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STRUMENTI DI BRAND AWARNESS: SUGGESTIONI E STIMOLI PER LE PMI, TRA MEGA TREND E MICRO TREND NEL MONDO DIGITALE

In questo breve paper ho voluto approfondire alcune dinamiche che governano vari scenari nei quali le PMI si trovano quotidianamente trovarsi coinvolte, e si ritroveranno a mio avviso sempre più coinvolte nel prossimo futuro: si tratta di un overview su alcuni micro e mega trend, non necessariamente traducibili in specifiche progettualità di breve periodo, ma che costituiscono piuttosto un “viaggio” per certi versi stimolante nelle nuove sensibilità proprie degli ambienti digitali.
Affrontare internamente alla Vostra azienda, discutere e tradurre in iniziative concrete alcune delle suggestioni proposte in questo articolo, potrà fornire probabilmente un concreto contributo alle strategie di brand-awarness dell’organizzazione, e – a mio avviso – condizionare positivamente i comportamenti di acquisto dei vostri Clienti.
 

Quando l’eccellenza del prodotto non basta.

Ecco un termine noto probabilmente solo agli addetti ai lavori, che riassume però un concetto del quale si sentirà parlare sempre più spesso: Ocxm, ovvero Omnichannel Customer Experience Management. In altri termini, la gestione dell’esperienza del Cliente – specie sotto il profilo del Customere Care – in modalità “multicanale”. Un buon esempio di attitudine al multichannel è quello di Best Western: la nota catena alberghiera da un paio d’anni utilizza dati provenienti da diverse interfacce di relazione con il Cliente (sito, App mobile, Chatbot, etc.) i quali vengono canalizzati in un software di CRM e analizzati per ottenere una “single customer view”sui clienti.
“In precedenza il nostro focus era concentrato sull’acquisizione dei clienti e quindi sulla proposizione dei nostri hotel nei diversi canali – ha dichiarato al Sole 24 Ore Sara Digiesi, Chief marketing officer di Best Western Italia – mentre ora gestiamo il cliente anche dopo la prenotazione, affinché non disdica e si prepari al soggiorno. Lo raggiungiamo con e-mail e chatbot via Messenger e poi con comunicazioni con un operatore per informazioni di utilità (percorso per raggiungere l’hotel, meteo, eventi in città, proposizione di vendita dei servizi dell’albergo come il ristorante, orari di apertura dell’area fitness, etc), e con servizi personalizzati: se sappiamo che un cliente arriverà con un animale, lo informiamo su ciò che troverà a disposizione nella struttura”. Una cura del rapporto con il cliente che prosegue poi durante il soggiorno, con un sito dedicato in cui il cliente trova tutti i servizi digitali dell’albergo, compresi i giornali del giorno.
L’esperienza di Best Western, come molte altre, fa riflettere su un concetto che dovrebbe orientare come una bussola tutte le aziende: ottimo per la produzione e distribuzione di prodotti di eccellente qualità, che resta il principale pilastro sul quale costruire il proprio successo. Ma – piaccia o no – questo non è più sufficiente; nell’equazione della sfida al mercato rientrano anche altri fattori.
 

L’abito fa (in parte) il monaco.

Se consideriamo la valorizzazione degli elementi distintivi del prodotto come parte di una corretta e completa strategia di gestione della reputazione, una riflessione sul packaging è d’obbligo (da condividere poi con le funzioni aziendali preposte). L’antico adagio popolare citato nel titolo di questo paragrafo, pareva suggerire il contrario, ma oggigiorno ciò che è certo è che il packaging fa il prodotto; in parte, certamente, ma una parte non più trascurabile, e chi non si pone il problema rimane irrimediabilmente indietro. Possiamo definire il “Packaging Design” come l’utilizzo “strategico” del packaging da parte delle aziende come strumento di comunicazione integrato alle azioni di brand identity. “È la quinta leva del marketing mix” ha confermato sempre al Sole 24 Ore Edoardo Sabbadin, docente di Economia delle imprese e Branding all’Università di Parma.
L’involucro di un prodotto è effetti il primo elemento di contatto con i consumatori, e può costituire un forte elemento distintivo rispetto alla concorrenza; inoltre, l’aspetto esteriore veicola non solo il posizionamento del prodotto stesso, ma anche i valori che stanno alla base del marchio stesso, ad esempio con riguardo all’utilizzo o meno di materiali riciclabili nel packaging. Una particolare attenzione a questi aspetti viene riservata dalle giovani generazioni, come ha confermato recentemente Paolo Iabichino, Executive creative director di Ogilvy: il fenomeno dell’”unboxing”, ovvero della ripresa con il telefonino del momento del “disimballaggio” dei pacchi, e l’immediata pubblicazione del mini-video online, è dilagante. In quest’ottica, è quindi essenziale prestare particolare attenzione alla “pack experience”.
Un altro aspetto con cui devono confrontarsi i brand è quello della condivisione di informazioni con i propri Clienti, e in questo il packaging si rivela essere una risorsa importante: le nuove tecnologie permettono di rispondere a questa istanza coniugandola con funzionalità ed estetica del pacco (ad esempio, banalmente con QR Code applicati sulle confezioni e costruiti in modo da far vivere tramite videoclip al Cliente un esperienza di condivisione con l’azienda ancor prima di aprire il pacchetto).
Il packaging deve quindi comunicare non solo le qualità intrinseche del prodotto, ma anche la sua storia: da dove proviene, in quali condizioni lavorano le persone che lo producono, qual è il suo impatto sull’ambiente; questi concetti in senso più esteso chiamano in causa non solo il packaging, ma quell’universo di elementi distintivi che – nel punto vendita, reale o virtuale, e non solo – possono fare la differenza” nell’orientare i procedimenti di acquisto del Cliente.
 

Intelligenza artificiale ed elemento umano: lo sviluppo di un ecosistema digitale centrato sul Cliente.

Sono sempre più numerose le aziende che affidano parte della propria attività di customer-care ai “Voice-Bot”, interfacce vocali digitali, quando ben costruite “auto-apprendenti” (ovvero in grado di imparare e perfezionarsi traendo spunti dalle interazioni con gli Utenti e dalle risposte precedenti), che hanno il pregio di poter incrementare i livelli di produttività riducendo i tempi di assistenza rispetto alle interazioni via chat testuale: questi software stanno diventando sempre più sofisticati sotto un profilo tecnologico, e conseguentemente non potranno che aumentare la loro efficacia, diventando più precisi nel riconoscimento del linguaggio naturale. Inoltre, iniziano a diffondersi i cosiddetti “Voice-Ads”, annunci pubblicitari vocali, che andranno progressivamente a integrare il ventaglio delle forme di pubblicità digitale già note, ovviamente senza sostituirli: di qui la necessità di identificare una “voce” dell’azienda, che la rappresenti per stile, e un wording adeguato e in linea con i valori dell’azienda, che possa costituire la base – per quanto possibile ricca – sulla quale i software auto-apprendenti possano costruire il proprio vocabolario.
Più in generale, allargando lo sguardo, il panorama ci porta ad affermare che le aziende “lovemark” (i marchi che amiamo così tanto da essere disponibili a difenderli, impegnando la nostra reputazione per loro anche senza averne un immediato e tangibile ritorno) sono anche tre volte più propense a considerare il primato nell’adozione di tecnologie come componente cruciale del mantenimento di una relazione con il cliente realmente di successo; è vero anche il contrario, ovvero solo la metà delle aziende con livelli di soddisfazione bassi in termini di customer experience e scarso riconoscimento del brand, impiega attualmente tecnologie innovative in questo campo.
I leader delle società icona sanno di dover assumere il ruolo di capofila nell’investimento tecnologico per la customer experience”, ha affermato Elizabeth Bramson-Boudreau, CEO della MIT Technology Review. Ovviamente esistono dei limiti nel voler incentrare tutto l’approccio al Cliente solo sulla tecnologia: il capitale umano dev’essere centrale in ogni brand management.
La gestione del Cliente deve quindi necessariamente diventare multicanale e multi approccio: si tratta di saper trovare un giusto equilibrio tra fattore umano e intelligenza artificiale; consapevoli però che gli investimenti sulla seconda non devono e non possono essere rimandati.
 

