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Le navi da crociera inquinano venti volte più delle auto

Le navi da crociera inquinano venti volte più delle auto
Nel 2017 le 203 imbarcazioni di lusso che hanno solcato i mari europei hanno emesso 62mila tonnellate di ossidi di zolfo e 155mila tonnellate di ossidi di azoto. Barcellona maglia nera e Venezia si piazza al terzo posto tra le città portuali più inquinate. Il report di “Transport & Environment”


Nel 2017 le 47 navi da crociera della flotta di Carnival Corporation -compagnia anglo-americana che in Italia opera con Costa Crociere, prima a livello mondiale nel settore- ha emesso quasi dieci volte più ossido di zolfo (SOx) rispetto a tutto il parco macchine europeo (260 milioni di veicoli). Seguono le navi della Royal Caribbean Cruises, secondo più grande operatore al mondo, le cui emissioni sono pari a quattro volte quelle del parco auto europeo. È quanto rivela il report “One corporation to pollute them all. Luxury cruise air emissions in Europe” pubblicato dall’ong “Transport & Environment”.
Lo studio ha analizzato gli spostamenti nel corso del 2017 di 203 navi da crociera lungo le coste dei Paesi europei (comprese Norvegia, Islanda, Albania, Montenegro, Groenlandia e Far Oer) , stimando un’emissione complessiva pari a 62mila tonnellate di ossidi di zolfo (venti volte superiore a quella emessa da 260milioni di automobili circolanti in Europa) 155mila tonnellate di ossidi di azoto (NOx), 10mila tonnellate di polveri sottili e più di 10 tonnellate di CO2.
Il bacino del Mediterraneo, e in modo particolare Spagna e Italia, è l’area più interessata dai fumi inquinanti delle navi da crociera. Il triste primato va a Barcellona dove nel 2017 sono attraccate 105 navi per un totale di 8,293 ore stazionate in banchina e 32,8 tonnellate di ossidi di zolfo emessi in atmosfera. Segue Palma di Maiorca con 87 navi che hanno emesso 28 tonnellate di ossidi di zolfo.
Tra le cinquanta città più inquinate, dieci sono italiane. Venezia si piazza al terzo posto, preceduta da Barcellona e Palma di Maiorca: nella città lagunare, nel corso del 2017, 68 navi da crociera hanno stazionato per poco meno di 8mila ore, liberando in atmosfera 27,5 tonnellate di Sox. Seguono lo scalo di Civitavecchia al quarto posto (76 navi, per un totale di 5.466 ore durante le quali sono state emesse 660mila chilogrammi di Sox), Napoli e Genova (rispettivamente al dodicesimo e tredicesimo posto), La Spezia e Savona, Cagliari, Palermo, Messina e Bari.

La quantità di SOx emessa nel 2017 dalle navi della compagnia “Carnival” a confronto con quella delle auto di tutta Europa © Transport Environment

L’inquinamento nelle città deriva in larga parte dallo stazionamento delle navi da crociera ormeggiate ai moli: lunghe ore durante le quali queste città galleggianti devono tenere accesi i motori per far funzionare i servizi di bordo. “Nelle grandi città come Barcellona, Marsiglia e Amburgo nel corso del 2017 le navi da crociera hanno emesso quantità di ossidi di zolfo (Sox) da due a cinque volte maggiori rispetto all’intera flotta di autovetture di queste stesse città”, si legge nel rapporto. Le circa 560mila auto registrate a Barcellona, ad esempio, hanno emesso nel 2017 circa 6,8 tonnellate di Sox, a fronte delle 32,8 tonnellate emesse da 105 navi da crociera che hanno attraccato nel porto cittadino nello stesso periodo. Il rapporto è ancora più stridente se si guarda alla situazione di piccole isole, come Palma di Maiorca (dove le emissioni delle grandi navi sono quasi dieci volte superiore a quelli delle auto) o a Venezia, dove poco più di 110mila auto hanno emesso 1,3 tonnellate di Sox a fronte delle 27,5 tonnellate emesse dalle navi da crociera.

