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Diversity@Work, un gioco per dare valore alla diversità

È stato presentato alcuni giorni fa Diversity@Work, un videogame che vuole far riflettere sull’importanza di considerare la diversità un valore e non un problema. Lo ha lanciato una startup italiana Work Wide Women, impegnata in progetti che favoriscono l’inclusione sociale in azienda.
Sul sito di Work Wide Women si legge che la missione della start up è creare un ambiente di lavoro inclusivo per la maggioranza delle persone. Ciò significa impegnarci quotidianamente per dar vita a un mondo in cui le differenze siano premiate, le diversità facciano da collante tra le persone e le opportunità siano poste sullo stesso piano, ugualmente raggiungibili da chiunque voglia coglierle.
Diversity@Work chiede al giocatore di immedesimarsi in situazioni reali e riflettere su come un’azione, spesso guidata da stereotipi, può modificare la produttività. La dimensione dell’Applied Game (videogame educativo) è adatta per astrarre determinate situazioni e riproporle in un ambiente neutro e non giudicante. Vengono così fatte emergere tutte quelle circostanze che, se gestite in modo costruttivo e positivo, rappresentano un arricchimento della persona, come individuo e come membro di un team di lavoro. Non si tratta di un test: l’obiettivo del videogioco è far emergere le dinamiche discriminatorie implicite e favorire l’adozione di comportamenti inclusivi. In Diversity@Work viene garantito l’anonimato di chi gioca per assicurare l’autenticità delle risposte, perciò i valori che vengono forniti all’azienda sono dati aggregati.
Le mini storie presenti nel gioco sono tratte da casi reali: le scelte sono semplificate e funzionano su una logica binaria, che apre a situazioni diverse. Si misura l’impatto dei comportamenti e della comunicazione sul sistema a 4 livelli, dove le metriche ‘Management’, ‘Leadership’, ‘Clima’, ‘Team Skills’ evidenziano come ciascuna risposta modifichi l’ambiente in cui il giocatore agisce in quel momento.
Secondo Work Wide Women aumentando la varietà della popolazione che lavora, aumenteremo la performance delle aziende e la competitività dei contesti lavorativi. Come non essere d’accordo?

Cosa c’è di nuovo

Il videogioco è uno strumento interessante per coinvolgere un numero sempre più ampio di persone.  I macro indicatori utilizzati per le metriche sono rigorosi: derivano infatti da un documento dell’Unione Europea che propone una checklist per l’analisi del diversity management.




FUGA DA FACEBOOK?

CON LA NUOVA PRIVACY ZUCKERBERG PERDE AMICI

Mark Zuckerberg ha sempre meno amici, sia nel mondo—in particolare fra i politici—sia nella Silicon Valley, così come dentro la sua stessa azienda. Anche a Wall Street ha perso seguaci: le azioni di Facebook sono le uniche del cosiddetto gruppo Faang a essersi svalutate negli ultimi dodici mesi, con una perdita del 2%, contro i guadagni del 10-20% di Apple, Amazon, Netflix e Google (Alphabet). Un segno delle difficoltà in cui versa il social network, a quindici anni dalla nascita e a sette dal debuttoin Borsa, è anche la fuga di un numero consistente di suoi dirigenti.
L’ultimo a dimettersi, dieci giorni fa, è stato Chris Cox, 36 anni, amico intimo di Zuckerberg e uno dei primi quindici ingegneri di software assunti da Facebook. Era il numero tre, dopo il fondatore e dopo la responsabile operativa Sheryl Sandberg, e per questo era considerato un possibile successore alla guida della società. Fra l’altro era stato lo sviluppatore del servizio di news feed e da dieci mesi si occupava di tutte e tre le piattaforme del gruppo: Facebook, Instagram e WhatsApp.
Con lui se n’è andato anche Chris Daniels, il capo della divisione WhatsApp. A spingere Cox ad andarsene — come lui stesso ha spiegato—è stata la svolta annunciata da Zuckerberg:  dall’enfasi sul condividere tutto nella «pubblica piazza» digitale all’attenzione per gli scambi privati fra amici nel proprio «salotto digitale». Tecnicamente, significa la possibilità di scambiare messaggi criptati e di renderli effimeri, cioè farli scomparire dopo un certo tempo.
Il cambio di rotta incontra le richieste degli utenti, ha dichiarato Zuckerberg, ma sta creando subbuglio fra le file dei suoi collaboratori, perché lanuova filosofia non sembra essere ancora accompagnata da un modello di business sostenibile.