La comunicazione video sfata i luoghi comuni: troppo lungo, non è eguale a inutile.

Il mantra recitato fino all’ossessione da molti Social Media Manager di tutto il mondo, è stato per anni (comprensibilmente): “video brevi, la decisione se proseguire o meno nella visione della clip avviene nei primi secondi, e un minutaggio troppo lungo è disincentivante”.  Vero solo in parte: la differenza, come per ogni questione riguardante la costruzione della reputazione di un brand, è data dalla qualità del contenuto. Al giorno d’oggi, in rete e sui Social network si registra una rinnovata attenzione ai “long-form”: i contenuti testuali e multimediali si allungano, probabilmente in considerazione del fatto che i siti web sono sempre più consultati da Mobile: non più eterni minuti da sacrificare costretti su una sedia dinnanzi a un PC, ma al contrario graditissimi contenuti “riempitivi” degli spostamenti in Metro, in treno, in palestra mentre si corre sul tapis roulant, eccetera. In effetti, il long form si avvia a essere lo strumento preferito dai brand per le campagne di comunicazione, specie istituzionali: “È come se già solo l’espressione ‘long-form’ nobilitasse da sola il contenuto, conferendogli qualcosa di speciale, distinto dalla massa di informazioni volatili”, ha scritto Jonathan Mahler, giornalista di punta del New York Times.
Una tendenza che pare essere partita dalle piattaforme online anglosassoni: in Gran Bretagna, il 57% degli investimenti video digitali sono orientati verso questo genere di contenuti ‘espansi’. Prevedibile, tutto sommato, in un universo – quello del reputation management – che pone al primo posto la ‘qualità’ della relazione tra la marca e l’utente. Se la Brand Awareness individua e identifica la notorietà di una marca, ovvero il grado di conoscenza che il pubblico ha di un determinato brand, la Brand Awareness va ben oltre, ed entra nell’ambito del tipo di considerazione che il pubblico ha nei confronti del marchio, quanto è disponibile a spendersi per promuoverlo ed eventualmente difenderlo, e di che qualità e “intimità” parliamo quado definiamo la tipologia di relazione esistente tra azienda e Clienti.
Ad esempio, per l’anniversario dell’apertura il luxury store della Rinascente in via del Tritone a Roma ha realizzato il corto “Piccole avventure romane”, disponibile su una specifica landing page e sul canale YouTube. Il video arriva agli otto minuti (una inimmaginabile “eternità” fino a poco tempo fa) ed è scritto e diretto dal regista Paolo Sorrentino. Protagonisti e ambasciatori del brand i modelli Malcolm Lindberg e Michela Begal, per un progetto da subito multi-canale: vetrine, card, App, sito web, Youtube, Social, etc.
Più in generale, le ‘storie’ sono ormai ampiamente sdoganate nelle aziende: Steve Clayton, “chief storyteller” di Microsoft, ha dichiarato ad esempio in una recente intervista che il suo compito non è quello di “vendere prodotti”, anche perché il pubblico è sempre più sofisticato e finisce per ignorara il marketing tradizionale. Però si appassiona alle storie, che diventano quindi implicitamente un mezzo efficace per condizionare i comportamenti di acquisto degli utenti, che vengono influenzati non solo dal prodotto bensì anche dai valori che ruotano attorno ad esso. E premesso che è ben difficile narrare con efficacia un universo di valori in 1 minuto, di qui il successo del long-form, e la necessità per le aziende di attrezzarsi in tal senso, come conferma il recente rapporto McKinsey intitolato “Telling a good innovation story”, nel quale Julian Birkinshaw della London Business School mette nero su bianco una vera e propria “morfologia della fiaba aziendale innovativa”.
Francesco Giorgino, giornalista del TG1 e docente di Brand storytelling all’Università LUISS, in un’intervista al quotidiano di Confindustria, ci illustra il suo pensiero a riguardo, molto centrato: “Si tratta di un cambio di baricentro rispetto al passato. Oggi le storie sono per pubblici profilati, coinvolti, raggiunti in mobilità. «In gioco c’è una relazione differente che si sviluppa nel tempo. D’altronde le aziende stanno diventando media company e confezionano contenuti editoriali d’informazione e anche di intrattenimento. Lo storytelling è fondamentale per il business, ma occorre un uso sistemico, per aiutare la reputazione costruendo un vero e proprio ‘capitale narrativo’ dell’azienda. Bisogna però attrezzarsi per competere narrativamente con competenze, prassi di lavoro e professionalità specifiche”. Come dargli torto? Senza tralasciare però l’aspetto esperienziale: creare una narrazione non vuol dire solo “raccontare”, ma costruire una “esperienza” da far vivere all’utente, sia essa virtuale o concreta. Solo ingaggiando i Clienti in vere e proprie avventure esperienziali si potrà passare da una dimensione di banale “flusso di comunicazione” dall’azienda verso l’utente, a uno storytelling degno di questo nome. Sempre “cum grano salis”: formati “corti” e “lunghi” non sono certamente da considerarsi alternativi, quanto piuttosto integrativi, entrambi parte di una strategia complessa ed efficace di comunicazione digitale.
 

Il coraggio di prendere posizione andando (anche) controcorrente.

Il report dal titolo “Gli Italiani e lo Stato”, giunto alla XXI edizione, realizzato da Demos & Pi per La Repubblica, e pubblicato il giorno prima dello scorso Natale, parla chiaro: un campione rappresentativo della popolazione italiana conferma l’affermarsi di “nuove forme di partecipazione”. Ad esempio, negli ultimi tre anni, un quarto degli italiani ha preso parte – almeno una volta negli ultimi dodici mesi – al boicottaggio di un prodotto o di una determinata marca; a questi si aggiunge, in forte crescita dal 2015 a oggi, poco meno della metà della popolazione (47%) che afferma di aver fatto un acquisto di prodotti in base a motivi di tipo sociale, etico, politico, o ecologico. Complessivamente, quello che l’istituto di ricerca chiama “indice di nuove forme di partecipazione” cresce di dieci punti negli ultimi quattro anni, conferma Pier Luca Santoro, esperto di marketing che ha recentemente dedicato un bel commento a questa ricerca.
I cittadini quindi desiderano schierarsi, e tendono a privilegiare le aziende che a loro volta si schierano in linea con i valori che declamano. Il tema della coerenza, e bene sottolinearlo, è assolutamente centrale in queste dinamiche, come dimostra la scelta coraggiosa di Gilette con la sua recente campagna “E’ questo il meglio di un uomo?”: è proprio la mascolinità più antiquata e primitiva il target dell’iniziativa di comunicazione, che vuole trasmettere messaggi di una sensibilità nuova, sulla scia del movimento #metoo, in un mondo tutto maschile come quello di barbe e rasoi. Il video è facilmente visionabile online: una campagna certamente e volutamente divisiva, criticata da chi (purtroppo) ancora al giorno d’oggi riconosce nell’eccesso di mascolinità e nell’assertività dell’uomo sulla donna comunque un valore, ma che ha permesso alla marca un potente riallineamento, specie sui Social network, con quella parte di clientela che ha invece apprezzato il messaggio socialmente schierato in modo netto a favore del rispetto uomo/donna.
Da notare: numerosi i “disLike” dal canale Youtube Gilette, e memorabile in tal senso il commento del loro portavoce: “Siamo addolorati per chi ha deciso di abbandonarci, ma riteniamo che l’affiliazione a un marchio non possa prescindere da un allineamento sotto il profilo dei valori”.
Tradotto: abbiamo perso forse dei Clienti, questo trimestre? Ce ne faremo una ragione, perchè siamo convinti di ben recuperare, in quanto la nostra priorità è costruire su fondamenta solide e di lungo periodo. In sintesi, l’essenza del Reputation management, quello ben fatto.
 