I porti europei più inquinati dalle grandi navi e il rapporto con le emissioni inquinanti delle auto © Transport & Environment

La situazione è altrettanto preoccupante per quanto riguarda l’ossido di azoto (NOx): “L’analisi dimostra che le principali destinazioni europee delle navi da crociera sono esposte a quantità di NOx emesse dalle grandi navi equivalenti a una quota considerevole dell’intero parco auto”, si legge nel report. Ad esempio, le 57 navi da crociera che hanno fatto scalo a Marsiglia nel 2017 hanno emesso una quantità di NOxpari a circa un quarto delle 340mila autovetture della città. “Nelle città portuali più piccole, come Civitavecchia o Venezia, le navi da crociera emettono più NOx del totale della flotta locale di autovetture”, sottolinea il report.
Quello del trasporto marittimo, sottolinea il rapporto, è uno dei settori in cui le normative in materia di inquinamento atmosferico sono meno stringenti. “Transport Environment” sottolinea come il miglior carburante utilizzato dalle navi da crociera ha una concentrazione di zolfo dello 0,1%. A confronto, il carburante utilizzato nelle automobili in Europa negli ultimi 15 anni ha una concentrazione di zolfo pari allo 0,001%. “Le navi da crociera sono città galleggianti, alimentate dal carburante più inquinante che esista. Le città stanno giustamente mettendo al bando le auto alimentate a diesel, ma al tempo stesso danno luce verde alle compagnie di navigazione che sprigionano fumi tossici, danneggiando sia coloro che si trovano a bordo, sia le coste vicine. Questo è inaccettabile”, sottolinea Faig Abbasov, shipping policy manager di “Transport & Environment”.
Di fronte a questa situazione, l’associazione chiede all’Europa di attuare quanto prima una norma portuale a emissioni zero (da estendere poi ad altri tipi di navi) e raccomanda di estendere le zone di controllo delle emissioni (ECA) attualmente esistenti solo nel Mare del Nord , nel Mar Baltico e nel Canale della Manica al resto dei mari europei.
Già oggi le soluzioni disponibili per ridurre le emissioni non mancano. “L’elettricità da terra piò aiutare a ridurre le emissioni delle navi ferme in porto, le batterie sono una soluzione per le distanze più brevi e la tecnologia dell’idrogeno può alimentare anche le più grandi navi da crociera -conclude Faig Abbasov -. Il settore crocieristico non è apparentemente disposto a fare il passaggio volontariamente, quindi abbiamo bisogno che i governi intervengano e impongano standard di emissioni zero”.




Incidente. Venezia, polemiche dopo lo scontro tra una nave da crociera e un battello

Incidente. Venezia, polemiche dopo lo scontro tra una nave da crociera e un battello
4 feriti nell’incidente nel canale della Giudecca. È scontro politico, Toninelli: entro giugno una soluzione. Zaia: non si può più attendere. E intanto sabato la protesta del comitato No grandi navi