Fronti diversi

Finora il 98% del fatturato di Facebook è derivato dalla pubblicità e oggi non è ancora chiaro come i messaggi criptati possano generare nuovi introiti. D’altra parte Zuckerberg deve  trovare nuovi modi per crescere, visto che il suo network (2,3 miliardi di utenti) sta raggiungendo la saturazione in parecchi mercati e in alcuni sta addirittura perdendo iscritti.
Negli Stati uniti, dove Facebook è nata, la base si sta stringendo, soprattutto nella fascia di età fra i 12 e i 34 anni, cioè fra i teenager e i Millennial che una volta erano i suoi più fedeli fan: secondo la società di ricerche Edison, 15 milioni di americani hanno lasciato il socialnetwork dal 2017 a oggi.
Non conta solo la percezione per cui non sarebbe più di moda condividere tutto sulla pubblica piazza digitale. Pesa molto il calo di fiducia in Facebook. Esattamente un anno fa scoppiò lo scandalo di Cambridge Analytica, la società che ha sfruttato i dati di 50 milioni di utenti americani per la campagna elettorale di Donald Trump. Da allora è partito il movimento #DeleteFacebook (cancella Facebook), a cui hanno aderito celebrity come la cantante Cher, l’imprenditore Elon Musk (Tesla) e anche Brian Acton, co-fondatore di WhatsApp, la piattaforma di messaggi comprata da Facebook nel 2014 per 19 miliardi di dollari. Acton aveva già smesso di lavorare per Facebook nel settembre 2017, quando si è trovato in dissenso con Zuckerberg circa i modi di «monetizzare» WhatsApp.
Come lui, anche l’altro co-fondatore di WhatsApp, Jan Koum, se ne è andato nell’aprile 2018. Poi è stata la volta dei due fondatori di Instagram (comprata da Facebook sei anni fa) Kevin Systrom e Mike Krieger, in disaccordo con Zuckerberg sui cambiamenti da apportare alla piattaforma, che in precedenza aveva invece goduto di una considerevole autonomia.
C’è però chi applaude alla svolta di Zuckerberg: come il venture capitalist Ben Horowitz, che in una serie di tweet ha sottolineato la complessità della mossa di Mark. Sia perché è un forte cambiamento culturale per una piattaforma diventata famosa in quanto social e pubblica; sia perché il criptaggio rende impossibile monitorare i contenuti dei messaggi. Il che permetterebbe a Facebook di non assumersi responsabilità sui contenuti, e quindi di non impegnarsi per prevenire fake news o haters.
Eppure, il tema è attualissimo, dopo la strage perpetrata in Nuova Zelanda, trasmessa in diretta con il live streaming e subito rilanciata da altri utenti, ben prima che gli addetti alla sicurezza del social network se ne accorgessero.
«Amatelo o odiatelo, ma Mark Zuckerberg ha dimostrato due importanti cose andando nella nuova direzione — ha scritto Horowitz —: ha il coraggio di fare ciò che crede sia giusto anche contro un dissenso molto forte, e questa è una qualità cruciale per un leader. Ed è davvero impegnato a garantire la privacy dei suoi utenti». Il nuovo servizio di messaggi criptati comunque non sarà operativo prima dell’anno prossimo.
Intanto Zuckerberg deve far fronte a numerosi attacchi: la pubblica accusa di New York ha avviato un’indagine sugli accordi con cui Facebook avrebbe concesso ad altre società l’accesso ai dati dei suoi utenti senza il loro consenso, mentre un rapporto del governo britannico ha accusato il social network di ostacolare le scelte dei consumatori e soffocare l’innovazione, e ha chiesto una sua forte regolamentazione. Infine, la candidata alla presidenza Elizabeth Warren vuole «spezzettare» le piattaforme, costringendo Zuckerberg a rivendere WhatsApp e Instagram. Facebook insomma appare oggi come Microsoft vent’anni fa: un «monopolista cattivo», ha osservato la veterana analista della Silicon Valley Kara Swisher. L’unica consolazione, per Zuckerberg, è che Microsoft è sopravvissuta, riuscendo a riconquistare la fiducia del pubblico. Ma ha dovuto cambiare leader.




