tossica disinnescata
La comunicazione ancora fatica ad accettare una nuova narrativa del maschile, ma ci sono marchi dedicati prettamente a un target maschile che più che un posizionamento hanno scelto una posizione: quella di dire agli uomini che possono essere diversi. Migliori. E che è necessaria una nuova descrizione di cosa sia un uomo. Gillette quella dei rasoi e degli spot ultra mascolini con super atleti tartarugatissimi che si radevano, quelli de “il meglio di un uomo” – hanno deciso di narrare in modo differente che cosa significa per loro il meglio di uomo. E sono scelte decisamente condivisibili.
Nello spot di lancio della nuova strategia, Gillet narra di uomini che non sono bulli che non hanno paura della loro sensibilità e della loro fragilità. Della loro capacità di dialogare, di comprendere, di confrontarsi civilmente. Perché quello che facciamo oggi sarà visto (e vissuto) dagli uomini di domani. Quindi basta nascondersi dietro alla scusante “sono ragazzate” o “sono maschi”. Gillette ha deciso di narrare un nuovo “Il meglio die un uomo” andando oltre.
Se tanto questo spot aveva fatto discutere – e soprattutto arrabbiare – gli uomini dalla cultura patriarcale – quelli che la sera rientrano nella grotta con la loro brava clava, Gillette è andata ancora oltre, facendo uscire uno spot che parla della prima rasatura di un ragazzo che ha fatto la transizione passando da donna a uomo.
Un video commovente, postato da Samson Bonkeabantu Brown, il protagonista, che mostra come il padre gli stia dando i consigli giusti per la sua prima volta col rasoio.
Epico. Immenso. Fuori ogni misura. Straordinario. Il ragazzo spiega che la sua transazione non riguarda solo se stesso, ma tutte le persone che gli sono attorno e che si è chiesto spesso che tipo di uomo volesse essere. La risposta che si è dato è che desidera essere una persona felice.
Tra le cose bellissime del video c’è il padre che gli dice “non aver paura. Lo stai facendo bene” perché in un certo senso la rasatura è una questione di fiducia in se stessi. È uno spot che emoziona tantissimo:
Questa è stata una presa di posizione storica che ha diviso il pubblico di Gillette.
In gergo si dice che ha polarizzato il target: una decisione importante da parte del brand che preferisce schierarsi in modo aperto e chiaro anziché restare su una descrizione della mascolinità che passa per una visione di virilità maschile vecchio stampo. E pace se non piace ai maschilisti: Gillette ha deciso di fare volentieri a meno di loro. Quelli non sono i veri uomini.
Ci vuole coraggio. E visione.
Voi cosa ne pensate? Il modo che hanno i media di raccontarvi, il modo che ha la società di dire come dovete essere non vi sta ormai stretta? Non trovate che strida anche rispetto al ruolo della donna?
La sostenibilità light e il rischio della vittoria di Pirro
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Adesso che è al centro del dibattito pubblico, di quello politico, delle strategie delle imprese la sostenibilità rischia di diventare un concetto diluito
Caro Davide, anche io ho il mio però. Ho letto con grande interesse il commento che Davide Dal Maso ha riservato al mio pezzo apparso qualche giorno fa sul Corriere, nel quale, per farla breve, invocavo un approccio più radicale al tema della sostenibilità. Nella sostanza e nello spirito condivido quasi tutte le cose che scrive Davide. Dopo aver inutilmente cercato singoli punti del suo commento che non sottoscriverei, ho capito che l’unica cosa che forse ci divide è lo sfondo contro il quale proponiamo le nostre riflessioni. Coloro che negli anni hanno sostenuto una dura battaglia, chi in forma più evangelica, chi in forma più militante, per mettere la sostenibilità al centro del dibattito e forse della coscienza collettiva possono oggi dire di aver quasi vinto la loro partita. Questa secondo me è la notizia degli ultimi mesi, ed è una notizia meravigliosa. Chi c’era può godersi il successo, chi, come me, non c’era, può solo fare i complimenti. Ma proprio qui nasce il problema.
Adesso che la sostenibilità è al centro del dibattito pubblico, di quello politico, delle strategie delle imprese e delle intenzioni dichiarate degli investitori, qual è la giusta direzione del nostro impegno? Qual è l’agenda di chi ci crede veramente? Ecco, io credo che l’agenda sia radicalmente cambiata negli ultimi dodici mesi. Prima le parole erano advocacy, sensibilizzazione, presa di coscienza, inclusione, dimostrazione. Oggi a mio parere sono invece integrità e pregnanza del concetto e delle intenzioni. Non perché a me, che credo profondamente alla sostenibilità dentro il mercato, dia particolarmente fastidio che qualcuno approfitti della sostenibilità per fare dei soldi con green o impact-washing, ma perché se non preserviamo l’integrità della parola e del concetto ne perderemo presto la vera forza trasformativa sulla società e questo non possiamo proprio permettercelo. Presto, qualunque cosa passerà sotto questo cielo verrà aggettivata come responsabile, inclusiva, sostenibile, a impatto. Il risultato sarà diluire il senso delle parole fino a renderle inutili.