Un approccio “non convenzionale” ai Social network

I Social – lo sappiamo bene – sono la più grande Agorà di discussione del pianeta; trascinando con sé molte criticità, ma anche parecchie opportunità. E – incredibile a dirsi – esiste un mondo ‘oltre’ Facebook e Twitter. Le aziende, perlomeno le più attente, ad esempio hanno da tempo ben compreso l’enorme potenzialità di Instagram; ma quante si sono poste domande precise su come utilizzare in modo realmente innovativo tutte queste preziose piattaforme?
Uno spunto paradigmatico ci arriva da un nuovo studio dei ricercatori della Virginia Commonwealth University: “Pinning to Cope: Using Pinterest for Chronic Pain Management,” è il lavoro pubblicato sulla rivista Health Education & Behavior ed è stato condotto da Jeanine Guidry, Ph.D., professore assistente alla Richard T. Robertson School of Media and Culture, e Eric Benotsch, Ph.D., professore associato al Dipartimento di Psicologia del College of Humanities and Sciences. Qualcuno forse si stupirà, ma Pinterest, il social network che consente la pubblicazione di album fotografici “a tema”, permettendo così ad utenti con il medesimo specifico interesse di ritrovarsi, e scambiarsi esperienze partendo dallo “stimolo aggregativo” costituito da una galleria di fotografie (tra i 100 siti web più visitati al mondo!) sta aiutando concretamente le persone affette da dolore cronico: i pazienti condividono infatti proprio su Pinterest le terapie con migliore compliance, inclusi i personali consigli di ognuno per la gestione del dolore; questo social inoltre – non ultimo – costituisce un efficace “canale di sfogo” per le persone che soffrono di queste patologie, permettendo anche un positivo ritorno sociale, in quanto essi possono sostenere altre persone che stanno soffrendo per le stesse ragioni.
Lo studio suggerisce anche che Pinterest è uno strumento in realtà sottoutilizzato da vari stakeholder: l’assistenza sanitaria pubblica, le organizzazioni non profit, e – aggiungo io – anche le aziende, perché no, dovrebbero utilizzare questa piattaforma per distribuire informazioni di alta qualità sulla gestione del dolore cronico, una condizione che il National Institutes of Health stima essere in grado di colpire – per le più diverse ragioni – fino a un quinto della popolazione. Che si tratti di creazione di piattaforme di discussione dedicate, o piuttosto di attività su quelle eventualmente già esistenti in grado di incrociare i Vostri temi e la Vostra utenza, ancora nel 2019, ci ritroviamo costretti a dire: che sorpresa, questi Social!
 

La necessità di ripensare (in porte) la pubblicità: il “carosello” digitale

“Siamo in TV”, esclamavano comprensibilmente felici i CEO delle PMI quando riuscivano, negli anni ’60 e 70’, a far approdare i propri prodotti “made in Italy” sul piccolo schermo. Ora la faccenda pare ben più complicata. Innanzitutto: quale TV? La galassia televisiva si è ampliata ben oltre RAI e Mediaset, con un paniere di canali digitali e satellitari tematici in grado di garantire alle aziende un’identificazione molto più precisa del target e dei cittadini potenzialmente interessati al prodotto. E che dire del passaparola, specie tra le giovani generazioni, che sono poi i Clienti di domani, e a volte anche di oggi?
È interessante a tal proposito analizzare un recente studio di SurveyMonkey, analizzato sempre da Pier Luca Santoro, il quale rileva che i consumatori Americani hanno – online – più di 5 volte maggiori probabilità di effettuare un acquisto importante a seguito una raccomandazione di un amico fidato o di un familiare (65%), rispetto al fatto di vedere un influencer online possedere/approvare il prodotto/servizio (12%). A loro volta, gli influencer online paiono avere più appeal delle “celebrità” tradizionali: meno cantanti e calciatori, e più fashion blogger, pare sintetizzare lo studio. O meglio: dal momento che il processo di analisi del prodotto/servizio avviene sempre più spesso online, in particolare da Mobile, chi è in grado di esercitare un’influenza online – che è il luogo di perfezionamento della decisione di acquisto – garantisce un maggiore ritorno rispetto a una qualunque celebrità che – magari – online non ha una presenza così significativa, prova ne sia che lo studio conferma come una “celebrità” che possiede o sostiene un prodotto, ha portato a un acquisto significativo per un numero di consumatori pari quasi la metà rispetto a quelli influenzati da un influencer online (rispettivamente il 7% e il 12%).
La celebrità “tradizionale” probabilmente avrà un ritorno maggiormente significativo sui mezzi di comunicazione maninstream come la TV, specie verso le generazioni più mature: ma a quale “costo/contatto”? Spacchettando poi ulteriormente i risultati del sondaggio, scopriamo che i giovani adulti sono più ricettivi nei confronti degli influencer online –Instagram, YouTube e blog – rispetto agli adulti; ad esempio, un considerevole 22% dei 18-34enni intervistati ha dichiarato di aver effettuato un acquisto significativo perché ha visto un influencer online che utilizzava o avallava il prodotto, rispetto a solo il 9% dei 35-64 anni e addirittura a un misero 2% di quelli con 65 anni e più.
Analogamente, le giovani generazioni sono anche più sensibili alle raccomandazioni di amici e parenti rispetto alle loro controparti più mature: sette Millennials su 10 hanno dichiarato di aver effettuato un acquisto significativo a seguito di una raccomandazione di un amico fidato o di un familiare, rispetto al 63% dei non millennials. E dove si scambiano opinioni peer-to-peer, i giovani? Nuovamente online. Questi risultati non sembrano valere solo negli USA; gli intervistati nel Regno Unito, ad esempio, avevano 4 volte più probabilità di effettuare un acquisto importante a seguito di raccomandazioni di amici e familiari rispetto a qualunque sponsorizzazione più tradizionale.
Certamente, quando si tratta di orientare gli acquisti spendendo budget importanti, la TV continua a confermarsi un ottimo mezzo, e “regge” la prova del tempo, specie tra gli adulti, un terzo dei quali ha dichiarato di aver fatto un acquisto significativo proprio a seguito di un annuncio visto in TV o su una rivista cartacea (mentre – per gli adulti – il condizionamento dei comportamenti di acquisto a mezzo, ad esempio, Social network, è più basso, solo il 13%).
Questi risultati si collegano a una recente ricerca di MarketingCharts su ciò che influenza l’acquisto dei consumatori, dati che hanno confermato che le raccomandazioni di amici e parenti sono sempre davanti agli annunci TV, come elemento di influenza. Dove intercettare queste conversazioni tra utenti, è una sfida aperta, per le quali non esiste una ricetta univoca, e che stimola ogni azienda a confezionare risposte “tailored” con riguardo al proprio modello di business e ai propri prodotti e servizi, rifuggendo le soluzioni preconfezionate, e ricercando costantemente un “media-mix” equilibrato e corretto.
 