Cassandra Crossing/ Il quarto Cavaliere

Nell’anniversario di Fukushima, alcuni media descrivono correttamente l’apocalisse… o quasi.

Cassandra sulle questioni del nucleare non rappresenta un caso tipico; deve scontare una laurea in ingegneria nucleare e l’aver lavorato nella (ormai scomparsa, anzi assassinata) industria nucleare italiana.

A suo tempo non ha quindi potuto fare a meno di seguire con estrema attenzione notizie, commenti e documenti sul disastro del sito nucleare Dai-ichi TEPCO a Fukushima; su Wikipedia italiana si trova un discreto riassunto ufficiale degli eventi e delle principali questioni tecniche sottostanti. Googlando in inglese si trova moltissimo materiale, anche originale, molto più tecnico e spesso più completo.
Pochi giorni or sono, Cassandra ha avuto il tardivo piacere di leggere, in occasione dell’anniversario del disastro, diversi articoli commemorativi non tecnici come questo che iniziava: “L’11 marzo del 2011, la costa settentrionale del Giappone fu colpita da un sisma di magnitudo 9, che generò il violentissimo tsunami e l’incidente alla centrale nucleare di Dai-ichi di Fukushima”.
Cassandra è rimasta positivamente colpita dalla sintesi di questo incipit, molto più chiaro e corretto di tanti altri, che solo dell’incidente fanno menzione; tanto colpita da farle sentire la necessità di esternare una correzione, anzi un completamento di questa descrizione.
Fukushima è stata un’apocalisse in più fasi, ma come nell’Apocalisse di Giovanni, i Cavalieri sono quattro e non tre.
Terremoto e maremoto sono stati i primi due cavalieri. Il terzo non è stato un generico incidente nucleare, ma il gravissimo danneggiamento di un grande impianto nucleare, tanto solido quanto vecchio, progettato e costruito da 60 a 40 anni or sono, danneggiamento che tuttavia da solo non sarebbe bastato a scatenare l’apocalisse.
Per scatenarla è stato necessario l’intervento di un quarto Cavaliere, quello che Giovanni chiama Morte, in questo caso rappresentato dall’incapacità gestionale e dall’attaccamento ai soldi dimostrata in più occasioni dai gestori dell’impianto di Dai-ichi.

Una pillola di tecnica è necessaria prima di andare avanti. Il combustibile di un reattore nucleare appena spento continua a produrre circa un centesimo della sua potenza massima emettendo calore, produzione che decresce gradualmente in un periodo di diverse settimane.

E’ un calore di origine non chimica ma nucleare, e perciò inestinguibile e inarrestabile, che non richiede ossigeno o altri comburenti, che non può essere fermato. Può far raggiungere al combustibile temperature illimitate, anche fino alla sua vaporizzazione e oltre.
L’unica possibilità di limitare la temperatura del combustibile, molto semplice in verità, è raffreddarlo; il raffreddamento deve essere sempre garantito, e tutta la progettazione dei reattori nucleari è fatta avendo ben chiaro questo problema.
Durante il terremoto, i sistemi automatici hanno spento senza danni i reattori in quel momento attivi (3 su 6), e le pompe di raffreddamento hanno cominciato a funzionare regolarmente. Ma il terremoto aveva interrotto la produzione di energia elettrica, quindi partirono i generatori diesel di emergenza, che continuarono a far funzionare le pompe di raffreddamento.
Poi è arrivato il maremoto, più alto di tutti quelli registrati negli ultimi tre secoli, che superata la diga posta a protezione dei generatori diesel, li ha spazzati via. Le pompe si sono fermate e la temperatura del combustibile dei reattori, sia funzionanti che spenti, ha cominciato ad aumentare.
In questo stato, lo ricorderete, è passato più di un giorno, poi gli edifici dei reattori hanno cominciato a esplodere a uno a uno, a causa dell’idrogeno sprigionato dal contatto tra acqua e combustibile fuso.
Anche se sembra strano dirlo così, perché il combustibile per fondere ci ha messo così tanto? Senza raffreddamento doveva succedere in un tempo molto minore.
La ricostruzione di quanto fatto in quelle ore è piuttosto confusa, e su parecchie cose ci sono versioni contraddittorie. Gli scambi di posta elettronica, vedi caso, sono stati dichiarati ufficialmente persi, e nei processi svolti in Giappone sostanzialmente non è stato condannato nessuno. Su molte cose avvenute nelle prime 48 ore si può essere sicuri solo di quanto verificabile a posteriori.
Esistono comunque molti “pare” e “si dice” assai condivisi dalla comunità tecnica. Pare che durante i primi tentativi di ripristino del raffreddamento, siano stati installati con successo dei generatori diesel trasportabili, ma che successivamente nessuno abbia rifornito i loro serbatoi di gasolio, provocandone l’arresto.