Collisione a Venezia tra una nave da crociera della Msc e un battello da turismo nel canale della Giudeccaquattro turiste straniere tra i 67 e i 72 anni sono rimaste ferite, nessuna in modo grave, ma gli attimi di terrore vissuti sulle due imbarcazioni e sulla banchina hanno riacceso le polemiche sul transito delle grandi navi nella laguna veneziana.
La Msc Opera è andata a sbattere contro la banchina a San Basilio-Zattere e ha speronato così il battello fluviale “River countess” che vi era ormeggiato. La nave da crociera ha riportato lievi scalfiture allo scafo mentre nel battello si è aperta una piccola falla all’altezza della linea di galleggiamento, ma non ci sono verificati sversamenti di idrocarburi.
Tra le ipotesi delle cause dell’incidente un’avaria o la rottura del cavo d’acciaio utilizzato da uno dei rimorchiatori della Msc: la nave, a quel punto ingovernabile, sarebbe stata trascinata dall’abbrivio contro la banchina. I feriti sono uno a bordo della Opera, gli altri a bordo del natante più piccolo.
La Msc Crociere ha assicurato “massima collaborazione”. E mentre infuriano le polemiche, il governo ha promesso che entro la fine di giugno si dovrebbe trovare una soluzione per allontanare le grandi navi dalla Giudecca e San Marco. “Sulle grandi navi a Venezia il tavolo istituzionale è da tempo in corso”, sottolineano fonti del ministero delle Infrastrutture, “i ministri interessati si vedranno a breve scadenza per tirare le somme sulle opzioni progettuali individuate, allo scopo di trovare la soluzione definitiva migliore, che arriverà presumibilmente entro il mese di giugno, per allontanare le grandi navi da crociera dalla Giudecca e da San Marco”.
L’incidente di domenica ha spinto il ministro dei Trasporti ad assumere una posizione sulla questione delle grandi navi in laguna: entro giugno saranno bandite, ha assicurato Toninelli. “Siamo per la chiusura”, ha precisato rassicurando chi chiede il divieto di attracco per le grandi navi in centro città, “ma prima, per non perdere le crociere a Venezia, bisogna trovare l’alternativa, anzi le alternative, quella definitiva e quella provvisoria. Come ho detto, dopo anni di stasi, siamo prossimi a una soluzione finalmente capace di tenere assieme tutti gli interessi in campo”. Spiega infine che “entro fine giugno verrà scelto il progetto. Nel frattempo stiamo già lavorando per la soluzione provvisoria e ci vorrà qualche mese per metterla in campo”, “si tratta di procedure costose e complesse, che richiedono un po’ di tempo”.
Ma il presidente della Regione Veneto Luca Zaia attacca: per allontanare le grandi navi dal centro “giace da anni un progetto di Regione e Comune, il ministro dell’infrastrutture decida qualcosa; non si può più attendere“. L’evento “avrebbe potuto risolversi in una tragedia”, aveva sottolineato già domenica dopo lo scontro avvenuto nel canale della Giudecca il governatore veneto, “gli incidenti sono assolutamente possibili nella marina mercantile ma devono avvenir fuori da contesi storici e abitati senza mettere repentaglio vite umane e in condizioni generali di sicurezza”.

Intanto il comitato “No grandi navi,” che da anni lotta contro il passaggio delle navi da crociera a un passo dalla città, non si fida delle promesse e convoca per sabato prossimo una manifestazione di protesta.
Nel frattempo la Procura di Venezia ha aperto un fascicolo a carico di ignoti sull’incidente navale nel canale della Giudecca, e valuta se procedere per il reato 1231 del codice di navigazione, inosservanza delle norme sulla sicurezza. Lo ha detto il Procuratore Bruno Cherchi. Nei prossimi giorni verrà disposta la consulenza tecnica, e se vi saranno atti irripetibili, com’è probabile, vi saranno iscrizioni di indagati. Sono finiti sotto sequestro i sistemi di movimento (motorini, timone, scatola nera), ma non la nave stessa.




E Facebook chiama gli odiati gemelli Winklevoss per la sua criptovaluta

E Facebook chiama gli odiati gemelli Winklevoss per la sua criptovaluta

Chi conosce le origini di Facebook, lo sa. I gemelli Winklevoss sono stati a lungo, per Mark Zuckerberg, quello che per Superman era Lex Luthor, per Batman Joker, per la Sirenetta Ursula. Il nemico. Perché i due fratelli sono diventati famosi soprattutto per aver fatto causa al fondatore del social network accusandolo di aver rubato loro l’idea di Facebook durante gli anni dell’università ad Harvard. E così furono raccontati anche nel film «The Social network» di David Fincher (2010).
Eppure ora i gemelli potrebbero entrare in affari proprio con l’ex amico di università. Da tempo infatti si parla della moneta di Facebook: si chiamerà Global Coin e il lancio è previsto entro il 2020. Ma il progetto di Zuckerberg di creare una criptovaluta per i circa due miliardi e mezzo di utenti delle sue tre piattaforme (Facebook, Whatsapp e Instagram) pare che abbia subito ultimamente un‘accelerazione definitiva.

