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Giornata Mondiale dell’Acqua: Lo stabilimento di Bolton Food (Rio Mare) riduce del 7% i consumi idrici rispetto al 2017

Rio Mare, leader nel mercato del tonno in scatola e da sempre impegnata nella minimizzazione dell’impatto ambientale delle proprie attività, ha ridotto del 7% il consumo di acqua su prodotto rispetto al 2017 nello stabilimento di Cermenate (CO), generando un risparmio idrico equivalente a 26 piscine olimpioniche. Il sito produttivo di Rio Mare, il più grande e tecnologicamente avanzato d’Europa, produce oltre 3.500.000 lattine al giorno e utilizza l’acqua nelle fasi di scongelamento del pesce e nella sterilizzazione delle lattine, oltre che per il funzionamento stesso degli impianti e la loro pulizia.
Questo risultato rispecchia l’impegno di Rio Mare per la salvaguardia delle risorse ambientali e si va ad aggiungere agli altri risultati positivi raggiunti dalla società, come l’utilizzo al 100% di energia proveniente da fonti rinnovabili da parte dello stabilimento di Cermenate, in particolare idroelettrica, e grazie al recupero di oltre 99% dei rifiuti prodotti. L’attenzione al risparmio energetico è dimostrata anche dai nuovi impanti energivori e dalle nuove apparecchiature installate e dotate di sistemi per il contenimento dei consumi termici (economizzatori) ed elettrici (regolatori di velocità dei motori elettrici di tipo inverter.)
Anche il tema del controllo delle emissioni di gas serra è sempre più centrale per l’Azienda, sia negli stabilimenti produttivi che negli uffici. Nel periodo 2014-2017, sono calate complessivamente del 20%, passando da 42.447,14 a 34.129,40 tonnellate di CO2. Grande attenzione viene rivolta anche al miglioramento delle confezioni: negli ultimi due anni gli interventi di riduzione dei metalli hanno portato l’Azienda a risparmiare complessivamente circa 290 tonnellate di alluminio e banda stagnata, pari al peso di circa 240 utilitarie. Ad oggi, l’81% di carta e cartone utilizzato per queste confezioni proviene da materia prima riciclata.
«La Giornata mondiale dell’Acqua ci offre l’occasione per riflettere sui risultati raggiunti e sulle iniziative che Rio Mare porta avanti nell’ambito della sostenibilità – dichiara Luciano Pirovano, Sustainable Development Director di Bolton Food – La tutela delle risorse ambientali è, infatti, una responsabilità primaria per l’Azienda ed è per questo che ci impegniamo quotidianamente per fare in modo che i nostri processi abbiano il minor impatto possibile sull’ecosistema.»
L’impegno di Rio Mare per la riduzione dei consumi idrici ed energetici si inserisce nell’ambito del progetto di Corporate Social Responsibility dell’azienda “Qualità Responsabile” e testimonia il suo lavoro per una qualità a 360° perseguita lungo tutta la filiera, nel rispetto dell’ambiente e delle persone, dal momento in cui il pesce viene pescato fino a quando il prodotto arriva sulla tavola dei consumatori.




COMUNICARE MEGLIO GLI SDGS

Nel 2015, dopo due anni di negoziati e di incontri, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile: 17 obiettivi e 169 target da raggiungere entro il 2030.