Un settore simbolo delle nuove tendenze: il futuro digitale nel comparto salute e la necessità di non perdere il “treno” dell’avanguardia

Un buon punto di osservazione per comprendere i mega-trend relativi all’affermazione di un differente modello di business centrato non più sulle “abitudini” delle aziende, bensì sulle reali necessità dell’utente, è quello della salute. Secondo i segnali captati nel 2018 sui mercati finanziati (fonte: Big Board – Borsa NY), anno in cui quel mercato ha registrato un record di acquisizioni e fusioni mirate, il futuro dell’healthcare vedrà l’industria farmaceutica cambiare due elementi che sono stati un caposaldo per decenni: cosa si vende, e come si vende. Secondo le più recenti analisi di tendenza, infatti, i farmaci rimarranno essenziali, ma il settore pare maturo per una piccola rivoluzione: il farmaco sarà arricchito da un portafoglio di terapie digitali e di servizi ad alto valore aggiunto, con il risultato che chi venderà solo più farmaci…farà sempre meno soldi.
La domanda è: chi sta aprendo la strada a questa trasformazione digitale della salute? La concorrenza è agguerrita, ad esempio solo il segmento di software e servizi di supporto alle “decisioni cliniche” varrà più di 1,5 miliardi di dollari entro l’inizio del prossimo decennio, e quasi tutte le aziende che hanno un interesse in ambito sanitario puntano ad aggiudicarsi una parte del business.
Che si tratti di strumenti di prescrizione avanzata per la salute digitale, d’intelligenza artificiale e apprendimento automatico, od altro, le aziende più all’avanguardia si stanno chiedendo: come andrò a intercettare il cittadino, domani e oltre? Ad esempio, gli strumenti digitali già oggi a disposizione permettono di aiutare le persone a realizzare un cambiamento di comportamento positivo e sostenibile, che può essere efficace quanto l’assunzione di un farmaco, se non addirittura di più, ha confermato Bertrand Bodson, Chief Digital Officer del colosso svizzero farmaceutico Novartis. Possono essere recapitate direttamente sullo smartphone o tablet, consentendo il monitoraggio continuo dei pazienti, “agganciandoli”, di fatto, e pareggiando lo scambio utente/azienda incoraggiandoli non solo a seguire la terapia ma anche ad assumere comportamenti sani utili per evitare in futuro il ripresentarsi della specifica patologia.
Si stima che questo mercato raggiungerà i 9 miliardi di dollari entro il 2025, e tra gli addetti ai lavori c’è chi ritiene che entro 5 anni le soluzioni per la terapia digitale diventeranno uno standard di cura di prima linea nella “salute comportamentale”: sarà ad esempio semplicemente ridicolo lanciare un farmaco non associato a un software per migliorare l’aderenza e i risultati della terapia, sottolinea Corey McCann, Amministratore Delegato di Pear Therapeutics. Certamente il comparto omeopatia presente le proprie indubbie peculiarità, ma il settore pharma è in generale da sempre all’avanguardia nel porsi questo genere di interrogativi, dal quale qualunque azienda dovrebbe trarre ispirazione per interrogarsi sul futuro delle proprie modalità di interrelazione con gli utenti: in definitiva, azienda -> cliente solo attraverso il prodotto, o azienda -> cliente attraverso un approccio multicanale, consistente in efficace declinazione dei valori, presa in carico delle istante del cittadino, e servizi ad alto valore aggiunto per risolverle? Un’altra case-history sulla quale – nell’ottica sopra esposta – richiamiamo l’attenzione dell’azienda, è ArzaMed, una start-up nata per rispondere ad una precisa esigenza: l’accesso multidisciplinare ai dati clinici dei pazienti anche in mobilità.
Nel 2010 un’associazione di alta formazione medica ha evidenziato la necessità di un software adatto alla conservazione e consultazione delle cartelle cliniche, in versione elettronica, dei pazienti; ovviamente parlare di i-Cloud dieci anni fa non era così scontato, ma grazie a questa prima sfida, il team ArzaMed ha presentato il prototipo di software dal nome “Auxilia”.
L’obiettivo del lavoro di Arzamed è quello di rendere migliori le esperienze tra strutture mediche e pazienti attraverso l’utilizzo della tecnologia; il software accompagna lo specialista nella sua giornata lavorativa consentendogli di gestire gli aspetti clinici, relazionali e amministrativi da un unico strumento in qualsiasi luogo esso sia; funzioni come il calendario e l’agenda digitale consentono di gestire appuntamenti e organizzare diverse attività tenendo conto di fattori quali disponibilità di medici e dottori, sedi e ambulatori; per ogni paziente vi è uno storico registrato delle attività con scheda anagrafica, cartella clinica, archivio referti e fatturazione; la cartella clinica può essere costruita in base alla specializzazione del medico o dottore, permettendo di archiviare ed elaborare in modo sempre più efficace le informazioni cliniche, utilizzando anche immagini anatomiche mappabili; inoltre, potendo essere multidisciplinare, può essere condivisa da uno o più medici che, accedendo contemporaneamente per reperire informazioni del paziente, anche in mobilità, possono stabilire diagnosi più precise e percorsi di cura più efficaci; anche il paziente ottiene benefici da questa organizzazione del lavoro, grazie a diagnosi più accurate, riduzione dei tempi di attesa e al sistema di notifiche per appuntamenti e farmaci.
ArzaMed è un buon esempio di strumento utile per migliorare l’esperienza dottore-paziente quotidianamente in modo semplice e sicuro: ebbene, a prescindere da quale sia il comparto merceologico, quante aziende oggi dedicano del tempo a immaginare scenari e strumenti di engagement digitale con la propria utenza realmente innovativi? Per qualcuno, è tempo perso, sottratto alla realizzazione di utili immediati; per chi è in grado di costruire futuro, è invece il miglior “esercizio” utile per creare solido valore nel medio-lungo termine, con la consapevolezza che – stante la sconcertante velocità dei flussi nel mondo digitale – il domani è adesso.