Una settimana fa l’agenzia Reuters ha annunciato che il 2 maggio Facebook ha registrato a Ginevra, in Svizzera, la nascita di una nuova azienda, una startup, chiamata Libra, il nome in codice del progetto criptovaluta. Oggi la BBC ha rivelato che ad aprile Mark Zuckerberg aveva incontrato – su questo argomento – il governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, dopo aver portato a casa i consigli del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti. Qualche giorno dopo, il 30 aprile, tornato in California, Zuckerberg ha inaugurato la tradizionale due giorni dedicata agli sviluppatori di Facebook, F8, con un discorso in cui, dopo aver fatto il punto sul test in corso in India sui pagamenti via Whatsapp, ha detto che in questo settore c’è la possibilità di cambiare e semplificare molto le cose: «Scambiarsi dei soldi», sono state le sue parole, «dovrebbe essere facile come mandarsi una foto con il telefonino».

L’idea, secondo quanto hanno riferito persone che lavorano nel team Libra, non è solo creare un sistema di pagamenti per fare acquisti sui social network, ma ovunque, e aperto a tutti, anche a chi non ha un conto corrente bancario. Per questo Zuckerberg sta stringendo partnership con istituzioni bancarie tradizionali come la Western Union e con quelle dedite allo scambio di cripovalute come Coinbase e Gemini, la startup fondata proprio dai gemelli Winklevoss che accusarono Zuckerberg di aver rubato loro l’idea stessa di Facebook e furono liquidati con 65 milioni di dollari. La GlobalCoin infatti poggerebbe sulla blockchain, una tecnologia inventata più di dieci anni fa e utilizzata soprattutto per lo sviluppo di criptovalute come il bitcoin, che però non hanno davvero preso piede anche perché il loro valore cambia troppo bruscamente per farne uno strumento affidabile. La Global Coin invece sarà ancorata al dollaro e sulla carta potrebbe davvero diventare la moneta più diffusa a livello globale. Secondo il Financial Times, un annuncio ufficiale è imminente.