Con questo programma l’ONU ha evidenziato molto chiaramente l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale, dando una risposta concreta ai timori espressi nell’ormai lontano 1972 dal Club di Roma che, con la pubblicazione del Rapporto “I limiti dello sviluppo”, avevano sottolineato i rischi di uno sfruttamento indiscriminato del nostro pianeta.
Attualmente gli obiettivi al 2030 – i cosiddetti SDGs – sono conosciuti per lo più tra gli addetti ai lavori. Alcune realtà produttive li hanno inseriti nelle loro strategie di sviluppo per i prossimi anni ma come ha affermato Enrico Giovannini, portavoce dell’ASVIS, Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, in un’intervista ai primi di gennaio di quest’anno, “…non ci siamo né a livello nazionale né a livello europeo perché ancora, sia in Italia che in Europa, abbiamo poca chiarezza sulla struttura della governance che dovrebbe operare la trasformazione epocale indicata dall’Agenda 2030”.
Oltre a quanto evidenziato da Giovannini a livello politico/governativo, è importante sottolineare come la maggior parte dei cittadini non conosca l’Agenda 2030 e gli obiettivi in essa riportati. Il tema della comunicazione e della condivisione dei contenuti con la popolazione è uno degli aspetti indispensabili per poter concretizzare questi principi.
Su questo tema, in un recente dossier pubblicato dall’European sustainable development network, si evidenzia il ruolo che la comunicazione potrebbe avere per il raggiungimento degli Obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.
Il dossier propone cinque raccomandazioni per una comunicazione efficace e cita diversi esempi di buone pratiche messe in atto in Europa dai governi e da gruppi di stakeholder.
La prima raccomandazione per creare una campagna di comunicazione che vada a buon fine è identificare il pubblico di riferimento. A supporto di questa argomentazione si porta l’esempio del governo finlandese che ha messo a punto un sistema di monitoraggio, costruito a misura del cittadino, per quantificare le emissioni di CO2 pro capite e che contemporaneamente evidenzia le problematiche legate al cambiamento climatico e aiuta le persone a risparmiare denaro con la riduzione dei consumi energetici.
La seconda raccomandazione è legata ai contenuti: infatti per costruire delle campagne sullo sviluppo sostenibile è importante trasmettere emozioni positive e costruire uno storytelling positivo, evitando i toni catastrofistici e di paura, che difficilmente portano a un cambiamento delle abitudini. La campagna Good News from the Future promossa dal governo islandese, in cui gli spettatori sono trasportati in un 2030 sostenibile ne è un ottimo esempio.
Il terzo suggerimento è sempre connesso ai contenuti: oltre ad essere positive le storie da diffondere devono essere belle storie, perché attraggono maggiormente l’attenzione e sono più accattivanti. Il progetto francese Energy Observer in cui, attraverso un viaggio in barca a vela nei diversi mari del pianeta, si raccontano storie che hanno a che vedere con gli SDGs, riesce, utilizzando canali diversi – diari di bordo, video, social media, ecc.  – a raggiungere lo scopo.
Per poter arrivare ai cittadini, per sensibilizzarli sugli obiettivi dell’Agenda 2030 e per modificarne le abitudini, le campagne devono anche contestualizzare gli SDGs nella vita quotidiana. Per questo, come riporta il dossier, è necessario un coinvolgimento dei media, tradizionali e non, in modo da far conoscere al grande pubblico gli aspetti legati agli SDGs. Purtroppo, tranne nei casi di catastrofi ambientali o di gravi episodi di discriminazione, i media in genere non sono attenti a questi temi. La testata tedesca ProjeKt 17 ha trovato la chiave per avvicinare i loro lettori allo sviluppo sostenibile: con narrazioni positive legate alla vita quotidiana e con semplici suggerimenti pratici è riuscita a motivare le persone a modificare alcuni gesti quotidiani in favore della sostenibilità.
L’ultima raccomandazione riguarda gli aspetti economici per sostenere le campagne di comunicazione ed è rivolto ai policy maker. Le risorse devono in primo luogo essere utilizzate per corsi di formazione destinati ai dipendenti pubblici e a coloro che devono relazionarsi con la cittadinanza, in modo da fornire loro strumenti adeguati e conoscenza sulla sostenibilità e sugli Obiettivi al 2030. In secondo luogo le risorse devono servire per produrre campagne di comunicazione volte a sensibilizzare i cittadini su questi temi. A titolo di esempio il dossier riporta il caso della Germania che, a partire dall’adozione della propria Strategia per la sostenibilità nel 2017, ha stanziato risorse importanti per una serie di iniziative di coinvolgimento e di comunicazione sui temi dell’Agenda 2030: dai Forum ai Gruppi di discussione, da una campagna sugli SDGs con i mezzi tradizionali ad azioni di coinvolgimento sui social media.
 
Scarica il Dossier dall’European sustainable development network




Lo Sri Lanka ha fatto bene a chiudere i social network dopo gli attentati?