A questo punto, l’aver messo la sostenibilità al centro del dibattito si trasformerà da trionfo a vittoria di Pirro e a festeggiare saranno quelli che intravedono nella narrativa della sostenibilità-light una potentissima arma di conservazione dello status-quo. Il mio punto è semplice Davide: nel primo tempo della partita ti avrei dato ragione su tutto, ma adesso siamo all’inizio del secondo tempo e dobbiamo porci delle domande nuove, cosa che peraltro tu sai meglio di me. Ed è per questo che se fino a ieri era giusto essere tolleranti e inclusivi, oggi diventa invece importante essere settari e financo divisivi. Fino a ieri, qualunque sforzo, piccolo o grande, profondo o superficiale, vero o falso, genuino o strumentale, doveva essere accolto nella grande famiglia della sostenibilità e della responsabilità sociale d’impresa, perché l’obiettivo era creare massa, numeri, consenso. Ma adesso che si è innescata inarrestabile, per fortuna, una dinamica di arrembaggio al carro della sostenibilità, mi chiedo se sia ancora giusto essere tolleranti e inclusivi e continuare ad accontentarci di qualunque cosa abbia tracce di verde o di buono. Non è forse meglio essere un po’ analitici e fare dei distinguo, sulla base del fatto che accogliere sul carro non è a costo zero, perché ogni abusivo si porta via un pezzo del potenziale trasformativo? E allora sì, lo confesso, in questa nuova agenda io credo che la Csr di maniera non debba trovare più posto: io credo che il bilancio sociale, quando è solo un esercizio rendicontativo, sia non solo inutile ma anche dannoso e come tale vada trattato.
Un budget di impatto, invece, sarò il primo a celebrarlo, perché credo che il posto giusto dove cercare la responsabilità sociale d’impresa sia il piano industriale e non il bilancio consuntivo. Se non è nel piano industriale è un esercizietto, non trovo parole migliori per giustificare l’uso del diminutivo che tanta irritazione ha creato. Perché tanta foga nel sostenere questo? Che fastidio mi da la sostenibilità-light, marginale e rendicontativa? Provo con un esempio in casa mia. La gran parte delle Università italiane sta per fortuna sostituendo il consumo di bottiglie di plastica con fontanelle e borracce e ovviamente iscrive questo nelle proprie politiche di sostenibilità. Anzi, in qualche caso, identifica in questo, o in iniziative simili, l’intera propria politica per la sostenibilità. Sono scontento della sostituzione? Al contrario, lo trovo sacrosanto. Penso che sia uno sforzo troppo piccolo per essere significativo? Proprio no, anzi, nessuno sforzo è troppo piccolo di fronte a un problema così drammatico. Il problema è che tutto ciò si trasforma in una catastrofe se l’intera nozione di sostenibilità di un Ateneo collassa su questo, se tutte le buone intenzioni trovano soddisfazione nelle fontanelle e non invece in una ristrutturazione dei piani didattici, nell’istituzione di centri di competenza, in un ridisegno della terza missione che tenga conto delle grandi sfide che abbiamo davanti. Questa è la natura della sfida, caro Davide, ed è per questo che mi permetto non di ridicolizzare, ma di provare a dare i nomi giusti alle cose.
Questa è la ragione della mia diffidenza verso la sostenibilità-light, verso la Csr di maniera, verso la finanza sostenibile buona per tutte le stagioni. Mi sembra del tutto evidente che ci sono molte imprese che fanno cose straordinarie con la loro Csr e anzi alcune che hanno reso la Csr quasi indistinguibile dal loro comportamento strategico, ma ve ne sono anche molte altre che invece fanno cose del tutto inutili e opportunistiche. Mi sembra un’eterogeneità del tutto normale in una fase di transizione e francamente in questo senso mi sembrano anacronistiche alcune reazioni un po’ corporative che il mio pezzo ha suscitato, e non mi riferisco qui al commento di Davide. Mi sembrava di averlo espresso chiaramente nel mio pezzo, non ho alcuna difficoltà ad attribuire impatto virtuoso e positivo a qualunque genuino sforzo nella direzione della sostenibilità, anche se non rispetta la triade intenzionalità-misurabilità-addizionalità cui mi rifaccio fin troppo ossessivamente. A due condizioni. La prima è che si diano i nomi giusti alle cose giuste. La seconda è che si tenga ben a mente che la dimensione dei problemi che abbiamo di fronte, non solo ambientali o climatici, è bene ricordarlo, ma anche di diseguaglianza sociale, è tale per cui l’imperativo per tutti è solo uno: difendere la potenza trasformativa dell’idea di un mondo più sostenibile. Mi permetto quindi di suggerire che la strada per fare ciò, per imprese e investitori, sia mettere al centro le soluzioni, non le pratiche. Ma non credo proprio che questo ci sia bisogno di spiegarlo agli amici di Avanzi.