Perché i banner che inseguono gli utenti sul web sono sopravvalutati

Perché i banner che inseguono gli utenti sul web sono sopravvalutati

Uno studio accademico riscrive anni di convinzioni sui cookies

L’efficacia della pubblicità online che insegue l’utente da un sito web all’altro potrebbe essere “fortemente esagerata”. Uno nuovo studio accademico riscrive anni di convinzioni sui vantaggi della tecnica che permette di proporre all’attenzione del consumatore un banner personalizzato dopo una visita web, grazie ai cookies, i file che permettono ai siti web di identificare un utente e ricordare le sue preferenze.
La ricerca pubblicata da tre accademici dell’università della Minnesota, della California Irvine e della Carnegie Mellon (tra di loro ci sono due italiani: Veronica Marotta e Alessandro Acquisti), ha studiato milioni di banner, inserzioni pubblicitarie e i relativi incassi di una grande azienda media (che non viene specificata) per comprendere il comportamento degli utenti. L’analisi dei dati ha permesso di stimare che quando i cookies sono utilizzati, l’aumento dei ricavi per l’editore è solo del 4%, ovvero di 0,00008 dollari per banner.
Ogni numero va considerato nel contesto: quel 4% è tanto o poco? Se lo confrontiamo con il fatto che molto spesso la pubblicità per gli utenti profilati viene venduta con un sovrapprezzo molto significativo rispetto alla pubblicità per gli utenti anonimi, quel 4% sembra un numero incredibilmente basso. Nel paper i ricercatori ricordano per esempio che la pubblicità anonima può costare il 2% dello stesso spazio con i cookies.
Non è difficile immaginare che dunque la gran parte dei ricavi aggiuntivi che gli inserzionisti sono disposti a pagare vada ai grandi intermediari come Google, Facebook e Amazon (in crescita nel settore) ma anche a decine di player meno noti. Lo studio non pretende di giungere a conclusioni definitive, ma contribuisce ad accendere il dibattito sulla trasparenza del mercato pubblicitario digitale e sul ruolo delle piattaforme, al centro anche di indagini sulla concorrenza in Europa e negli Stati Uniti.
Una conseguenza indiretta di questa nuova scoperta riguarda la corsa all’oligopolio del mercato: gli utenti premiano le inserzioni personalizzate quando fanno una ricerca su Google e quelle personalizzate che si intervallano ai contenuti degli amici su Facebook e Instagram, ovvero in luoghi della rete che si possono percepire come privati. I numeri suggerirebbero che siamo meno disposti a veder comparire consigli personalizzati su un sito web pubblico.
Gli attivisti della privacy chiedono da tempo di ridurre le capacità di tracciamento automatico degli utenti, e da anni gli utenti devono accettare consapevolmente le policy sui cookies quando iniziano la visita di un sito web. Finora le piattaforme pubblicitarie avevano risposto spiegando i vantaggi, in termini di ricavi, di poter offrire pubblicità personalizzata all’utente. La ricerca sembra smentire la tesi.
È singolare che proprio poche settimane fa, prima della pubblicazione del paper, alla propria conferenza degli sviluppatori, Google avesse annunciato una svolta sui cookies. Per rispondere alla crescente consapevolezza sull’uso dei dati personali, il gruppo ha infatti deciso che il browser Chrome (che ha il 70% di mercato globale) permetterà di cancellare i cookies pubblicitari senza scatenare un noioso logout da siti di servizi. Gli utenti potranno dunque scegliere se consentire il tracciamento: Google conta su molti altri segnali per garantire servizi, pubblicità personalizzata, e dunque ricavi. Forse è più vicino il giorno in cui i banner diventeranno più intelligenti e non ci seguiranno più inutilmente.




Un'azienda italiana fa concorrenza a WhatsApp direttamente da Wall Street

Si quota a New York l’azienda italiana che realizza servizi di messaggistica per le aziende, per gestire i rapporti con la clientela. Concorrenza diretta ai big del web


L’ultima novità è l’integrazione sulla propria piattaforma delle Api (le interfacce di programmazione per collegare i servizi delle app tra di loro) di WhatsApp BusinessKaleyra è un gruppo globale ma nato in Italia, specializzato nella fornitura di messaggistica mobile per banche e aziendedi tutte le dimensioni. E il richiamo alla dimensione globale non è un caso. In Italia le aziende nascono con la vocazione da “multinazionale bonsai” tipico delle piccole e medie imprese e di un capitalismo familiare che prevede di mantenere fermamente la proprietà dell’attività.
Mentre Kaleyra veleggia verso la quotazione a Wall Street entro la seconda metà dell’anno e la trasformazione in public company.
Per Dario Calogero, amministratore delegato e fondatore di Kaleyra, non è così: “Ci interessa dare prospettiva all’azienda al di là dei suoi fondatori. La scelta è stata fin dall’inizio di creare una public company. In questo siamo diversi dalla gran parte delle aziende italiane, che sono invece molto orientate verso un capitalismo familiare. Penso ai grandi nomi come Barilla, Ferrero, Lavazza, senza contare la miriade di piccole e medie aziende del nord-est”.
E aggiunge: “Anche quando l’azienda si quota, l’imprenditore cerca di dare forma alla gestione dell’azienda. Non si quota per diventare una public company con un flottante superiore al 60%, mantiene anzi una quota di controllo in casa. Noi siamo su una strada molto diversa”.