Secondo Kara Swisher, tra le più famose ed esperte giornaliste di tecnologia, sì: e la questione non è solo dello Sri Lanka


Kara Swisher, una delle più famose e rispettate giornaliste di tecnologia negli Stati Uniti, ha scritto sul New York Times un durissimo editoriale a favore della temporanea sospensione dei social network in Sri Lanka, decisa dal governo in seguito agli attentati di Pasqua che hanno causato la morte di oltre 300 persone. Nelle ore successive alle esplosioni, erano circolati numerosi post violenti e notizie false soprattutto su Facebook e YouTube, siti molto utilizzati nel paese per informarsi e rimanere in contatto con i propri conoscenti.
Nel suo editoriale, Swisher dice di avere pensato “bene” quando è venuta a conoscenza della decisione del governo dello Sri Lanka di chiudere temporaneamente l’accesso ai social network dal paese:

Bene, perché potrebbe salvare delle vite. Bene, perché le aziende che gestiscono queste piattaforme sembrano essere incapaci di controllare gli stessi potenti strumenti globali che hanno costruito. Bene, perché l’immondizia digitale tossica della disinformazione che dilaga su quelle piattaforme ha schiacciato ciò che avevano di buono. E, ovviamente, domenica circolavano online così tante notizie false sulle stragi da far temere al governo dello Sri Lanka che ci potessero essere nuove violenze.

Da giornalista che segue da tempo le evoluzioni di Internet, Swisher ha spiegato di avere inizialmente provato vergogna nell’avere pensieri positivi circa la limitazione di strumenti che, nel bene e nel male, contribuiscono alla libera espressione delle persone. Dopo qualche riflessione più attenta, pensando anche a episodi precedenti in altre parti del mondo, è però arrivata alla conclusione che «il più grande esperimento di interazione umana nella storia del mondo continua ad accumulare fallimenti, e in modi sempre più pericolosi».
L’inclinazione a fare del male da parte di alcuni individui è naturalmente antecedente a Internet e, più in generale, a qualsiasi tipo di tecnologia. Eppure, le grandi aziende che controllano i social media hanno sottovalutato questo aspetto, progettando piattaforme che nei fatti possono essere facilmente sfruttate per ottenere risultati nocivi su varie scale. In un precedente editoriale, sempre pubblicato sul New York Times, Swisher aveva paragonato queste aziende a «moderni spacciatori di armi dell’era digitale», mostrando di avere una certa avversione per società come Facebook, Twitter e Google, accusate di non fare abbastanza per tenere sotto controllo le loro piattaforme.
Pur condividendola, Swisher riconosce la drasticità della decisione del governo dello Sri Lanka, un paese dove buona parte delle informazioni più importanti circola ed è condivisa proprio grazie a Facebook e YouTube. Come in altri paesi asiatici, anche in Sri Lanka si è assistito a un progressivo allontanamento dalle fonti tradizionali di informazione, come la televisione, con un numero consistente di persone che legge e condivide le notizie online.
Il passaggio è stato favorito dalla disponibilità di smartphone sempre più economici, dalla loro maggiore fruibilità rispetto a un televisore e dalla facilità con cui consentono di rimanere in contatto con amici e familiari, soprattutto attraverso i social network e le applicazioni per la messaggistica. La sospensione di buona parte di questi servizi influisce quindi sulla possibilità di informarsi per milioni di persone, pur riducendo i rischi di far circolare notizie false o messaggi d’odio che potrebbero portare a nuove violenze.
Swisher ricorda che in altri momenti di crisi il governo dello Sri Lanka aveva già disposto sospensioni temporanee dei social network, a dimostrazione dell’incapacità dei gestori delle piattaforme di vigilare sui contenuti diffusi attraverso i loro sistemi. Nell’editoriale viene citato anche il caso dello scorso 15 marzo in Nuova Zelanda, dove un uomo uccise 50 persone in due moschee, trasmettendo in diretta le immagini del suo attentato su Facebook:

In quel caso, il governo della Nuova Zelanda non chiuse i rubinetti dei social network, ma ritenne comunque le aziende che li gestiscono come una parte rilevante del problema. Dopo gli attacchi, né Facebook né YouTube riuscirono a fermare facilmente i video a ripetizione delle uccisioni, che proliferavano così in fretta da mettere in crisi i loro algoritmi per la rimozione.