Pare anche che Tepco, il gestore dell’impianto, nei primi due giorni del disastro sia stata sostanzialmente muta verso l’esterno.

Si dice che, alla faccia dell’aplomb e del rispetto delle gerarchie tipico dei giapponesi, il secondo giorno l’allora premier giapponese Naoto Kan abbia fatto irruzione nella sala del CDA di Tepco urlando: “Ditemi cosa sta succedendo”. Decisamente irrituale, soprattutto in Giappone, ma una buon misura non solo del livello di confusione del momento, ma anche delle cose inconfessabili e degli scaricabarile in corso.
E’ certo e documentato invece che Tepco aveva ordinato di non usare l’acqua di mare per raffreddare i reattori, perché questo li avrebbe sì raffreddati, ma anche resi irrecuperabili; tra l’altro quest’ordine venne emanato quando probabilmente già i noccioli di 3 reattori si erano fusi, rendendo i reattori non solo irrecuperabili ma estremamente pericolosi.
La domanda di fondo è: quanto tempo ci è voluto perché le azioni di Tepco non fossero più dettate dalla gestione economica di una società, ma fossero tese a comprendere e gestire a qualunque costo un pericolo di portata mondiale?
Solo l’insubordinazione del direttore della centrale Masao Yoshida rese possibile l’uso dell’acqua di mare (l’unica disponibile in quantità) per raffreddare tutti i reattori (anche il 4, 5 e 6 e le vasche di raffreddamento del combustibile esausto), probabilmente riducendo le conseguenze della catastrofe, ed evitando un possibile incidente di criticità in una delle vasche.
Tra situazioni nascoste, ordini contraddittori e catene di comando incapaci di gestire una vera emergenza, anche perché semi-paralizzate da interessi economici ed eccesso di disciplina e di gerarchia, il risultato finale è stato che nessuna procedura funzionale è stata messa in atto, e uno dopo l’altro i reattori 1, 2 e 3 si sono autodistrutti.
E’ stato il Quarto Cavaliere, creato da procedure aziendali, interessi economici e burocrazia, che ha completato il disastro.
Per concludere, anche in Giappone la giustizia non ha chiarito le cose. Dai processi, ormai conclusi, non è venuta fuori nessuna condanna, e le responsabilità sono rimaste, come spesso accade, orfane.
Eppure, con poche risorse e senza bisogno del senno di poi, molto si sarebbe potuto fare, prima e dopo il maremoto, per ridurre il più grave incidente nucleare della storia alla semplice perdita di una grande centrale elettrica.