Parigi brucia

Parigi brucia. Cronaca dell'incendio di Notre Dame

“Bruciate Parigi!”, ordinò Hitler verso la fine della II guerra mondiale: ma l’ordine non venne eseguito, e Parigi fu salva, grazie al Generale Dietrich von Choltitz e forse al console svedese Nordling, che si rifiutarono di distruggere uno dei capolavori assoluti dell’umanità.
Questa sera, uno dei simboli di Parigi è stato salvato dai celebri – quasi mitici – Pompieri di Parigi, les Sapeur-Pompier; pur con qualche innegabile ritardo, come vedremo.
Scrivo questo breve resoconto in esclusiva per i lettori del mio Blog Creatoridifuturo.it e di Lifegate, passata meno di mezz’ora dalla messa in sicurezza delle strutture portanti della cattedrale: la notte è ancora lunga, ma per fortuna le mura perimetrali della Chiesa paiono salve.
In questo articolo, i video del disastro, realizzati in quei tragici e concitati momenti dal sottoscritto, unico civile all’interno del rigidissimo perimetro di sicurezza eretto dalla Polizia a protezione dell’area di Notre Dame; nessun giornalista, neanche di testate internazionali, ha potuto accedere a quell’area, e da queste fortunose circostanze è nata la più lunga diretta della mia vita, con frequenti collegamenti per quasi 5 ore sulla “all news” Sky TG 24.

Ore 19:16: mi scrive su WhatsApp Farhad Re, lo stilista italiano di alta moda, di origini persiane, che ha casa sull’Isola, a poche decine di metri da Notre Dame: “La Chiesa è in fiamme!”; scoprirò dopo che Notre Dame era circondata da impalcature, perchè si stavano rimuovendo una seri di antiche statue da restaurare. Sobbalzo, esco velocemente di casa, e pochi minuti dopo riesco a entrare nella “zona rossa”, immediatamente eretta dalle forze dell’ordine per tenere lontane le migliaia di curiosi che già si stanno assiepando sul lungo Senna. I poliziotti stanno chiudendo con bandelle e transenne tutta la zona nel raggio di 500 metri dalla chiesa, presidiando ogni accesso. Azzardo e m’infilo prima che una catena si chiuda alle mie spalle, mostrando all’agente la Press Card della International Federation of Journalist. La banda rossa in evidenza sulla tessera probabilmente trae in inganno il Poliziotto, che mi lascia passare: chissà a quale tesserino delle Forze dell’Ordine francese assomiglia la carta da giornalista che – nonostante gli impegni accademici e la pubblicazione di libri non lascino ormai da anni molto spazio alla passione per il giornalismo – ho sempre dietro con me; non mi fermo a domandare alcunchè, il diritto di cronaca ha la meglio sul rispetto della forma.
Cammino a passo sostenuto, quasi corro, fino alla piazza di Notre Dame, Place Jean Paul II, mentre la brezza – cattiva, minacciosa – si alza. Mi fermo dinnanzi alla Crypte Archeologique, sede di mille bellissime mostre viste a ogni viaggio a Parigi: lo spiazzo è deserto, il silenzio è surreale: giro un primo video a testimonianza della situazione. Due camion dei pompieri ai lati della chiesa stanno srotolando i lunghi manicotti, non più di una quindicina di operatori in totale. Successive polemiche per il ritardo nell’intervento non saranno certamente campate per aria; ma ora non è certo il momento di fermarsi a riflettere su questo.

Mi metto in un angolo, a 20 metri dalla Cattedrale, lato Pont au Doble, accanto alla toilette pubblica; giro un secondo video. Lo stupore, l’agitazione interiore, è enorme, e si fa strada un dolore straziante, per questa città nella quale ho vissuto due anni e che ho visitato non meno di cinquanta volte: uno dei suoi luoghi cult è quasi completamente in fiamme, con il fuoco che ha già divorato metà Chiesa nel suo senso verticale e poco meno di terzo nel suo senso orizzontale.

Notre Dame è un simbolo non solo religioso ma anche laico: è una delle Cattedrali più note al mondo, meta di milioni di turisti; è nell’immaginario di grandi e bambini, anche grazie a innumerevoli rappresentazioni cinematografiche. Sta bruciando, li, davanti ai miei occhi, a pochi metri da me.
Chiamo amici della “all news” SKYTG24: non mi passa neanche per la testa di “vendere” immagini e commenti, occorre garantire notizie attendibili e “fresche”, immediatamente, alle decine di milioni di telespettatori che saranno in questo momento attaccati alle televisioni, in tutto in mondo, in pena per un luogo simbolo della cristianità e non solo.
Attorno a me, al netto delle 5 o 6 squadre di pompieri intervenute immediatamente, sempre il deserto: dove è lo spiegamento di forze? Alla spicciolata arrivano altri uomini in rosso, squadre da 5, 10 uomini massimo raggiungono i primi operatori intervenuti sul luogo del disastro. Nel frattempo sono passati circa 20 minuti, ed è impressionante quanto fuoco possa svilupparsi violentemente in un tempo così breve.

Tutta la zona è transennata; a poco più di 50 metri, sul Lungo Senna Montebello, una folla che si fa sempre più immensa, con la Polizia che per contro s’impegna per spostare sempre più verso l’esterno il blocco, che si attesterà, alla fine, largo circa all’altezza di rue Lagrange.