Anche in seguito all’attentato di marzo, il governo della Nuova Zelanda ha annunciato provvedimenti per imporre multe alle aziende che dimostrano di non essere in grado di controllare la proliferazione online di contenuti di questo tipo. In Australia una legge simile, che responsabilizza molto di più le piattaforme, è stata approvata a inizio aprile, mentre in altri paesi compreso il Regno Unito si stanno studiando nuove regole in merito.
Swisher conclude il suo editoriale spiegando che i social network hanno «fatto saltare ciò che consentiva alle società di tenersi sotto controllo». Se da un lato è vero che queste piattaforme danno la possibilità a tutti di farsi sentire, dall’altro fanno sì che diventino rilevanti anche messaggi d’odio e disinformazione, con le aziende che dovrebbero occuparsene incapaci di reagire adeguatamente:

Nei primi tempi di Internet, si discuteva molto su quanto fosse positivo non avere controlli. Ebbene, ora non ci sono più, e ciò significa che abbiamo bisogno di un dibattito globale che includa tutte le parti in causa per decidere come affrontare il disastro che ne è seguito, una cosa che va ben oltre l’aggiunta di moderatori o di migliori algoritmi. Chiudere i social media nei momenti di crisi non potrà essere la soluzione. Ho ventilato questa ipotesi a un dirigente di una grande azienda tecnologica la scorsa settimana, durante un dibattito su ciò che era accaduto in Nuova Zelanda. La sua risposta: «Non puoi più chiuderli. È troppo tardi.»




Shake Ferpi Shake!

Si avvicina l’assemblea elettorale e a parte tante chiacchiere non vedo forum in cui si discuta di contenuti e priorità per il nuovo mandato ma soprattutto per i prossimi anni di Ferpi.

A me interesserebbe conoscere i CONTENUTI prima di parlare dei CANDIDATI e lo faccio con il mio blog e i social, sperando di avere qualche reazione. Sinceramente per me i soci candidabili  – più o meno – uguali sono, ma vorrei invece avere un’idea di dove hanno intenzione di posizionare l’associazione.

  1. Anzitutto vorrei capire dai colleghi [e dai potenziali candidati] perché stiamo insieme in Ferpi e come interpretiamo le Relazioni Pubbliche.

Stiamo insieme per essere un sindacato, per fare l’associazione di tutti coloro che hanno che fare con la comunicazione, per aumentare numericamente, per visibilità personale, per avere un codice etico di riferimento, per accreditarci, ….?
Io credo che Ferpi sia l’organizzazione che ha nel suo mandato (in particolare dopo aver sottoscritto e in parte scritto il Melbourne Mandate, 2012) la promozione di una cultura delle relazioni pubbliche e della comunicazione nella società che possa portare beneficio a:

  • noi professionisti del settore (facendo advocacy & formazione) liberi professionisti, consulenti, comunicatori di azienda e uomini e donne di agenzia;
  • futuri professionisti di RP (facendo orientamento & formazione agli studenti di oggi);
  • le organizzazioni per cui lavoriamo (migliorando il nostro contributo professionale);
  • gli stakeholder con cui interagiamo (giornalisti, decision maker, gruppi di interesse, ecc.);
  • le comunità in cui stiamo e la società in senso più ampio ( prendendo seriamente la nostra responsabilità sociale).

Ricordo che lo Statuto Ferpi recita:
L’attività professionale di Relazioni Pubbliche, unica o preminente, è definita dalla finalità di creare, di sviluppare e di gestire sistemi di relazione con i pubblici influenti sul raggiungimento degli obiettivi perseguiti da singoli, da imprese, da enti, da associazioni, da amministrazioni pubbliche e da altre organizzazioni.
Le Relazioni Pubbliche comportano attività di analisi, di ricerca e di ascolto, di progettazione e pianificazione di programmi specifici di relazione e comunicazione con i pubblici influenti nonché attività di valutazione dei risultaticonseguiti.
DOMANDA: Ci identifichiamo in questa idea di RP? O riteniamo che l’associazione debba essere un conglomerato di tutte le professioni legate alla comunicazione?