AzraMed

L’ospite di questa settimana del mio blog è Andrea Pari di ArzaMed, una startup che opera in un settore particolare.
Ciao Andrea e benvenuto sul mio blog. Ci racconti come nasce ArzaMed e qual è l’ambito nel quale operate?
ArzaMed nasce per rispondere ad un’esigenza reale: l’accesso multidisciplinare ai dati clinici dei pazienti anche in mobilità. Nel 2010 un’associazione di alta formazione medica ha evidenziato la necessità di un software adatto alla conservazione e consultazione delle cartelle cliniche, in versione elettronica, dei pazienti. Ovviamente parlare di cloud dieci anni fa non era così scontato, ma grazie a questa prima sfida, io ed il mio team abbiamo presentato il primo prototipo di software dal nome Auxilia. Dalla progettazione del prototipo ad oggi sono passati 8 anni, e a luglio 2018 è nata ArzaMed, start up riminese e applicazione medica cloud che risponde alle più comuni esigenze del settore sanitario privato. Il nostro obiettivo è quello di rendere migliori le esperienze tra strutture mediche e pazienti attraverso l’utilizzo della tecnologia.
Quali sono gli aspetti più innovativi che caratterizzano la vostra proposta? 
L’innovazione continua è uno degli aspetti che caratterizza la nostra applicazione medica web, che fa tesoro dell’esperienza di medici e pazienti che quotidianamente la utilizzano, per migliorare e soddisfare necessità comuni alle diverse realtà.
Il software accompagna lo specialista nella sua giornata lavorativa consentendogli di gestire gli aspetti clinici, relazionali e amministrativi da un unico strumento in qualsiasi luogo esso sia.
Funzioni come il calendario e l’agenda digitale consentono di gestire appuntamenti e organizzare diverse attività tenendo conto di fattori quali: disponibilità di medici e dottori, sedi e ambulatori. Per ogni paziente vi è uno storico registrato delle attività con scheda anagrafica, cartella clinica, archivio referti e fatturazione. La cartella clinica può essere costruita in base alla specializzazione del medico o dottore, permettendo di archiviare ed elaborare in modo sempre più efficace le informazioni cliniche, utilizzando anche immagini anatomiche mappabili. Inoltre, potendo essere multidisciplinare, può essere condivisa da uno o più medici che, accedendo contemporaneamente per reperire informazioni del paziente, anche in mobilità, possono stabilire diagnosi più precise e percorsi di cura più efficaci.
Anche il paziente ottiene benefici da questa organizzazione del lavoro, grazie a diagnosi più accurate, riduzione dei tempi di attesa e al sistema di notifiche per appuntamenti e farmaci. ArzaMed contribuisce a migliorare l’esperienza dottore-paziente quotidianamente in modo semplice e sicuro.
Come nasce il rapporto con Primo Miglio?
Il rapporto nasce principalmente dall’amicizia che mi lega al coordinatore del progetto Andrea Zanzini. Successivamente lo staff di Primo Miglio ci ha accompagnato nel percorso di costituzione della società e nel superamento di alcune problematiche burocratiche, talvolta incomprensibili, che le start up, e non solo, spesso “subiscono” in Italia. Anche la scelta del nostro consulente fiscale nasce dalla collaborazione con Primo Miglio.
Quali sono i programmi per il futuro?
I programmi per il futuro sono numerosi ed in continua evoluzione, ma a differenza di molte startup, possiamo già contare sui feedback dei nostri clienti. Attualmente ArzaMed è quotidianamente utilizzata da oltre 800 operatori sanitari, tra dottori, medici e personale amministrativo; siamo presenti in 18 regioni italiane ed in un paese estero. Abbiamo due progetti di ricerca in corso: uno con la Clinica Mobile del Dr. Zasa, che segue i piloti di motociclismo in tutto il mondo ed uno con Advanced Algology Research, realtà all’avanguardia nel campo della medicina del dolore e terapie antalgiche.
Contiamo di ottimizzare l’esperienza dell’utente, aumentando le performance di alcune funzionalità cliniche e organizzative, sviluppare l’interfaccia paziente per agevolare lo scambio di informazioni con il medico e potenziare il network di referenti scientifici per sviluppare funzionalità sempre più adeguate alle procedure sanitarie di ogni singola specializzazione. Stiamo inoltre pianificando l’ingresso di investitori che possano contribuire ad accelerare ulteriormente il nostro percorso di crescita ed internazionalizzazione.