Resterò a ridosso della Cattedrale, lato destro guardando la facciata, per circa 1 ora, documentando con video di pochi secondi quanto sta accadendo: clip brevissime, tentando di passare per quanto possibile inosservato, mentre commento al telefono con SKY.
Le fiamme salgono, e a un certo punto il tetto collassa su sé stesso: è impressionante. Poi cade la guglia, e io penso al peggio: il monumento è perso, non lo salveranno più.
In quel momento mi rendo conto di un problema: i video che ho girato infatti non stanno partendo. Whatsapp, come il messenger di Facebook, è bloccato in tutta l’area; comprensibilmente, considerando l’intasamento della rete nelle centinaia di metri a ridosso del disastro. Ho pochissimo tempo per riflettere: devo scegliere, o sto li e nessuno vedrà mai questi video, testimonianza preziosa dei primi momenti dell’evento, o mi allontano, ma certamente senza poter tornare più al mio posto di osservatore privilegiato.
Avviso la TV telefonicamente, e mi incammino sul ponte au Doble: a metà del ponticello un poliziotto fa per sorpassarmi, poi torna sui suoi passi, e mi blocca: “Cosa ci fa lei qui”, mi chiede concitato; “Informo le persone, forse non si rende conto che c’è il mondo che vi sta guardando”, gli rispondo, e non fa in tempo a dirmi nulla che sono diretto verso le transenne, tanto ho deciso che uscirò da li.
Mi fermo ancora all’incrocio con il Lungo Senna, bloccato al traffico per circa 1 chilometro, per girare un ultimo breve video, e poi scavalco le transenne e corro via; trovare un taxi sarà un’impresa impossibile. La zona chiusa arriva fino a Place Saint Michel, di li prendo rue Saint Andrée des Art, e risalgo fino a tagliare su Boulevard Saint Germain, dove vedo un taxi ramingo libero. Salgo a bordo, con un unico obiettivo: trovare un wi-fi funzionante. Faccio correre l’auto verso l’Ambasciata italiana in rue Varenne, retta da Teresa Castaldo, diplomatico di straordinaria esperienza, impegnata stasera in un’importante serata sui temi della ricerca scientifica italiana d’eccellenza. L’Ambasciatrice sta seguendo le notizie sul disastro, aggiornata minuto per minuto dal Suo efficiente staff: le Sue parole sono, confidenzialmente, di profonda commozione, rispetto e vicinanza per il popolo francese, e  mi prega di tenerla informata degli sviluppi; per le dichiarazioni ufficiali il Servizio stampa della Farnesina sarà già al lavoro. Nel frattempo, i miei filmati partono, la zona evidentemente è “digitalmente” più decongestionata rispetto al lungo Senna.
Mandate via le clip, riparto alla volta della zona della Cattedrale: non riuscirò a ritornare nella zona dove la fortuna – e un pizzico di audacia – mi hanno permesso di essere fino a pochi minuti prima, ma arrivo quanto più vicino possibile, fin dove il mio tesserino mi permette di accedere. La cosa che colpisce è il silenzio della gente: non c’è chiasso, c’è solo sgomento, composta ma vivissima preoccupazione, angoscia che si taglia con il coltello. Ragazzini, adulti, anziani, che bisbigliano e scuotono la testa, travolti emotivamente da un evento più grande di loro, più grande di tutti noi, imprevisto, imprevedibile e dall’esito ancora totalmente incerto. Mentre cammino a passo spedito, incrocio una donna avanti con gli anni, che quasi scappa da quello spettacolo, con il viso visibilmente rigato dalle lacrime.
Nel frattempo è calata la notte, ma l’immagine ha un che di demoniaco, perché dal rosone del transetto si vedono con chiarezza, all’interno dell’edificio, le fiamme, che ancora divampano, e salgono, totalmente indisponibili a farsi domare dallo spiegamento di forze che nel frattempo, da un’ora almeno, si è poderosamente attivato. I cittadini e i turisti sono ancora attoniti: c’è speranza, o tutto finirà in cenere?
Riprendo il collegamento con Sky TG 24. I getti immani di acqua si riversano non solo sulle fiamme, ma – lo noto chiaramente – sui due lati opposti all’incendio, ovvero le due torri principali della facciata, e il coro; la testa e la coda della Cattedrale. L’intento è chiaro: mentre si cerca di domare l’incendio principale, si inzuppa tutto il resto della chiesa. Poco male per dipinti ed eventuali affreschi, si recupereranno, l’importante è salvare la struttura portante, ed evitare che la temperatura salga al punto tale da far collassare l’intera Notre Dame. È una corsa contro il tempo. Il vento, intanto, malefico, aumenta anche leggermente di intensità.
È solo – finalmente – verso le 23, che s’inizia, pregando Dio o toccando ferro a seconda della fede di ognuno, a tirare un respiro di sollievo: quando quelle maledette fiamme dietro il rosone smettono di salire, si stabilizzano, e paiono, piano piano, scendere; di li a non molto, il rosone smette di essere illuminato, e lentamente la notte, fino a poco prima illuminata a giorno dalle fiamme feroci, torna scura.
Mentre scrivo questo articolo, gli idranti continuano a gettare acqua, e probabilmente proseguiranno per tutta la notte. Le grandi torri però sono salve, come anche i pilastri e le mura perimetrali con i loro caratteristici contrafforti. Il Presidente Macron parla alla nazione e al mondo: abbiate fiducia e speranza, la ricostruiremo, splendida come la ricordate.
Mentre ascolto le parole di Macron, quasi inciampo in un gruppo di persone, inginocchiate per terra: pregano intonando un canto melodioso, rivolti in direzione della Cattedrale. Realizzo un ultimo breve video, mentre le lacrime, per la rabbia, prendono anche me. Pare francamente tutto un sogno, è invece è tristemente vero.

Domani, dopodomani, saranno i giorni delle polemiche: perché così poche decine di pompieri nella prima ora di incendio? E soprattutto, cosa più importante: perché un enorme ponteggio allestito attorno a una struttura così delicata e preziosa era di fatto incustodito, nonostante i rischi potenziali, stante la probabile presenza di vernici e altri materiali del genere, accanto a manufatti di legno vecchi di secoli? Possibile non esista un piano di sicurezza preventivo? Mi tornano in mente le mie lezioni in Università sul crisis management, su quanto il problema sia culturale, e su quanta poca attenzione vi sia, in molti casi, alla previsione anticipata di scenari di emergenza.
Ora però è solo il tempo del “calo di tensione”, e della felicità immensa per l’impegno degli operatori delle forze di soccorso che hanno permesso di salvare il salvabile, primi tra tutti i tesori, le reliquie e le testimonianze storiche custodite nella Chiesa, nella sua cripta, nei suoi sotterranei. Per me è tempo di farmi una doccia, per togliermi dai capelli quelli che mi rendo conto essere molti frammenti di cenere, che ho ovunque in testa, muta testimonianza di una notte che non avrei mai voluto vivere, ma che non dimenticherò per tutta la vita.




La Metà dei Soldi Investiti in Display Ads è Buttata Via

«So che metà dei soldi che spendo in pubblicità è completamente buttata via. Il problema è che non so quale metà sia». Che sia stato John Wanamaker o Lord Leverhulme a pronunciarla, questa frase citatissima è diventata nel corso del tempo sempre più una verità. Oggi, ahinoi, ne abbiamo un’ulteriore conferma nei fatti e nei dati, anche per quanto riguarda in maniera specifica i diplay ads.
Utilizzando Active View, Google ha esplorato i benchmark di visualizzabilità e i fattori che aiutano a determinare la visibilità degli annunci video e display. Lo studio si basa sui dati della piattaforma pubblicitaria di Google e DoubleClick e utilizza la definizione di visibilità del Media Ratings Council [almeno il 50% dell’annuncio è visualizzato per un minimo di 2 secondi continui].
Complessivamente, tralasciando gli ads su YouTube, per l’evidente conflitto di interessi da parte di Google, Web & App Video Ads [YouTube escluso] hanno una viewability del 68%, che sale al 73% da tablet, e cala al 65% da desktop. I Display Ads invece hanno una visibilità generale del 50%, che sale al 55% da smartphone, e scende al 45% per tablet e desktop.
I tassi di visibilità non variano solo da una nazione all’altra, ma variano anche da un settore all’altro. Dalla desk research condotta da Google emerge che ci sono alcune categorie di contenuti chiave che superano questo benchmark. Industrie note per attirare l’attenzione e l’interesse delle persone con contenuti coinvolgenti, come giochi, Internet e telecomunicazioni, musica e audio, hanno la più alta visibilità.
Per quanto riguarda in maniera specifica i publisher [segmento news], la visibilità media per gli annunci video è del 66.1%, mentre per i display ads si attesta al 50%. Ovvero la metà dei banner, semplificando, non viene vista.
I dati di Google mostrano che le dimensioni contano. Per i display ads, le unità verticali hanno ottenuto risultati migliori in media. Ad esempio, quelli che misurano 120 x 600 hanno un tasso di visibilità del 56%, rispetto a quelli di 320 x 100 con un tasso del 47%. Un altro fattore discriminante, in generale, è la posizione, con gli ads sopra al contenuto che ottengono livelli nettamente superiori rispetto a quelli sotto al contenuto [69% Vs 47% di viewability per display ads].
Per quanto riguarda specificatamente l’Italia, tralasciando ancora una volta gli ads su YouTube, Web & App Video Ads [YouTube escluso] hanno una viewability del 78%, mentre i display ads hanno una visibilità del 49%. Insomma, oltre la metà degli annunci non viene visto.
Se abbiamo passato gli ultimi dieci anni a dire che uno dei punti di forza del digitale è la misurabilità, questo si conferma, complessivamente, vero, come dimostrano i dati della desk research di Google, mentre non risultano dati equivalenti su quanti spot TV e/o annunci stampa siano effettivamente visti, ma solo stime censuarie, anche se è evidente che il problema esiste assolutamente. Il prezzo è però ancora alto, troppo alto. Un altro punto a favore di branded content e influencer marketing, senza dubbio.