2. Vorrei inoltre avere un’idea di quali priorità abbiamo per creare valore ai soci

Separarerei le priorità associativo-organizzative (accorpamento territoriale in primis) da quelle di produzione di contenuti e valore per i soci.
A me adesso non interessa tantissimo trovare metodi per reclutare decine di nuovi iscritti in tutte le nuove categorie della comunicazione, se prima non riesco a soddisfare gli attuali soci.
Agli attuali soci, che pagano la quota ogni anno, vorrei fosse offerta la possibilità di:

  • formarsi gratuitamente su programi di valore, eventualmente sviluppando un sistema di accreditamento a più livelli (ad esempio con un accreditamento simile al programma APR della PRSA o quelli della CPRA o di CIPR e seguendo il prezioso lavoro fatto da GA suGlobal Body of Knowledge project);
  • vivere la comunità internazionale delle Relazioni Pubbliche, riprendendo gli scambi con Global ALliance, con le altre associazioni nazionali, con il mondo delle RP che sta fuori dai nostri confini;
  • partecipare a programmi di ricerca e/o gruppi di lavoro/praticacome accadde con gli Stockholm Accords o il Melbourne Mandate;
  • capire in cosa consiste la legge 4/2013 e la legge 150 e come stanno cambiando;
  • pagare meno la quota [vorrei che in tre anni dimezzassimo gli importi].

3. In più vorrei… che Ferpi fosse Protagonista del nostro tempo

3.a Mi piacerebbe inioltre che ogni anno Ferpi potesse approfondire un ambito della nostra professione, producendo un Position Paper e/o un Libro Bianco che coinvolgendo i soci interessati, definisse le idee di Ferpi su specifiche materie per offrire linee guida ai giovani professionisti, per aiutare le istituzioni a definire policy sensate, per discutere insieme agli altri stakeholder di come aiutare la nostra società a migliorarsi. E ce ne sono tanti di ambiti in cui dovremmo intervenire: CSR, comunicazione politica, comunicazione ambientale, comunicazione in sanità, FakeNews, Intelligenza Artificale, Etica & Comunicazione, lobby, ecc. ecc.   
3.b Vorrei che partecipassimo ai forum globali dando il nostro punto di vista, raccontando le relazioni pubbliche italiane e mediterranee, contribuendo ad una migliore comprensione, del nostro Paese e degli altri, dando l’opprtunità di scambi e innovazione con Paesi emergenti e mercati maturi.
3.c Vorrei che quando sui media (TV e stampa) si dibatte pubblicamente di comunicazione, fake news, manipolazione, disinformazione, Ferpi fosse legittimata ad intervenire con un contributo in grado di ribadire i principi generali a cui ci ispiriamo, riportando al centro l’etica e la deontologia che i nostri codici (nazionali e internazionali) definiscono: è una responsabilità oltre che un’opportunità.
3.d Vorrei che gli asset che abbiamo possano essere valorizzati anche esternamente: Oscar di Bilancio, Inspiring PR, i lavori di Toni, il lavoro sulla CSR di Rossella, le riflessioni su disastri naturali e comunicazione responsabile, la formazione di CASP, i gruppi di lavoro su professioni e comunicazione.

e tutto ciò, senza paura di altri presunti competitor…

Ho ricevuto una marea di feedback, telefonici, email, commenti, post social, ecc. Grazie a tutti, speriamo il prima (non poi) possibile di poterne parlare apertamente con tutti coloro che [senza paure e timori, di cosa poi…] vogliono contribuire con IDEE alla nostra professione, alla nostra associazione e alle comunità in cui siamo inseriti. [Ribadisco che non ho intenzione di candidarmi quindi chiunque può tranquillamente contestare, arricchire, condividere ciò che dico, senza inimicarsi alcuna cordata]
Oltre a ciò che ho già scritto nel primo post tra gli stimoli e le ulteriori riflessioni mi sento di chiedere:

4. Incontriamoci e parliamoci SU-BI-TO: online e live.

Anzitutto, una serie di incontri (4/5) sul territorio, prima che escano i candidati, per raccogliere gli stimoli e sintetizzare in un percorso di ASCOLTO STRUTTURATO le esigenze dei soci da parte delle Delegazioni Territoriali: ai colleghi delle delegazioni mi rivolgo perché sono certo abbiano tanto da dire.
Si apra una sezione/pagina del sito Ferpi (interna o esterna, moderata o non moderata – vedete voi) per dare uno spazioche non sia Facebook/Twitter/LinkedIn in cui argomentare contenuti, prima che di candidati o di persone. Lo ripeto: contenuti prima di candidati o persone. Ma ripeto anche un forum che non soffra l’effimera essenza dei social, dove più di tanto non si può scrivere e si obbedisce all’emotività del momento.
Se non viene fatto il rischio è che ci troveremo tra un paio di settimane con i candidati e i famigerati “programmi“. Dato che un po’ di anni in questa associazione li abbiamo passati, dato che un po’ di elezioni le abbiamo già vissute, dato che qualche consiglio nazionale ormai li abbiamo frequentati, posso tranquillamente affermare che i PROGRAMMI ELETTORALI in questo tipo di associazione non servono a nulla. Non esistono posizioni antitetiche, esiste il NULLA o i CONTENUTI. Quindi muoviamoci!Per essere pragmatici ed efficaci occorre identificare una serie di temi su cui concentrarsi, le priorità e su queste lavorare.

5. Volontarismo e risorse

Le risorse. Il tema del volontarismo e delle risorse economiche che solleva Daniele Chieffi (grazie Daniele) è un tema chiave dell’associazione. Proprio per questo dobbiamo concentrarci su alcuni focus e non seguire il trend degli ultimi anni di numero soci calante (siamo meno di 900 ad oggi) e morosità. Calare l’importo della quota e individuare altri modelli di business per fare ricavi sui nostri clienti attuali e sui potenziali clienti si può seriamente fare.
Ho portato qualche esempio che sarebbe utile copiare da altre associazioni simili alla nostra di altri Paesi:
Influence, il magazine di CIPR distribuito ai soci in cartaceo e in digitale a tutti, dato in outsourcing a una casa editrice specializzata in house organ associativi, proprio per trovarne una sostenibilità;
Le conferenze a pagamento delle nostre consorelle internazionali PRIA, CPRS, PRSA. Ho proposto diverse volte di candidarci per il World Public Relations Forum, avendo già trovato anche i partner per la parte congressuale e di hospitality (!!!!!!!!)
L’iniziativa Vocalias di DirCom
Le membership differenziate per livelli, individuali e aziendali presenti (CIPR, PRIA, tutte praticamente…)
L’investimento sulle risorse umane interne: quasi tutti hanno un segretario generale o un CEO (pagato) che si occupa di sviluppare l’associazione. Noi dovremmo investire sull risorse umane attualmente presenti in associazione.
L’eventuale condivisione o merge con altre associazioni per realizzare inizaitive comuni e ottimizzare gli investimenti (in Austria l’associazione delle agenzie si è fusa con l’associazione dei professionisti; in Croazia condividono la struttura organizzativa, pagando il segretario a metà).

6. Stare insieme per PIACERE PROFESSIONALE

Pensiamo a quanto è bello poter condividere esperienze professionali con i colleghi e al PIACERE dello stare insieme in associazione e investirci un po’ con coraggio:
Quando alla Giornata delle Malattie Rare, ho visto irrompere in quella che è la mia community professionale (malattie rare/sanità) la truppa di Ferpini del Lazio, con Peppe De Lucia, Giulia Pigliucci, Luigi Irioni e Vincenzo Manfredi, ho provato un’istintiva gioia nel condividere con loro l’appuntamento dell’anno.
Quando i colleghi raccontano di essere stati a Inspiring PR, descrivono un’esperienza che, oltre ai contenuti, ha coinvolto e ha restituito il piacere di stare insieme.
Quando parlo con Sergio Vazzoler, Massimo Alesii, Letizia Di Tommaso, Rossella SobrerO, Marta Bonatti, Pierluigi De Rosa, Toni Muzi Falconi e così via… di progetti di ricerca e di pratica delle relazioni pubbliche, sento di vivere la professione al di là del quotidiano. Non è quello che tutti cerchiamo in Ferpi?
Quando stai in un gruppo di lavoro per realizzare un evento, scrivere un libro, intervenire su un tema, hai la sincera voglia di condividere le tue esperienze. Facciamo leva su questo, per cambiare e affrontare i prossimi 10/15 anni per incidere con approfondimenti, conferenze e dibattiti che valorizzino il nostro PURPOSE.