“NATION BRANDING”: COSTRUIRE IL MADE IN ITALY CON LA DIPLOMAZIA DELLA CULTURA

“NATION BRANDING”: COSTRUIRE IL MADE IN ITALY CON LA DIPLOMAZIA DELLA CULTURA

“Non è né la voglia di ‘mettersi in mostra’; è – molto più semplicemente – la passione per questo lavoro, e il gusto per le cose ben fatte”.
Le parole le ha pronunciate – a bassa voce, come tipico dei Diplomatici di razza – l’Ambasciatore d’Italia a Tunisi Lorenzo Fanara, parlando confidenzialmente con un paio di ospiti dell’esclusiva e affollatissima serata organizzata in Residenza per celebrare la prima tappa del tour dei giovani cantanti del Festival di Sanremo, autorevolmente accompagnati dall’altrettanto giovane Mahmood, che con il suo originale pezzo “Soldi” – memoria insieme graffiante e malinconica di un’infanzia caratterizzata da un padre tanto amato quanto assente – ha vinto meno di due mesi fa il Festival della canzone italiana, mettendo d’accordo, cosa assai rara, giornalisti, critica e pubblico.
Il Capo missione ha speso quelle parole quasi “giustificandosi” con chi gli chiedeva conto, incuriosito, del fittissimo calendario di attività dell’Ambasciata e del collegato Istituto Italiano di Cultura, coordinato dall’infaticabile Direttrice Maria Vittoria Longhi: reduci dal successo della Giornata del Design italiano, e a 2 settimane di distanza dall’imminente serata “top” della rassegna Jazz in Chartage, con il concerto dell’etoile Mario Biondi, e con all’attivo quasi ogni settimana un incontro, un talk, un evento, una mostra, un’inaugurazione, una cena di gala; un’attività, quella di Fanara, capace di coinvolgere la creme dei decisori Tunisini, e resa possibile anche dal convinto sostegno della Farnesina a Roma, che è sempre ben disponibile a lasciar spazio a chi – anche prendendosi dei rischi, come sempre è per chi tra il “fare” e il “non fare” sceglie d’istinto la prima opzione – decide di contribuire concretamente alla proiezione internazionale del brand reputato dagli addetti ai lavori come il più prezioso al mondo, più di Apple, di Amazon, di Coca Cola: il “Made in Italy”.
La chiave di lettura dell’intensa attività della missione a Tunisi, come anche di varie altre “eccellenze” della nostra rete diplomatica, come la sede di Parigi, magistralmente diretta dall’Ambasciatrice Teresa Castaldo, o quella di Tel Aviv, saldamente retta dall’Ambasciatore Gianluigi Benedetti, è ben illustrata da una parola chiave più volte ripetuta da Fanara nel breve ma appassionato discorso di benvenuto tenuto a braccio – affianco alla moglie Sophie, donna di straordinaria classe e intelligenza – durante la serata dedicata al Festival di Sanremo: “emozione”.
Se è vero che parole come “autenticità”, “spontaneità”, “calore” e “immediatezza” dovrebbero costituire l’agenda di ogni buon comunicatore del XXI secolo, è innegabile il gap tutt’oggi esistente tra la sensibilità consolidata da molte medie e grandi aziende italiane – ben consapevoli dell’importanza delle emozioni nella costruzione della reputazione del brand – e la Pubblica Amministrazione, ancora oggi purtroppo vittima, spesso, dell’agio garantito dalla propria solida zona di confort.
Il nostro Ministero degli Esteri, rodata “macchina da guerra” al servizio del sistema Paese, purtroppo penalizzata dalla sistematica riduzione dei budget che anno dopo anno in parte mortifica la possibilità di penetrazione all’estero di una classe diplomatica tra le più apprezzate al mondo, è tra i pochi settori dello Stato che pare aver intuito l’importanza strategica della cultura – musica inclusa, come ben dimostra la serata di Tunisi – per la promozione della nostra immagine nel mondo.
La sfida è forse allora quella di comprendere in quale modo andare garbatamente ma fermamente in disaccordo con chi si ostina a “zavorrare” un mondo che – complice anche il web e le tecnologie digitali – continua invece a muoversi, che ci piaccia o no, sempre più velocemente, e che vede appunto nella “diplomazia della cultura” uno dei driver potenzialmente più efficaci per la valorizzazione del più importante (e a volte bistrattato) “asset immateriale” del nostro straordinario Paese: la reputazione.
 

Aggiornamento alla tarda serata di domenica 31/03/2019: un giorno dopo l’evento in Residenza, strepitoso successo al Pavillon des Baies de Gammarth, in una Salle Versailles gremita di persone, per un concerto di quasi 2 ore, intensissimo e molto partecipato dal pubblico; un ulteriore conferma dell’eccellente capacità organizzativa della nostra rete Diplomatica (sotto alcune foto)