Read more: http://www.datamediahub.it/2019/03/20/la-meta-dei-soldi-investiti-in-display-ads-e-buttata-via/#ixzz5kRWvEuq7
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LifeGate PlasticLess®

Nei nostri mari c’è sempre più plastica, come possiamo evitarlo? Buone pratiche e tecnologie sempre più efficienti possono dare una mano. Scopri come con il progetto LifeGate PlasticLess

Cos’è il progetto LifeGate PlasticLess®

Gli obiettivi

Per tutelare la salute del mare e la nostra è nato LifeGate PlasticLess®, il progetto di LifeGate che intende contribuire alla diminuzione dell’inquinamento dei mari italiani attraverso la raccolta dei rifiuti plastici nelle acque dei porti e nei circoli nautici e a promuovere un modello di economia e di consumo davvero circolare  con lo scopo di ridurre, riutilizzare e riciclare i rifiuti, soprattutto i più dannosi per l’ambiente come le plastiche.

Le attività

  1. Riduzione dell’inquinamento nei mari italiani

    La presenza di rifiuti plastici nel mar Mediterraneo è un’emergenza da affrontare subito. Per l’Une, il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, il Mediterraneo è costretto ad accogliere ogni giorno 731 tonnellate di rifiuti in plastica, che potrebbero raddoppiare entro 2025. Ecco perché LifeGate intende contribuire in maniera concreta al recupero di rifiuti plastici nei mari italiani mettendo nei porti e nei circoli nautici di dispositivi Seabin, che raccolgono dai mari la plastica, la microplastica fino a 2 mm e microfibre fino a 0,3 mm.

  2. Campagna di sensibilizzazione

    Il cambiamento parte dalla consapevolezza che tutti i nostri comportamenti hanno delle conseguenze. Conoscere e comprendere quale sarà il risultato finale delle nostre azioni è il primo passo per modificare abitudini scorrette. Per questo motivo LifeGate, con l’aiuto della sua redazione, ha deciso di dare un’ampia copertura giornalistica ai temi dell’economia circolare focalizzandosi sul grave fenomeno della presenza di plastica nei fiumi, nei mari e negli oceani del mondo. Tutti gli articoli del sito lifegate.it legati al tema del progetto sono contraddistinti dalla tag Plastica

  3. Promozione di buone pratiche

    Una volta presa la decisione di cambiare comportamenti e consumi per avere uno stile di vita più virtuoso nei confronti dell’ambiente, bisogna sapere cosa cambiare. Obiettivo di LifeGate è dunque anche suggerire quali sono le pratiche quotidiane più sostenibili, come ad esempio la riduzione degli imballaggi, il riutilizzo di materie riciclate e la corretta differenziazione dei rifiuti. Il racconto di esperienze di successo esistenti oggi in Italia e all’estero ha lo scopo di aiutare i lettori ad avere un’idea ancora più chiara del problema e delle sue soluzioni.

Perché nasce LifeGate PlasticLess?

Perché i mari del mondo sono sempre più sommersi dalla plastica e il Mediterraneo, casa del 7,5 per cento delle specie marine conosciute, è una delle aree più colpite: per l’Unep, (il programma ambientale delle Nazioni Unite) sui suoi fondali si troverebbero fino a 100.000 frammenti di varie dimensioni di questo materiale per kmq. Tra i motivi: una cattiva raccolta e gestione dei rifiuti, le attività produttive, il turismo balneare, le attività portuali e i comportamenti noncuranti di ancora troppe persone, che fanno finire in mare tonnellate di plastica ogni giorno.
Tra queste, le più insidiose sono le microplastiche, frammenti del diametro inferiore ai 5 mm: sempre più diffuse, si attaccano alle alghe e vengono ingerite dai pesci che le scambiano per cibo. Da lì possono poi raggiungere i nostri piatti. Nelle specie come pesce spada, tonno rosso e tonno alalunga si troverebbero microplastiche nel 18,2 per cento dei casi, come afferma uno studio Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, svolto su 121 campioni di specie ad alto valore commerciale.
L’impegno delle istituzioni è infatti importante, ma non sufficiente. La strategia decisa dall’Unione europea prevede tra le varie azioni che tutti gli imballaggi di plastica sul mercato dell’Ue siano riciclabili entro il 2030; l’Italia ha vietato la produzione e la messa in commercio di cottonfioc di plastica, tra i rifiuti maggiormente gettati negli scarichi domestici, a partire dal primo gennaio 2019, e poi, dal 2020, anche di cosmetici contenenti microplastiche, le cosiddette microsfere presenti in scrub e dentifrici che, una volta finite in mare, vengono ingerite dalla fauna ittica.
Un primo passo per affrontare il problema dovrebbe essere quello di iniziare a consumare meno plastica. Eppure, secondo il quarto Osservatorio Nazionale sullo Stile di Vita Sostenibile, l’indagine nazionale realizzata da LifeGate in collaborazione con Eumetra MR, anche se oltre il 53 per cento dei connazionali mostra un’elevatissima attenzione ai temi che riguardano l’acqua, il 67 per cento non rinuncia a mettere in tavola la classica bottiglia di plastica perché la ritiene un materiale “sicuro”.
Ciò non impedisce che diventi rifiuto immediatamente dopo l’uso. Per poi potenzialmente finire in mare.

LifeGate PlasticLess per il mare, con Seabin

LifeGate PlasticLess per il mare, con Seabin

Si tratta di un’iniziativa che ha l’obiettivo di ridurre la presenza di rifiuti plastici nei mari italiani utilizzando i dispositivi Seabin per la raccolta dal mare di questi materiali.

Cos’è Seabin e come funziona

Seabin è un cestino di raccolta dei rifiuti che galleggiano in acqua di superficie in grado di catturare circa 1,5 kg di detriti al giorno, ovvero oltre 500 Kg di rifiuti all’anno (a seconda del meteo e dei volumi dei detriti), comprese le microplastiche da 5 a 2 mm di diametro e le microfibre da 0,3 mm. Seabin inoltre potrà catturare molti rifiuti comuni che finiscono nei mari come i mozziconi di sigaretta, purtroppo anch’essi molto presenti nelle nostre acque.

Scopri dove sono i Seabin in Italia

Il Seabin viene immerso nell’acqua e fissato ad un pontile con la parte superiore del dispositivo al livello della superficie dell’acqua.
Grazie all’azione spontanea del vento, delle correnti e alla posizione strategica del Seabin, i detriti vengono convogliati direttamente all’interno del dispositivo. La pompa ad acqua, collegata alla base dell’unità, è capace di trattare 25.000 litri di acqua marina all’ora.

Segui gli aggiornamenti sul progetto

I rifiuti vengono catturatati nella borsa,  che può contenere fino a un massimo di 20kg, mentre l’acqua scorre attraverso la pompa e torna in mare.
Quando la borsa è piena, viene svuotata e pulita.
Funziona 24 ore al giorno e quindi è in grado di rimuovere molto più spazzatura di una persona dotata di una rete per la raccolta. Sebbene il dispositivo non possa essere utilizzato in mare aperto, perché richiede il collegamento elettrico, risulta straordinariamente efficace in aree come i porti poiché sono “punti di accumulo”, in cui convergono la maggior parte dei rifiuti in mare.