Assistenza clienti in cloud

Kaleyra è cresciuta molto e subito. Nel 2018 ha fatturato più di 100 milioni di dollari. E ha 230 persone che lavorano in uffici in tutto il mondo: India, Emirati Arabi, Svizzera, Stati Uniti (New York City e Washington Dc) e ovviamente in Italia, a Milano. Nel 2016, quando ancora si chiamava Ubiquity, ne fatturava 34.
Il mercato è quello dei servizi interattivi per le aziende che vogliono interagire con i consumatori soprattutto via mobile. È un mercato nato con gli sms (di cui Calogero è stato un pioniere) e che oggi è evoluto con Facebook, con WhatsApp, con i social network più in generale e i canali di comunicazione multimediali, che permettono di gestire le relazione con la clientela e la distribuzione di contenuti multimediali. Il tutto via cloud.
È un mercato” – dice Calogero – “che cresce in doppia cifra, con tassi del 30-50% a seconda della geografia. È come fare surf su una onda gigantesca. Cresciamo organicamente del 30% anno su anno”.
Le banche attualmente sono il 50% del business di Kaleyra, ma la piattaforma sta evolvendo grazie a una strategia di acquisizioni di competenze, tecnologie e quote di mercato. Si sono aggiunti i settori enterprise grazie alla filiale indiana e le telecomunicazioni mobili negli Stati Uniti.

Trasformazione digitale

È l’era della trasformazione digitale e Kaleyra si offre come uno degli strumenti al servizio delle aziende, soprattutto tradizionali, per consentire loro di tenere il passo con la velocità delle imprese native digitali. Come Uber, WeChat, Amazon. “Sono tutte aziende che hanno tassi di crescita impressionanti, vanno su come missili”, dice Calogero.
Il gruppo ha dovuto ripensare il modello di crescita per stare al passo. Nel 2015 Calogero puntava sull’apertura di filiali estere. “Ma dopo sei mesi che avevo aperto la prima mi sono reso conto che la strategia non era competitiva. Per accelerare il processo di internazionalizzazione sono passato alle acquisizioni. Solo la filiale indiana è passata da 16 a 38 milioni di euro di fatturato in due anni”. Oggi il gruppo ha dipendenti di venti nazionalità diverse e gli italiani sono meno di un quarto.

La quotazione

L’azienda si è preparata per la quotazione fin dal 2015, ma con una avvertenza: mancava la concorrenza. Racconta l’ad: “Sia a Milano che a Londra non trovavamo altre aziende che facessero servizi come i nostri quotate in Borsa, e questo è un problema perché il mercato non riesce a misurarti se non può fare paragoni su come vanno gli altri. In Europa c’è solo un’azienda a Stoccolma, che da almeno due anni cerca di uscire da quella Borsa per andare negli Stati Uniti. Così siamo andati allo Stock Exchange di New York, che è il posto naturale dove si trovano gli altri: una scelta consapevole affinché il mercato ci possa confrontare e dove c’è valore per gli azionisti”.
Kaleyra è nata come Ubiquity nel 1999 a Milano. Nel 2016 l’azienda ha aperto la sua prima sede estera, in Svizzera. A fine 2016 ha acquistato Solutions Infini, con sede centrale a Bangalore nella “Silicon Valley” d’India, per poi entrare negli Stati Uniti ad agosto del 2018 con l’acquisizione di Hook Mobile. A febbraio 2019 è stato il momento della business combination con Gig Capital, un fondo private to public equity di Paolo Alto, specializzato nel settore tecnologia, media e comunicazioni e già quotato a Wall Street. Con questa acquisizione Kaleyra risulterà quotata alla Borsa di New York con il ticket Klr entro la seconda metà del 2019.