7. Riformare la Governance

Il tema sollevato da Toni della durata del Presidente è molto sensato: io sarei dell’idea di indicare ogni due anni (come si fa in tante società scientifiche, ma anche in Global Alliance) un board con alcuni delegati più un chair elect, un chair in carica, e un past chair, che insieme portano avanti con continuità le attività dell’associazione, aiutano il consiglio eletto e il chair elect a capire come funziona l’associazione e ad inserirsi in un solco preciso. Chiaro è una riforma interna che va condivisa, ma riflettiamoci. Perché sta manfrina dei programmi e dei candidati contrapposti è (a mio avviso) inutile e disfunzionale.
Spero possiate contribuire e condividere le vostre idee. Abbiamo un’associazione piena di risorse intellettuali e professionisti di altissimo livello. Valorizziamoli.




Cosmetica sempre più sostenibile

Si è da poco concluso a Bologna Cosmoprof, il più importante salone internazionale dedicato alla filiera produttiva della cosmetica.
La 52° edizione della manifestazione ha dato ampio spazio alla sostenibilità.

L’industria cosmetica sta cercando infatti nuove soluzioni produttive per ridurre l’impatto ambientale e migliorare l’attenzione al sociale: sempre più marchi hanno sposato l’idea che la sostenibilità è una scelta “obbligata” e che è importante adottare metodi di produzione rispettosi e ingredienti di provenienza sicura. Oltre l’attenzione alle materie prime, in crescita anche l’impegno per migliorare il packaging e il ciclo produttivo in un’ottica sempre più “circolare”.
Mi fa piacere ricordare alcuni “pionieri” della sostenibilità in questo settore: in Italia I Provenzali che da anni hanno sposato questo approccio.
Sul loro sito si legge infatti una dichiarazione importante: L’ambiente non è solo uno spazio. È la relazione che unisce gli uomini nel passato, nel presente e nel domani. Uno spirito ecologista, responsabile e consapevole: per salvaguardare il patrimonio delle generazioni future. I Provenzali da sempre si impegnano a salvaguardare l’ambiente, la natura e l’immenso patrimonio circostante.
A livello internazionale un brand importante è Weleda la cui storia ha inizio nel 1921 dall’incontro tra un medico olandese, un filosofo austriaco e un chimico e farmacista tedesco. Ancora oggi Weleda rappresenta un punto di riferimento a livello mondiale per la produzione di cosmetici e farmaci biologici, naturali e olistici, il cui motto è «in armonia con la natura e con l’essere umano».
Sul loro sito si legge questa dichiarazione: Per Weleda la tradizione e l’innovazione hanno uguale importanza. Esse costituiscono la base per il nostro impegno a lungo termine nei confronti dei tre pilastri della sostenibilità ambientale, sociale ed economica.
La sostenibilità sta diventando quindi un impegno per molte imprese cosmetiche, dalle multinazionali alle aziende più piccole. Un impegno diffuso nel misurare gli impatti e nell’avviare progetti mirati a ridurli: dalla ricerca per migliorare i prodotti alla scelta di tecnologie che consentono di ottimizzare risorse come l’acqua, le materie prime e l’energia.

Cosa c’è di nuovo

C’è chi parla di “trend verde” e pensa che l’impegno di queste imprese sia solo la risposta a una moda del momento. Sono convinta invece che non sia un fenomeno passeggero: adottare un approccio rispettoso che favorisce ingredienti naturali e biologici è un cambiamento che sta coinvolgendo trasversalmente questa filiera. Un segnale positivo per tutti.