Come vogliamo usare Seabin

LifeGate ha l’obiettivo di posizionare il maggior numero possibile di dispositivi Seabin, per farlo sta creando una rete di aziende e personeche possano sostenere la sfida della raccolta dei rifiuti plastici nei mari italiani, dove finiscono circa 90 tonnellate di plastica ogni giorno (dati Unep).
Grazie agli sponsor del progetto, la percentuale di plastica raccolta, riutilizzabile a scopo industriale, debitamente integrata con altra plastica riciclata proveniente anche dagli oceani, potrà essere utilizzata da LifeGate per produrre ad esempio teli mare e felpe.

Seabin_project@Seabin_project

Ocean plastics. There is no blame, only responsibility.http://www.seabinproject.com 

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Perché Seabin

Le soluzioni esistenti che affrontano i problemi di inquinamento degli oceani e dei mari non risultano efficaci ed efficienti per rispondere alle reali necessità. Tali soluzioni sono le “trash boats”, ovvero imbarcazioni che navigano intorno ai porti raccogliendo la spazzatura galleggiante tramite reti integrate alle imbarcazioni. Un sistema costoso da gestire e mantenere e che non risulta davvero efficace secondo le marine che lo gestiscono. L’altro sistema è la raccolta manuale, ovvero tramite addetti nel porto e nelle marine che raccolgono tramite reti la spazzatura che si accumula negli angoli del porto. Questo sistema è poco efficace perché agisce solo sui rifiuti visibili e non sulle microplastiche, inoltre implica un grande impegno di tempo da parte del personale portuale.
Per questo LifeGate ha scelto Seabin che consente una efficace e continuativa raccolta dei rifiuti plastici galleggianti con minimo sforzo da parte del personale addetto.

Mappa

Dove sono i Seabin in Italia

Il progetto LifeGate PlasticLess è stato attivato nelle aree portuali di Santa Margherita Ligure (GE), nell’Area Marina Protetta di Portofino (GE), nel Porto delle Grazie Roccella Ionica (RC), nel Venezia Certosa Marina  (VE), nel  Marina Genova il polo turistico e nautico situato a Sestri Ponente (GE).”.

Segui gli aggiornamenti sul progetto

A settembre 2018, grazie a Volvo Car Italia, main partner dell’iniziativa, sono stati installati tre nuovi Seabin a Marina di Cattolica (RN), Marina di Varazze (SV) e un secondo dispositivo per il Venezia Certosa Marina (VE).
Con il sostegno di Whirlpool EMEA, due Seabin sono stati installati nelle Marche ed in particolare nel Porto turistico di Fano (PU) e nel Circolo nautico Sambenedettese (AP).
Grazie a Coop, in accordo con l’associazione nazionale ANCC Coop, un Seabin è stato installato a Sestri Ponente, presso il Marina Genova.


LifeGate sostiene le Amministrazioni italiane che si stanno impegnando per ridurre l’utilizzo della plastica, causa del sempre più evidente disastro ambientale che sta soffocando il Pianeta premiando le politiche ambientali adottate per sensibilizzare i cittadini sul ruolo che devono assumere nella lotta contro l’inquinamento da plastica.
L’iniziativa è partita con il riconoscimento delle prime Amministrazioni che hanno deciso di impegnarsi sul tema che potete trovare nella mappa qui sopra. Lo sviluppo di azioni da parte di nuovi Enti locali sarà monitorato e successivamente premiato e promosso attraverso i canali del media network LifeGate.

Cosa puoi fare tu

Cosa si sta facendo per salvaguardare la salute dei mari e dei suoi abitanti? Ecco un elenco di buone pratiche.
Per risolvere il problema della plastica nei mari serve l’impegno di ognuno di noi, dei singoli e delle aziende, insieme. Anche tu puoi offrire un contributo concreto al progetto LifeGate PlasticLess e partecipare all’installazione di un Seabin con LifeGate. Come fare? Vai sul nostro store e scegli il versamento che vuoi destinare al progetto.Riceverai la borraccia Mizu 8 da 800 ml firmata LifeGate PlasticLess in alluminio, 100% BPA Free e 100% riciclabile. La trovi in due versioni, una col semplice logo LifeGate PlasticLess e una personalizzabile con un nome a tua scelta.

Per dare il tuo contributo, vai allo store.

Ci sono inoltre tante buone pratiche, tante semplici azioni quotidiane che possono concretamente prevenire l’inquinamento dei mari e di tutto l’ambiente, come per esempio ridurre l’uso dei prodotti imballati nella plastica, preferire gli oggetti in materiali durevoli al posto di quelli usa e getta, prestare attenzione alla differenziazione dei rifiuti.
Eccone alcune:




La più corrosiva delle critiche al Congresso delle famiglie: ecco il saluto delle pompe funebri Taffo

Le onoranze funebri abruzzesi, già famose per lo humour mortuario riferito alla politica e all’attualità, paragonano il cranio dei partecipanti al Congresso delle famiglie di Verona a quello di un primate


L’agenzia di pompe funebri Taffo, originaria dell’Aquila, è famosa per il suo marketing pubblicitario irriverente. Questa volta è toccata ai partecipanti del Congresso delle famiglie di Verona, al centro di numerose polemiche per alcuni relatori che vi parteciperanno.

La più corrosiva delle critiche al Congresso delle famiglie: ecco il saluto delle pompe funebri Taffo foto 1

«Abbiamo ritrovato nei nostri antichi ossari, i primi esemplari di umani sulla Terra. Dall’analisi anatomica si possono riscontrare evidenti differenze», scrivono i social media manager dell’agenzia funebre a proposito della tre giorni veronese. Ma l’attività su Facebook e Instagram affronta anche temi come il cambiamento climatico.

La più corrosiva delle critiche al Congresso delle famiglie: ecco il saluto delle pompe funebri Taffo foto 5

«Domani sarà la #GiornataMondialeDellaTerra, celebriamola con consapevolezza. Ognuno di noi, nel suo piccolo, può fare un piccolo sforzo quotidiano per farla vivere più a lungo», scrivevano il 21 aprile. A proposito di ambiente, Taffo ha partecipato a modo suo anche alla moda della Ten Year Challenge.

La più corrosiva delle critiche al Congresso delle famiglie: ecco il saluto delle pompe funebri Taffo foto 6

«Non tutti possono invecchiare bene. #10yearchallenge #climatechange». Ma le immagini dello humour mortuario riescono a intercettare anche gli argomenti più stringenti di cronaca.

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«Non gli credete, io non sono una serie TV. Sono morto nel 2017 ed oggi uccideranno mio fratello #Spezzacchio», scrissero quelli di Taffo sull’albero di Natale che il Comune di Roma posizionò in Piazza Venezia e causò molte polemiche. Altrettanto ricca è la serie di immagini dedicate ai complottisti della rete.

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«Se qualche esponente dei #Terrapiattisti volesse argomentare, può farlo nei commenti», scrivono. E ce n’è anche per i no-vax.

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E quando il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha monopolizzato il dibattito politico sulla riapertura delle Case chiuse, Taffo ha colto la palla al balzo.

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Commentando: «È comunque un lavoro usurante, voi lo fareste?». Facile il collegamento tra i fiori delle celebrazioni funebri e il festival della canzone italiana di Sanremo.

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«#Sanremo è Sanremo, ma a fiori non ci batte nessuno». Persino Mark Zuckerberg e il caso di Cambridge Analytica sono stati utilizzati per un post pubblicitario da Taffo.

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«Fidatevi di #Taffo, noi a differenza di #Facebook siamo una tomba!».